Panico

Universo del Corpo (2000)

Panico

Paolo Pancheri
Maria Caredda

Panico viene dal greco πανικός, termine che deriva dal nome di Pan, dio delle montagne e della vita agreste: era detto timor panico, o terrore panico, quel timore misterioso e indefinibile che gli antichi ritenevano cagionato dalla presenza del dio. Nel linguaggio psicologico, esso indica il senso di forte ansia che un individuo può provare di fronte a un pericolo inaspettato, cadendo in uno stato di confusione ideomotoria, caratterizzata per lo più da comportamenti irrazionali. Tale senso di ansia può eventualmente essere associato a un attacco di agorafobia, una condotta di evitamento fobico di tipo esteso.

Disturbi da attacchi di panico

L'ansia rappresenta un vissuto intrinseco all'esperire umano e alla vita in genere. La filosofia, la medicina, la psicologia, l'arte in tutte le sue forme di espressione, si sono da sempre occupate di questo fenomeno in ragione della sua diffusa presenza. Il suo vissuto soggettivo si caratterizza come un'emozione di tonalità molto sgradevole, che induce un disagio e un'inquietudine specifici. Sentimenti di incertezza e insicurezza pervadono l'individuo, evocati dal timore di un evento imminente di natura ignota e contenuto minaccioso. Dal punto di vista fenomenologico, tutte le coordinate spaziali e temporali sono coinvolte. La minaccia, la mancanza di un contenuto noto, la tonalità penosa e il sentimento di allarme caratterizzano lo stato d'ansia. L'aspetto descrittivo dello stato ansioso richiede inevitabilmente l'utilizzazione del linguaggio del corpo, in quanto è pressoché impossibile non riferire i correlati somatici dell'ansia. G. Klerman (Klerman et al. 1996) descrive ben 44 sintomi, che suddivide in quattro classi relative all'apparato primariamente coinvolto: sintomi cardiovascolari, muscoloscheletrici, genitourinari e gastrointestinali.

Questi sintomi possono simulare svariate malattie organiche e costituiscono l'espressione diretta delle modificazioni a carico tanto degli assi neuroendocrini quanto dell'attività delle strutture vegetative. Tutti questi elementi si ritrovano nel disturbo da attacchi di panico (DAP), che è un disturbo di origine ansiosa. La descrizione del suo quadro clinico compare già nell'Isteria di Ippocrate (5°-4° secolo a.C.) e in altri classici. Descrizioni del fenomeno si ritrovano nella letteratura scientifica fin dalla prima decade del 19° secolo. Si deve a K.F. Westphal, nel 1871, l'introduzione del termine agorafobia per indicare la paura di trovarsi in piazze, strade e luoghi affollati o spazi nei quali sia difficile ricevere soccorso in caso di malessere. Westphal assimilò l'agorafobia alle altre fobie comuni.

S. Freud invece fu il primo a descrivere, in modo dettagliato, l'attacco di panico nell'ambito delle 'nevrosi d'ansia' e la sua descrizione comprendeva 9 dei 13 sintomi che sono codificati nel DSM-IV (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) dell'American psychiatric association (1994). Freud inoltre notò che una crisi di ansia poteva essere scatenata da un fattore o da una situazione specifici, oppure poteva verificarsi in modo inatteso, anticipando l'attuale distinzione tra attacchi di panico inaspettati e situazionali. Il DAP è stato individuato come avente propria dignità clinica nell'ambito dei disturbi d'ansia nel 1962, quando D. Klein e M. Fink dimostrarono l'efficacia dell'imipramina nel trattamento degli episodi di crisi ansiosa (ictus emotivi). Il DSM-III (American psychiatric association 1980), abbandonando il termine di nevrosi e introducendo quello di disturbo, ha conferito allo stato d'ansia una dignità non solo clinica ma anche nosografica. Successivamente sono stati identificati quadri sintomatologici ben definiti, con propria epidemiologia, caratteristiche cliniche e prognostiche, e tra questi, nel 1980, il DAP è stato riconosciuto alla stregua di sindrome clinica.

Epidemiologia

Le ricerche condotte negli Stati Uniti e in Europa, utilizzando strumenti standardizzati, hanno evidenziato una prevalenza annuale del DAP compresa tra lo 0,4% e l'1,5% nella popolazione generale. Più elevata è risultata quella dell'agorafobia, oscillante tra il 2,5% e il 6%. In Italia, prima della pubblicazione del DSM-III, la diagnosi di DAP era molto rara. Negli ultimi anni del 20° secolo è stata rilevata una prevalenza nel corso della vita di circa l'1,7%; dell'1% per l'agorafobia con gli attacchi di panico; e dello 0,4% per l'agorafobia senza attacchi di panico. Il DAP è più frequente nel sesso femminile rispetto a quello maschile con un rapporto di 2,5 a 1; questo rapporto è maggiore nell'agorafobia (3,5-4 a 1). Nelle rilevazioni cliniche il rapporto si riduce poiché gli uomini tendono a richiedere l'intervento dello specialista in misura maggiore. L'età di esordio è compresa tra i 15 e i 35 anni; l'insorgenza dopo i 45 anni è molto rara. Il primo trattamento è generalmente successivo di alcuni anni (anche 5-10) rispetto all'età di esordio e comincia in un'età compresa tra i 25 e i 45 anni. Il primo specialista al quale il paziente comunemente si rivolge è il cardiologo.

Solo una percentuale limitata di pazienti con DAP e agorafobia ricorre allo psichiatra per un trattamento specifico, mentre essi utilizzano in misura molto superiore rispetto alla popolazione generale e agli altri pazienti psichiatrici i servizi del pronto soccorso e di medicina interna. Il DAP risulta distribuito in modo uniforme in tutte le classi sociali, mentre l'agorafobia sarebbe più diffusa in quelle meno evolute culturalmente. È possibile, in tal senso, che alcuni fattori ambientali consentano la strutturazione di condotte di evitamento anche gravi (v. oltre).

Caratteristiche generali

Il panico può essere definito come un particolare quadro d'ansia che presenta i caratteri dell'acuzie, della gravità e dell'accessualità. L'attacco di panico è costituito da numerosi sintomi soggettivi, somatici e neurovegetativi, accompagnati da disturbi cognitivi e comportamentali, e si verifica con frequenza e gravità variabili. Sebbene le crisi presentino aspetti multiformi soprattutto dal punto di vista della fenomenica e dell'intensità, sono comunque individuabili alcune caratteristiche comuni. I sintomi compaiono improvvisamente, in modo drammatico, e quest'aspetto permane anche qualora l'attacco si verifichi in una situazione di ansia d'attesa. La durata della crisi è nel complesso breve e oscilla da pochi secondi o minuti fino a mezz'ora o un'ora. Il soggetto percepisce l'ansia come completamente estranea, non riconducibile alla propria psicologia e incontrollabile; esperisce un senso di impotenza devastante associato a paura e a un vissuto di grave minaccia per la propria integrità fisica e psichica. Il carattere improvviso e la coloritura drammatica nella vita dell'individuo rappresentano i tratti essenziali, distintivi del disturbo. Le manifestazioni comportamentali, per es. l'interruzione dell'attività in corso, sono meno costanti e più comunemente i soggetti vivono la crisi di panico in una dimensione privata. L'attacco è seguito generalmente da una fase postcritica che può durare alcune ore ed è contraddistinta da marcata astenia, obnubilamento, vertigini, difficoltà nel mantenimento dell'equilibrio.

Altri aspetti peculiari delle crisi di panico sono l'ipermnesia (abnorme aumento della capacità di rievocare i ricordi), l'orientamento della ricerca di aiuto e la stereotipia dei sintomi. Il primo di questi aspetti è espressione e conferma della caratteristica dirompente dell'attacco di panico nella vita del singolo paziente: la quasi totalità dei pazienti è in grado di ricordare con grande precisione il giorno, l'ora e il luogo dove si trovava quando si verificò il primo attacco; anche a distanza di tempo il paziente descrive, in modo circostanziato e con dovizia di particolari, le situazioni contingenti e la circostanza, e riferendo inoltre con notevole partecipazione emotiva la crisi di panico, nonché i sintomi relativi. La ricerca di aiuto è immediata, non procrastinabile e con i caratteri dell'urgenza: il DAP è primariamente corporeo fin dalle sue primissime manifestazioni, e la ricerca di aiuto è inevitabilmente di natura internistica, considerato che la crisi è vissuta come un disturbo organico; la sofferenza può essere infatti attribuita a un infarto, a una compromissione dell'apparato respiratorio o ad altra malattia somatica a manifestazione acuta. Questo vissuto permane pressoché immodificato anche negli attacchi successivi, nonostante le rassicurazioni e le spiegazioni fornite. Un altro aspetto riguarda la stereotipia dei sintomi che ciascun paziente esperisce al primo attacco e che generalmente si ripetono immodificati nelle crisi successive.

Gli attacchi di panico costituiscono, per definizione, un evento inaspettato, sia quando si verifichino in stato di benessere sia, invece, quando si sovrappongano a un altro quadro psicopatologico. Inoltre non devono essere in atto situazioni di rischio o situazioni nelle quali il soggetto si trovi al centro dell'attenzione. Queste ultime rappresentano condizioni, psicopatologiche o meno, di altra natura. L'attacco di panico si può manifestare in due luoghi principali: nell'abitazione o fuori di essa. I pazienti possono sviluppare le crisi all'interno delle mura domestiche, nei momenti più diversi, durante il riposo notturno, sotto la doccia, e ciò rende conto del timore che nutrono nel dover rimanere a casa da soli. Più frequentemente l'accesso accade fuori della propria abitazione. Una condizione nella quale l'attacco si attua con notevole frequenza è durante la guida in automobile, oppure sui mezzi di trasporto pubblico, quindi nei posti di lavoro e nei locali pubblici (per es., cinema, teatro o supermercato). Gli attacchi di panico possono avvenire in situazioni predisponenti, e sono detti situazionali, ma più comunemente si verificano senza fattori scatenanti apparenti, e vengono detti spontanei o inattesi. I primi compaiono quando il soggetto si trova in uno stato ansiogeno dato dal confronto con le situazioni temute. Peraltro tale contesto agisce solo aumentando la probabilità di avere un attacco.

Sono detti spontanei quegli attacchi che hanno luogo in situazioni nelle quali non è possibile individuare cause apparenti in grado di suscitare ansia.

a) La crisi. L'attacco di panico vero e proprio comincia con senso di costrizione toracica, accompagnato da dolore, accelerazione dei battiti cardiaci e palpitazioni, dispnea con respiro affannoso e frequente, sudorazione profusa, vertigini, e quindi parestesie, vampate di calore o brividi di freddo e tremori. In un crescendo peculiare della crisi compaiono, a livello psichico, la sensazione di perdita del controllo delle proprie idee e azioni, di svenimento e l'impressione di morte imminente (tanatofobia). La stimolazione eccessiva del sistema nervoso autonomo può provocare in talune situazioni nausea, necessità di urinare o defecare, annebbiamento della vista e profonda prostrazione. In circa un terzo dei pazienti sono presenti altri sintomi accessori, quali la depersonalizzazione e la derealizzazione, una spiccata sensibilizzazione agli stimoli luminosi o sonori. Gli oggetti presenti nella situazione possono apparire totalmente deformati e non superabili o in movimento, tali da indurre un'impossibilità di muoversi e procedere nella marcia. Le crisi di panico possono, in altri casi, essere paucisintomatiche (attacchi minori). Si tratta di sensazioni di paura o minaccia imminente, accompagnate da sintomi neurovegetativi isolati, quali vertigini, palpitazioni o dispnea, sentimenti di irrealtà, vampate di caldo o brividi di freddo.

Durante l'esordio del disturbo, gli attacchi di panico possono avere frequenza variabile, ma generalmente tendono a verificarsi da 2 a 4 crisi la settimana; in altri casi possono essere numerosi nei primi giorni per poi diradarsi nelle settimane successive. Non raramente gli episodi critici possono ripetersi a intervalli brevissimi, oppure possono essere subentranti tanto da configurare una sorta di 'stato di male' panico. Si delinea in questi casi una situazione di grave inquietudine e agitazione, cui si accompagna un profondo tormento interiore al quale può associarsi un'ideazione suicidaria. In altri casi il soggetto esperisce un solo attacco di panico. Come già rilevato, il primo episodio diviene un punto di riferimento nella storia del paziente, descritto talvolta come il passaggio a una dimensione molto diversa dalla comune esperienza dell'ansia fino ad allora esperita. L'insorgenza reiterata delle crisi può generare somatizzazioni dello stesso tipo e favorisce l'elaborazione di tematiche ipocondriache in circa il 20% dei soggetti. Le angosce ipocondriache sono relative al timore di essere affetti da una grave malattia cardiaca con rischio di infarto o da una patologia cerebrale con rischio di ictus mortale. I timori ipocondriaci si accrescono, poiché manca caratteristicamente un riscontro tra l'intensità dei sintomi lamentati e i risultati degli esami diagnostici. È in questa fase, denominata la marcia del panico, che i pazienti errano da un medico internista all'altro, sottoponendosi a molteplici indagini che non consentono di individuare la causa dei disturbi lamentati.

In genere nessun medico formula una diagnosi esaustiva, non rassicurando così il paziente, anzi spesso esibisce un atteggiamento minimizzante rispetto al clamore lamentato. Le diagnosi più frequenti sono di nevrosi cardiaca, labirintite, sindrome da iperventilazione, sindrome del colon spastico, e quindi ipocondria, isteria, o depressione ansiosa. I soggetti intraprendono numerosi trattamenti senza riuscire a seguirli regolarmente, anche perché è peculiare il timore che essi sviluppano riguardo ai possibili effetti collaterali dei farmaci; questo può costituire una vera e propria fobia (farmacofobia) che interferisce con l'accettazione della terapia prescritta. In alcuni casi, per iniziare il trattamento farmacologico, può rendersi necessario il ricovero, affinché il paziente possa sentirsi più sicuro.

b) L'ansia anticipatoria. L'esperire gli attacchi di panico induce nel soggetto il timore che questi si ripetano, sicché egli comincia a vivere nel terrore che ciò accada sviluppando la cosiddetta ansia anticipatoria o intercritica. Diviene ansioso e teso, vive in uno stato di ipervigilanza e apprensione continue e assume conseguentemente comportamenti maladattivi. Questa condizione è causa di sofferenza soggettiva e di una marcata compromissione del funzionamento globale. L'ansia intercritica differisce per intensità dagli attacchi di panico, ma dura a lungo, anche ore, con un andamento lentamente progressivo e può crescere tanto da raggiungere livelli in grado di provocare sintomi fisici simili a quelli della crisi di panico. Queste due situazioni psicopatologiche, l'attacco di panico e l'ansia anticipatoria, differiscono anche in funzione della gestione di ciascuna.

L'attacco di panico, una volta iniziato, non può essere controllato e interrotto; l'ansia anticipatoria invece può essere allontanata attraverso la rassicurazione da parte di persone di fiducia. La ricerca di rassicurazione è condotta anche con modalità scaramantiche e compulsive, o con l'uso di oggetti (per es., il flacone delle gocce, gli occhiali scuri ecc.), nella speranza di prevenire l'insorgenza di ulteriori crisi. L'ansia anticipatoria può divenire invalidante e interferire nella vita in misura maggiore degli attacchi di panico, tanto che il soggetto al colloquio può non riferirli. È opportuno quindi condurre un'anamnesi accurata per verificare l'insorgere dei primi episodi critici.

c) Evitamento e agorafobia. Con il ripetersi degli attacchi di panico, il soggetto tende ad associare il verificarsi delle crisi con la situazione occasionale e gradatamente mette in atto, a scopo difensivo, meccanismi di evitamento. I soggetti cominciano cioè a evitare quelle situazioni considerate rischiose che ritengono possano favorire l'insorgenza delle crisi: uscire di casa o usare mezzi di trasporto pubblico, frequentare luoghi dai quali sia difficile allontanarsi o dove non sia possibile ricevere un aiuto immediato qualora si verifichi una crisi di panico, rimanere soli in casa, quando abbiano avuto crisi entro le mura domestiche. L'evitamento fobico è sostenuto dal fatto che gli attacchi di panico divengono in questa maniera meno frequenti e più tollerabili.

Dall'evitamento fobico limitato si passa, in una percentuale di casi significativa, a quello esteso, con la generalizzazione delle fobie e la comparsa dell'agorafobia. Il termine deriva dal greco ed è composto da ἀγορά, che indicava una piazza aperta dedicata al raduno delle persone e, successivamente, al mercato, e ϕοβία, "paura". Originariamente l'agorafobia e il DAP erano considerate due entità diagnostiche separate. Le teorie riguardanti la relazione tra esse sono due: l'una considera il DAP primario; l'altra ritiene che l'atteggiamento fobico costituisca il nucleo originario del disturbo che non si accompagnerebbe necessariamente agli attacchi di panico. Nell'accezione più ampia il termine agorafobico indica in realtà tutte le condotte di evitamento e tutti gli spazi rigorosamente evitati dal soggetto che soffre di questo disturbo. Non solo il timore delle piazze e dei luoghi aperti o affollati, ma anche dei ponti, dei tunnel, delle autostrade, degli ascensori, dei luoghi chiusi. La caratteristica comune di tutti questi spazi è la difficoltà di ricevere un adeguato soccorso qualora il soggetto abbia una crisi di panico.

Gli individui agorafobici possono essere ricondotti ad alcune tipologie, in relazione anche alla gravità o all'andamento della patologia in atto: alcuni evitano i viaggi di qualsiasi tipo e con qualsiasi mezzo di trasporto; caratteristicamente i soggetti si muovono lungo percorsi prescelti, all'interno dei quali hanno selezionato i punti di sicurezza personali: alcuni si muovono solo nel loro paese, anche perché, essendo conosciuti, sanno di poter chiedere e ricevere aiuto; altri si muovono soltanto entro il quartiere di residenza, che come un ombrello li protegge, e scelgono luoghi che consentano un rapido ritorno a casa; altri, infine, percorrono esclusivamente la distanza tra l'abitazione e il posto di lavoro. Si assiste a un progressivo restringimento degli spazi di autonomia ed esplorazione. Inoltre il soggetto nelle condotte agorafobiche cerca nel proprio ambiente elementi considerati rassicuranti: per es., nei luoghi chiusi si siede esclusivamente vicino alle uscite, oppure porta con sé oggetti scaramantici, quali occhiali scuri o un bastone.

Alcuni individui diventano completamente incapaci di uscire di casa se non sono accompagnati da una persona nella quale hanno riposto particolare fiducia, il 'compagno accompagnatore'. Questi pazienti inoltre tendono a sviluppare la 'paura di avere paura' (fobofobia). I pazienti agorafobici possono continuare a sviluppare attacchi di panico per anni, sebbene il loro numero decresca con l'adozione delle condotte di evitamento. Talora il soggetto potrebbe non esperire più crisi di panico, mentre le condotte di evitamento si sono strutturate in un vero e proprio stile di vita. In questi casi il paziente e anche i familiari gradatamente cominciano ad accettare come tratti caratteriali queste limitazioni comportamentali. I familiari tendono ad assecondare tali condotte e il soggetto può strumentalizzare i propri disagi manipolando i rapporti interpersonali e l'ambiente.

d) Decorso. Il decorso del DAP non appare univoco. Tipicamente l'andamento del disturbo presenta la strutturazione dell'ansia anticipatoria, indotta dalla comparsa degli attacchi di panico con frequenza e intensità variabili, cui fanno seguito la richiesta di aiuto e rassicurazione, le preoccupazioni ipocondriache e da ultimo l'evitamento fobico, prima circoscritto e poi allargato. Le restrizioni e le limitazioni sempre più estese nei diversi settori della vita di relazione conseguenti agli evitamenti fobici, l'invalidità ingravescente dovuta all'ansia anticipatoria e all'impossibilità di intravedere una via di uscita possono esitare in un quadro di demoralizzazione secondaria in circa il 30% dei casi; tale vissuto può sfociare in un disturbo depressivo maggiore. Un altro 30% circa dei pazienti può presentare attacchi di panico con frequenza e intensità variabili senza manifestazioni secondarie, se non una certa demoralizzazione e alcuni comportamenti di evitamento. L'andamento è fasico, con periodi di remissione, pressoché asintomatici, e di riacutizzazione, con ansia anticipatoria e ricerca di rassicurazione.

Questo quadro clinico generalmente è misconosciuto e il soggetto giunge all'osservazione dello psichiatra solo quando la sintomatologia depressiva o le condotte di evitamento interferiscono in misura significativa con la vita di relazione. In una percentuale minore di casi è possibile che a un certo punto il paziente smetta di chiedere aiuto e di consultare i sanitari, e talvolta cominci ad abusare di ansiolitici o alcolici al fine di tamponare l'ansia anticipatoria. Alcune forme cliniche attraverso le quali il DAP evolve sono: la ricorrenza, anche per anni, di crisi di panico sporadiche o senza l'evitamento fobico; una fobia sociale secondaria o un'ipocondria secondaria; forme caratterizzate da depersonalizzazione e derealizzazione secondarie.

Terapia

Gli obiettivi del trattamento del DAP sono tre: l'arresto delle crisi di panico; la riduzione dell'ansia anticipatoria; la diminuzione e l'eliminazione delle condotte di evitamento e dell'agorafobia. Il controllo, cioè il blocco degli attacchi di panico, si ottiene con un'adeguata farmacoterapia antidepressiva. I primi antidepressivi che hanno consentito con la loro efficacia, in una sorta di dissezione farmacologica, l'identificazione del DAP sono l'imipramina e la fenelzina. Gli inibitori delle monoaminossidasi, IMAO, e i farmaci antidepressivi triciclici, più specificamente l'imipramina e la clomipramina, rimangono farmaci altamente efficaci. Il dosaggio e la durata del trattamento necessari per una piena e duratura risoluzione della sintomatologia sono sovrapponibili a quelli del trattamento del disturbo depressivo.

Di più recente introduzione nel trattamento degli attacchi di panico è un'altra categoria di farmaci antidepressivi: gli inibitori selettivi del rialzo (re-uptake) della serotonina (v. antidepressivi). La riduzione e il controllo dell'ansia anticipatoria si ottiene con la somministrazione degli antidepressivi e delle benzodiazepine in associazione. L'efficacia di queste ultime è ampiamente dimostrata e il beneficio può essere più rapido rispetto agli altri presidi terapeutici. Le benzodiazepine, assunte in associazione nella fase iniziale del trattamento, possono essere sospese successivamente, quando sia stato raggiunto il controllo dei sintomi. I maggiori rischi connessi al trattamento con le benzodiazepine sono l'abuso e la dipendenza. Le condotte di evitamento e l'agorafobia vengono trattate con antidepressivi e benzodiazepine, ma spesso è necessario un trattamento psicoterapeutico perché il soggetto possa recuperare un'autonomia completa e abbandonare i comportamenti di evitamento strutturati negli anni. Il trattamento psicoterapeutico strutturato più diffuso è quello cognitivo-comportamentale, mirato all'acquisizione di conoscenze sull'evento della crisi di panico, sulle situazioni scatenanti, sulle emozioni relative, sulla desensibilizzazione progressiva e quindi sul controllo.

La psicoterapia psicoanalitica tende invece alla conoscenza e successiva elaborazione del conflitto sottostante l'insorgenza delle crisi di panico. In ogni caso, il compito del medico nel trattamento dell'ansia anticipatoria e dell'agorafobia consiste, in aggiunta al monitoraggio farmacologico, in un intervento di appoggio costante di tipo rassicurativo e di tipo riabilitativo, tanto più necessario quando non sia possibile avviare il paziente a un trattamento psicoterapeutico strutturato. Il medico deve aiutare il paziente a riaffrontare in modo graduale le situazioni fobigene. Decisivo in questo intervento è il rinforzo costante del convincimento del paziente che il farmaco esercita una potente azione preventiva nei confronti degli attacchi di panico e che, di conseguenza, il rischio di tali attacchi è praticamente annullato sotto terapia. È stato osservato che il trattamento combinato di farmacoterapia e psicoterapia ha un'efficacia significativamente superiore rispetto a ciascuno dei trattamenti intrapresi singolarmente.

Bibliografia

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