Ortografia

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In grammatica, il modo corretto di scrivere, ossia l’impiego corretto dei segni grafici e d’interpunzione in una determinata lingua, e l’insieme delle norme che lo regolano.

Teoricamente l’o. di una lingua determinata si potrebbe dire perfetta solo se vi fosse una corrispondenza univoca e costante tra i singoli elementi distintivi del sistema ortografico (segni grafici) e i singoli elementi distintivi del sistema fonologico (suoni). La pronuncia tuttavia cambia di generazione in generazione con relativa rapidità, mentre la scrittura rimane la stessa, per forza d’abitudine o per rispetto della tradizione. Se da una parte l’o. tradizionale permette di leggere senza sforzo testi antichi della propria lingua e di capire senza un particolare studio il significato di parole dotte in altre lingue, dall’altra i vantaggi di una maggiore corrispondenza dell’o. alla pronuncia attuale sono evidenti, specie se si pensa all’insegnamento pratico della lingua e più ancora alla lingua come strumento di diffusione della cultura tra le classi popolari. Numerosi sono stati i tentativi di riforma ortografica fatti per ciascuna delle maggiori lingue di cultura: riforme totali non hanno avuto fortuna in nessun paese, mentre hanno finito col farsi strada nell’uso ufficiale riforme parziali, quando rispondevano a esigenze di semplificazione o di chiarificazione vivamente sentite. In Francia e Spagna, come anche nei paesi di lingua portoghese, nederlandese, tedesca, si sono avuti più volte interventi governativi o, secondo i casi, accordi tra i governi interessati (Brasile e Portogallo, Belgio e Paesi Bassi).

L’o. italiana, dopo un periodo d’assestamento durato dalla fine del 15° sec. alla fine del 16°, ha da allora un suo sistema abbastanza stabile, alla cui formazione contribuirono soprattutto, nel corso del Cinquecento, prima P. Bembo, poi P.F. Giambullari, infine L. Salviati e, dietro di lui, l’Accademia della Crusca. Questi autori fecero un po’ per volta uscire dall’uso il criterio etimologico a cui s’ispirava in buona parte l’o. delle stampe quattrocentesche (in cui si può dire, a grandissime linee, che si scrivevano le vocali all’italiana e le consonanti alla latina: natione, huomo, tracto) e vi sostituirono il criterio sostanzialmente fonologico tuttora vigente. Riforme più radicali, come quelle tentate da C. Tolomei, da G.G. Trissino e da Giambullari stesso, non attecchirono; ma la distinzione trissiniana tra u e v, fino ad allora confusi in un solo carattere, entrò più tardi nell’uso generale. Dal Settecento si sono ancora avuti dibattiti ortografici, progetti di riforma, ritocchi di modesta importanza su qualche punto dell’o. (per es., l’abbandono di j in parole come pajo, jeri, premj, per le grafie paio, ieri, premi).

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