LAPI, Paolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LAPI, Paolo

Marcello Moscone

Romano, appartenne all'Ordine dei frati minori. Non è possibile stabilire con sicurezza il suo cognome né la sua data di nascita, avvenuta probabilmente non oltre i primi anni Quaranta del Trecento. Nella documentazione coeva il L. compare semplicemente come "Paulus" e, in quella pontificia in particolare, come "Paulus Francisci" o "Paulus Francisci de Urbe". Il cognome Lapi o de' Lapi, ormai consolidato dalla storiografia, non ricorre nelle testimonianze documentarie, né è presente nella letteratura erudita del XVI e del XVII secolo.

Il L. compare per la prima volta nelle fonti il 22 dic. 1367, quando il papa Urbano V lo nominò vescovo di Isernia, in seguito al trasferimento del domenicano Filippo Ruffini alla guida della diocesi di Tivoli. Tale incarico fu mantenuto dal L. per circa dodici anni, fino a quando, il 3 febbr. 1379, Urbano VI decretò la sua promozione ad arcivescovo di Monreale e rimosse da questa diocesi il presule Guglielmo Monstrius che, dopo la duplice elezione pontificia del 1378, aveva aderito al papa avignonese Clemente VII. Il L. si trovò dunque a operare in Sicilia in un contesto politico, locale e internazionale di notevole tensione.

L'accordo del 1372 tra la regina di Napoli Giovanna I d'Angiò, Federico IV d'Aragona re di Trinacria (Sicilia) e papa Gregorio XI concludeva il conflitto apertosi all'indomani del Vespro del 1282 e normalizzava i rapporti tra Roma e l'isola, ma scontentava le pretese dinastiche sulla Sicilia di Pietro IV ed Eleonora d'Aragona. Nel 1377 al sovrano siciliano succedette la figlia Maria con il consenso della Sede apostolica e della regina napoletana. Poco più tardi venne raggiunto un accordo tra gli esponenti delle quattro maggiori famiglie feudali siciliane Alagona, Chiaramonte, Ventimiglia e Peralta, attraverso l'assunzione della reggenza collegiale per conto della regina Maria, al fine sia di governare il Regno sia di fronteggiare le minacce aragonesi all'indipendenza dell'isola. Quando nel 1378 divampò lo scisma, Urbano VI riuscì a mantenere la Sicilia nell'obbedienza romana grazie a un rapporto privilegiato con i quattro vicari e al riconoscimento delle loro funzioni. Il pontefice inoltre stroncò sul nascere ogni adesione in ambito locale al Papato avignonese.

Il L. prese possesso della diocesi monrealese che era la più ricca dell'isola e che rientrava nell'area geografica sulla quale i Chiaramonte esercitavano una signoria incontrastata e a questa famiglia il L. avrebbe legato i propri interessi e destini politici.

La nomina del L. a presule di Monreale non fu accolta da Clemente VII, il quale affidò la diocesi siciliana al minorita Francesco "Riquerii" (novembre 1380), poi trasferito a capo della diocesi iberica di Huesca (dicembre 1384).

Urbano VI, che nel gennaio 1380 aveva designato l'arcivescovo di Palermo e i vescovi di Cefalù e Mazara conservatori dei beni della Chiesa di Monreale, secondo quanto riferito dal De Torres e dal Pirro affidò nel febbraio dello stesso anno al L. e a Simone Dal Pozzo, vescovo di Catania, il compito di fare in modo che tutti i baroni e i nobili dell'isola pagassero il censo dovuto alla Chiesa romana e non alla regina Giovanna I, nel frattempo scomunicata e deposta per l'adesione a Clemente VII.

La nomina del L. non era stata però gradita al capitolo della cattedrale composto da monaci benedettini: dietro richiesta di questi ultimi il 25 giugno 1382 Urbano VI fu infatti costretto a conferire a Nicola Moschino Caracciolo, cardinale prete di S. Ciriaco, l'incarico di riformarvi la disciplina e di condurre un'inchiesta in loco poiché i monaci lamentavano che il L. si rifiutava di pagare la pensione di 500 fiorini loro assegnata in precedenza. Nel maggio 1387, inoltre, Urbano VI incaricò l'arcivescovo di Monreale di recuperare al legittimo possesso del presule palermitano Ludovico Bonito tutti i beni della mensa arcivescovile alienati illecitamente o illegittimamente.

Nel 1389 Bonifacio IX succedette a Urbano VI e decise di seguirne gli indirizzi di politica estera riguardo alla situazione siciliana nel frattempo precipitata: la regina Maria era stata infatti rapita e sottratta al controllo dei quattro vicari, l'Aragona aveva formalizzato nel 1387 la sua adesione a Clemente VII e il matrimonio tra la stessa Maria e Martino il Giovane, figlio dell'omonimo duca di Montblanc, poneva sotto l'egida di quest'ultimo l'imminente spedizione finalizzata a riportare l'isola sotto il diretto controllo degli Aragonesi.

Il 28 marzo 1390 Bonifacio IX inviò in Sicilia il magister Niccolò da Imola col compito di riscuotere subito 1000 fiorini (500 dal L., 300 dal presule agrigentino e 200 dal Bonito) come anticipo sul sussidio caritativo che il vescovo di Pozzuoli avrebbe poi dovuto raccogliere nel Regno di Trinacria in base al mandato papale del gennaio dello stesso anno. Nel 1391 il pontefice decise la missione in Sicilia del nunzio apostolico Niccolò Sommariva da Lodi, che aveva il compito di procedere con i quattro vicari alla delimitazione ufficiale delle aree territoriali siciliane spettanti a ognuno di loro e di ridefinire la quota di censo e il servitium dovuti da ciascuno. Secondo quanto si apprende dalle istruzioni emesse il 4 luglio 1391, inoltre, il Sommariva avrebbe dovuto anche favorire, contro l'imminente minaccia dei sovrani scismatici aragonesi, una lega tra i quattro vicari e le città siciliane, con particolare riguardo alle tre sedi vescovili fra le quali, oltre a Messina, quelle rette dal Bonito e dal Lapi. L'alleanza che, già prima dell'arrivo del nunzio in Sicilia (settembre 1391), i maggiori baroni isolani avevano raggiunto nella chiesa di S. Pietro presso Castronovo (10 luglio 1391), aderendo all'accordo stabilito tra Chiaramonte e Alagona, si sarebbe però presto rivelata effimera.

Il 22 marzo 1392 i sovrani Martino I e Maria, insieme con Martino duca di Montblanc, sbarcarono con il loro seguito presso l'isola di Favignana e intimarono ad Andrea Chiaramonte, conte di Modica e di Malta, di presentarsi a Mazara entro sei giorni insieme con gli altri baroni siciliani per prestare l'omaggio dovuto ai regnanti. Il duca Martino respinse con sdegno la richiesta avanzata da Andrea di ricevere un salvacondotto e intraprese l'avanzata verso Palermo: il conte di Modica e Artale Alagona vennero dichiarati traditori. Il 7 aprile il duca Martino cominciò per terra e per mare l'assedio di Palermo. Il presule palermitano e il L., costretto a lasciare Monreale ormai in mano agli Aragonesi e a riparare nella capitale, intercedettero nelle trattative a favore del Chiaramonte. Col determinante contributo diplomatico del L., il 15 maggio fu raggiunto un accordo che prevedeva la sottomissione e il perdono di Andrea e dei suoi familiari e sostenitori, mentre Palermo, Agrigento e le altre terre sottoposte alla sua giurisdizione ottenevano il perdono e la conferma dei privilegi. Il 17 maggio il Chiaramonte si presentò al duca e ai sovrani ma, ritornato il giorno seguente presso l'accampamento aragonese, fu arrestato insieme con Ludovico Bonito, con l'accusa di cospirazione contro i regnanti. Il processo fu assai rapido e si concluse con la condanna a morte del Chiaramonte che fu decapitato il 1° giugno 1392.

La caduta del conte di Modica colpì i due arcivescovi di Monreale e Palermo che erano stati suoi convinti sostenitori. Il 13 apr. 1392 i sovrani e il duca affidarono l'amministrazione della Chiesa di Monreale al catalano Pietro Serra, cancelliere del Regno e stretto collaboratore del Montblanc, mentre il Bonito fu sostituito con il catalano Alberto di Villamarino.

Il 20 giugno 1392, rispondendo al Senato romano che gli aveva scritto in favore del L., il duca Martino si dichiarò disposto a liberare prontamente l'arcivescovo, detenuto prigioniero a Palermo dal tempo dell'arresto del Chiaramonte, se egli avesse accettato di lasciare l'isola; si impegnava altrimenti a garantirgli una prigionia onorevole e un trattamento rispettoso nel proprio palazzo con un appannaggio di 2000 fiorini, metà a carico del fisco e altrettanti a carico dell'arcivescovato.

Le trattative tra la corte siciliana e la Curia di Roma vennero affidate a Filippo Crispo, arcivescovo di Messina e nunzio di Bonifacio IX in Sicilia, e all'ambasciatore genovese Davide Lercari. Nel 1392 questi riferiva alla Curia pontifica la volontà del duca di inviare presto un'ambasceria e avanzava la richiesta di una soluzione positiva e consensuale della vertenza aperta su Monreale. Martino chiedeva infatti che il papa ratificasse il suo operato, regolarizzasse la situazione della diocesi e gli riconoscesse la facoltà di disporne in forza del diritto di patronato regio; Bonifacio IX oppose però a tali richieste un deciso rifiuto.

Nella primavera del 1393 Enrico Chiaramonte, che aveva partecipato alla difesa di Palermo durante l'assedio del 1392 e che il duca Martino aveva fatto arrestare con gli altri capi della fazione nobiliare, sbarcò nella capitale dopo un breve periodo di esilio a Gaeta e riuscì a cacciare le autorità regie dalla città e a imporvi la propria signoria.

Il L. riuscì così a riprendere la guida della diocesi monrealese i cui beni e redditi furono sottratti all'amministrazione di Pietro Serra.

Il 18 maggio 1395 Bonifacio IX intervenne in favore di Benedetto di Niccolò Rapici, monaco del cenobio benedettino di S. Vito in Val d'Isernia, al quale il L. aveva conferito auctoritate ordinaria il priorato dei Ss. Matteo e Anna nella diocesi di Monreale. Il papa sanò inoltre alcune irregolarità della provvisione episcopale del beneficio. Al L. Bonifacio IX affidò poco dopo un incarico assai delicato: il recupero o la reintegrazione di beni e diritti spirituali e temporali sottratti nel Regno di Trinacria tanto alla Camera apostolica quanto alla Chiesa palermitana. L'11 nov. 1395 il L., insieme con il vescovo di Malta e un canonico di Palermo, ricevette da Roma pieni poteri per operare in tal senso.

La permanenza a Monreale del L. era però incerta in quanto legata alle sorti politiche di Enrico Chiaramonte e, in generale, agli equilibri politici dell'isola. L'arcivescovo figura come testimone in due documenti notarili dell'8 gennaio e del 13 febbr. 1397: col primo il Chiaramonte nominava un procuratore speciale che doveva recarsi all'estero alla ricerca di aiuti economici e militari; col secondo designava gli ambasciatori per trattare la resa col re Martino. Agli stessi ambasciatori e nello stesso giorno il L. conferì un identico mandato; poco dopo però gli Aragonesi presero possesso di Monreale e l'arcivescovo, dichiarato nemico capitale, traditore e ribelle, trovò rifugio in Palermo. Da qui egli rinnovò il mandato agli ambasciatori per proseguire le trattative con i sovrani e presentare nuove richieste (16 marzo). Enrico Chiaramonte, che aveva dovuto ritirarsi insieme con i suoi seguaci in posizioni fortificate, lasciò Palermo alla volta del castello di Caccamo e da qui partì nuovamente per un esilio ormai definitivo. L'ingresso delle forze aragonesi a Palermo segnò per il L. la perdita del controllo della diocesi di Monreale, che fu in seguito affidata a ecclesiastici legati alla corte aragonese.

Bonifacio IX e i suoi successori Innocenzo VII e Gregorio XII continuarono però a riconoscerlo legittimo arcivescovo. Il L., che ormai da molti anni percepiva solo una parte minima dei redditi diocesani, nel maggio 1398 ottenne in commenda da Bonifacio IX i beni che l'arcivescovato di Tebe, al tempo vacante, deteneva nell'isola di Negroponte e che erano già stati assegnati all'arcivescovo di Atene Ludovico Aliotti prima del suo trasferimento a Volterra. Nel maggio 1405 questa concessione venne confermata da Innocenzo VII. Il 27 dic. 1404 il L. aveva ricevuto dallo stesso papa tutti i redditi spettanti al cardinale diacono pro tempore di S. Maria Nuova (concessione confermata da Gregorio XII nel gennaio 1407). In un documento papale del 1405 il L. figura inoltre come vicario in Roma; in un altro del 1406 vi compare come vicario in spiritualibus; in un terzo del 1407 come vicario generale in spiritualibus et in temporalibus. Nell'aprile 1407 Gregorio XII affidò in commenda al L. il priorato romano di S. Eusebio e, nel giugno dello stesso anno, lo nominò nunzio apostolico nel Regno di Sicilia.

L'elezione di Oddone Colonna al soglio pontificio, con il nome di Martino V, e la conclusione del concilio di Costanza creavano le condizioni per il riordinamento giuridico dell'intricata situazione monrealese. Nel 1418 il pontefice nominò il L. arcivescovo di Salonicco e gli riservò una pensione annua sulle entrate della diocesi siciliana. In un documento pontificio dello stesso anno, il L. viene qualificato anche come titolare della sede di Corinto.

Già nel 1412 il capitolo di Monreale aveva proceduto all'elezione del canonico Giovanni Ventimiglia che ricopriva di fatto, ma senza riconoscimento, le funzioni di arcivescovo. Solo nel 1418 Martino V ne ufficializzò la promozione.

H. Enzensberger ha inoltre identificato nel L. quel "Paulus Francisci" (altrove definito "Paulus Francisci de Capha": cfr. Hierarchia catholica, p. 441) che nel 1428 Martino V pose a capo della Chiesa di Sebastopoli.

Non è nota la data di morte del L. che, se si accetta l'ipotesi di Enzensberger, dovette avvenire dopo il 1428.

Le notizie relative alla sua conduzione della diocesi di Monreale sono poche e scarne. Il De Torres gli ha attribuito il merito di avere fatto edificare la nuova chiesa maggiore della città di Corleone e di avere fatto eseguire lavori di ristrutturazione di alcune parti del duomo e del chiostro di Monreale. Secondo una tradizione raccolta ancora dal De Torres, al tempo del L. si sarebbe verificato quello scambio che ricondusse in Francia la parte dei resti di S. Luigi IX, conservati a Monreale da oltre un secolo, mentre in Sicilia sarebbero giunte in cambio alcune preziose reliquie, tra cui una spina della corona di Cristo. Secondo il catalogo tre-quattrocentesco del monastero di S. Martino delle Scale, il presule avrebbe donato al cenobio, che apparteneva alla sua diocesi, un manoscritto del De regimine principum di Egidio Romano di sua proprietà.

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