Palestina

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Atlante Geopolitico 2013 mappa fig vol1 004040 004.jpg

(ebr. Pĕleshet) Regione del Vicino Oriente limitata a O dal Mar Mediterraneo e a N dai contrafforti meridionali del Libano e dell’Antilibano, mentre incerti sono i confini dagli altri lati, nei quali si trapassa insensibilmente nelle zone aridissime del Deserto Siriaco, a E, e del Sinai a S. La vaghezza dei confini deriva dal fatto che la P. è difficilmente definibile come regione naturale: per un verso essa è parte di un più vasto complesso regionale siriaco-palestinese; per altro verso è un insieme di aree distinte per caratteri morfologici e climatici. Piuttosto, essa è una regione storico-antropica, e come tale ha subito variazioni di ampiezza nel corso del tempo a causa delle alterne fasi di avanzata e di regresso dell’insediamento lungo i margini desertici e delle complesse vicende politiche del territorio.

Attraverso le varie età la regione fu designata con diversi nomi (Retenu a N e Haru a S in documenti egiziani; Canaan in documenti egiziani, babilonesi e nella Bibbia; Terrasanta) tra i quali ha finito con il prevalere quello trasmesso dai Greci, che conoscevano soprattutto le parti costiere a S della Fenicia, occupate nel 12° sec. a.C. dai Filistei. Dal nome di questi (ebr. Pĕlishtīm) derivano Παλαιστίνη, Palaestina e Palestina.

Morfologia

La P. risulta divisa in almeno tre diverse unità morfologiche: la regione pianeggiante costiera; l’altopiano mediano (o cisgiordanico); la fossa centrale (detta al-Ghawr dagli Arabi). La pianura costiera a N del Golfo di Haifa è larga 7-10 km; orlata da cordoni di dune, essa si spinge poi notevolmente a E fra il Carmelo (546 m) e l’altopiano di Galilea e forma la fertile pianura di Esdrelon (o di Iezreel), alta 60-80 m s.l.m., che si addentra profondamente aprendosi una via verso il Giordano. Interrotta dal rilievo quasi isolato del Carmelo, la pianura costiera riprende più larga a S, dove presenta larghe zone coltivabili. La zona a N di Giaffa corrisponde alla fertile piana di Saron; in quella a S di Giaffa l’aridità si fa via via maggiore e la pianura si rileva dolcemente verso l’interno interrotta da ampi letti quasi sempre asciutti. L’altopiano cisgiordanico è più elevato e accidentato verso N dove alcuni rilievi a sommità spianata superano 1000 m s.l.m.; questa è l’alta Galilea, la quale con una specie di gradino scende a S sulla bassa Galilea, regione di dolci ondulazioni (Monte Tabor, cono regolare e isolato a 588 m) che a loro volta si deprimono per dare luogo alla piana di Esdrelon. A S di questa, l’altopiano riemerge e forma un paese alternato di rilievi e di depressioni diagonali, la Samaria, a cui segue, ancor più a S, la Giudea, dorsale serpeggiante fra i due versanti. A S di Hebron l’altopiano scende con un ciglio ripido verso una regione più bassa: il Negev, piano monotono appena ondulato e solcato da ampi letti asciutti quasi in ogni stagione. All’estremo meridionale il terreno si rileva nuovamente e si fa più aspro. Questa lunga zona di basse montagne si tronca poi a oriente, dove si apre la fossa che forma in buona parte l’impluvio del Giordano. La fossa presenta presso i ripidi margini notevoli manifestazioni di vulcanismo sotto forma di minuscoli coni eruttivi, di espandimenti basaltici e di colate di lava: due di queste, avendola invasa, hanno dato origine ai bacini dei laghi di al-Ḥūle (oggi prosciugato e bonificato) e di Tiberiade. La parte meridionale della fossa fu poi riempita da un vasto bacino lacustre, di cui è un residuo il Mar Morto; a S del Mar Morto essa è continuata dal solco dello uadi al-Arabah.

Clima e idrografia

Il clima della P. risente della sua situazione tra il Mediterraneo e il deserto e delle varie condizioni dell’altimetria. Alcuni aspetti come la mitezza degli inverni, specie nella fascia litoranea, richiamano il clima mediterraneo, mentre la prevalente asciuttezza dell’atmosfera, la scarsezza delle piogge e la loro concentrazione in un solo semestre preannunciano il clima desertico.

Prescindendo dal Giordano, la P. ha corsi d’acqua brevi e in genere temporanei. Nella Galilea i più notevoli sono il Nahr al-Qarn, lo uadi al-Ḥalzūn e lo uadi al-Muqaṭṭā‛, che solca la piana di Esdrelon. Nella piana di Saron il corso d’acqua più importante è il Nahr Iskanderun; più a S fluiscono il Nahr al-‛Augiā’, poi lo uadi Sōreq, il Nahr Sukreir e lo uadi al-Ḥesī; il lungo uadi Ghazza ha il più vasto bacino di raccoglimento. Gli uadi al-Muqaṭṭā‛ e al-‛Augiā’ sono largamente impiegati per l’irrigazione.

Assetto politico ed economico

Sul piano politico il territorio comprende lo stato d’Israele e i territori che a seguito degli accordi israelo-palestinesi siglati tra il 1993 e il 2000, sono legalmente soggetti all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP, istituzione appositamente creata in applicazione degli accordi di Oslo). I territori amministrati dall’ANP sono la Striscia di Gaza e alcune aree della Cisgiordania (tra cui le città di Gerico, Hebron, Nablus e Betlemme), con una superficie di 6.257 km2 e 4.013.126 ab. (stima 2009), di cui oltre 1.500.000 vivono nella Striscia di Gaza (378 km2). All’interno della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, dal 1967 in poi, sono state fondate decine di colonie ebraiche, dotate di una consistente popolazione. Sebbene nel 2005 sia stata completata l’evacuazione di tutti gli insediamenti israeliani nella Striscia di Gaza e di altri quattro insediamenti nel Nord della Cisgiordania, rimangono tuttavia in territorio palestinese circa 364.000 coloni israeliani.

Le condizioni economiche dei territori palestinesi sono critiche, in particolar modo dopo la costruzione nel 2002 del muro di separazione fra i territori palestinesi e Israele. Fortemente ostacolato risulta infatti il transito sia di merci sia di lavoratori (migliaia sono i Palestinesi occupati come lavoratori frontalieri nelle aziende israeliane). Segnale importante di questa drammatica situazione è l’altissimo tasso di disoccupazione (il 16,3% in Cisgiordania e ben il 41,3% nel 2008 nella Striscia di Gaza). Le risorse naturali dei territori sono assai scarse e si limitano in pratica a poca terra coltivabile e a giacimenti di gas naturale, individuati al largo di Gaza, il cui sfruttamento è ancora conteso tra lo Stato d’Israele e l’ANP. Le poche esportazioni palestinesi sono rappresentate da prodotti agricoli e si dirigono soprattutto verso Israele, da cui proviene l’80% circa delle importazioni. Il settore industriale, molto debole, si basa su piccole imprese a carattere artigianale. La principale fonte di reddito per la popolazione palestinese, oltre all’esportazione di manodopera in Israele, è dunque costituita dal pubblico impiego, che contribuisce al PIL per il 79% e assorbe il 68% della popolazione attiva, distribuendo reddito secondo modalità certamente poco produttive (e, secondo molti osservatori, pesantemente viziate da clientelismo e corruzione), e che a sua volta è alimentato da aiuti internazionali. Potente freno allo sviluppo economico è inoltre la debolezza estrema di tutte le infrastrutture di comunicazione e di trasporto, ma in particolare pesa gravemente sul decollo dell’economia palestinese il problema della disponibilità e della gestione delle risorse idriche, che i territori soggetti all’ANP condividono con la Stato d’Israele e che sono in buona parte controllate dagli Israeliani. Secondo un rapporto della Banca Mondiale (Assessment of restrictions on Palestinian water sector development, aprile 2009), «le capacità asimmetriche tra le due parti, così come le regole provvisorie di gestione e le pratiche che si sono instaurate, si sono tradotte alla fine in gravi restrizioni allo sviluppo, all’utilizzo e alla gestione delle risorse idriche dei Palestinesi». Le crisi umanitarie legate all’acqua sono diventate così un fatto cronico, in particolare a Gaza ma anche in una parte della Cisgiordania, zone nelle quali il consumo di acqua potabile per abitante è di quattro volte inferiore a quello garantito all’interno di Israele.

Preistoria

Fin dal Paleolitico la P. fu occupata da gruppi di cacciatori-raccoglitori che abitavano i ripari della zona costiera. Il processo di neolitizzazione che condusse a un’economia di produzione avvenne attraverso varie fasi (raccolta intensiva, produzione incipiente, agricoltura non sedentaria). Tale processo ebbe inizio nel Natufiano (10.000-8.000 a.C.) quando l’uomo, uscito dai ripari, si organizzò in piccoli gruppi semisedentari in oasi fertili (Gerico, siti lacustri), dove costruì capanne, praticò la caccia selettiva alla gazzella e la raccolta intensiva, attestata dalla presenza di silos sotterranei. Le fasi che seguirono dal Neolitico aceramico (9°-8° millennio a.C.) videro la persistenza di elementi della fase precedente e l’introduzione di innovazioni nel sistema produttivo, di strutture abitative più stabili, del culto dei defunti. A un periodo di crisi nello sviluppo di questi gruppi, nel 6°-5° millennio seguì la ripresa con la diffusione nelle fertili valli della P. di una cultura neolitica, proveniente dalla media valle dell’Eufrate, con produzione ceramica evoluta. Il 4° millennio segnò il passaggio al Calcolitico, caratterizzato dall’emergere della metallurgia e da aspetti che anticipano la cultura Ghassuliana, che si estenderà in Transgiordania, Sinai e Negev, con i villaggi organizzati e basati su attività di sussistenza mista di caccia, raccolta e agricoltura. Lo sfruttamento del territorio, gli scambi e la necessità di difesa furono fattori fondamentali che portarono all’urbanizzazione precoce: le città sorsero in aree favorevoli già nel Bronzo Antico (3° millennio a.C.) e in posizioni dominanti sulle principali vie di comunicazione. Nel 2° millennio i centri della P. raggiunsero la massima potenza, per poi iniziare il declino a causa dei conflittuali rapporti con l’Egitto, responsabile, insieme alle guerre tra città, della crisi della regione nel Bronzo tardo.

Storia

Periodo preisraelitico

Con il 3° millennio la P. entra nella storia. La teoria per cui si verificò a quest’epoca l’invasione semitica dei Cananei è risultata infondata. Stirpi semitiche nel 3° millennio erano già presenti in P.: quando e come vi giunsero non è noto; probabilmente fu un’occupazione pacifica, attuata più con l’infiltrazione che con la conquista violenta, analogamente a quanto avvenne nel millennio successivo con un’altra gente semitica, quella degli Amoriti, che si stanziarono nella parte settentrionale del paese. Nel 2° millennio la P. fu sotto la giurisdizione dei faraoni d’Egitto, che la governarono per mezzo di luogotenenti locali, come prova la corrispondenza diplomatica di Tell al-Amarna (14° sec. a.C.). Dall’invasione dei ‘popoli del mare’, ebbe origine nel 12° sec. a.C. l’insediamento dei Filistei nella zona costiera meridionale.

Periodo israelitico

Secondo la tradizione, gli Israeliti, guidati da Giosuè e provenienti dall’Egitto, giunsero in P. verso il 13° sec. a.C. e a poco a poco conquistarono il paese dividendolo tra le 12 tribù. Così divisi, e riuniti solo occasionalmente sotto il comando di giudici (restarono famosi Debora, Gedeone e Sansone), combatterono a lungo contro i vicini Cananei e Filistei. La critica storica affianca a questa visione tradizionale dell’antica storia israelitica la prospettiva di un’infiltrazione progressiva e pacifica, culminata nella costituzione di una confederazione di tribù attorno al comune santuario di Silo. L’instaurazione con Saul della monarchia (intorno al 1000), consolidata con David, diede agli Ebrei la forza necessaria per imporsi definitivamente: l’ultima roccaforte cananea, Gerusalemme, fu conquistata da David e fatta capitale del nuovo Stato. Salomone, raccogliendo il frutto dell’abile politica paterna, poté dedicarsi a opere grandiose quali la costruzione del Tempio e del Palazzo Reale a Gerusalemme; alla sua morte il regno si scisse in due: il regno di Giuda, meridionale, con capitale Gerusalemme, formato dalle tribù di Giuda e Beniamino; il regno d’Israele, settentrionale, formato dalle altre tribù, con capitale Samaria.

I due Stati condussero vita autonoma per secoli, partecipando al gioco politico della Siria, alleandosi ora all’uno ora all’altro degli Stati aramaici (Soba, Damasco, Ḥamāh) o fenici (Tiro), spesso rivali fra loro. Il regno d’Israele, travagliato da congiure dinastiche, nonostante la sua maggiore forza militare, a causa della sua posizione geografica cadde per primo sotto i colpi dell’impero assiro in espansione (722 a.C.). Nel 586 fu la volta del regno di Giuda, travolto dai Babilonesi succeduti agli Assiri: Nabucodonosor II conquistò Gerusalemme, la rase al suolo e ne deportò parte della popolazione in Babilonia. Con l’esilio ebbe termine l’antica storia autonoma della Palestina. Tuttavia continuò a vivere in essa una popolazione ebraica: a settentrione vi erano i Samaritani, popolazione mista di Israeliti rimasti nel paese dopo la deportazione assira e di altre genti importate dagli Assiri; a sud, dopo la conquista dell’impero babilonese da parte di Ciro (538 a.C.), che consentì il ritorno in P. ai discendenti degli esuli del 586, la comunità ebraica fu riorganizzata in forme più rigide e si affermò il clero di Gerusalemme.

Periodo ellenistico-romano

La vita della P. nelle epoche di Alessandro Magno, dei Diadochi e dei Tolomei è poco nota; la comunità israelitica, tutta raccolta intorno a Gerusalemme, si dedicò a una sistemazione della tradizione religiosa e a un approfondimento dei suoi valori spirituali. Con la battaglia di Panion (ca. 200 a.C.) la P. passò sotto il dominio dei Seleucidi, che, contrariamente alla politica di non intervento nelle questioni interne attuata dai Tolomei, vollero introdurre la cultura ellenistica, provocando la ribellione armata dei Maccabei contro Antioco IV Epifane, seguita dal riconoscimento della libertà religiosa per gli Israeliti (168-135 a.C.). Più tardi alcuni discendenti dei Maccabei, gli Asmonei, crearono una dinastia regia che riconosceva solo nominalmente la sovranità dei Seleucidi, fortificarono il paese e lo aprirono all’influenza ellenistica, che divenne massima con Erode il Grande (37-4 a.C.). Erode diffuse in P. la civiltà romana, costruì la città di Cesarea e riedificò Samaria, che chiamò Sebaste in onore di Augusto; anche Gerusalemme acquistò una nuova fisionomia con il teatro, il palazzo e il nuovo tempio, di gusto romano. Il processo di romanizzazione, continuato dai figli di Erode, si sviluppò ulteriormente con il passaggio della P. direttamente sotto il dominio romano.

La ribellione del 66 d.C., seguita dalla distruzione di Gerusalemme (70) e dalla deportazione dei Giudei, annullò ogni parvenza di indipendenza, e la P. divenne provincia romana, con il nome di Iudaea. Nel 132 una nuova ribellione, capeggiata da Bar Kōkĕbāh e protrattasi fino al 135, rese ancora più radicale la trasformazione del paese: il nome fu soppresso, e la P. si chiamò Syria Palaestina e Gerusalemme Aelia Capitolina. Nel 4° sec. d.C., con l’adesione di Costantino al cristianesimo, la P. conobbe una rivalorizzazione spirituale, come culla di quella religione, meta di pellegrinaggi: vi furono innalzate basiliche e monasteri; né le attività cristiane vennero meno dopo l’effimero tentativo di Giuliano l’Apostata di ricostruire il tempio giudaico.

Diviso in due l’Impero romano, la P. passò sotto la sovranità di Costantinopoli e per alcuni secoli conobbe grande prosperità, mentre si andava sviluppando il monachesimo. Nel 614, i Persiani di Cosroe II devastarono la regione e la città di Gerusalemme, ma nel 628-629 furono respinti dall’imperatore Eraclio. Seguì la conquista araba: nel 637 il califfo ‛Omar entrò in Gerusalemme mettendo fine al dominio bizantino.

Periodo islamico

Gli Arabi divisero la P. in due province militari: Filasṭīn (Giudea e Samaria) e al-Urdunn (il Giordano); Gerusalemme, considerata sacra anche dai musulmani, dipendeva direttamente dal califfo. Sotto il dominio arabo (fino al 10° sec.) la P. godette di prosperità; le diverse dinastie di califfi (Omayyadi, Abbasidi) si mostrarono tolleranti verso ebrei e cristiani e continuarono i pellegrinaggi ai Luoghi Santi; furono restaurati i santuari e Gerusalemme si arricchì di monumenti. Risale a questo periodo l’arabizzazione della P., specialmente dopo il saccheggio della Mecca da parte dei Carmati (929); numerose furono però anche le conversioni di cristiani e giudei all’islam.

Nel 10° sec. cominciò per la P. un lungo periodo di guerre e di sconvolgimenti: furono dapprima i Fatimidi che, installatisi nell’Africa settentrionale e in Egitto, mossero alla sua conquista: dal 969 il paese rimase sotto il loro dominio, nonostante l’intervento dell’imperatore Giovanni Zimisce (975). I Fatimidi furono nel complesso tolleranti verso i cristiani; solo il califfo al-Ḥākim mise in atto una feroce persecuzione che portò alla distruzione della chiesa del S. Sepolcro a Gerusalemme (1009). Molto intolleranti furono invece i turchi Selgiuchidi, che nel 1076 s’impadronirono stabilmente del paese. Le violenze da essi perpetrate provocarono grande sdegno in Europa e furono non ultima causa delle crociate, che ebbero la P. come principale terreno d’azione. In seguito alla conclusione vittoriosa della prima crociata (1099: conquista di Gerusalemme), si costituì il Regno latino di Gerusalemme che ripropose in P. gli schemi occidentali dell’organizzazione feudale. Nel 1174 il Saladino si proclamò sultano indipendente di Egitto e dichiarò la guerra santa ai cristiani: il Regno latino fu progressivamente ridotto d’estensione e, dopo la riconquista di Gerusalemme (1189), cadde (1291) l’ultima roccaforte, S. Giovanni d’Acri.

La P. restò sotto il dominio dei sultani mamelucchi d’Egitto fino alla conquista turca del 1517; dopo di allora, mentre in Egitto i mamelucchi, pur sottoposti alla sovranità di Istanbul, mantennero un notevole grado di autonomia, Siria, Libano e P. furono pienamente integrate nell’ambito dell’amministrazione ottomana. Questa si mostrò tollerante nei confronti delle numerose minoranze religiose presenti nell’area siro-palestinese: ebrei, cristiani delle diverse confessioni, drusi e musulmani non sunniti godettero complessivamente di un’ampia libertà di culto. A partire dal 18° sec., il ristagno economico, l’eccessiva pressione fiscale, le disfunzioni amministrative e militari provocarono un declino del potere imperiale, che si tradusse dapprima in una maggiore indipendenza dei governatori locali, poi in una crescente ingerenza delle potenze europee. Dopo la conquista di P. e Siria da parte di Muḥammad ‛Alī (1831), fu l’intervento di queste ultime a ristabilire l’autorità del sultano nel 1840; nei decenni successivi la sempre più ampia penetrazione europea, sul piano economico, politico e culturale, accentuò le contraddizioni interne all’impero, contribuendo a porre le premesse per la sua disgregazione.

Il crollo dell’Impero Ottomano e l’amministrazione britannica

Dopo la fine della Prima guerra mondiale la P. fu affidata in mandato alla Gran Bretagna e nel territorio palestinese venne inclusa la regione desertica fra il Mar Morto e il Golfo di ‛Aqaba, mentre l’area a E del solco di al-Ghür fu assegnata nella parte più settentrionale (Golan) alla Siria (mandato francese) e per il resto alla Transgiordania (mandato inglese); lungo il Mediterraneo i confini palestinesi furono segnati a S di Gaza dalla frontiera tradizionale con l’Egitto e a N di San Giovanni d’Acri da quella con il mandato francese del Libano. L’impegno assunto dal governo britannico (dichiarazione Balfour del 1917) di facilitare in P. la creazione di una sede nazionale per il popolo ebraico provocò una serie di proteste, di incidenti e di attacchi agli insediamenti ebraici (sfociati nel 1936 in una vera e propria rivolta), protrattasi fino al 1939, quando la Gran Bretagna ritirò il piano iniziale, presentando un nuovo progetto per la creazione, entro 10 anni, di un unico Stato palestinese indipendente che garantisse gli interessi essenziali di entrambe le comunità.

La crisi riesplose con violenza dopo il 1945; l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò (1947) un piano di spartizione della P. fra uno Stato ebraico, uno arabo e una zona, comprendente Gerusalemme, da sottoporre ad amministrazione fiduciaria dell’ONU, e la cessazione del mandato britannico entro il 1° agosto 1948. Il progetto fu respinto dagli Arabi; le forze militari sioniste occuparono ampie zone del previsto Stato arabo e alla fine del conflitto oltre il 75% della P. era stato conquistato da Israele, mentre lo Stato arabo-palestinese non aveva potuto costituirsi.

La resistenza palestinese

Dopo il 1948, pertanto, la storia della P. venne a identificarsi, in larga misura, con quella dello Stato di Israele. Malgrado questa situazione la popolazione arabo-palestinese riuscì a mantenere un sentimento di identità nazionale e fin dagli anni 1950 i Palestinesi diedero vita a una resistenza culturale, politica e militare. Gli attacchi condotti dalle zone di raccolta dei profughi e le rappresaglie israeliane che li seguivano contribuirono a innescare sia la guerra del 1956 sia quella del 1967 (➔ arabo-israeliane, guerre). Per quanto riguarda i rapporti fra Israele e gli Stati arabi, la ‘guerra dei sei giorni’ aprì la strada a una sempre più esplicita trasformazione del contenzioso dall’originaria contestazione dell’esistenza dello Stato ebraico alle condizioni per la pace con esso. Per quanto riguarda la resistenza palestinese, l’ampiezza della sconfitta subita dagli eserciti arabi e l’estensione del controllo di Tel Aviv all’intero territorio dell’ex mandato posero le premesse per una sua crescita e trasformazione. I Palestinesi del settore orientale di Gerusalemme entrarono a far parte della popolazione araba israeliana: qualificati come ‘residenti permanenti’, ottennero la possibilità di accedere alla cittadinanza israeliana, ma solo una minoranza ne fece richiesta. Tutti gli altri furono sottoposti a un regime di amministrazione militare che li escludeva dai diritti civili e politici. Tale situazione fu aggravata negli anni successivi dallo sviluppo di un processo di colonizzazione della Cisgiordania e di Gaza mediante insediamenti israeliani, dalla progressiva acquisizione di terre e risorse idriche da parte di questi ultimi e delle forze di occupazione, e dalle misure repressive adottate dall’amministrazione militare. Dopo il 1967 la resistenza palestinese registrò una rapida crescita e affermò la sua autonomia dagli Stati arabi.

L’azione dell’OLP

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) divenne l’organismo unitario della resistenza palestinese, nell’ambito del quale tutti i gruppi politico-militari erano rappresentati. Come una sorta di Stato in embrione, l’OLP si diede nel 1964 una Costituzione (Carta nazionale palestinese, modificata nel 1968), un parlamento (Consiglio nazionale palestinese), un governo (Comitato esecutivo, eletto dal Consiglio nazionale), strutture amministrative, sanitarie, scolastiche, culturali. La rete organizzativa e militare della resistenza fu sviluppata soprattutto in Libano e, fino al 1970, in Giordania. Espulsa nel 1971 dal territorio giordano, l’OLP dovette concentrare la maggior parte delle proprie forze nel Libano, che risultò ancora più esposto alle violente incursioni israeliane, contribuendo a scatenare la guerra civile che insanguinò il paese (1975-91).

L’egemonia di al-Fatàh tra i gruppi della resistenza si tradusse, a partire dal 1969, nella regolare rielezione del suo leader, Y. ‛Arafāt, alla presidenza del Comitato esecutivo dell’OLP. Il programma di quest’ultima prevedeva la costituzione di uno Stato palestinese indipendente sull’intero territorio dell’ex mandato e la lotta armata contro Israele come mezzo principale per raggiungerlo. A partire dal 1974, tuttavia, l’OLP assunse come obiettivo intermedio la costituzione di uno Stato indipendente nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (Cisgiordania e Striscia di Gaza) e, pur non rinunciando alla lotta armata, si mostrò sempre più disponibile a perseguire una soluzione politica e diplomatica della questione palestinese. Nel 1974 l’OLP fu riconosciuta dall’ONU come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese e negli anni successivi dalla maggior parte degli Stati e da numerose organizzazioni internazionali; dal 1976, divenne membro a pieno titolo della Lega araba.

Malgrado questi successi, la sua posizione fu indebolita dopo il 1977 dalla decisione dell’Egitto di concludere una pace separata con Israele, che gli consentisse di recuperare il Sinai: gli accordi di Camp David lasciarono irrisolta la questione palestinese, ma negli anni successivi Tel Aviv poté dislocare le proprie forze verso il fronte settentrionale e accentuare la pressione sul Libano, puntando a una liquidazione definitiva delle basi dell’OLP. Tale obiettivo fu parzialmente raggiunto con l’invasione del paese nel 1982 e l’occupazione della sua parte meridionale fino al 1985, seguita dal mantenimento del controllo israeliano su una ‘fascia di sicurezza’ all’estremo Sud del territorio libanese. Le strutture organizzative e militari dell’OLP furono in gran parte disperse, il quartier generale fu spostato a Tunisi.

A una rinnovata unità della resistenza contribuì la rivolta della popolazione palestinese (➔ intifada) esplosa a Gaza e in Cisgiordania nel 1987, che richiamò l’attenzione internazionale sulla grave situazione dei territori occupati e rilanciò il ruolo dell’OLP sullo scenario mediorientale.

La proclamazione dello Stato palestinese

Il 15 novembre 1988 il Consiglio nazionale palestinese proclamava lo Stato di Palestina (con capitale Gerusalemme) e nel dicembre ‛Arafāt riconosceva esplicitamente Israele di fronte all’Assemblea generale dell’ONU; entro la metà del 1989 lo Stato di Palestina (del quale ‛Arafāt fu eletto presidente) era stato riconosciuto da oltre 90 nazioni. Tali sviluppi furono seguiti, fin dal 1989, da ripetute iniziative di pace, ma queste continuarono a scontrarsi con l’ostilità di Tel Aviv. La situazione si sbloccò solo quando Israele e OLP giunsero infine a un riconoscimento reciproco e firmarono a Washington (accordi di Oslo, 13 settembre 1993) una Dichiarazione di principi che stabiliva che attraverso numerose tappe in un arco di tempo non superiore ai 5 anni si sarebbe dovuto giungere alla convivenza tra i due popoli in due diversi Stati, in base al principio della restituzione dei territori occupati alla rappresentanza palestinese in cambio della pace. Secondo le linee di un nuovo accordo, siglato il 28 settembre 1995 a Washington da ‛Arafāt e I. Rabin, la Cisgiordania veniva divisa a macchia di leopardo in tre tipi di zone: zona A, sotto il controllo palestinese; zona B, sotto il controllo congiunto israelo-palestinese; zona C, sotto il controllo israeliano. Nell’aprile 1996 il Consiglio nazionale palestinese approvò l’eliminazione di tutti i passaggi presenti nella Carta nazionale palestinese relativi alla distruzione di Israele. Solo nel gennaio 1997, però, fu effettuato il ritiro parziale delle forze israeliane da Hebron, ma il complessivo deterioramento delle relazioni israelo-palestinesi portò di fatto a una sospensione del processo di pace.

Il perdurante blocco del processo negoziale favorì un’ulteriore crescita dell’opposizione islamica, espressa in particolare dal movimento politico integralista Ḥamas. Una svolta significativa si ebbe, nell’ottobre 1998, con l’apertura a Wye Plantation (Maryland) di una trattativa tra ‛Arafāt, B. Netanyahu e B. Clinton, e con la partecipazione di re Ḥusain di Giordania, che si concluse il 23 ottobre alla Casa Bianca con la firma ufficiale di un Memorandum. Nel 1999 ‛Arafāt e il nuovo primo ministro israeliano E. Barak siglarono un accordo per rilanciare il processo di pace, impegnandosi a porre fine al negoziato entro il settembre del 2000, data in cui era previsto il passaggio di circa il 40% dei territori della Cisgiordania sotto il controllo totale o parziale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il nuovo stallo, provocato dall’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dal crescente ricorso alla violenza da parte di Ḥamas, determinò l’ennesimo slittamento nel calendario dei ritiri israeliani. Nel 2000 il fallimento dei negoziati di Camp David tra Israele e la delegazione dell’ANP portò alla luce la distanza sempre maggiore tra le parti e le forti ambiguità mai chiarite di tutta la trattativa.

La ripresa delle ostilità

Alla fine del settembre 2000 scoppiava a Gerusalemme la seconda intifada detta di al-Aqṣā. La rivolta fu duramente repressa dal governo israeliano. Nel corso nel 2001 andarono ancora peggiorando le condizioni di vita della popolazione dei territori e si intensificarono, dopo la formazione del governo di unità nazionale del leader del Likud A. Sharon, le azioni militari israeliane di rappresaglia. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington il livello dello scontro tra Israeliani e Palestinesi crebbe ancora e si moltiplicarono gli attacchi suicidi di terroristi palestinesi contro civili israeliani. Nel 2002 i territori palestinesi, ripetutamente chiusi e occupati dall’esercito israeliano nel corso del 2001, furono invasi dai bulldozer e dai carri armati. Dopo un temporaneo ripiegamento delle truppe israeliane, alla fine del giugno 2002 quasi tutte le città della Cisgiordania erano state nuovamente occupate o circondate, mentre un intervento del presidente statunitense G.W. Bush condizionava la nascita dello Stato palestinese al rinnovamento della sua leadership. Nel periodo 2002-06 Israele (che nell’agosto 2005 sgomberò unilateralmente la Striscia di Gaza) costruì un muro di protezione contro il terrorismo che avrebbe dovuto seguire i confini stabiliti dall’ONU nel 1967, ma che nei fatti realizza ampie incursioni in territorio.

Abū Māzen, salito al potere (2005) dopo la morte di ‛Arafāt (2004), non riuscì a impedire la vittoria elettorale di Ḥamas (2006), responsabile di un’esasperazione del conflitto con Israele, che provocò l’incursione dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e di una vera e propria guerra civile con al-Fatàh nelle strade di Gaza. La formazione di un governo di solidarietà nazionale guidato da I. Haniyeh non valse a riportare la pace fra le due fazioni e nel giugno 2007 la P. si divise in due: la Cisgiordania sotto il controllo di Abū Māzen e al-Fatàh e la Striscia di Gaza sotto il controllo di Ḥamas. Al perdurare del lancio di missili da Gaza verso Israele, il governo israeliano rispose con ripetute incursioni aeree, la chiusura di tutte le frontiere e il blocco degli approvvigionamenti e infine fra dicembre 2008 e gennaio 2009 con l’occupazione militare. I colloqui di pace fra Abū Māzen e il premier israeliano B. Netanyahu sono ripresi dopo alcuni mesi con la mediazione degli Stati Uniti, ma fra perduranti resistenze da parte di entrambi gli interlocutori. Una temporanea ripresa dei conflitti nella Striscia di Gaza si è verificata nel novembre 2012, e un accordo bilaterale per il cessate il fuoco è stato raggiunto solo grazie alla mediazione del nuovo governo islamista dell'Egitto con il sostegno degli Usa.

La richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese presentata all'ONU da Māzen nel settembre 2011 ha suscitato aspre reazioni da parte del premier israeliano Netanyahu, fermamente ribadite nell'ottobre dello stesso anno quando, con voto plebiscitario dell'Assemblea generale riunita a Parigi, l'UNESCO - prima agenzia ONU a esprimersi in merito a tale richiesta - si è dichiarato a favore dell'adesione della P. come membro a pieno titolo dell'organismo. Un importante avanzamento a favore della causa palestinese è stato raggiunto nel novembre 2012, quando con 138 voti favorevoli (tra cui quello dell'Italia), 9 contrari e 41 astenuti, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l'Autorità nazionale palestinese come Stato osservatore non membro dell'ONU; tale condizione conferisce all'ANP legittimità internazionale e le permette di presentare richiesta di adesione in qualità di Stato membro e di fare ricorso alla Corte penale internazionale.

Nel giugno 2013, dopo che il premier S. Fayyad aveva rassegnato le dimissioni per contrasti sulle politiche governative, l’ANP ha designato come primo ministro R. Hamdallah; membro di al-Fatàh e non riconosciuto da Hamas, anch'egli si è dimesso nello stesso mese di giugno, ma il mese successivo gli è stato assegnato l’incarico di formare un nuovo governo. Nel maggio 2014, dopo il raggiungimento di un’intesa tra al-Fatàh e Hamas, le due fazioni si sono accordate sulla nomina di Hamdallah a primo ministro del governo transitorio di unità nazionale, che si è sciolto nel giugno dell'anno successivo in quanto non in grado di imporre la sua autorità sulla Striscia di Gaza.

Un passo decisivo verso la riconciliazione tra al-Fatàh e Ḥamas è stato compiuto nel settembre 2017 con lo scioglimento dell’esecutivo del movimento islamista a Gaza e con l’accettazione delle condizioni poste dall'ANP, tra cui l’indizione di elezioni generali che comprendano anche Gaza e Palestina. Nel gennaio 2019 il premier Hamdallah ha rassegnato le dimissioni del governo di riconciliazione nazionale, subentrandogli nella carica dal marzo successivo M. Shtayyeh.

Nel maggio 2021 violenti scontri scoppiati a seguito dell’allontanamento di alcune famiglie palestinesi da un quartiere di Gerusalemme hanno provocato una recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, nel corso della quale i reciproci scontri di artiglieria e i protratti attacchi aerei hanno provocato la morte di circa 200 individui. La tregua tra Hamas e Israele è stata raggiunta alla fine di maggio, quando è stato concordato il cessate il fuoco, sebbene negli anni successivi si siano alternate ricorrenti aggressioni e tregue temporanee, come nell'agosto 2022 e nel maggio 2023.

L'aggravarsi del conflitto: il 7 ottobre 2023

Al tentativo di ostacolare il processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e Paesi arabi intrapreso nel 2020 con la firma degli accordi di Abramo va ascritta l'inaspettata offensiva – evento senza precedenti nella storia del conflitto per modalità e strategie di esecuzione – lanciata nell’ottobre 2023 da Hamas contro diverse città israeliane attraverso incursioni via terra e raid aerei dei miliziani palestinesi dalla Striscia di Ghaza – supportati dal Libano con reiterati lanci di razzi di Hezbollah –, cui Israele ha risposto con attacchi via cielo e via terra e con un assedio totale dell'area della Striscia. L’escalation militare ha aperto uno scenario di guerra in cui si è registrato un bilancio di 14.000 morti tra i civili, generando nella comunità internazionale grande apprensione per il rischio di una estensione del conflitto ben oltre il contesto locale. Una nuova, violentissima fase del conflitto si è aperta il 27 ottobre, quando nella Striscia di Gaza le attività militari si sono intensificate, marcando l'inizio della più volte annunciata offensiva di terra delle forze speciali, cui hanno fatto seguito vaste incursioni nel settore meridionale attraverso la Salah ad-Din, principale via di collegamento nord-sud, fino all'attacco contro la città di Gaza. Secondo stime del Ministero della salute, l'assedio totale e i bombardamenti hanno provocato al febbraio 2024 oltre 28.000 morti, causando una crisi umanitaria senza precedenti; l’Assemblea generale dell’Onu, constatando le gravissime violazioni del diritto umano internazionale perpetrate dall'esercito israeliano, ha approvato una risoluzione non vincolante presentata dai Paesi arabi con la richiesta di una tregua. A novembre, affiancato dagli Stati Uniti, il Qatar ha rivestito insieme all'Egitto un decisivo ruolo di mediazione nei negoziati per porre fine al conflitto, concordando giorni di tregua dei combattimenti e la liberazione di parte degli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi detenuti in Israele. Nel gennaio 2024, mentre l'attacco a Gaza proseguiva ininterrotto, sono state proposte dai mediatori internazionali le opzioni di una 'soluzione a due Stati' e di un possibile riconoscimento, una volta cessato il conflitto, di uno Stato palestinese, cui Israele si è peraltro dichiarato fermamente in disaccordo.

Archeologia

Durante il periodo della dominazione persiana (537-332 a.C.) particolarmente fiorenti furono i centri costieri, da Akhziv a Gaza, e la Galilea, che rivelano una cultura imbevuta di elementi ciprioti e greci, alimentati dall’importazione massiccia di manufatti. L’influenza fenicia si manifesta nella toreutica, nella bronzistica, nella coroplastica, nella gioielleria, nella produzione di oggetti in vetro. Dal 4° sec. a.C. divenne predominante l’influenza greca, soprattutto in campo urbanistico, con l’adozione di impianti di tipo ippodameo (Dor), che si diffusero nel 3° sec. anche nella zona centromeridionale (Marissa), pur restando in uso una tecnica edilizia di tradizione fenicia. L’immigrazione massiccia di Greci in età ellenistica e la fondazione di colonie greche fortificò l’influenza occidentale, che si manifesta in campo edilizio nei tre complessi palaziali finora noti: Tell Anafa in Galilea (2°-1° sec. a.C.); Tulul Abu el-Alaiq presso Gerico (1° sec. a.C.); Araq al-Amir, in Transgiordania (2° sec. a.C.). L’unico esempio noto di architettura religiosa di età ellenistica è il tempio di Dor. A Marissa e Gerusalemme si conservano esempi di tombe con loculi scavati nelle pareti e affrescate, di probabile origine alessandrina (2°-1° sec. a.C.).

Con la creazione del regno di Giudea si affermarono, nelle città di vecchia e nuova fondazione e nelle fortezze erette dal sovrano (Hyrcania, Cyprus, Beer Sheva, Arad), una nuova concezione architettonica, tecniche e materiali da costruzione innovativi, direttamente trasmessi da Roma. Un nuovo assetto venne dato da Erode ai tradizionali luoghi di culto. Il paese tuttavia continuò a presentare una notevole differenza, in campo architettonico, tra la pianura costiera e le regioni interne, la prima aperta all’influenza occidentale (Caesarea Maritima), le seconde più chiuse e legate a tradizioni locali (Gerusalemme). Tuttavia, nel centro della Galilea giudaica, a Sepphoris (Diocaesarea), lo spessore dell’influenza artistica greco-romana è testimoniato in una dimora del 3° sec. d.C., il cui triclinio era pavimentato con un ricco mosaico. In Galilea, centro di raccolta della popolazione ebraica della P. dopo le due rivolte giudaiche, si hanno nei sec. 3° e 4° d.C. notevoli testimonianze di sinagoghe, che imitano, da un punto di vista architettonico, le strutture dei templi siriani.

Letteratura

Nella letteratura palestinese, intesa come produzione letteraria di scrittori e poeti che si sono identificati con la questione palestinese, bisogna distinguere la produzione di quei letterati rimasti in P. dopo il 1948, divenuti cittadini israeliani, da quella di coloro che sono emigrati in altri paesi arabi, in Europa e in America, da quella ancora degli scrittori che vivono in Cisgiordania e a Gaza.

Tra i primi letterati che esprimono nelle loro opere sentimenti patriottici e dissenso per la crescente immigrazione sionista nel paese, si ricordano il poeta I. Ṭūqān, gli scrittori K. Baydas con il romanzo al-Wārith («L’erede», 1920), M. ‛U. Druza con al-Mallāk wa as-Simsār («Il proprietario e il sensale», 1934). Nella generazione successiva emergono i poeti T. Zayyād, S. al-Qāsim, M. Darwīsh, e le poetesse F. Ṭūqān con la raccolta di poesie Waḥdī ma‛a ’l-ayyām («Sola con i giorni», 1955) e S. al-Khaḍrā’ al-Giayyūsī.

Della corrente degli scrittori esuli, che hanno lasciato la P. dopo il 1948, si ricordano G.I. Giabrā, forse il più noto in Italia grazie a romanzi come as-Safīna (1975; trad. it. La nave, 1994) e al-Bi’r al-ulā (1989; trad. it. I pozzi di Betlemme, 1997), la scrittrice S. ‛Azzām, G. Kanafānī e T. Fayyāḍ: temi privilegiati sono l’esilio e l’idealizzazione della patria perduta, pervasi da un forte senso di malinconia e angoscia per la privazione delle origini e spesso espressi nella forma letteraria del racconto breve.

Tematiche diverse sono invece quelle affrontate dallo scrittore A. Ḥabībī che, vivendo in Israele, esprime nei suoi romanzi il disagio di sentirsi «un estraneo in patria».

Con i letterati di Cisgiordania e Gaza le tematiche si arricchiscono assumendo un valore di documentazione storica: come quando viene descritta la scomparsa di villaggi arabi sostituiti dai nuovi insediamenti israeliani. Argomenti ricorrenti sono ancora quelli dell’estraneità e del disagio di vedere cambiata la propria patria oltre alla descrizione di situazioni legate alla lotta armata e al collaborazionismo con Israele. Tra gli esponenti di questa corrente si ricordano G. Bannūra, I. al-‛Alam, M. Ayyūb, S. Khalīfa, A. Sharīm, A. Haniyya, ‛A. Tāyeh.

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