Orientali d'Italia. Da minoranza regionale a seconda religione d'Italia

Cristiani d'Italia (2011)

Orientali d'Italia. Da minoranza regionale a seconda religione d'Italia

Frederick Lauritzen

La questione orientale è centrale nello sviluppo dell’Italia unificata. Da minoranza frammentaria e spesso invisibile, le comunità cristiane orientali all’inizio del secolo XXI, sono giunte a rappresentare la seconda religione più numerosa del paese dopo il cristianesimo cattolico. Tale dato, risultante dalla caduta della cortina di ferro e dalle migrazioni verso l’Unione europea e all’interno della stessa, mette in ombra l’antichità della questione e il suo sviluppo a partire dal 1861. Questo dato rende necessaria una periodizzazione in quattro archi temporali: il cinquantennio postunitario (1861-1911); la fase delle guerre coloniali (1911-1945); la guerra fredda (1945-1991) e la nuova realtà orientale in Italia (1991-2011).

Il cinquantennio postunitario (1861-1911)

Nel 1861 il contesto nazionale inglobava le sparse tracce dell’antica presenza dell’Impero bizantino in Italia. Dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente nel 476 la metà orientale continuò a esercitare il suo controllo su gran parte del Medio Oriente e dei Balcani, finché la riconquista dell’Italia da parte delle truppe dell’imperatore Giustiniano non riportò lo Stato romano sul suolo della penisola. Da questo periodo in poi, rappresentato simbolicamente dalla conquista di Napoli nel 540, le attuali Puglia, Basilicata e Calabria rimasero sotto il dominio bizantino per oltre cinque secoli: la dominazione continua più duratura della storia del Sud, mentre la Sicilia fu bizantina solo fino al IX secolo. Lo stesso scisma del 1054 tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli risultò da una questione di giurisdizione sul territorio della Puglia, all’epoca considerata dipendente da Costantinopoli. Tale dominio ebbe un effetto importante visto che le zone sottoposte a Bisanzio non conobbero prima dell’arrivo dei Normanni una struttura feudale né la concessione alla Chiesa di benefici territoriali, trovandosi inoltre tagliate fuori dalle dinamiche conflittuali instauratesi tra il papato e il Sacro Romano Impero, con una notevole discrepanza rispetto alle aree settentrionali. Ne costituisce un’eredità culturale la permanenza sia in Calabria sia in Puglia, ancora nel secolo XXI, di comunità di lingua greca, alcune delle quali sono cattoliche di rito orientale1.

Nel 1861, con la caduta del Regno delle Due Sicilie, le comunità cattoliche di rito orientale entrarono a far parte del Regno d’Italia. Due erano le principali: quella di Piana degli Albanesi presso Palermo e quella di Lungro in Calabria. La prima, quella degli albanesi meridionali, gli arbëreshë, si era rifugiata in Italia con l’avvento dei turchi ottomani in Albania, mantenendo come base la lingua albanese meridionale2. Già sotto il dominio borbonico entrambe le realtà erano state favorite con uno status particolare, dapprima mediante l’istituzione dei seminari cattolici di San Benedetto Ullano in Calabria nel 1732 e del seminario greco-albanese di Palermo nel 1734; in seguito con l’instaurazione nel 1753 di un vescovato, ma non di una diocesi, per i greco-cattolici di Calabria e nel 1784 di una diocesi greco-albanese per la Sicilia con la bolla Commissa Nobis di Pio VI. Queste realtà vennero tutte a inserirsi nel nuovo Stato unitario3.

Un’altra comunità orientale fu acquisita con l’annessione del Granducato di Toscana. Livorno in particolare aveva un’importante comunità greca che si era trasferita nella città in seguito alla battaglia di Lepanto contro i Turchi (1571), quando numerosi greci ortodossi si erano arruolati nella flotta cattolica e rimasero nella penisola italiana a causa dell’occupazione ottomana dei Balcani4. L’annessione di Venezia al Regno di Italia nel 1866 alterò nuovamente la geografia degli Orientali d’Italia, a causa della storia della Serenissima, che dal 1204 aveva dominio su una parte della Grecia. Cipro era rimasta veneziana fino al 1569 e Creta fino 1669. Nonostante la perdita di questi territori, la Repubblica conquistò il Peloponneso nel periodo 1687-1715, senza contare le numerose isole minori. Ne derivò la notevole importanza della comunità greca ortodossa riunita intorno alla chiesa di S. Giorgio dei Greci5. Il secolo XVIII veneziano fu cruciale anche per l’insediamento in Italia di una comunità armena mechitarista che prende il nome da Mechitar (1676-1749). Costui nacque a Sebaste nell’Impero ottomano (l’odierna Sivas in Turchia), dove divenne un prete della Chiesa apostolica armena. Si trasferì a Istanbul dove fondò una comunità che predicava l’unione con la Chiesa cattolica, ma in seguito a persecuzioni si trasferì prima nel Peloponneso veneziano (1705) e poi sull’isola di S. Lazzaro nella laguna veneta nel 1715, che rappresentò l’istituzione armena più importante a occidente dell’Impero ottomano; si trattò inoltre di un caso unico, trattandosi di una comunità cattolica di rito armeno, cui era stata concessa una Constitutio che ne definiva lo statuto all’interno della Chiesa cattolica da parte di Clemente IX nel 1705. Prima dell’Unità a questa realtà si affiancò inoltre il collegio Murad Rafael, uno dei centri più importanti per lo studio della cultura armena al di fuori dell’impero ottomano e della repubblica turca fino all’indipendenza della Repubblica armena nel 1991.

Al tempo dell’unificazione, con l’annessione al Regno di territori con importanti minoranze ortodosse o cattoliche di rito orientale, s’impose al papato, ancor prima dell’occupazione di Roma, la questione del rito, rilevante per il loro rapporto con la Chiesa romana. Nel 1861 Pio IX, con l’enciclica Amantissimus humani generis, concedeva agli ortodossi convertitisi al cattolicesimo l’esenzione dal rito romano. Questo passo è importante perché permetteva alle comunità cattoliche di rito orientale di utilizzare solo il loro messale. Le Chiese di rito orientale o ‘uniate’ erano sorte a partire dall’Unione di Brest del 1596, quando una parte della Chiesa ortodossa si unì alla Chiesa cattolica. Tale unione fu possibile anche per questioni politiche, essendo la città di Brest in quel momento parte della Repubblica delle Due Nazioni (Regno di Polonia e Gran Ducato di Lituania). Quest’apertura verso le Chiese cattoliche di rito orientale permise la continuità di istituzioni che erano state borboniche, come il seminario greco-albanese di Palermo, e dei riti bizantini dell’Italia meridionale. Dopo la breccia di Porta Pia anche Leone XIII si distinse per l’interesse per i cattolici di rito orientale6, favorendo, a partire dal 1883, l’insediamento di Albanesi dell’Italia meridionale (arbëreshë) nella Badia di Grottaferrata presso Roma, ove fu aperto un seminario e fu adottato il rito cattolico albanese: il papa la definì una ‘gemma orientale sulla tiara pontificia’7. Lo stesso pontefice stabilì il collegio di S. Atanasio di Roma (collegio greco) come centro superiore di studi per il clero italo-albanese. L’istituto traeva origine dal collegio greco fondato nel 1551, che nel tempo era passato sotto la giurisdizione di Propaganda Fide. Il papa lo affidò nel 1886 ai Resurrezionisti, quindi nel 1890 ai Gesuiti e nel 1897 ai Benedettini Confederati8. Assieme al suo interesse per greci e albanesi va ricordata la fondazione nel 1883 del Pontificio collegio armeno di Roma con la bolla Benigna Hominum Parens. Rispetto a tale interesse di Leone XIII prevale tuttavia quello per le Chiese uniate al di fuori d’Italia, nel Medio Oriente e in Russia. Un esempio della centralità per la Chiesa romana della questione ortodossa, e non solo della questione del rito orientale, è costituito dal concordato stipulato con il Montenegro nel 1886, uno dei primi trattati con un paese ortodosso privo di una minoranza cattolica.

Le comunità orientali d’Italia, greche e albanesi, furono significative anche per gli sviluppi politici del regno. Alcuni arbëreshë, tra cui Domenico Damis, Domenico e Raffaele Mauro, parteciparono con Garibaldi alla spedizione dei Mille. Il più importante rappresentante della comunità fu Francesco Crispi, che durante l’esilio dal Regno delle Due Sicilie era in contatto con Garibaldi, il quale, quando arrivò in Sicilia, fece una donazione al seminario greco-albanese di Palermo, fatto indicatore dell’attenzione per le dinamiche locali e della sua volontà di inserirvisi. Il mondo orientale ortodosso era inoltre fondamentale per la politica estera italiana, come emerge dal matrimonio tra il futuro re d’Italia Vittorio Emanuele III ed Elena Njegoš del Montenegro. Nella questione non mancò di inserirsi Leone XIII, che vi si oppose per essere Elena di religione ortodossa, sicché ella dovette convertirsi al cattolicesimo al suo arrivo a Bari prima del matrimonio. L’unione era stata voluta fortemente da Crispi per stabilire contatti più forti con il mondo slavo. La principessa era legata in particolar modo alla Russia, poiché due delle sue sorelle sposarono granduchi della famiglia imperiale (furono le granduchesse montenegrine a introdurre Rasputin alla corte di Nicola II). Il matrimonio pertanto non solo siglava un legame dinastico tra i Savoia e i Njegoški, ma segnava una presa di distanza dagli Asburgo, dalla Germania e soprattutto dall’Impero ottomano e un avvicinamento alla Russia e di conseguenza all’Inghilterra e alla Francia. Tra i simboli di questo riallineamento, nel 1913 un’équipe di architetti, tra cui si trovava Alexeij Viktorovič Ščusev (che nel 1924 costruì il mausoleo di Lenin sulla piazza Rossa a Mosca), edificò la chiesa russa di S. Remo, importante perché ospitò, secondo le sue volontà, la sepoltura del re del Montenegro, padre di Elena, esiliato nel 1910 e morto nel 1921. Lo stesso architetto nel 1913, su commissione della Società imperiale ortodossa di Palestina, iniziò la chiesa di S. Nicola a Bari per i pellegrini russi (più tardi l’edificio sarà occasione di contrasti con l’Unione Sovietica, quando nel 1937 divenne proprietà del Comune di Bari)9.

Questa prima fase di contatto tra il Regno d’Italia e gli orientali è principalmente segnata dalla necessità di assorbire dai vari Stati preunitari le vicende di minoranze locali ma storicamente ben inquadrate nella penisola, permettendone la continuità. Il cambiamento principale fu l’utilizzo di questo lascito culturale e regionale dal punto di vista delle relazioni internazionali: l’origine montenegrina della futura regina d’Italia indicava chiaramente l’entrata delle questioni balcaniche, e delle relazioni con la Russia, nella visione diplomatica italiana.

Le guerre coloniali (1911-1945)

L’espansione coloniale del Regno d’Italia tra il 1911 e il 1945 riguardò, fatta eccezione per la Libia, territori in maggior parte cristiani ma di tradizioni orientali10. L’annessione della Libia risultò dalla vittoria nella guerra italo-turca del 1911-1912, che ebbe tra gli episodi significativi l’invio della flotta italiana davanti a Istanbul nel 191211. L’Italia ne ricavò anche il possesso delle isole greche del Dodecaneso, di cui la principale era Rodi, e che rimasero sotto il controllo italiano dal 1912 al 1943. Fu il primo caso di annessione di una zona a maggioranza greco-ortodossa. Il passaggio di queste isole dal controllo turco a quello italiano si manifestò in un’operazione culturale di recupero della memoria storica della presenza dei Cavalieri di Rodi (poi di Malta), realizzato sul piano artistico con il restauro degli edifici dell’Ordine12. Alcuni mutamenti furono determinati dall’avvento del fascismo un decennio più tardi: dal 1924 s’impose la questione dell’autocefalia della Chiesa ortodossa del Dodecaneso. Alcuni prelati desideravano costituire una Chiesa indipendente dalla Grecia, sottratta all’autorità del patriarca di Costantinopoli. Inizialmente tale richiesta sembrava aver trovato il favore del patriarcato ecumenico, un fatto che si può leggere come la maturazione di una situazione internazionale molto complessa per il patriarcato, visto che gli ortodossi greci erano stati espulsi dalla Turchia con il trattato di Losanna, in seguito al fallito tentativo del Regno di Grecia (approfittando della sconfitta turca durante la prima guerra mondiale) di occupare le parti del territorio ottomano a maggioranza greca. La sconfitta della ‘Grande Idea’ portò a una situazione complessa in Turchia, specie con l’avvento della costituzione della Repubblica Turca nel 1924, con ripercussioni anche nel Dodecaneso italiano13.

Con tali premesse si può comprendere l’oscillazione dei governatori italiani, anche verso posizioni di italianizzazione e imposizione del cattolicesimo. In tale complessa situazione il governatore Alessandro de Bosdari decise di confinare il Metropolita Apostolos, provocando le dimissioni del Vicario e dei membri della Chiesa metropolitana di Rodi. Nel 1924 con la firma del trattato di Losanna il Dodecaneso fu assegnato definitivamente all’Italia e il nuovo governatore Mario Lago tentò di avviare l’indipendenza della diocesi ortodossa (autocefalia), politica infine abbandonata dal 1937 dal suo successore De Vecchi, in quanto ‘questione spinosa’, e la rimpiazzò con un’italianizzazione della cultura: mentre la politica religiosa fu allentata veniva reso obbligatorio l’apprendimento dell’italiano. Tutto ciò mostra come la politica centralista nel Dodecaneso aveva fallito i suoi obiettivi. È indicativo che mentre i libici e gli albanesi avevano le proprie strutture giovanili nel partito fascista (Gioventù Albanese del Littorio e Gioventù Araba del Littorio), il Dodecaneso non ebbe un suo gruppo specifico. Rientrato De Vecchi nel 1941, due anni dopo l’isola cadde in mano tedesca e l’ultimo governatore Inigo Campioni fu fucilato.

Dopo l’unione dinastica con il Montenegro e l’annessione di un territorio ortodosso quale il Dodecaneso, la questione ortodossa emerse soprattutto con la prima guerra mondiale, quando l’Italia entrò in guerra insieme all’Impero russo contro l’Austria Asburgica: non stupisce quindi che il partito interventista fosse favorevole alla causa serba. Dimostrazione ‘culturale’ fu una poesia di Gabriele D’Annunzio che enumerava episodi storici dell’impero medievale serbo (Ode alla Nazione Serba in Canti della Guerra Latina). Questo legame con l’ortodossia serba, per quanto tenue, fu accresciuto nel 1919 dall’annessione di Trieste, che ospitava la chiesa di S. Spiridione della comunità serba, presente sin dall’occupazione asburgica della Serbia del Nord nel XVII-XVIII secolo14.

La presenza della flotta italiana a Istanbul nel 1912, che segnò visivamente la sopraffazione della marina ottomana, deve aver lasciato un’impressione al giovane poeta armeno, di Üsküdar, Hrand Nazariantz (1886-1962), che aveva studiato in Inghilterra e in Francia e sin dal 1910 era in stretto contatto con il mondo culturale italiano tanto da tradurre in armeno e scrivere saggi sul Futurismo italiano15. È di questo periodo la sua corrispondenza con Marinetti e Lucini. La sua attività era invisa localmente, e nel 1913 fu condannato in contumacia da un tribunale ottomano a Costantinopoli e si rifugiò nell’ambasciata italiana: qui, sposata un’italiana, ne acquisì la cittadinanza e si trasferì a Bari. In seguito al ‘grande massacro’ degli armeni in Turchia durante la Prima guerra mondiale, Nazariantz si adoperò per permettere il rifugio di armeni in Italia e specialmente vicino a Bari, in una cittadina fondata nel 1924 e battezzata Nor Arax (Nuovo Arasse), dal nome del fiume caucasico. I circa trecento abitanti erano dediti alla tessitura di tappeti di tradizione orientale e seguivano il culto armeno apostolico, non cattolico, entrando pertanto in conflitto con gli armeni cattolici di rito orientale. Dal 1943 il poeta collaborò con la radio di Bari e subito fondò la rivista «Graal», sulla quale scrissero anche Giuseppe Ungaretti, Ada Negri, Lionello Fiumi. Pur non essendo un religioso praticante, Nazariantz rimane una figura centrale nell’ambito delle comunità di tradizione orientale in Italia.

La Chiesa cattolica non rimase indifferente alle novità territoriali italiane né a quelle riguardanti la Russia e i Balcani, che diedero impulso allo studio del cristianesimo orientale. Per la fondazione del Pontificio Istituto Orientale nel 191716 era stata concepita l’enciclica Auctor Fidei, che però non fu mai pubblicata a causa del testo, risultato agli occhi della stessa curia poco sensibile nei confronti degli ortodossi, chiamati semplicemente a convertirsi al cattolicesimo. Ciò non ostacolò l’apertura del nuovo centro di ricerca dedicato allo studio del mondo cristiano orientale d’Europa. Nel 1927 la Congregazione per le Chiese Orientali fu incaricata di creare un codice di diritto canonico per le Chiese cattoliche di rito orientale17. Nel 1928 papa Pio XI emanò l’enciclica Rerum Orientalium che promuoveva lo studio del mondo cristiano orientale. Nel 1929 si fondò anche il Collegium Russicum, un centro di studi che vide la partecipazione dei rifugiati religiosi della Russia bolscevica. Lo stesso anno, in seguito ai Patti Lateranensi, la legge sui culti ammessi permise la continuazione del culto ortodosso in Italia. Proseguiva nel frattempo la tradizionale attenzione per i cattolici italiani di rito orientale da parte del papato, che con la bolla Catholici Fideles del 19 febbraio 1919 creò l’eparchia di Lungro, dipendente direttamente dal Pontefice, che riuniva i cattolici di rito orientale della Calabria. Successivamente, nel 1937, una bolla di Pio XI istituiva l’eparchia di Piana degli Albanesi per la Sicilia. Tali creazioni dimostrano la continuità con la politica verso i greco-cattolici dal tempo di Leone XIII.

Nel frattempo anche la politica trovava spazi di azione e di innovazione nei confronti dei nuovi orientali d’Italia. L’espansione nel Corno d’Africa implicava l’acquisizione alla corona del Regno d’Italia di un’imponente quantità di sudditi orientali, nello specifico fedeli dell’ortodossia copta che dipendevano dal patriarca copto di Alessandria d’Egitto. Ma i nuovi cristiani dell’Impero non erano considerati sudditi fedeli. Basti pensare che i reparti dell’esercito tratti da indigeni, gli ascari d’Eritrea, i dubat somali e gli zaptié dei carabinieri erano esclusivamente musulmani. I cristiani etiopi parteciparono anzi alla resistenza contro l’occupazione, come dimostra l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il viceré Rodolfo Graziani che, scampatovi, ordinò il massacro di un numero elevato, oscillante secondo le fonti, di monaci del monastero di Debre Libanos. L’importanza del monastero deriva dal fatto che è retto dal secondo prelato più importante della Chiesa etiope dopo l’Abuna18. Dato il contesto internazionale, la resistenza etiope fu promossa dall’Unione Sovietica che inviò nel 1938 Ilio Barontini, che addestrò alcuni insorti etiopi e ottenne il titolo di vice imperatore dal Negus19. Dopo una rocambolesca fuga nel Sudan inglese egli fu decorato dall’esercito britannico con la Bronze Star Medal.

Nel 1939 la geografia degli orientali d’Italia si complicò con l’annessione dell’Albania, divisa tra il nord musulmano e cattolico ed il sud ortodosso. La Chiesa ortodossa albanese era divenuta autocefala nel 1923 (anno in cui il Dodecanneso cominciava a richiedere l’autocefalia, senza successo). Questo evento unificò sotto la stessa corona le comunità cattolico-albanesi dell’Italia meridionale e quelle ortodosse dell’Albania. Un effetto concreto e alquanto sorprendente fu il sinodo intereparchiale tenutosi nel 1940 nella Badia di Grottaferrata, cui parteciparono non solo i monaci cattolici di rito orientale prevalentemente italo-albanesi arbëreshë, ma anche prelati ortodossi della Chiesa autocefala albanese venuti dall’Albania20. Pur essendo un avvenimento di portata limitata, fu un’importante segnale di convergenza tra cattolici di rito orientale e ortodossi, in una prospettiva interpretabile all’interno del percorso dell’ecumenismo.

Alla dichiarazione di guerra del 10 giugno del 1940 il Regno d’Italia comprendeva diverse comunità ‘orientali’, cattoliche di rito orientale e ortodosse: i greco-ortodossi, gli albanesi cattolici di rito orientale (arbëreshë) dell’Italia meridionale, quelli ortodossi della Chiesa autocefala albanese, gli armeni apostolici e quelli cattolici, gli ortodossi del Dodecaneso dipendenti dal patriarcato di Costantinopoli, i copti dell’Etiopia e dell’Eritrea dipendenti dal patriarcato di Alessandria d’Egitto (inoltre la regina era una principessa montenegrina convertitasi al cattolicesimo). Tali dimensioni religiose giocarono un ruolo importante nell’espansione territoriale dell’Italia durante il conflitto. Mentre l’Africa Orientale, circondata interamente da colonie alleate, fu perduta nel 1940 assieme a tutte le comunità non calcedoniane (copte) della corona, nei Balcani l’Italia ottenne il protettorato del Montenegro, paese natale della regina, e l’occupazione delle zone albanofone del Kosovo e della Macedonia occidentale21; inoltre il controllo della Grecia insulare e continentale, tranne la Macedonia, la Tracia e la città portuale di Salonicco, considerate strategiche dalla Germania. Gli ortodossi ebbero un ruolo particolare nella guerra: le contrapposizioni storiche tra croati e serbi portarono i primi a favorire i tedeschi, ottenendone nel 1941 uno Stato indipendente, e i secondi a trovare accordi locali con le truppe italiane. I motivi sono complessi e spesso riflettono questioni prevalentemente locali, ma in generale i serbi favorevoli all’Italia erano resistenti monarchici che vedevano di buon occhio la regina Elena, di cultura ortodossa e di lingua serba. La divisione tra croati e serbi si accentuò con l’armistizio dell’8 settembre e la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia alla Germania, quando i resistenti monarchici serbi si trovarono favorevoli alla lotta contro i croati e i tedeschi. Dopo la vittoria in Jugoslavia Tito tentò di continuare la guerra contro l’Italia e l’annessione dell’estremo nord-est della penisola. Questa zona interessava a Tito anche per la riorganizzazione effettuata dai tedeschi a partire del 1944, che avevano creato una zona denominata Kosakenland in Nordost Italien in cui furono stanziati, in numero assai dibattuto, i cosacchi provenienti dall’Ucraina e dalla Russia meridionale. Essi erano quasi interamente ortodossi e rappresentavano una popolazione chiaramente anticomunista alleata con la Germania per continuare la lotta dei Russi Bianchi: essi furono rimpatriati dopo la guerra in base alle decisioni di Yalta22.

Il fascismo e la guerra segnarono cambiamenti anche per le comunità radicate da secoli in Italia, come gli ortodossi di Livorno, la cui chiesa della SS. Trinità, prima chiesa acattolica del Granducato di Toscana costruita nel 1760, fu demolita nel 1942 in relazione alla costruzione del Palazzo del Governo e all’ampliamento della piazza antistante23. Dopo il 1942 la sede principale del culto greco-ortodosso di Livorno è divenuta la cappella della Dormizione, presso l’ex cimitero24. Scomparso è anche il cimitero, creato nel 1773 e ricordato come già in abbandono ai primi del Novecento da Pascoli («Penso a Livorno, a un vecchio cimitero / di vecchi morti; ove a dormir con essi / niuno più scende; sempre chiuso; nero / d’alti cipressi», Myricae). Nella stessa città fu parzialmente distrutta dai bombardamenti anche la chiesa armena.

Pur essendo quello trattato il periodo con il numero massimo di cristiani orientali prima della fine del secolo XX, non vi si riscontra una politica né di assimilazione né di esclusione di tali comunità. Generalmente è l’autonomia che contraddistingue questi gruppi di fedeli orientali in Italia: identità che tuttavia furono importanti per alcuni episodi di politica estera, in particolar modo per la vantaggiosa relazione con gli ortodossi albanesi, serbi e montenegrini.

La guerra fredda (1945-1991)

Con la fine della seconda guerra mondiale i confini dell’Italia coincidevano in gran parte con quelli linguistici, anche in seguito all’espulsione degli italofoni dall’Istria e dalla Dalmazia jugoslave (permanevano minoranze slovene cattoliche di cultura centro-europea). Inoltre i cittadini della Repubblica italiana tornavano a essere quasi totalmente di religione cattolica. La cortina di ferro da Stettino a Trieste creava una divisione netta tra il mondo ortodosso non greco e l’Italia, per cui le questioni ‘orientali’ si ridimensionarono al livello precedente l’inizio dell’espansione coloniale; piuttosto che intere comunità a segnalarsi sono singoli individui di tradizioni orientali: si può segnalare Bettino Craxi, il cui cognome albanese rivela l’origine paterna arbëreshë25.

Dal punto di vista religioso la novità è il mutamento dei rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, che trova il suo punto centrale nella celebrazione del concilio Vaticano II. Il penultimo giorno del concilio, il 7 dicembre 1965, il papa e il patriarca di Costantinopoli hanno levato le scomuniche in vigore dal 1054. Tale evento non appianò le differenze tra le due Chiese ma definì un nuovo periodo di dialogo tra le comunità cattoliche e ortodosse e segnò inoltre il passaggio tra due modi di definire il contatto tra occidente e oriente. Se dai tempi del Regno di Polonia si era guardato con interesse a una Chiesa cattolica ma di rito orientale, il concilio Vaticano II ha inaugurato un periodo di comunicazione diretta tra occidente e oriente che non richiedeva più l’intermediazione uniate tra i due mondi. Questo sviluppo ha chiaramente alterato il rapporto tra la Chiesa di Roma e i cattolici di rito orientale. L’interesse principale di Roma fu da quel momento in poi il dialogo diretto, ed è questo il senso della Unitatis Redintegratio, il documento che promuove l’unità delle Chiese e in questo richiama direttamente il documento di Leone XIII del 1894, Praeclara Gratulationis Publicae. Il confronto tra i due documenti illustra come il concilio Vaticano II abbia eliminato il termine eretico per le altre Chiese, dando enfasi alla nozione di un popolo di Dio unico diviso in diverse Chiese. Questa apertura verso le Chiese ortodosse si espresse non solo nel De Oecumenismo ma anche nel documento approvato il 21 novembre 1964 Orientalium Ecclesiarum, con il quale si definiva l’autonomia delle Chiese di rito orientale e la necessità del loro ritorno al loro patrimonio d’origine26. È importante che si sia evitato il termine uniate nel documento, essendo un termine questo diventato in alcuni ambienti ortodossi spregiativo; una tale omissione dimostra la cura con la quale il concilio si sia interessato al punto di vista delle Chiese ortodosse. Dunque, il concilio Vaticano II ha dato inizio a una nuova fase di apertura verso le Chiese ortodosse, ridimensionando il ruolo di tramite delle Chiese cattoliche di rito orientale ed eliminando i termini ostili utilizzati verso le Chiese ortodosse27. Questa apertura, per quanto fraternamente accolta da una parte delle Chiese ortodosse, non ha risolto alcune questioni degli ortodossi in Italia, quali la scomunica a un ortodosso che celebra il matrimonio in una chiesa non ortodossa, ma ha permesso nei decenni successivi l’insediamento di fedeli ortodossi sul territorio Italiano senza la necessità di dispense particolari da parte della Curia romana. L’enciclica del 1995, Ut unum sint, mette in primo piano il dialogo diretto tra la Chiesa cattolica e quelle ortodosse e indica che uno scopo importante della Chiesa di Roma è ottenere l’unione piuttosto che la conversione delle Chiese che non dipendono da Roma. Tale continua attenzione verso il mondo ortodosso è caratteristica della Chiesa cattolica, tuttavia la sua natura è mutata a causa delle iniziative e dei documenti del concilio Vaticano II. Queste rimangono però iniziative legate soprattutto alla Chiesa in quanto istituzione, mentre il numero dei fedeli ortodossi in Italia è rimasto pressoché invariato fino agli inizi degli anni Novanta.

La nuova realtà orientale in Italia (1991-2011)

La caduta del comunismo, con l’eliminazione delle barriere politico-militari tra i paesi europei, ha determinato la libertà di spostamento delle popolazioni dell’ex Unione Sovietica e dei paesi balcanici a maggioranza ortodosse, che sono emigrate in maniera massiccia anche in Italia: popolazioni sottoposte ad altre giurisdizioni ortodosse oltre che a quella di Costantinopoli. Marginalmente hanno fatto la loro comparsa questioni e dinamiche politiche esterne. Un esempio di entrambi gli aspetti è dato dal ruolo assunto dalla chiesa serba triestina di S. Spiridione, non tanto per la sua storia pluricentenaria, ma per il fatto che, in seguito alle guerre jugoslave contro la Slovenia (1991) e la Croazia (1992-1995), essa è divenuta la chiesa che de facto controlla l’intera circoscrizione ecclesiastica ortodossa di Zagabria e Ljubljiana, con conseguenze impreviste. Nei primi anni Novanta un pope ortodosso di S. Spiridione, Ilja Ivić, si era espresso a favore di una revisione del trattato di Osimo con il quale la cosiddetta zona B dell’ex territorio libero di Trieste era passato alla Jugoslavia e quindi, per la guerra recente, alla Slovenia. Il padre serbo auspicava in tal modo l’adesione italiana alla causa bellica serba contro la Slovenia ed eventualmente contro la Croazia. Egli fu espulso dal governo italiano come persona non grata nel 1993, ma la sua proposta rivela come sin dalle due guerre mondiali si era formata l’idea che l’Italia fosse un paese favorevole all’ortodossia serba28.

Tenendo conto delle vicende geopolitiche, anche il patriarcato di Costantinopoli nel 1991 ha riorganizzato i propri fedeli in Italia creando la Metropoli d’Italia e dell’Europa meridionale e l’arcidiocesi d’Italia, riconosciuta come persona giuridica dal 1998. Nel 2005 si è verificata un’ulteriore riorganizzazione: il patriarcato ecumenico ha esteso l’arcidiocesi d’Italia includendovi Malta e cambiandone il nome in arcidiocesi d’Italia e Malta. Parallelamente, la crescita delle comunità ortodosse provenienti da paesi dipendenti ecclesiasticamente dal patriarcato di Mosca, che intendevano continuare a celebrare secondo i propri riti, ha esteso anche in Italia la giurisdizione moscovita, con la normalizzazione della situazione creatasi in seguito alla rivoluzione bolscevica: l’esarcato russo provvisorio sotto il controllo di Costantinopoli è tornato al patriarcato russo. Ciò ha significato che alcune chiese russe sono tornate sotto la giurisdizione di Mosca: nel 1998 la chiesa di S. Nicola a Bari e nel 2002 la parrocchia russa di Roma.

Il dato più dirompente anche sotto il profilo religioso è tuttavia rappresentato dall’immigrazione proveniente dalla Romania (625 mila residenti in Italia nel 2008): una comunità che costituisce la maggioranza degli ortodossi presenti in Italia agli inizi del XXI secolo. Il legame tra Italia e Romania è antico, a partire dalle affinità linguistiche neolatine (il rumeno è l’unica lingua neolatina che presenta fenomeni presenti nel dialetto romano quali il rotacismo). Questa prossimità linguistica è stata fondamentale per la formazione dell’identità rumena, che abbandonò il bulgaro come lingua liturgica dopo la dimostrazione da parte di Gheorge Şincai nel 1780 dell’origine latina del rumeno. Sincai era direttore delle scuole greche cattoliche della Transilvania ed era stato bibliotecario della Congregazione di Propaganda Fide. Questi elementi rendono questa comunità religiosa unica nel panorama dei cristiani orientali. Va tuttavia specificato che con il termine ‘rumeni’ si intende un’identità linguistica e religiosa, ma non politica. Le comunità che parlano lingue affini al rumeno sono molte: rumeni, moldavi, vlachi, rom, e coloro che provengono dalla Transnistria. Vlachi e rom sono gruppi che non si riconoscono come rumeni ma che parlano una lingua simile e si trovano dispersi in altri paesi come la Grecia, l’Ucraina o l’Ungheria. La Moldavia (ex sovietica) è invece un paese la cui giurisdizione religiosa cade sotto il patriarcato di Mosca a causa della prossimità politica con la Federazione Russa: la Chiesa ortodossa moldava, che esiste dal 1992, è sotto la tutela del patriarcato di Mosca e non è riconosciuta dal patriarcato rumeno. La situazione, che di nuovo trasferisce in Italia dinamiche politico-ecclesiastiche esterne, è particolarmente complessa, in quanto lo Stato rumeno rilascia la propria cittadinanza anche ai moldavi e, appartenendo la Romania, al contrario della Moldavia, all’Unione europea, molti suoi cittadini hanno scelto di diventare legalmente rumeni. Ciò però non implica da parte loro l’abbandono della Chiesa ortodossa moldava e l’adesione al patriarcato rumeno. Quest’ultimo, da parte sua, che prima agiva in Italia dalla rappresentanza di Parigi, dal 2008, in seguito della forte immigrazione rumena, ha costituito la diocesi ortodossa rumena d’Italia, strutturata in oltre novanta parrocchie. In seguito ai fenomeni migratori, ma in misura meno rilevante, anche altre Chiese ortodosse stanno costituendo loro circoscrizioni in Italia: la Chiesa macedone, che ha dichiarato l’autocefalia nel 1967, non riconosciuta da nessun’altra Chiesa ortodossa, è in procinto, all’inizio del secolo XXI, di organizzare propri edifici di culto nella penisola; la Chiesa autocefala ortodossa di Polonia possiede la chiesa di S. Barbara ad Alghero; nel 2003 il patriarcato di Bulgaria ha aperto la prima parrocchia nella chiesa barocca dei Ss. Vincenzo e Anastasio presso la fontana di Trevi a Roma. Importante è anche il fenomeno per cui le diocesi cattoliche concedono alle comunità sia greco cattoliche sia ortodosse chiese, anche antiche e nei centri storici, non più in uso come chiese parrocchiali a causa dello svuotamento demografico dei centri: ad esempio, per Milano S. Pietro Celestino ai copti, S. Maria della Vittoria ai rumeni29.

Da segnalare è anche la riorganizzazione dell’Ordine mechitarista armeno, che ha dato luogo alla fusione delle comunità di Venezia e Vienna, dovuta non solo a bisogni di armonia interna, ma alla necessità di compattare le varie istituzioni armeno-cattoliche di fronte alla nuova immigrazione di armeni ortodossi provenienti non tanto dalla Turchia, quanto dalla Repubblica ex sovietica d’Armenia, indipendente dal 1991, e da aree d’influenza persiana e russa.

Il radicale cambiamento della geografia religiosa italiana nel ventennio 1991-2011, determinato dall’immigrazione da paesi a maggioranza ortodossa, ha così permesso di riscoprire elementi storico-religiosi sempre presenti nella penisola ma relegati a un ruolo marginale a causa dell’esiguità delle comunità cristiano-orientali. Il fenomeno, unico in Europa, per cui l’ortodossia italiana costituisce la principale minoranza religiosa, rende quest’ultima fondamentale per creare un ponte tra Europa occidentale, orientale e balcanica, e per comprendere le aree di collaborazione e conflitto tra il mondo cattolico e quello ortodosso.

Note

1 V. Peri, Chiesa Romana e “Rito Greco”, in G.A. Santoro e la Congregazione dei Greci (1566-1596), Brescia 1975; V. Peri, Orientalis Varietas, Roma e le Chiese d’Oriente – Storia e Diritto canonico, Roma 1994.

2 V. Peri, Presenza e identità religiosa degli Albanesi d’Italia prima della riforma tridentina, «Oriente Cristiano» 20, 1980, pp. 9-41; E. Koço, Byzantine Albania and the vocal ison “question”: the preservation of an ancient tradition in the arbëresh ecclesiastical and secular musical practice, «Acta studia albanica», 20, 2008.

3 M. Sciambra, Indagini storiche sulla comunità greco-albanese di Palermo, Grottaferrata 1963; G. Mazziotti, Monografia del Collegio italo-greco di Sant’Adriano. Con aggiunta di documenti sulla storia dell’istituto, Cosenza 1994.

4 Da segnalare anche la presenza armena a Livorno: G.G. Panessa, Gli Armeni a Livorno. L’intercultura di una diaspora, Roma 2006; G. Panessa, M.T. Lazzarini, La Livorno delle Nazioni. I luoghi della memoria, Livorno 2006.

5 R. D’Antiga, La comunità greco-ortodossa di S. Giorgio in Venezia, in G. Dal Ferro, Presenze ebraico-cristiane nelle Venezie, Vicenza 1993.

6 R. Esposito, Leone XIII e l’oriente cristiano, Roma 1960.

7 G.M. Croce, La badia greca di Grottaferrata e la rivista “Roma e l’Oriente”, Città del Vaticano 1990; S. Parenti, Il Monastero Esarchico di Grottaferrata e la Chiesa Italo-Albanese, Roma 2000.

8 A. Fyrigos, Il Collegio greco di Roma: ricerche sugli alunni, la direzione, l’attività, Roma 1983; cfr. G.M. Croce, L’Arciconfraternita di S. Maria Odigitria dei Siciliani in Roma, Roma 1994.

9 Anche a Merano c’era una comunità importante: M. Zoeggeler, M. Talalay, La colonia russa a Merano, Bolzano 1997.

10 S. Santoro, L’Italia e l’Europa orientale. Diplomazia culturale e propaganda 1918-1943, Milano 2005.

11 P.J. Carabott, The temporary Italian occupation of the dodecanese: A prelude to permanency, «Diplomacy and statescraft», 4, 1992, 2, pp. 285-312.

12 S. Martinoli, E. Perotti, Architettura coloniale italiana nel Dodecaneso 1912-1943, Torino 1999.

13 M. Livadiotti, La presenza italiana nel Dodecaneso tra il 1912 e il 1948: la ricerca archeologica, la conservazione, le scelte progettuali, Catania 1996.

14 G. Milosevic, M. Bianco Fiorin, I Serbi a Trieste. Storia, religione, arte, Udine 1978.

15 K. Beledian, Haigagan bakahabashdutiun yev Hrand Nazariantz (Il futurismo armeno e Hrand Nazariantz), «Bazmavep, Revue d’études arméniennes», 3-4, 1990, pp. 379-411.

16 S.J.V. Poggi, Per la storia del Pontificio Istituto Orientale: Saggi sull’istituzione, i suoi uomini e l’Oriente Cristiano, «Orientalia christiana analecta» 263, 2000.

17 G.M. Croce, Alle origini della Congregazione Orientale e del Pontificio Istituto Orientale. Il contributo di mons. Louis Petit, «Orientalia christiana periodica» 53, 1987, pp. 257-333; G.M. Croce, M. Van Parys, Benedetto XV e l’enciclica archiviata. Alle origini della Congregazione Orientale e del Pontificio Istituto Orientale, «Orientalia christiana analecta», 284, 2009, pp. 59-107.

18 G.M. Bravo, Africa, bel suol d’amore. Sulla storia del colonialismo italiano, «Studi storici», 33, 1992, 4, pp. 939-950.

19 N. Srivastava, Anti colonialism and the italian left, Resistances to the Fascist Invasion of Ethiopia, «Interventions», 8, 2006, 8, pp. 413-429.

20 Costituzioni del Sinodo Intereparchiale delle Eparchie di Lungro e Piana degli Albanesi e del Monastero Esarchico di S. M. di Grottaferrata (1940), Grottaferrata 1943; I. Ceffalia, I «Sinodi Intereparchiali» delle tre Circoscrizioni Ecclesiastiche Bizantine d’Italia, «Servizio informazioni chiese orientali», 60, 2005, pp. 196-224.

21 H.J. Burgwyn, Empire on the Adriatic: Mussolini’s conquest of Yugoslavia 1941-1943, New York 2005.

22 P.A. Carnier, L’Armata cosacca in Italia, Milano 1990; A. Dessy, Kosakenland in Nord Italien – I cosacchi di Krassnov in Carnia – (agosto 1944-giugno1945) e la loro forzata consegna ai sovietici (28 maggio-7 giugno 1945), tesi di laurea, Padova 2004; N. Calzolari, Kosakenland in Italien, Film – documentario, RAI Sede Regionale Friuli-Venezia Giulia, Trieste 2002.

23 Una descrizione precedente alla demolizione si può vedere in G. Piombanti, Guida storica ed artistica della città e dei dintorni di Livorno, Livorno 1903.

24 V. Vaccaro, La Chiesa ortodossa russa di Firenze, Livorno 1998.

25 A. Cesari, D. Fanelli, La migrazione albanese in Italia fra passato e presente: la comunità arbëreshë in Italia: il caso di Portocannone e Montecilfone, Torino 2004.

26 I. Doens, P. Wiertz, Zum Dekret über die katholischen Ostkirchen “Orientalium Ecclesiarum”, in Handbuch der Ostkirchenkunde, Düsseldorf 1983-1996, pp. 683-687.

27 J. Madey, Orientalium ecclesiarum, more than twenty years after. A new commentary on Vatican II’s decree on the Oriental Catholic Churches, Kottayam 1986; V. Peri, La lettura del concilio di Firenze nella prospettiva unionistica romana, in Christian Unity, the council of Ferrara – Florence (1438/9-1989), ed. by G. Alberigo, Leuven 1991, pp. 593-611.

28 R. Morelli, Cacciato dall’Italia l’ex pope ortodosso allineato coi serbi, «Corriere della sera», 3 febbraio 1993, disponibile su http://archiviostorico.corriere.it/1993/febbraio/03/cacciato_dall_Italia_pope_ortodosso_co_0_9302038385.shtml.

29 M. Talalay, Ortodossia russa in Italia, «Religioni e società», 13, 1998, 30, pp. 90-98; B.C. Wojcik, An Anthology of Orthodox Churches in Italy, Minnesota 1992; L. Berzano, A. Cassinasco, Cristiani d’Oriente in Piemonte, Torino 1999.

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