PAOLO Veronese

Enciclopedia Italiana (1935)

PAOLO Veronese

Giuseppe Fiocco

Paolo Caliari, detto Paolo Veronese, nacque a Verona nel 1528, da un Gabriele tagliapietra e da Caterina; morì a Venezia il 9 aprile 1588. Suo primo ed effettivo maestro, ricordato dai documenti, fu il pittore Antonio Badile (1518-1560) presso il quale il giovane P. fu a bottega; e non molto maggiore importanza per il principiante dovette avere l'arte di Domenico Brusasorci (nato nel 1516): ambedue codesti pittori non certo grandissimi discendevano da Gianfrancesco e Giovanni Caroto, artisti di quella branca che s'ingegnava a orientare la pittura veronese verso Venezia. Sulla prima formazione tecnica di P. dovettero anche avere efficienza i maestri bresciani Romanino, Moretto e Savoldo, presenti con opere a Verona al suo tempo. Scarsamente tuttavia: ché il giovane Caliari aveva in sé troppa forza per poter soggiacere all'inferiorità espressiva dei citati; e, per quel tanto che volle seguire la loro via, preferì farlo rivolgendosi direttamente alla fonte delle novità tecniche ch'essi portavano in patria: a Venezia, cioè, la quale esercitò subito su di lui il suo altissimo fascino.

Ma nell'incerto cammino della ricerca di sé medesimo, in cui si muove non grande parte della sua operosità giovanile, P. ebbe occhi largamente aperti e spirito sapientemente assimilatore non soltanto delle grazie gotiche e del vigore mantegnesco di cui la patria sua era piena, ma forse più dei vicini esempî mantovani del Correggio, scorciatore mirabile nella scia del grande Padovano e del Pippi, ai suoi bei giorni robusto equilibratore di masse muscolari e architettoniche per via dell'eredità prodigiosamente misuratrice di spazî di Raffaello, e del Primaticcio. Accenti tutti di varia provenienza e variamente commisti, sviluppati e ripresi: i quali tuttavia nell'insieme tendevano a intonarsi sopra il comune diapason di una pittura ampiamente decorativa, che il Veronese doveva accogliere e offrire a Venezia, a cui mancava, dopo averla trasfigurata nel colore più squillante e armonioso, che mai fosse dato di vedere a occhi umani.

Per il duomo di Mantova appunto, in seguito a invito del cardinale Ercole Gonzaga, P. dipingeva nel 1552 la pala con le Tentazioni di S. Antonio, oggi al Museo di Caen, nella quale superava di gran lunga i pittori Farinati, Brusasorci e Battista del Moro messi a confronto; come, un anno prima, aveva sorpassato per vigoria e novità pittoriche, nella decorazione della villa Soranza, quel Battista Zelotti, che così a lungo fu confuso con lui, o fatto, ugualmente a torto, suo imitatore e discepolo.

Forse introdotto da monsignor Giambattista Ponchino - modesto pittore abitante a Castelfranco, presso la Soranza, e bene accolto a Venezia - P. nel 1553-54 arrivò tra le lagune: dove dovette sembrare alla sagacia critica de' reggitori una magnifica promessa. La sua arte invero già sapeva accordare alle doti di reale pittura, senza le quali non si entrava a Venezia, una chiarezza di timbro e una novità di rapporti, che abbagliavano gli occhi sempre avidi di splendori dei Veneti e li traeva in un mondo diverso, forse più sereno, certo più limpido, di quella densa atmosfera tonale che ormai costituiva il fondo comune dell'arte della Serenissima. E fu un fulmineo trionfo il suo: se già nel 1555 poteva stabilirsi nella capitale.

Venezia, allora all'apice della sua civiltà singolare, vivente della sua vita più intensa, esaltò le già in parte avverate possibilità dell'artista, il quale seppe ricambiarle questo dono, offrendo alla sua nuova patria una serie di pitture meravigliose, e così consone con il carattere e le aspirazioni emotive della città stessa, che chiunque ancor oggi si rappresenti alla memoria nello scorcio più comprensivo la Venezia del Cinquecento, vede un quadro del Veronese: - come chi voglia rappresentarsi quella del Settecento, ha negli occhi il baleno azzurro d'una pittura del Tiepolo: il quale fu di P. forse il discendente più vero, il più vicino a lui in spirito -. Nel 1555 l'artista aveva terminato la sua prima grande pittura veneziana: il soffitto della sagrestia di S. Sebastiano, a cui seguirono poi a varie riprese fino al 1570 il soffitto della chiesa stessa, e poi ancora l'intera decorazione del tempio: pareti, organo, altari. L'anno seguente, con i suoi dipinti per la Libreria di S. Marco, vinceva la collana d'oro destinata a chi meglio riescisse nell'opera, e aveva, si dice, da Tiziano il premio e l'abbraccio: certo otteneva la consacrazione ufficiale veneziana, che gli assicurava, oltre alla gloria, l'agiatezza. Poteva quindi ritornare nell'aprile del 1566 nella sua Verona a sposarvi l'amica d' infanzia Elena, figlia del suo maestro Badile. In Verona dipingeva allora la pala di S. Giorgio in Braida, con il Martirio del Santo - la cui composizione divenne un prototipo per quadri d'argomento simile fino al Settecento e oltre, fino al Delacroix -; vi ritornò poi a varie riprese lasciandovi numerose opere.

Tuttavia, dal 1557 in poi, le anagrafi veronesi non ci conservano più alcuna notizia del pittore: Venezia era divenuta definitivamente la sua patria. Quivi, nel 1563, dipingeva la più famosa delle sue Cene: le Nozze di Cana per i domenicani di San Giovanni e Paolo, oggi al Louvre; dieci anni dopo, per il refettorio di S. Giorgio, la Cena in casa dai Levi, ora all'Accademia di Venezia - quadro ben noto anche perché gli procurò il processo dell'Inquisizione - pitture dove la capacità scenografica, nel migliore senso, del pittore (cioè la sua virtù di vedere la vita particolare delle forme entro uno spazio ritmato da pause architettoniche o paesaggistiche infinitamente moltiplicantisi), la sua freschezza e la sua novità coloristiche si affermano prodigiosamente. Ma già P. aveva dipinto in Venezia una serie di quadri: i famosi soffitti delle sale del Consiglio dei Dieci e dei Tre Capi del Consiglio in Palazzo Ducale, rappresentanti Giunone che versa i suoi tesori su Venezia, la Gioventù e la Vecchiaia, e quelli oggi al Louvre con S. Marco che incorona le Virtù, e Giove che fulmina i Vizî; e numerose altre pitture di vario argomento e ritratti, ora sparsi in musei d'Europa e d'America: opere delle quali, anche in questa breve rassegna, non può essere tralasciata quella che è una delle pitture più mirabili della sua giovinezza: la Predica del Battista della galleria Borghese di Roma, già erroneamente assegnata allo Zelotti. Tra i moltissimi lavori eseguiti nel decennio citato, ricordiamo poi i grandi cicli di affreschi su palazzi veneziani: il palazzo Bellavite a S. Maurizio, il palazzo Nani alla Giudecca, il palazzo Cappelli, ora Carnelutti, sul Canal Grande e le decorazioni di casa Trevisani a Murano: solo di queste ultime però sono rimasti vestigi insigni.

Tuttavia la prova forse massima della sua arte nell'affresco, ampia, serena, dal respiro vastissimo, P. la diede nelle pitture che eseguì prima del 1560 per la villa dei Barbaro a Maser: pitture che coprono quasi da cima a fondo le pareti della mirabile costruzione palladiana e costituiscono uno dei più estesi, complessi e stupendi cicli pittorici, che mai siano usciti da pennello d'artista: il più grandioso certo che il Caliari ci abbia lasciato. Nelle due stanze di facciata dipinse, sul soffitto, Bacco che insegna agli uomini la fabbricazione del vino: figura eminente contro il cielo su cui si staglia un ferace pergolato di pampini, che abbraccia le pareti e sale alla vòlta, come nella stanza dirimpetto, dove sono raffigurate le Virtù coniugali; nella sala centrale a crociera prodigò sui muri prodigiosi affreschi di paesaggi, alternati da figure di suonatrici entro nicchie; in quella che segue, con fantasia inesauribile, passò alla decorazione di tipo architettonico variata da fresche figure intrise di luce, tra cui basti rammentare quella, stupenda e precorritrice, della bella Giustiniani; e nel soffitto rappresentò l'Olimpo, e negli stanzini attigui dipinse scene mitologiche e sacre, ecc. Non è possibile descrivere il fascino, davvero fiabesco, di queste pitture, dove ride il più gaio colore del mondo, dove si celebra il trionfo della giovinezza terrestre, dove tutto sembra puro e vergine come il primo giorno della Creazione, nell'aria vasta e limpida d'un cielo senza macchie, d'un azzurro divinamente luminoso.

Già si disse delle due Cene dipinte da P. nel 1563 e nel 1573: l'argomento fu uno dei preferiti dall'artista, il quale trovava in esso, non solo il mezzo per sfogare il suo naturale amore per il fasto, la signorile ricchezza delle vesti e l'osservazione minuta dei particolari - che rendono meno strana l'opinione del Berenson ch'egli sia un Altichiero, cioè uno spirito gotico, risorto in pieno Rinascimento - ma anche e più il mezzo d'allitterare le forme architettoniche e umane e ottenere quindi il doppio risultato di moltiplicare all'infinito lo spazio con un vario e mutevole alternarsi di conche aeree e di presentare alla luce una serie di linee oblique, le quali si comportino come prismi in cui la luce sembra frantumarsi nell'iride dei colori puri, sempre però costruttivi, e sempre scalati alla veneziana con un istinto dell'accordo (spesso fondato sopra il rispondersi di associazioni lontane) così impeccabile, che talora ha del miracoloso. Ricordiamo, tra codeste Cene, quella per la famiglia Coccina nella Galleria di Dresda, e poi le posteriori e più complesse di Brera, di Monte Berico a Vicenza, che preludono l'ultima, citata, del 1563, per i frati di S. Giovanni e Paolo, la più vasta e mirabile. Contemporaneamente a codesti conviti, dipinse moltissime altre tele di vario argomento, dove però sempre s'affermano quella sua tendenza al sogno gaio, brillante, ritmato, e quella sua virtù d'esprimerlo, non già con la densa e profonda orchestrazione tizianesca, o col balenante notturno del Tintoretto, ma con l'accordo, leggerissimamente tramato, dei colori squillanti e vivi: e insieme quel suo carattere, impropriamente detto esteriore, che lo porta a scegliere argomenti profani o a trattare profanamente argomenti sacri. Ricordiamo le quattro tele eseguite per la famiglia Coccina (1560) tutte a Dresda; la Famiglia di Dario ai piedi di Alessandro della National Gallery di Londra; il Centurione davanti a Gesù del Prado; i ritratti o gruppi di ritratti a Firenze, a Dresda, ad Amsterdam; le composizioni di soggetto sacro, quali lo Sposalizio mistico di Santa Caterina dell'Accademia di Belle Arti di Venezia, il Battesimo di Cristo (1566-67) della parrocchiale di Latisana, ecc. Nel suo ultimo tempo il Veronese ascoltò qualche suggerimento offertogli dalla pittura lagunare, come s'era venuta formando in seguito agli apporti di Tiziano, Tintoretto, Bassano: ma tale accoglimento non menoma in nulla il carattere originale dell'arte sua, semmai ne arricchisce tecnicamente i registri, lasciandone intatta la singolarità del timbro. Sono di questo momento il soffitto per il Magistrato delle biade, oggi all'Accademia di belle arti di Venezia, e le magnifiche tele del Palazzo Ducale, composte dopo l'incendio del 1576. In queste opere, di carattere mitologico o allegorico, P. ci si rivela ancora come verace interprete dello spirito della pittura veneziana, che da Bisanzio aveva ereditato anche la tendenza aulica di celebrare e quasi deificare l'impero e di esaltarne le glorie in "tavole" illustrative. Ricordiamo la Vittoria di Lepanto, forse il più chiaro indice di questo momento, a cui si collegano moltissime altre tele precorritrici di ardimenti moderni, e infine la immensa, prodigiosa decorazione della sala del Maggior Consiglio.

Paolo educò all'arte i figli Carlo e Gabriele, e una numerosa schiera di discepoli per lo più mediocrissimi, che diresse il fratello Benedetto, il più devoto e schietto fra i suoi collaboratori, spesso sul tardi, smodati.

La pittura del Veronese fu tra le poche di altezza veramente suprema, e di una purità forse unica. Giacché in nessun artista, come in lui, il cosiddetto contenuto non vale se non in quanto dà concretezza all'armonia delle forme raffaellescamente equilibrate in un riposato ritmo, e al brillare dei colori, i quali, pur impeccabilmente accordandosi in un insieme intonatissimo, non rinunciano mai all'individualità del loro timbro particolare, alla chiarezza della loro voce, all'intensità della loro "vita sensuale". Storicamente fu un rinnovatore formidabile, sebbene a scadenza assai lunga: il seme ch'egli gettò nel Cinquecento, difatti, non fiorì rigoglioso che nel Settecento. Al suo tempo ebbe l'incondizionata adorazione dei contemporanei; fu posto tra i tre grandi numi tutelari della pittura veneziana (alla quale, poi che si faceva per via dell'eredità tizianesca piuttosto nebulosa, diede quasi una nuova verginità); rialzò il tono emotivo della città inspirandole una rinnovata e trionfante gioia di vivere. Lo si disse un superficiale, ma l'osservazione è filistea. Egli è un puro, un fanciullo. L'arte sua non pretende di insegnarci nessuna verità intellettuale, ma solo sembra ripeterci sorridendo le parole di Keats: "Una cosa bella è una gioia per sempre". (V. tavv. LXI-LXVIII).

Bibl.: G. Fiocco, P. V., Bologna 1928; id. P. V., 1934 (coll. Valori plastici); A. Venturi, Storia dell'arte ital., IX, iv, Milano 1929, pp. 745-953; B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932.