CAPRINI, Pacifico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CAPRINI, Pacifico

Bruno Di Porto

Nacque a Viterbo il 9 genn. 1820 da Carlo e Teresa de Gentili.

La famiglia era di lontana origine corsa (le prime notizie risalgono fino al XIII secolo) e tra le più cospicue del patriziato viterbese. Estintosi intorno al 1500 il ramo principale, si perpetuò quello discendente da Girolamo, che si era dovuto spostare, nel XIV secolo, a Montalto di Castro per le vicende dell'alleanza coi prefetti di Vico.

La tradizione liberale e patriottica del casato si aprì per tempo, alla fine del '700, con la scelta progressista di Domenico, avo del C., pretore della prima Repubblica romana, e di Pacifico, prozio, capo della municipalità viterbese nel 1799. Il padre del C., Carlo, fu guardia d'onore di Napoleone I imperatore e sposò la figlia del conte Francesco de Gentili, già edile della Repubblica. Con la Restaurazione furono nominati gonfalonieri di Viterbo Pacifico e Domenico, malgrado i loro trascorsi, l'uno per il biennio 1816-17 e l'altro fino al 1820. Carlo fu deputato delle strade nel 1834, consigliere comunale di Viterbo nel 1837, e l'anno successivo governatore dell'ospedale grande degli infermi nel medesimo capoluogo.

I Caprini mantennero altresì amichevoli rapporti con la famiglia di Luciano Bonaparte, conosciuto da Domenico a Parigi nel periodo rivoluzionario e divenuto poi principe della vicina Canino, cosicché il C. ebbe per padrino alla cresima suo figlio Carlo Luciano. Un altro Bonaparte, Napoleone Luigi, fu loro ospite durante il viaggio verso la Romagna, dove morì in giovane età, nel 1831, mentre partecipava ai moti carbonari col fratello Carlo Luigi Napoleone, che alla fine di quell'anno, ricercato dalla polizia pontificia, si nascose per due giorni nel loro palazzo viterbese.

Istruito privatamente in casa, il C. s'interessò alla letteratura romantica, componendo egli stesso alcune ballate, romanze ed altre esercitazioni in versi e in prosa, conservate in appunti manoscritti specialmente dell'anno 1845.

Nel marzo 1848 si arruolò col fratello Francesco (1821-49) e con un buon numero di altri giovani viterbesi nel primo battaglione della divisione Ferrari, che faceva parte del corpo di volontari affluiti nel Veneto dallo Stato pontificio sotto il comando del generale Giovanni Durando. Il C. si batté contro gli Austriaci tra il 9 ed il 10 maggio a Montebelluna e a Cornuda, l'11 e il 12 a Treviso, dove si era dovuto ripiegare, il 15 sulla riva destra del Piave, dove fu lievemente ferito ad una gamba, e quindi, tra il 20 maggio ed il 10 giugno, alla difesa di Vicenza, che gli valse una medaglia d'onore. Per la convenzione conclusa con gli Austriaci dopo la caduta di Vicenza, i volontari ripassarono il Po ed egli, rientrato in Viterbo, fu congedato col grado di sergente maggiore.

Recatosi quindi a Roma, il C. partecipò, in contatto con Carlo Luciano Bonaparte, alle vicende politiche dell'autunno 1848, che portarono, attraverso la radicalizzazione dei contrasti, all'uccisione di Pellegrino Rossi, al ministero di monsignor Muzzarelli e alla fuga di Pio IX.

Il C. tornò alle armi nel 1849 con la Repubblica romana, militando nel 1º reggimento leggero (5º di linea), dove venne promosso in aprile sottotenente, il 20 giugno tenente e alla fine della resistenza capitano.

Il suo nome è legato ad un'operazione, compiuta durante quella campagna, il 13 maggio 1849, quando su ordine di Garibaldi fece saltare ponte Milvio (una lapide sul ponte ricorda l'episodio).

Accorso, poi, alla difesa dei bastioni di S. Pancrazio, il 21 giugno fu leggermente ferito e vide cadere il fratello Francesco, che combatteva al suo fianco.

Tornato in Viterbo al crollo della Repubblica, sposò nel 1850 la nobile bolognese Elena Tacconi, da cui ebbe due figli. Rimasto vedovo nel 1853, sposò in seconde nozze la nobile genovese Giuseppina Massone, da cui ne ebbe altri sette.

La polizia pontificia, per rispetto dell'influente casato, evitò di dar seguito ad una richiesta d'indagini avanzata dalla delegazione di Frosinone per far luce su un'azione in Ciociaria, in cui era stato probabilmente implicato, il fratello caduto. Ma il C. fu poi tratto in arresto a Terni il 20 febbr. 1854 per aver preso parte alla riorganizzazione del movimento patriottico: essendosi questo scisso tra l'ala mazzininna e l'ala fusionista, tendenzialmente filopiemontese, egli era stato, nel 1853, a fianco di Giuseppe Checchetelli, Luigi Silvestrelli e Vincenzo Tittoni, nella fondazione del Comitato nazionale romano, di orientamento filopiemontese, per il quale svolse attività in Umbria,dove fu appunto arrestato.

Liberato all'inizio di marzo per ordine della segreteria di Stato, fu però sottoposto a sorveglianza, con limitazioni negli spostamenti, finché nel 1858 poté recarsi a Bologna, dove nuovamente operò per il Comitato nazionale.

Nel contesto dei moti scaturiti nell'Italia centrale dall'impulso della seconda guerra d'indipendenza, organizzò con Giovanni Polidori, Gioacchino Monti, Michele Papini e Giovanni Torrioli, azioni dimostrative a Viterbo, dove il potere pontificio restava ben saldo.

Represso facilmente dalla polizia un primo tentativo di dimostrazione il 13 giugno 1859, i cospiratori fecero comparire in luoghi pubblici della città e dei paesi vicini, il 22 febbr. 1860, ritratti del re Vittorio Emanuele II con scritte ineggianti e bandiere tricolori.

Arrestato con gli altri promotori della manifestazione, subì cinque mesi di detenzione nella fortezza di Civita Castellana e ottenne poi di poter lasciare lo Stato, tornando a Bologna, che s'era unita al Regno sabaudo.

A seguito del tentativo di liberare la Tuscia, compiuto dalle forze garibaldine di Luigi Masi (i Cacciatori del Tevere), a cui non seguì la progettata annessione, giacché i risultati dell'avvenuto plebiscito non poterono essere accolti dal governo piemontese per l'intervento diplomatico di Napoleone III, il C., trasferitosi ad Orvieto con altri patrioti, fu incaricato, assieme a Giuseppe Angelo Manni, di tenere contatti col governo e col Parlamento italiani, al fine di cercare una soluzione per superare l'ostacolo così frapposto.

Questa iniziativa viterbese si collocava nel contesto di una politica del Comitato nazionale romano, intesa a tener viva la questione romana e ad ottenere, sulla base dell'ordine del giorno Bon Compagni, qualche forma di rappresentanza delle popolazioni laziali nella compagine unitaria italiana.

Dal governo Ricasoli, particolarmente sensibile al problema di Roma, l'emigrazione viterbese ottenne il riconoscimento di un proprio autonomo comitato, grazie ai fermenti e alle possibilità di azione che presentava l'Alto Lazio occidentale.

Tale comitato viterbese, più largamente sussidiato dal governo Rattazzi, fu diretto dal C., che si tenne in continuo contatto da Orvieto coi capi dell'organizzazione romana e col movimento clandestino della Tuscia, dove peraltro contrastava i più impazienti conati insurrezionali del Partito d'azione.

Convinto, per i rapporti pervenuti dalla sua provincia, che la premessa ad una più energica manifestazione del movimento stesse nell'allontanamento delle truppe francesi, condivise la tendenza del governo Farini-Minghetti ad avviare quei negoziati con la Francia, che portarono alla convenzione di settembre.

Fu così che nel 1863, a coronamento di un'attività pubblicistica svolta con articoli sul Viterbese in giornali torinesi e bolognesi, diede alla stampa, senza firmarlo, un opuscolo intitolato Sulla questione romana. Poche libere osservazioni (Torino 1863), in cui sosteneva che, in cambio dello sgombro francese dallo Stato pontificio, l'Italia avrebbe dovuto impegnarsi a non attaccarlo né farlo attaccare da irregolari lungo il suo confine.

Al fondo della proposta era implicita la previsione della crisi del governo pontificio dopo la morte di Pio IX, comunemente ritenuta vicina, e quindi la prospettiva di un'efficace mobilitazione, con aiuti da parte del Regno d'Italia, una volta che fossero stati allontanati i Francesi.

Venute meno queste prospettive, e forzatamente ridottasi la sua attività, anche per la stretta via cui era sottoposto, il C. si trasferì a Genova, dove risiedeva la famiglia della moglie.

Tuttavia nel 1866 otteneva dalle autorità pontificie il permesso di brevi soggiorni per sé e il ritorno definitivo della madre e della moglie. Il C. doveva però tornare definitivamente a Viterbo soltanto nel 1870.

Col conte Francesco Savini e con Angelo Mangani, fu chiamato dalle autorità militari italiane a comporre la prima giunta provvisoria di governo per la Tuscia, che si dimise dopo sole ventiquattro ore, per far posto ad una nuova giunta acclamata dal popolo. Né il C. ebbe più parte nella vita politica ed amministrativa della zona, se si eccettua la carica di sindaco, esercitata negli anni 1871-72, in Celleno, dove possedeva parte dei beni.

Il C. morì a Viterbo il 27 febbr. 1904.

Il figlio Balduino, nato a Bologna il 18 maggio 1861, fu ufficiale dei carabinieri e in tale qualità partecipò al contingente italiano inviato a Creta nel 1900, nel quadro dell'intervento anglo-franco-russo-italiano per l'insurrezione greca contro i Turchi, e nel 1904 operò in Macedonia per conto del ministero degli Esteri; nel 1911-12 fece parte del corpo d'occupazione della Cirenaica. Durante la prima guerra mondiale comandò il corpo interalleato di controllo militare in Tessaglia. Morì a Roma il 3 ag. 1947.

Fonti e Bibl.: Sul C. e la sua attività vedi i documenti dell'Archivio familiare Caprini in Celleno che contiene, tra l'altro, tre certificati, rilasciati, in data 23 marzo 1926, dall'Archivio di Stato di Roma con gli estratti delle notizie riguardanti il C. e il fratello Francesco, desunte dagli atti della polizia segreta e del ministero delle Armi Pontificie. Inoltre cfr. Celleno, Archivio municipale, Deliberazioni comunali, anni 1871-72; Viterbo, Archivio storico comunale, II F II 22, Incartamento C.; Ibid., II E III 26, Promemoria di E. Tondi,rapporti d'amicizia e politici tra la famiglia Caprini e i Bonaparte,Lettere di P. C. alla famiglia,Corrispondenza con Angelo Bosio,direttore della Costituzione; Archivio di Stato di Viterbo, buste 25, fasc. 1317; 223, posizione 949; Roma, Museo centrale del Risorgimento, Lettere autografe di P. C. a G. Checchetelli,G. A. Manni e a vari amici del Comitato nazionale romano, buste 169, n. 9; 183, n. 36; 186, n. 49; 187, n. 35; 192, n. 59; 225, n. 7. Per la donazione di antichità etrusche e romane fatta dal C. al Museo municipale di Torino cfr. gli Atti municipali del Comune di Torino con la deliberazione della giunta comunale nella seduta del 22 ag. 1864. n. 91; Stato delle promozioni degli uffiziali e sottuffiziali del I reggimento leggero,ossia del V reggimento di linea, in Monitore romano,giornale ufficiale della Repubblica, 29 apr. 1849; Libro d'oro della nobiltà italiana (registro manoscritto presso l'Archivio centrale dello Stato in Roma), IX, p. 105; Libro d'oro della nobiltà italiana, V, Roma 1920-22, p. 188; G. Signorelli, Viterbo dal 1789 al 1870, Viterbo 1914, I, pp. 32, 58, 93, 387, 476, 519 s.; V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare, II, Milano 1929, pp. 299 s.; I. Bellini, Il Comitato nazionaleromano(1853-1867), Roma 1931, p. 1; O. C. Mandalari, Garibaldi e i garibaldini(Saggi e figure), Roma 1934, pp. 92-107; G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglienobili..., I, Bologna 1965, p. 229; Mostra storicadel Risorgimento nel Viterbese, Viterbo 1967, pp. 35, 47, 51, 53, 61, tavv. XXI e XXV; B. Di Porto, Un triennio del Risorgimento viterbese(1847-1849) nelle carte della polizia pontificia, in Rassegna storica del Risorgimento, LV (1968), pp. 439-460; Id., Garibaldini e restaurazione pontificia nel 1867 a Viterbo,ibid., LVII (1970) pp. 241-256; Id., Il primo ventennio di Viterbo ital., in Ann. d. lib. Univ. della Tuscia, IV (1972-73), pp. 73-161; M. Signorelli, Le famiglie nobili viterbesi nellastoria, Genova 1968, pp. 104 ss.; F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1971, pp. 249 s., 494: si veda in quest'opera il generale contesto delle vicende relative al Comitato nazionale romano, in cui s'inquadra la presenza politica dell'emigrazione viterbese; Roma capitale. Documenti 1870, a cura di C. Tupputi Lodolini, II, Roma 1972, p. 6.

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