VALERA, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

VALERA, Paolo

Elena Papadia

– Nacque a Como il 18 gennaio 1850 da una famiglia di modeste condizioni: il padre Paolo era venditore ambulante di fiammiferi; la madre, Ambrosina Bianchi, cucitrice.

Nel 1866, come altri adolescenti della sua generazione, fuggì di casa per combattere come volontario al fianco di Giuseppe Garibaldi; si recò dunque a Brescia e si arruolò nel 3° reggimento garibaldino, con il quale prese parte alla battaglia di Monte Suello, in alta Val Sabbia. Fu questa la sua prima vera esperienza di formazione: per mentalità e temperamento, Valera rimase un garibaldino lungo tutto il corso della sua esistenza.

Trasferitosi a Milano nel 1870 in cerca di un impiego, finì per prendere alloggio in un ‘casone’ a Porta Magenta, che più tardi descrisse come «un immenso cortile, rotto da un gruppo di case che si elevava coi tetti spioventi e le grondaie sgangherate» (P. Valera, La Folla, Napoli 1973, p. 37). Questo paesaggio urbano povero e degradato divenne poi parte integrante della sua poetica; ma, allo sguardo di un ventenne di provincia, Milano colpiva anche per la modernità del suo volto, per i negozi e i caffè, le vetrine e i cartelloni della réclame.

Milano era anche la capitale della bohème italiana, e il giovane Valera, mentre per mantenersi si adattava a diversi lavori (facchino, imbianchino, magazziniere, rappresentante, poi per qualche anno impiegato al dazio comunale) si immerse negli ambienti della scapigliatura cosiddetta democratica, attraversata sull’onda dell’esperienza della Comune parigina da una corrente di intensa radicalizzazione politica. Da quel momento la scrittura fu per Valera – intelligente autodidatta, proletario intellettuale destinato a «scalcagnare per lo stradone della letteratura rossa» (cfr. Ghidetti, 1982, p. 159) per un cinquantennio – al tempo stesso uno strumento di sopravvivenza e un’arma di battaglia.

La sua carriera di giornalista iniziò con la collaborazione al Gazzettino rosa di Achille Bizzoni e alla Farfalla di Angelo Sommaruga. Poi, con il nom de plume di Caio, cominciò a scrivere sul giornale socialista La Plebe, diretto da Enrico Bignami: lì nel 1878 uscì a puntate la sua prima opera, Milano sconosciuta, un reportage sui luoghi del ‘vizio’, della povertà, della disperazione urbana.

Uscita in volume nel 1879, l’opera fece scandalo (procurando al suo autore un processo dal quale uscì assolto) e conobbe una crescente, duratura fortuna editoriale, che si protrasse ben oltre il passaggio del secolo: ne uscirono infatti sette diverse edizioni, con relative varianti di titolo, l’ultima delle quali è Milano sconosciuta rinnovata, arricchita di altri scandali polizieschi e postribolari (Milano 1923).

Esempio di scrittura ‘palombara’ – secondo un modello letterario che, irradiandosi dalla Francia, godeva in quegli anni di una straordinaria fortuna internazionale – Milano sconosciuta si proponeva come un’esplorazione dei «luoghi più orridi e puzzolenti» della città: era, come si disse allora, una «autopsia appassionata, minuziosa, diligentissima sul corpus vile delle classi proletarie milanesi» (da una lettera di Francesco Giarelli all’autore, pubblicata insieme al romanzo), condotta con intenti di verità e restituita ai lettori con uno stile in cui l’oggettività di derivazione zoliana si caricava di accenti truci ed espressionistici. L’opera soddisfaceva esigenze che erano allo stesso tempo politiche, etiche ed editoriali: denunciando il degrado dei bassifondi milanesi l’autore intendeva certo «scloroformizzare il pubblico» e svelare l’ipocrisia borghese; ma far luce sul ‘vizio’ (soprattutto sessuale: la prostituzione, l’omosessualità) era anche un modo per soddisfare le aspettative voyeristiche dei lettori, il che – per chi come Valera viveva dei proventi delle sue opere – rispondeva tra l’altro a una necessità di sopravvivenza.

Il 1878 segnò una svolta anche riguardo alla militanza politica: Valera conobbe a Lugano Anna Kuliscioff, e in quello stesso anno si iscrisse alla Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori. Poco dopo, quando le file dell’Internazionale si divisero, prese posizione a favore degli astensionisti contro i partecipazionisti guidati da Andrea Costa; nel 1881 fondò il giornale La Lotta – definito dall’estensore della scheda prefettizia come «il primo giornale anarchico che vide la luce in Milano» – e, a partire dal 1882, collaborò con il Tito Vezio - giornale degli schiavi bianchi di Carlo Monticelli.

Ma la battaglia politica proseguì anche attraverso la produzione letteraria, improntata a un infiammato verismo sociale e concepita come arma da scagliare contro la morale borghese.

Sull’onda del successo dell’anno precedente, Valera pubblicò Gli scamiciati (Milano 1880) e un reportage intitolato I lupanari di Mantova (Mantova 1880); nel 1882 all’interno della collana Biblioteca battagliera dell’editore Cozzi di Milano vide la luce il romanzo autobiografico Alla conquista del pane (ma il libro è datato 1870), e due anni più tardi le edizioni Sommaruga di Roma pubblicarono una raccolta di racconti intitolata Amori bestiali. Intanto si moltiplicavano le collaborazioni giornalistiche, e la firma di Valera cominciò a comparire sulle colonne di Il Caricaturista (con lo pseudonimo di Giuda Iscariota), La Lotta, Il Secolo, Il Fascio operaio.

Nel 1883, nel corso di una polemica con il capocomico della compagnia del teatro Milanese Edoardo Ferravilla, che aveva rifiutato di mettere in scena una sua commedia dialettale intitolata Resistemm, Valera ricevette una prima condanna per ingiurie; non pago, reagì con una serie di pamphlet in cui estese furiosamente il suo attacco dapprima al magistrato che aveva emesso la condanna (Gli istrioni del teatro milanese), poi alla primadonna della compagnia Emma Allis (nome d’arte Emma Ivon), la quale era stata, tra l’altro, l’amante di Vittorio Emanuele II (Emma Ivon al veglione). Condannato nuovamente per ingiurie e diffamazioni (del resto la sua vita fu costellata da una lunga teoria di processi per reati commessi a mezzo stampa: «sfuriate d’inchiostro», le chiamava lui), fuggì a Marsiglia; di lì si spostò a Parigi e poi trovò riparo a Londra, dove si fermò dal 1884 al 1894.

A Londra visse in Leather Lane, nella zona meridionale del quartiere italiano, che si compiacque di descrivere con toni da inferno («dove pullula l’infanticidio alcoolico, dove si respinge la vaccinazione con orrore, dove si nasce cefali e si muore incoscienti di aver vissuto»; I miei dieci anni all’estero, Genova 1992, p. 25). Lì insegnò l’italiano, collaborò come corrispondente per Il Secolo, Il Messaggero, La Plebe, studiò la storia inglese e si interessò attivamente di politica.

La lunga esperienza londinese fu descritta in Londra sconosciuta (Milano 1890; poi in ed. accresciuta con il titolo I miei dieci anni all’estero, Milano 1925), nelle cui pagine prendono vita la città degradata dei quartieri operai, quella riottosa dei meetings, quella ebraico-orientale di Petticoat Lane – quest’ultima descritta come un «immenso pitale di sebo cutaneo», in un passaggio che enfatizza fino al grottesco alcuni topoi della letteratura antiebraica: «tra gli odori umani, il giudaismo inglese rappresenta gli escrementi [...] lo riconosci anche senza averlo veduto. È più biancastro e livido che terreo. I suoi capelli tendono a incresparsi. Negli occhi fondi e cerulei gli balena la volontà del guadagno. Il suo naso è di una rapacità affilata che fa paura. Il suo alito è denso di cipolla. Le sue dita sono tentacoli. Indossa i rifiuti della pitoccaglia di tutte le nazioni» (cfr. I miei dieci anni all’estero, 1992, pp. 84 s.).

Alla fine del 1894, dopo un breve soggiorno che da Londra lo aveva portato a Lugano, Valera tornò in Italia e proseguì nella sua attività di pubblicista collaborando tra l’altro con Critica sociale di Filippo Turati. Negli anni di Londra infatti Valera aveva abbandonato l’anarchismo delle origini virando verso il socialismo; non per questo perse lo stile fiammeggiante, l’ispirazione libertaria, il gusto per la violenza del linguaggio che anzi lo caratterizzarono fino alla morte, collocandolo politicamente e umanamente in un punto piuttosto lontano dal leader socialista. Di lì le reciproche recriminazioni, di essere l’uno troppo cerebrale, l’altro esponente di un «socialismo piazzaiuolo e saltimbanco» (Turati ad Arcangelo Ghisleri, 1880, in La Scapigliatura democratica. Carteggi di Arcangelo Ghisleri: 1875-1890, a cura di P.C. Masini, Milano 1961, p. 85).

Nel 1897, candidato del Partito socialista italiano (PSI) a Busto Arsizio, fondò e diresse il quotidiano La Battaglia, di cui uscirono ventisette numeri scritti interamente da lui, ma non fu eletto.

Arrestato nel maggio del 1898 in seguito ai moti di Milano, condannato a giugno a un anno e mezzo di reclusione e 500 lire di multa per «eccitamento all’odio tra le classi sociali ed alla guerra civile», fu recluso nel carcere di Finalborgo fino alla promulgazione dell’indulto (29 dicembre 1898); Valera rievocò quella esperienza in Dal cellulare a Finalborgo (Milano 1899) e in La sanguinosa settimana del maggio ’98: storia aneddotica e documentata (Genova 1907).

Nel 1901 fondò il settimanale La Folla, il cui primo numero uscì il 5 maggio di quell’anno («Il titolo è la nostra ditta», si legge nell’editoriale. «Tutti capiscono che noi siamo della folla, per la folla, con la folla [...] perché della folla abbiamo i gusti, le idee, le aspirazioni»).

La rivista uscì in due serie, la prima tra il 1901 e il 1904, la seconda tra il 1912 e il 1915, e raggiunse tirature molto ampie per il mercato editoriale dell’epoca, superando il picco di 25.000 copie settimanali. Nel formato tascabile, nel colore scarlatto della copertina (disegnata da Gustavo Macchi), nella grafica – oltre che nei contenuti e nello stile – La Folla si ispirava a La Lanterne di Henri Rochefort, una rivista di minuscolo formato che era circolata clandestinamente negli ultimi anni del Secondo Impero. Redatta per intero dal suo fondatore, solo episodicamente ospitò contributi di altri, tra cui Gian Pietro Lucini e, limitatamente alla seconda serie, Benito Mussolini, con lo pseudonimo di l’homme qui cherche e di Uno che c’è stato.

La Folla divenne una sorta di marchio: con lo stesso nome Valera chiamò la sua impresa editoriale (che pubblicò quasi esclusivamente opuscoli del suo fondatore), nonché il suo romanzo più noto, che vide la luce in quello stesso 1901 presso la Tipografia degli operai di Milano.

Ambientato ancora una volta in un ‘casone’ milanese, zoliano nell’ispirazione e apertamente apprezzato dallo scrittore francese, La Folla si distingueva però dal modello naturalista – oltre che per l’espressionismo del linguaggio – per il maggior peso attribuito all’ambiente piuttosto che alla race; del resto, come dimostra l’happy ending della storia, l’immagine di una umanità miserabile, geneticamente inchiodata al proprio destino, era incompatibile con l’ottimismo progettuale del socialismo.

In occasione del Congresso regionale lombardo del PSI del 1904 si schierò con gli intransigenti (il riformismo, ai suoi occhi, andava «nel sangue come un veleno»: cfr. Filippo Turati, in La Folla, 24 aprile 1904); sostenne accanitamente lo sciopero generale di quell’anno e si candidò alle politiche nel collegio di Milano II, dove però non risultò eletto. Nel 1905 ricevette una nuova condanna a cinque mesi per incitamento all’odio di classe a mezzo stampa.

Intanto l’attività di pubblicista proseguiva, inesauribile per quanto meno fortunata: nel 1908 Valera fondò la rivista La Nuova Commedia umana, che però in quello stesso anno cessò le pubblicazioni a causa di un duro attacco che egli rivolse dalle sue colonne contro la massoneria, laddove era proprio quest’ultima a garantire i finanziamenti del periodico (pur se, come sembra, all’insaputa del suo fondatore).

Durante la guerra italo-turca si impegnò a fondo nella propaganda antilibica, denunciando lucidamente l’ideologia e la pratica coloniali («gli arabi sono come noi quando avevamo a casa i tedeschi»): nel 1911 fu arrestato «per avere in pubblico comizio contro la spedizione di Tripoli incitato i presenti a disobbedire alle leggi» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 323); successivamente cercò di imbarcarsi per Tripoli come corrispondente dell’Avanti!, ma venne fermato ad Augusta per ordine del governo. Ricostruì comunque a distanza, sulla base di vario materiale documentario, fasi e modalità della violenta repressione italiana della rivolta anticoloniale scoppiata nell’oasi tripolina di Sciara Sciat nell’ottobre del 1911 (Le giornate di Sciara Sciat fotografate, suppl. a La Folla, novembre 1912, pp. 3-32).

In polemica con i corrispondenti di stanza in Libia, rivendicò il ruolo del giornalismo (e in generale della scrittura) come denuncia del vero: «Coloro che [...] si sono uniti alla gran voce ministeriale per far credere all’Europa che noi siamo un popolo di benefattori non hanno più niente da fare. Il loro compito è finito. Tocca a noi. A noi rimestare e scovare il materiale che si è prodotto in questi nove mesi di gazzarra militare e giornalistica. A noi, tocca. Ci rimbocchiamo i calzoni. Ci mettiamo nei guazzi di sangue. Dobbiamo passare su cataste di cadaveri. Al lavoro» (Carlo Caneva assassino, in La Folla, 18 agosto 1912).

Al Congresso del PSI di Reggio Emilia nel 1912 sostenne la candidatura di Mussolini alla direzione dell’Avanti!. In occasione delle elezioni politiche dell’anno successivo si presentò candidato per il PSI a Piacenza, ma ancora una volta senza successo.

Allo scoppio della prima guerra mondiale, da vecchio garibaldino qual era, non fu insensibile alle ragioni dell’irredentismo, né a quelle della guerra rivoluzionaria; ma dopo una prima fase di incertezza si assestò, insieme al partito, sulla sponda neutralista. Continuò tuttavia a rispettare Mussolini e quando, la sera del 24 novembre 1914, la sezione milanese del Partito socialista ne proclamò l’espulsione, Valera pubblicò un articolo in cui si descriveva il «linciamento morale» operato dal «tribunale rivoluzionario» nei confronti del «traditore» (La Folla, 29 novembre 1914).

A partire dal 1917, aprì a Milano insieme alla compagna Maria Mecini (conosciuta negli anni di Londra) una rivendita di libri e giornali chiamata Al mare intellettuale e divenne segretario dell’Associazione venditori di giornali. Nel 1919 fu arrestato per reati a mezzo stampa risalenti al 1915, ma pochi mesi dopo fu liberato in virtù di un’amnistia.

All’indomani del delitto Matteotti, uscì la sua biografia sul capo del fascismo (Mussolini, Milano 1924), in cui Mussolini emergeva come un traditore, senza alcuna ombra di indulgenza o complicità benché, a essere ricordato in quelle pagine, fosse anche l’ex compagno di molte battaglie.

Il libro non contiene alcun accenno alla possibilità o alla speranza che Mussolini tornasse alla casa madre; ma il suo autore si sottraeva a quell’operazione di riscrittura del passato recente e di selezione della memoria che la violenta contrapposizione politica in atto nel Paese imponeva alle due parti in lotta. Immediatamente sequestrato per ordine del gerarca Mario Giampaoli, dall’altra parte della barricata il volume valse a Valera l’espulsione dal PSI, per mezzo di un laconico biglietto recapitatogli a casa dalla sezione socialista milanese.

Morì a Milano il 1° maggio 1926.

Ricoverato qualche giorno prima all’ospedale Maggiore, il malore che lo aveva colpito non ne aveva disseccato – almeno nelle intenzioni – l’inesauribile vena di polemista: agli amici che gli avevano fatto visita aveva confidato di volere scrivere un pamphlet per «scarnificare» i dirigenti dell’ospedale. Nel giorno del suo funerale, circa 400 persone sfidarono il regime aspettando l’uscita della bara dalla camera mortuaria.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 323.

G. Berri, P. V. intimo, Milano 1904; M. Gioda, P. V., in La Ragione della domenica, 4 aprile 1911; G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma 1967, ad ind.; E. Ghidetti, Notizia biografica e Nota bibliografica in P. Valera, La Folla, a cura e con introduzione di E. Ghidetti, Napoli 1973, pp. 23-31; F. Portinari, Le parabole del reale: romanzi italiani dell’Ottocento, Torino 1976, pp. 225-246; E. Ghidetti, P. V., in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico. 1853-1943, V, Roma 1978, pp. 174-179; Id., L’ipotesi del realismo. Capuana, Verga, V. e altri, Padova 1982; R.H. Rainero, P. V. e l’opposizione democratica all’impresa di Tripoli, Roma 1983.

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