Organizzazione amministrativa 3. Regioni ed enti locali

Diritto on line (2015)

Guido Clemente di San Luca

Abstract

Viene illustrato, in estrema sintesi, l’insieme della organizzazione relativa alle autonomie territoriali locali, riconosciute fondamentali nell’ordinamento costituzionale, basato sul principio di sussidiarietà.

Il pluralismo istituzionale e autonomistico

La terza grande tipologia organizzatoria in cui si articola il sistema delle PP.AA. in Italia è quella del pluralismo istituzionale e autonomistico, cui fa capo l’insieme delle strutture amministrative degli enti territoriali infranazionali, i quali, al pari dello Stato, sono ad investitura democratica, hanno vocazione politica perché titolari dell’indirizzo politico della comunità di riferimento, e dunque sono a fini generali (si v. voce Organizzazione amministrativa 1. Profili generali). Da ciò consegue che essi sono titolari della capacità di determinare, non soltanto l’entità, ma anche l’identità degli interessi da perseguire. Questa particolare forma di autonomia si definisce, appunto, autonomia di indirizzo politico-amministrativo, è esclusiva degli enti territoriali e va tenuta distinta dalla mera autonomia amministrativa di cui godono quelli istituzionali. Ed infatti, diversamente da questi, gli enti territoriali sono dotati di autarchia in via originaria e non derivata: è la investitura democratica, che ne caratterizza l’essenza definitoria, a qualificare l’autarchia come connotato naturale e proprio degli enti territoriali infranazionali.

La consacrazione costituzionale del valore autonomistico è nei Principi fondamentali della Carta Costituzionale, all’art. 5, dal cui testo si inferisce, in modo indiscutibile, che – potendosi riconoscere solamente ciò che già è, e che perciò non deriva la sua esistenza da un atto creativo del soggetto riconoscente –, stando alla volontà espressa dai Padri fondatori, le autonomie locali preesistono allo Stato (inteso come apparato), visto che vengono riconosciute dalla Repubblica (intesa come ordinamento). Il valore consacrato nella Costituzione affonda le radici nella cultura cattolica, ed in particolare nel pensiero sturziano, che prevalse all’esito del dibattito in Assemblea costituente: l’ordinamento giuridico generale italiano non può che essere costituito dal multiforme e variegato universo delle autonomie territoriali locali (e questo anche – ma, beninteso, non soltanto – in base a ragioni di ordine efficientistico).

L’assunto trova conforto nel dato testuale dell’art. 114 Cost., sia nella sua versione originaria («La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni»), sia nella sua versione attuale, dopo la l. cost. 18.10.2001, n. 3 («La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato»). Del resto – come si ebbe modo di notare tempo addietro – la ragione più profonda di un approccio favorevole alla lettura in chiave autonomistica dell’ordinamento sembra risiedere nella «interpretazione sistematica della Costituzione, sulla scorta della quale può ben dirsi che il testo fondamentale, prefigurando […] uno Stato regionale, qualifichi gli enti territoriali minori come vere e proprie “cellule” costitutive del “tessuto” istituzionale generale, e in quanto tali dotate del medesimo patrimonio genetico, così da presentare, seppure su scala ridotta, la identica qualità strutturale e funzionale del tessuto» (Clemente di San Luca, G., Libertà dell’arte e potere amministrativo. I. L’interpretazione costituzionale, Napoli, 1993, 268 ss.). Insomma, è nel disegno di Stato regionale e delle autonomie locali tracciato dall’art. 5 Cost. che può trovarsi sostegno definitivo alla tesi della Repubblica come espressione capace di sintetizzare, e rappresentare, tutte le forme istituzionali esponenziali della(/e) comunità stanziata(/e) sul territorio, e perciò comprensiva delle autonomie locali. Di qui si deriva abbastanza agevolmente che l’art. 5 racchiude una delle essenziali coordinate disposte dalla Carta Costituzionale per l’esercizio del potere pubblico, e specialmente di quello amministrativo: una coordinata senza dubbio finalizzata a garantire la corrispondenza dell’azione pubblica alla volontà della maggioranza dei consociati, che va ad aggiungersi a quelle di cui all’art. 97 Cost., secondo il quale sia la organizzazione che l’azione della P.A. devono essere improntate ad «imparzialità» e «buon andamento».

In questa prospettiva ermeneutica si muove uno dei più autorevoli e significativi commenti all’art. 5 della Costituzione: «Non compiutamente inteso, all’inizio della vicenda repubblicana, per i pesi esercitati da un canto dalla persistente e accettata organizzazione centralistica dello stato e dall’altro dall’attaccamento […] alla versione individualistica e liberale della libertà dei cittadini, [l’art. 5] ha preso quota via via come ponte necessario tra la società e le sue strutture. E per vero, la dottrina, che ha commentato all’inizio la Costituzione, non ha conferito il rilievo che esso meritava come norma guida della lettura di tutta la Costituzione, perlomeno quanto alla parte in cui i principi di fondo debbono riflettersi sulle strutture dell’ordinamento. Esso è stato letto invece prevalentemente attraverso la lente, e storica e giuridica, delle autonomie locali intese in senso tradizionale, con conseguente mortificazione della carica davvero rivoluzionaria che il testo normativo celava nelle sue espressioni» (così Berti, G., Art. 5, in Branca, G., a cura di, Commentario della Costituzione, volume su Principi fondamentali - art. 1-12, Bologna-Roma, 1975, 277 ss.). Ed invero – sebbene possa affermarsi che, nella interpretazione ormai consolidata dell’art. 5 Cost., Regioni e autonomie locali siano considerate come cellule costitutive del tessuto istituzionale italiano –, durante la vigenza dell’originario Titolo V, l’ordinamento regionale e autonomistico ha vissuto una “faticosa” affermazione. Nonostante ciò, e pur dovendosi registrare un esito fallimentare (almeno per molti versi) della esperienza regionale in Italia, comunque la cattiva prova fornita da siffatta esperienza non può valere a sostenere la riproposizione del centralismo. Il carattere costitutivo dell’ordinamento generale che assume il valore autonomistico consacrato nell’art. 5, Cost., infatti, va messo in luce in modo particolare, giacché, in virtù di tale norma, «l’autonomia diventa espressione di un modo di essere della Repubblica, quasi la faccia interna della sovranità dello stato. Vi è un notevole passo in avanti in questa formula e forse la più grossa anticipazione di tutta la costituzione: la trasformazione dello stato di diritto accentrato in stato sociale delle autonomie» (così, ancora, Berti, G., op.cit., 286).

È dunque attraverso la lente dell’art. 5, Cost., che va letto il novellato Titolo V della Costituzione. Le norme in esso contenute che qui maggiormente interessano sono, insieme all’art. 114, l’art. 117, che dispone in ordine alla distribuzione della potestà legislativa tra Stato e Regioni e di quella regolamentare fra Stato, Regioni ed autonomie territoriali locali, e, ancor più, l’art. 118, che dispone soltanto in ordine alla titolarità della potestà amministrativa in senso stretto, della quale occorre in particolare dar conto. Prima di illustrare il riparto della potestà amministrativa in senso stretto fra Stato, Regioni ed autonomie territoriali locali, però, va messo in rilievo che, nel separare la disciplina della potestà regolamentare da quella della potestà amministrativa in senso stretto, la Carta ha in un certo senso “scorporato”, sia pur non del tutto, l’attività regolamentare dalla funzione amministrativa (alla quale invece essa soggettivamente pertiene). In altre parole, il nuovo testo disciplina insieme la funzione normativa (quella consistente, cioè, nel “far le regole”), sia essa espressa in leggi o in atti amministrativi (art. 117), e separatamente la funzione amministrativa in senso stretto (art. 118).

La disciplina della potestà amministrativa nel Titolo V Cost. ed il superamento (pur non integrale) del “parallelismo” delle funzioni legislativa e amministrativa nella ripartizione di competenze tra Stato e Regioni

Secondo la versione originaria del Titolo V della Costituzione, le Regioni avevano potestà legislativa soltanto nelle materie elencate nell’art. 117, quelle non menzionate essendo attribuite alla potestà legislativa residuale (e quindi generale) dello Stato. In quel quadro la potestà amministrativa (tanto quella in senso stretto, quanto quella regolamentare) era distribuita secondo il principio del “parallelismo” delle funzioni. All’ambito materiale della potestà legislativa, quindi, corrispondeva quello della potestà amministrativa: giusta l’art. 118, co. 1, il soggetto istituzionale titolare del potere legislativo in una data materia era altresì attributario, in quella stessa materia, del potere amministrativo. Per quel che attiene alle modalità di esercizio, il co. 3 sanciva che «La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni e ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici», così immaginandosi un modello di amministrazione innovativo rispetto a quello tradizionale per Ministeri: un modello, cioè, basato sull’idea della Regione come ente di programmazione e di indirizzo, la concreta gestione dei compiti amministrativi dovendo, di regola, essere delegata agli enti territoriali infraregionali. L’occasione non fu colta dalle Regioni, le quali, rinunciando ad ogni fantasia istituzionale, riproposero il modello ministeriale, organizzandosi per assessorati votati essenzialmente alla gestione attiva degli affari amministrativi. Tradendo così il disegno dei Costituenti, le Regioni hanno finito per costruire un nuovo centralismo, concentrando il potere amministrativo sulle proprie strutture burocratiche, anziché “scioglierlo”, a dir così, nell’esercizio delle autonomie.

Significativi mutamenti a questo modello sono stati introdotti dalla l. cost. n. 3/2001. È opinione largamente condivisa in dottrina, e per certi versi anche in giurisprudenza, che la riforma del Titolo V abbia prodotto una vera e propria “rivoluzione” nei rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali territoriali. Il nuovo art. 117 Cost. “capovolge” letteralmente la logica distributiva del potere legislativo, giacché la residualità dell’ambito competenziale è invertita: se nell’originario Titolo V la competenza legislativa generale era dello Stato, oggi è delle Regioni. Il co. 2 dell’art. 117 Cost. novellato, infatti, elenca in maniera tassativa le materie di competenza legislativa «esclusiva» dello Stato; il co. 3 elenca in maniera indicativa le materie di competenza «concorrente» delle Regioni, la «determinazione dei principi fondamentali» delle quali è comunque riservata alla legge dello Stato; il co. 4, infine, contiene la clausola di chiusura del sistema, prevedendo che «Spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato».

Non meno rilevanti sono le novità concernenti il riparto della potestà amministrativa. Anzitutto, il Legislatore costituzionale – come riferito poc’anzi –, nel diversificare la disciplina della potestà amministrativa normativa da quella della potestà amministrativa in senso stretto, ha lasciato inalterato il principio del “ parallelismo” soltanto con riguardo alla prima. Il co. 6 del novellato art. 117 Cost. dispone che «La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite».

In secondo luogo – ciò che qui più importa – la potestà amministrativa in senso stretto, almeno in via di principio, è oggi dislocata in modo radicalmente differente rispetto al passato. Diversamente che per la potestà amministrativa normativa, per quella amministrativa in senso stretto viene abbandonato il principio del “parallelismo”. Il nuovo testo, infatti, al co. 1, così recita: «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza». Stando al testo riformato, dunque, la generalità delle funzioni amministrative (ma, a ben vedere, delle materie, giacché – è evidente – si fa riferimento a queste) spetta originariamente ai Comuni. Solo quando sussistano necessità di «esercizio unitario», è possibile che la legge – «statale o regionale, secondo le rispettive competenze» (co. 2) – “sposti” la competenza amministrativa, conferendo le «funzioni amministrative» ad un livello di governo di raggio geografico più ampio in base ai «principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza».

Sembra difficilmente contestabile che il senso fatto palese dalla disposizione dell’art. 118, co. 1, sia quello di riconoscere al Comune il ruolo di primo attore nell’esercizio della funzione amministrativa nelle relative materie di competenza. Può dirsi cioè che, giusta la dizione della norma, il novero delle materie di competenza del Comune risulta definitivamente ampliato (quanto meno in linea teorica): l’insieme di queste, invero, nasce potenzialmente illimitato, e suscettibile di restrizioni soltanto a seguito di motivate esigenze di unitarietà. Parimenti, il nuovo disegno costituzionale può dirsi sufficientemente chiaro sotto il profilo del metodo di azione prescritto, tale metodo essendo ispirato alla sussidiarietà, da intendersi come principio che legittima gli interventi sostitutivi soltanto ove occorra garantire «l’esercizio unitario» delle funzioni, e dunque – lo esplicita a chiare lettere, con riguardo ai poteri sostitutivi del Governo, l’art. 120, co. 2, Cost. – solo «quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Piuttosto, stante la poco chiara formulazione del co. 2 dell’art. 118, Cost., il quale distingue tra funzioni «proprie» e funzioni «conferite», senza peraltro tracciare nemmeno una ipotesi per la loro possibile identificazione, si presenta di particolare problematicità interpretativa la puntuale definizione della tipologia di funzioni/materie di spettanza dei Comuni ( v. infra, § 3).

Definizione delle materie di competenza degli enti territoriali locali e principio di sussidiarietà (“verticale”)

La definizione degli ambiti materiali di competenza amministrativa degli enti territoriali locali – lo si è appena riferito – rappresenta il profilo di maggiore problematicità nella interpretazione dell’art. 118. Mentre, come abbiamo visto, il co. 1 di tale articolo dispone che, fatto salvo il conferimento per esigenze di unitarietà, le «funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni»; il co. 2 del medesimo articolo sancisce che «i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze». Si intuisce facilmente la scarsa chiarezza del testo, il verbo adoperato – attribuire – presentando una certa (forse non casuale) ambiguità. La poca chiarezza è resa ancor più evidente dalla disposizione dell’art. 117, co. 2, lett. p), che rimette alla legislazione esclusiva dello Stato la individuazione delle «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane».

Si tratta, quindi, di capire se, ed in che misura, le disposizioni richiamate facciano riferimento (o meno) a tre differenti tipologie di funzioni/materie. La questione sembra tuttora non aver trovato soluzione unanime. Secondo la tesi più accreditata, l’intricato nodo interpretativo va sciolto nel senso che le funzioni amministrative – in via di principio ed in generale – sono tutte attribuite ai Comuni dalla Costituzione, per essere poi, dalla stessa Carta Costituzionale, distinte in: (a) proprie e/o fondamentali, stabilite dalla legislazione esclusiva dello Stato; e (b) conferite con legge statale o regionale ai soggetti esponenziali dei livelli di governo di raggio geografico più ampio (Province e Città metropolitane, Regioni e Stato) laddove sia necessario «assicurarne l’esercizio unitario».

Un (sia pur contenuto) contributo di chiarificazione coerente col senso appena detto è offerto dalla l. 5.6.2003, n. 131 (cd. “legge La Loggia”, recante Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), che, all’art. 2, co. 1, qualifica come «funzioni fondamentali» quelle «essenziali per il funzionamento di Comuni, Province e Città metropolitane nonché per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento». Il che equivale a dire che le funzioni fondamentali dei Comuni dovrebbero ritenersi coincidenti, seppur non in toto, con le funzioni proprie di cui è parola nell’art. 118, co. 2. L’insieme di queste ultime, insomma, comprenderebbe, ma non verrebbe esaurito dall’insieme delle prime (tutte le fondamentali sarebbero proprie, non tutte le proprie sarebbero fondamentali): mentre le fondamentali sono “proprie” di tutti gli enti territoriali di una stessa species, le proprie sono “proprie” di ciascun singolo ente territoriale, esse indicando una proprietà, una caratteristica peculiare, che si risolve in quel tratto antropologico che distingue Comune da Comune, Provincia da Provincia, e così via. Anche alla luce della “legge La Loggia”, dunque, sembra si possa ritenere che al Comune spetta la competenza generale nell’esercizio della funzione amministrativa in senso stretto, una volta che la legge statale abbia individuato le materie di cui ogni ente locale è titolare perché «connaturate alle caratteristiche proprie» (e cioè quelle materie «essenziali e imprescindibili per il funzionamento dell’ente e per il soddisfacimento di bisogni primari delle comunità di riferimento», ad identificare le quali contribuisce «in via prioritaria» la circostanza fattuale dell’esser queste, per tradizione amministrativa, «storicamente svolte» da Comuni e Province: art. 2, co. 4, lett. b); e che la legge statale o la legge regionale abbiano conferito le materie da attribuirsi a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, all’unico scopo di «assicurare l’unitarietà di esercizio» della funzione amministrativa (art. 7, co. 1).

Resta ora da chiarire in che modo la legge statale e la legge regionale di conferimento delle funzioni devono «assicurarne l’esercizio unitario» attraverso l’applicazione del principio di sussidiarietà “verticale”, il quale postula che, allocati i compiti al livello di governo più vicino agli interessi da tutelare in ossequio al rispetto del valore autonomistico, le istituzioni di raggio geografico più ampio vengano considerate attributarie di un dato compito solo laddove quelle di raggio geografico minore non siano strutturalmente in grado di assolverlo (si v. voce Sussidiarietà [dir. UE]). In altre parole, la sussidiarietà segna la regola dei rapporti tra i livelli di governo, così che ogni “funzione” venga assegnata all’attore istituzionale operante sulla circoscrizione territoriale più ampia soltanto laddove il suo esercizio da parte di quello operante su una delle circoscrizioni territoriali di cui essa si compone non sia in grado di conseguire in maniera soddisfacente l’interesse pubblico, così come definito da standard in qualche modo prefissati. Il fine che si vuole perseguire, insomma, sembra consistere nel sostenere, in via sussidiaria, quelle manifestazioni di autonomia che si rivelino da sole incapaci di garantirsi la sopravvivenza.

Non v’è dubbio che, così concepito, il principio può costituire un efficace strumento per la valorizzazione delle capacità delle autonomie territoriali, le quali – una volta liberate dalla morsa paralizzante delle burocrazie conservatrici – possono dispiegare tutte le loro energie per la cura degli interessi delle comunità di cui sono enti esponenziali, in ciò rassicurate dalla “certezza”, in caso di difficoltà, dell’intervento da parte del soggetto sussidiante. Tuttavia, bisogna mettere in evidenza il rischio di una sua errata applicazione. Ed invero, è bene sottolineare che, se l’attore istituzionale sussidiante fissa in maniera unilaterale, sia gli obiettivi che l’attore sussidiato dovrà raggiungere con la sua azione, sia i parametri da rispettare, pena la sottrazione dei relativi compiti, la sussidiarietà diventa uno strumento di omologazione, il quale, anziché “servire” il valore autonomistico, finisce per mortificarlo.

D’altra parte, quanto al principio di differenziazione, è opinione ampiamente condivisa in dottrina che esso debba intendersi come rispetto della diversità connotante il patrimonio antropologico-culturale di ciascuna comunità, infranazionale o infraregionale che sia. Ed il principio di adeguatezza, secondo il quale ogni soggetto istituzionale deve essere (almeno astrattamente) idoneo a svolgere il compito al quale è chiamato, ben potrebbe anche leggersi, all’opposto, proprio come rispetto della “autonomia”, che potrà, sì, vedersi compressa da azioni sostitutive, ma, appunto, solo attraverso interventi “adeguati”, e cioè non arbitrariamente invasivi della identità antropologica che è in essa istituzionalizzata.

Il modello di funzionamento (almeno in astratto) del sistema regionale e delle autonomie

Secondo quanto prescritto dalle norme costituzionali e primarie vigenti, il modello di funzionamento del sistema regionale e delle autonomie si basa sulla reciproca interdipendenza degli enti territoriali locali concentrici ma di differente raggio geografico: ogni ente, pur conducendo una esistenza sua propria, al tempo stesso è legato al funzionamento degli altri, ed è proprio questa circostanza a fare del tutto un sistema. Intorno ad ogni Regione, nell’ambito di un variegato universo (fatto di enti sia territoriali sia istituzionali), orbitano le Province; intorno a ciascuna di queste, a loro volta, e anche qui nell’ambito di un variegato universo, orbitano i Comuni. La vita istituzionale di un Comune trova un non marginale tratto connotativo di sé nel rapporto di fisiologica interdipendenza con la Provincia del cui territorio il suo territorio è parte. Alla stessa stregua, un significativo tratto della vita istituzionale di quella Provincia è costituito dal rapporto di fisiologica interdipendenza con la Regione del cui territorio il suo territorio è parte (del resto, così è pure per la vita della Regione per effetto del rapporto con lo Stato). Il meccanismo è riscontrabile anche con riferimento a qualsiasi ente istituzionale – strumentale od ausiliare che sia – facente capo al Comune, alla Provincia o alla Regione, sebbene si manifesti con una diversa intensità, qualitativa e quantitativa, della relazione (dipendente dalla disciplina che la fonte, di volta in volta, dispone).

La descritta interdipendenza fra gli enti territoriali/pubblici poteri dovrebbe realizzarsi in concreto mediante l’applicazione del richiamato principio di sussidiarietà (v. supra, § 3). Il condizionale è d’obbligo, visto che, affinché il modello possa effettivamente funzionare, appare indispensabile una specifica cultura istituzionale, la quale si declina in una cultura regionale di governo (e cioè nel governare la comunità nazionale attraverso un metodo di governo regionale), in una cultura regionale nel Governo (e cioè nella sensibilità alla questione autonomistica nel Governo della Repubblica), ed infine in una cultura di governo regionale (e cioè nell’attitudine a cogliere appieno il significato “culturale” del governare in modo regionale). Può ben dirsi che una tale cultura sia mancata nel faticoso processo storico di attuazione dell’ordinamento regionale e delle autonomie. Ne è prova, in qualche modo, l’inefficace impatto, con riguardo in modo particolare al ruolo della Provincia, di tre fra le più significative leggi ordinarie in materia di ordinamento degli enti locali che hanno preceduto la riforma costituzionale del 2001: la l. 8.6.1990, n. 142, la l. 13.03.1997, n. 59 ed il d.lgs. 18.8.2000, n. 267, Testo Unico degli enti locali).

Ed invero, dopo la non felice esperienza degli anni Settanta del secolo scorso, la l. n. 142/1990 assegnò alla Provincia importanti funzioni di programmazione, amministrazione e gestione in molteplici materie(art. 14), riconoscendole un ruolo importante quale centro di mediazione degli interessi pubblici tra la Regione ed i Comuni, e quale sede naturale di raccordo delle proposte di questi per la definizione del programma regionale. La l. n. 59/1997, poi, (emanata sul presupposto dell’approvazione – che allora appariva certa – della proposta di legge costituzionale elaborata dalla Commissione Bicamerale, istituita nel 1997 con il compito di elaborare una proposta di revisione della intera Seconda Parte della Carta), che sembrò segnare una svolta decisiva in direzione della valorizzazione del sistema delle autonomie, realizzando il massimo “federalismo possibile” a Costituzione invariata (ma, in realtà, recando in sé non pochi dubbi di costituzionalità), nel porre al centro il principio di sussidiarietà, confermò il ruolo della Provincia. Il TUEL, infine – ultima tappa prima della riforma costituzionale del 2001 –, per gran parte incorporò la disciplina già contenuta nella l. n. 142/1990, non senza alcune rilevanti integrazioni, molte delle quali dovute anche alla indispensabile opera di coordinamento con le altre preesistenti disposizioni legislative (aventi ad oggetto alcuni specifici aspetti della materia non toccati dalla legge del 1990) che pure vennero assorbite nel nuovo corpo normativo. In particolare, per quanto qui specificamente interessa, furono confermate le disposizioni della l. n. 142/1990 concernenti la definizione generale dell’autonomia di Comuni e Province, nonché la titolarità delle loro funzioni (art. 3), così come si ribadì la disciplina del «Sistema regionale delle autonomie locali» (art. 4), fondata sulla centralità del metodo cooperativo fra le istituzioni esponenziali di comunità concentriche, «al fine di consentire la collaborazione e l’azione coordinata fra Regioni ed enti locali nell’ambito delle rispettive competenze» (co. 4 e 5). Restò pressoché inalterato anche il meccanismo predisposto dalla l. n. 142/1990 per la «Programmazione regionale e locale» (art. 5). La Regione rimane il perno principale della procedura: è essa che indica «gli obiettivi generali della programmazione economico-sociale e territoriale» e ripartisce le risorse (co. 1); è essa che, con legge, «stabilisce forme e modi della partecipazione degli enti locali alla formazione dei piani e programmi regionali e degli altri provvedimenti della Regione» (co. 3); è essa, ancora, che, con legge, «indica i criteri e fissa le procedure per gli atti e gli strumenti della programmazione socio-economica e della pianificazione territoriale dei Comuni e delle Province», sia pur se solo di quelli «rilevanti ai fini dell’attuazione dei programmi regionali» (co. 4); è essa, infine, e sempre con legge, a disciplinare «con norme di carattere generale, modi e procedimenti per la verifica della compatibilità fra gli strumenti di cui al comma 4 e i programmi regionali, ove esistenti» (co. 5). Nonostante riservi alla legge regionale la definizione delle relative modalità, peraltro, il T.U. impone la concorrenza di Comuni e Province «alla determinazione degli obiettivi contenuti nei piani e programmi dello Stato e delle Regioni», stabilendo che essi «provvedono, per quanto di loro competenza, alla loro specificazione ed attuazione» (art. 5, co. 2); così come riconosce a Comuni e Province la capacità di adottare «regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni» (art. 7).

Ebbene, la cattiva prova fornita dalla implementazione di queste leggi rappresenta una testimonianza difficilmente contestabile dell’assai scarsa presenza della menzionata cultura istituzionale, indispensabile per realizzare il prefigurato modello di governo regionale e delle autonomie, scarsa presenza che sembra trovare inesorabile conferma nella recente l. 7.4.2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), con la quale si è radicalmente trasformato l’assetto strutturale della Provincia, al tempo stesso dando finalmente vita alle Città metropolitane, sin qui rimaste solo nel testo delle disposizioni normative, da un lato, ed ulteriore impulso all’Unione di Comuni, dall’altro.

Cenni sulla struttura degli enti territoriali infranazionali: Regione, Provincia, Città metropolitana e Comune

Gli enti territoriali infranazionali, a norma dell’art. 114, co. 2, Cost., sono «enti autonomi», dotati di «propri statuti» e di «poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione».

a) La Regione. La struttura amministrativa della Regione è stabilita dallo Statuto, che «ne determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» (art. 123 Cost.). I suoi organi fondamentali sono «il Consiglio regionale, la Giunta e il suo presidente» (art. 121, co. 1, Cost.). Il Consiglio e il Presidente sono eletti direttamente dal corpo elettorale e la loro durata in carica è fissata in cinque anni. Il Consiglio – presieduto da un Presidente eletto tra i suoi componenti (art. 122, co. 3, Cost.) – «esercita le potestà legislative attribuite alla Regione e le altre funzioni conferitegli dalla Costituzione e dalle leggi», potendo altresì «fare proposte di legge alle Camere» (art. 121, co. 2, Cost.). Ad esso compete, inoltre, l’approvazione, anche con eventuali modifiche, dello Statuto (art. 123, co. 2, Cost.). Le funzioni amministrative spettanti al Consiglio sono assegnate dalla legge e dallo Statuto: di regola, si tratta prevalentemente delle funzioni relative all’ordinamento degli uffici e dei servizi ad esso facenti capo. La Giunta è «l’organo esecutivo» (art. 121, co. 3, Cost.), e partecipa direttamente all’attività di indirizzo politico della Regione, la sua principale attribuzione consistendo nella funzione di iniziativa politica, che si esprime attraverso la presentazione di disegni di legge al Consiglio. Ad essa spetta inoltre la potestà regolamentare. L’art. 122 Cost., nella originaria formulazione, prevedeva che i membri della Giunta, unitamente al Presidente, fossero «eletti dal Consiglio regionale tra i suoi componenti». Con la riscrittura della norma ad opera della l. cost. 22.11.1999, n. 1, che esprime l’opzione di fondo per l’elezione diretta da parte del corpo elettorale del Presidente della Giunta, si rimette a quest’ultimo la nomina e la revoca dei suoi componenti, facendo comunque salva la facoltà degli Statuti di disporre diversamente (co. 5), e rinviando alla legge regionale la disciplina dei casi «di incompatibilità» (co. 1) ulteriori rispetto a quelli prescritti dalla Costituzione e dalla l. 2.7.2004, n. 165. Il Presidente della Giunta «rappresenta la Regione; dirige la politica della Giunta e ne è responsabile; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica» (art. 121, co. 4, Cost.). Esso fissa la riunione e l’ordine del giorno della Giunta dirigendone i lavori, e coordina l’attività degli Assessorati. Per quel che concerne la sua elezione, l’art. 122 Cost. prevede che «Il Presidente della Giunta regionale, salvo che lo statuto regionale disponga diversamente, è eletto a suffragio universale e diretto» (co. 5), non essendo immediatamente rieleggibile allo scadere del secondo mandato (art. 2, co. 1, lett. f, della l. n. 165/2004).

b) La Provincia. Come si è accennato, la recente storia della Provincia sembra spiegare bene la scarsezza di cultura istituzionale autonomistica. Dopo un intenso dibattito – a dire il vero discutibile per la poco consistente fondatezza della effettività delle sue ragioni, espresse da argomenti di forte e sicura presa sulla opinione pubblica, ma in prevalenza demagogici – con la richiamata l. n. 56/2014 (che, essendo oggetto di un voto di fiducia, consta del solo art. 1, composto di ben 151 commi) si è provveduto a ridefinirne la struttura, in un assetto che può ben dirsi provvisorio (perché dettato – come recita il co. 51 – «In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione»). Sebbene sembri persistere il ruolo della Provincia quale indispensabile soggetto intermedio, snodo essenziale della programmazione regionale, tant’è che ad essa – definita ente territoriale «di area vasta» (co. 3) – continuano a spettare «le funzioni esercitate ai sensi dell’articolo 118 della Costituzione» (co. 52), allo scopo dichiarato di ridurre i costi della “sfera pubblica” (ma senza adeguata dimostrazione del come, se si esclude l’esercizio «a titolo gratuito» degli incarichi «di sindaco metropolitano, di consigliere metropolitano e di componente della conferenza metropolitana», co. 24, e di quelli «di presidente della provincia, di consigliere provinciale e di componente dell’assemblea dei sindaci», co. 84, nonché di «Tutte le cariche nell’unione» di Comuni, co. 108) è stata soppressa la elezione diretta degli organi fondamentali, rimettendosi la loro composizione ad un complicato meccanismo di elezione indiretta ad opera degli eletti nei Comuni insistenti sul territorio della circoscrizione provinciale.

In realtà è mutato proprio l’assetto strutturale, dacché fra gli organi delle Province non figura più la Giunta: oltre al Presidente ed al Consiglio provinciale, oggi compare «l’assemblea dei sindaci» (co. 54). A questa, che è «costituita dai sindaci dei comuni appartenenti alla provincia» (co. 56), sono assegnati «poteri propositivi, consultivi e di controllo secondo quanto disposto dallo statuto»; essa, in particolare, «adotta o respinge lo statuto proposto dal consiglio» (co. 55). Diversamente Presidente e Consiglio vengono eletti «con voto diretto, libero e segreto» (rispettivamente co. 62 e 74): epperò, non più direttamente dal corpo elettorale, bensì «dai sindaci e dai consiglieri dei comuni della provincia» (rispettivamente co. 58 e 69). Il primo «rappresenta l’ente, convoca e presiede il consiglio provinciale e l’assemblea dei sindaci, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto» (co. 55). Esso dura in carica quattro anni (co. 59) ed è eleggibile fra «i sindaci della provincia, il cui mandato scada non prima di diciotto mesi dalla data di svolgimento delle elezioni» (co. 60). Il Consiglio, invece, costituisce «l’organo di indirizzo e controllo»: esso, infatti, «propone all’assemblea lo statuto, approva regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal presidente della provincia; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto». Inoltre, su proposta del Presidente, «adotta gli schemi di bilancio» sui quali deve esprimere parere l’Assemblea dei Sindaci, parere indispensabile perché esso approvi i bilanci in via definitiva (co. 55). Il Consiglio – che «è composto dal presidente della provincia e da sedici componenti nelle province con popolazione superiore a 700.000 abitanti, da dodici componenti nelle province con popolazione da 300.000 a 700.000 abitanti, da dieci componenti nelle province con popolazione fino a 300.000 abitanti» (co. 67) –, diversamente dal Presidente, «dura in carica due anni» (co. 68) ed i suoi componenti sono eleggibili tra «i sindaci e i consiglieri comunali in carica» (co. 69).

c) La Città metropolitana. La Città metropolitana, che dall’art. 114, co. 2, Cost. è in tutto parificata a Comune e Provincia, già prevista dall’art. 18, l. n. 142/1990, e poi oggetto di regolazione ad opera dell’art. 23 TUEL, è oggi disciplinata, come la Provincia, dalle disposizioni della l. n. 56/2014, che la disegnano in maniera non dissimile da questa, tant’è che anch’essa è definita come ente territoriale «di area vasta», avente «le seguenti finalità istituzionali generali: cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della città metropolitana; cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, ivi comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee» (art. 1, co. 2). La novità più significativa al riguardo è rappresentata dal fatto, per nulla irrilevante, che la materiale istituzione di tali enti non è più rimandata alla successiva iniziativa degli enti locali interessati (come nella disciplina previgente), ma è opera diretta della legge, la quale, costituendole nelle conurbazioni «di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria» (co. 5 e 12), dispone che «Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia omonima», fatte salve le eventuali modifiche delle circoscrizioni provinciali coinvolte nel processo, per la cui realizzazione è prevista una procedura coerente con quella dettata dall’art. 133 Cost. (co. 6). Un’autonoma disciplina è dettata per la Città metropolitana di Roma capitale (co. 101-103).

Con ogni evidenza, la ratio della istituzione di una Città metropolitana resta quella in qualche modo esplicitata dall’art. 23 TUEL, dal quale si inferisce che essa risiede in una «contiguità territoriale» così particolarmente intensa da generare «rapporti di stretta integrazione in ordine all’attività economica, ai servizi essenziali, ai caratteri ambientali, alle relazioni sociali e culturali» tra il Comune capoluogo e quelli contermini. Ciò spiega la maggiore pregnanza, rispetto a quelle attribuite alle Province, delle funzioni assegnate alle Città metropolitane. Ed infatti, oltre a quelle «fondamentali delle province» ed a «quelle attribuite alla città metropolitana nell’ambito del processo di riordino delle funzioni delle province», ad esse spettano «le seguenti funzioni fondamentali: a) adozione e aggiornamento annuale di un piano strategico triennale del territorio metropolitano, che costituisce atto di indirizzo per l’ente e per l’esercizio delle funzioni dei comuni e delle unioni di comuni compresi nel predetto territorio, anche in relazione all’esercizio di funzioni delegate o assegnate dalle regioni, nel rispetto delle leggi delle regioni nelle materie di loro competenza; b) pianificazione territoriale generale, ivi comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture appartenenti alla competenza della comunità metropolitana, anche fissando vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei comuni compresi nel territorio metropolitano; c) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano. D’intesa con i comuni interessati la città metropolitana può esercitare le funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive; d) mobilità e viabilità, anche assicurando la compatibilità e la coerenza della pianificazione urbanistica comunale nell’ambito metropolitano; e) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale, anche assicurando sostegno e supporto alle attività economiche e di ricerca innovative e coerenti con la vocazione della città metropolitana come delineata nel piano strategico del territorio di cui alla lettera a); f) promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano» (co. 44). Tutto ciò senza che sia pregiudicata la logica dell’attribuzione di funzioni di cui all’art. 118 Cost. (co. 45), e fatta salva la possibilità, coerente con l’art. 118, che Stato e Regioni attribuiscano loro – «ciascuno per le proprie competenze» – «ulteriori funzioni» (co. 46).

Sebbene i poteri assegnati alle Città metropolitane siano assai più rilevanti di quelli attribuiti alle Province “normali” (insistenti, cioè, su aree non “conurbate”), si presenta analoga la loro conformazione strutturale. La legge, invero, prevede quali «organi della città metropolitana: a) il sindaco metropolitano; b) il consiglio metropolitano; c) la conferenza metropolitana» (co. 7), quest’ultima figurando in luogo della Giunta metropolitana (prevista dalla previgente disciplina), benché, diversamente da questa, sia «composta dal sindaco metropolitano, che la convoca e la presiede, e dai sindaci dei comuni appartenenti alla città metropolitana» (co. 42), e svolga un ruolo ben diverso, ad essa spettando soltanto «poteri propositivi e consultivi, secondo quanto disposto dallo statuto» (co. 8), nonché quello di adottare o respingere «lo statuto e le sue modifiche proposti dal consiglio metropolitano» (co. 9). Dissimilmente dal Presidente della Provincia – che è sempre eletto, sia pur non direttamente dal corpo elettorale –, il Sindaco metropolitano «è di diritto il sindaco del comune capoluogo» (co. 19), a meno che lo statuto non ne preveda «l’elezione diretta», ma a suffragio universale, e sempre che prima «si sia proceduto ad articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni», il relativo sistema elettorale essendo «determinato con legge statale» (co. 22). Esso «rappresenta l’ente, convoca e presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto» (co. 8). Al pari di quello provinciale, invece, il Consiglio metropolitano viene sempre eletto, normalmente «dai sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni della città metropolitana», i suoi componenti dovendo essere scelti fra «i sindaci e i consiglieri comunali in carica» (co. 25), a meno che lo statuto non ne preveda la elezione diretta a suffragio universale, con le stesse regole previste per quella del Sindaco (co. 22). Esso costituisce «l’organo di indirizzo e controllo», ed infatti «propone alla conferenza lo statuto e le sue modifiche, approva regolamenti, piani e programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal sindaco metropolitano; esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto». Inoltre, su proposta del Sindaco metropolitano, «adotta gli schemi di bilancio» sui quali si deve esprimere la Conferenza metropolitana, il cui parere è necessario per l’approvazione dei bilanci dell’ente (co. 8). Il Consiglio – che «è composto dal sindaco metropolitano e da: a) ventiquattro consiglieri nelle città metropolitane con popolazione residente superiore a 3 milioni di abitanti; b) diciotto consiglieri nelle città metropolitane con popolazione residente superiore a 800.000 e inferiore o pari a 3 milioni di abitanti; c) quattordici consiglieri nelle altre città metropolitane» (co. 20) – «dura in carica cinque anni» (co. 21). Resta infine da precisare – ribadendo quanto riferito poc’anzi – che all’interno della Città metropolitana è possibile «articolare il territorio del comune capoluogo in più comuni»: siffatta articolazione deve essere proposta dal Comune capoluogo, «con deliberazione del consiglio comunale, adottata secondo la procedura prevista dall'articolo 6, comma 4, del testo unico», e «sottoposta a referendum tra tutti i cittadini della città metropolitana» (co. 22).

d) Il Comune. Gli organi del Comune sono individuati non già dalla Costituzione, bensì dall’art. 36, co. 1 e 2, del TUEL, e sono il Consiglio, la Giunta ed il Sindaco. Come per gli organi della Regione, il Consiglio ed il Sindaco sono eletti direttamente dal corpo elettorale, ed anche per essi la legge prevede una durata in carica quinquennale. Il Consiglio è composto dal Sindaco e da un numero variabile di consiglieri, dipendente dalle dimensioni demografiche del Comune (art. 37). Esso è presieduto da un Presidente eletto tra i consiglieri, eccezion fatta per i Comuni con popolazione inferiore ai 15 mila abitanti, nei quali il Consiglio comunale è presieduto dal Sindaco (art. 39, co. 1 e 3). Il Consiglio è «l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» (art. 42, co. 1), ed in tale veste «partecipa altresì alla definizione, all’adeguamento e alla verifica periodica dell’attuazione delle linee programmatiche da parte del sindaco […] e dei singoli assessori» (co. 3). È dotato di «autonomia finanziaria e organizzativa» e può avvalersi, ove lo Statuto lo preveda, di «commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale» (art. 38, co. 3 e 6). In particolare, fra le competenze del Consiglio fissate dal co. 2 dell’art. 42, si segnalano quelle in materia di «a) statuti dell’ente e delle aziende speciali, regolamenti», eccezion fatta per quelli concernenti l’ordinamento degli uffici e dei servizi, la cui adozione è di competenza della Giunta; «b) programmi, relazioni previsionali e programmatiche, piani finanziari, programmi triennali e elenco annuale dei lavori pubblici, bilanci annuali e pluriennali e relative variazioni, rendiconto, piani territoriali ed urbanistici, programmi annuali e pluriennali per la loro attuazione, eventuali deroghe ad essi, pareri da rendere per dette materie; c) convenzioni tra i comuni e quelle tra i comuni e provincia, costituzione e modificazione di forme associative; d) istituzione, compiti e norme sul funzionamento degli organismi di decentramento e di partecipazione; e) organizzazione dei pubblici servizi, costituzione di istituzioni e aziende speciali, concessione dei pubblici servizi, partecipazione dell’ente locale a società di capitali, affidamento di attività o servizi mediante convenzione; f) istituzione e ordinamento dei tributi, con esclusione della determinazione delle relative aliquote; disciplina generale delle tariffe per la fruizione dei beni e dei servizi; g) indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza»; nonché la «m) definizione degli indirizzi per la nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla legge». La Giunta comunale è composta dal Sindaco, che la presiede, e da assessori, il cui numero è stabilito «dagli statuti, […] e comunque non superiore a sedici unità» (art. 47, co. 1), nominati dal Sindaco, al quale la legge riconosce anche il potere di revocarli (art. 46, co. 2 e 4). È organo di governo a competenza residuale, spettando ad essa «tutti gli atti rientranti […] nella funzione degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco […] o degli organi di decentramento» (art. 48, co. 2). La Giunta «collabora con il sindaco […] nel governo del comune […] ed opera attraverso deliberazioni collegiali» (art. 48, co. 1). Ad essa compete l’adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio (co. 3). Il Sindaco è eletto «dai cittadini a suffragio universale e diretto» (art. 46, co. 1), con metodi diversi (comunque ispirati al criterio maggioritario) per i Comuni con più o meno di 15 mila abitanti. La legge definisce i Sindaci come «organi responsabili dell’amministrazione del comune» (art. 50, co. 1). Essi «rappresentano l’ente, convocano e presiedono la giunta […], e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti» (co. 2). Al Sindaco competono le funzioni «attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti», nonché la vigilanza su quelle «statali e regionali attribuite o delegate al comune» (co. 3). In particolare, al Sindaco spettano «le altre funzioni attribuitegli quale autorità locale nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge», e l’adozione «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale» delle «ordinanze contingibili e urgenti» (co. 4 e 5). Infine, ai sensi dell’art. 54 (recante Attribuzioni del Sindaco nei servizi di competenza statale), «quale ufficiale del Governo, sovraintende: a) all’emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalle leggi e dai regolamenti in materia di ordine e di sicurezza pubblica; b) allo svolgimento, in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, delle funzioni affidategli dalla legge; c) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto» (co. 1); nonché «alla tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e agli adempimenti demandatigli dalle leggi in materia elettorale, di leva militare e di statistica» (co. 3). Tra i suoi compiti, non meno rilevanti sono quelli che esitano nei poteri di nomina: e infatti, provvede «alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del comune […] presso enti, aziende ed istituzioni» (da effettuarsi «Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio»), nonché alla nomina dei «responsabili degli uffici e dei servizi», definendo e attribuendo «gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna» (art. 50, co. 8 e 10). Il Sindaco, come la Giunta, può essere destinatario di mozioni di sfiducia, che, comportando la cessazione dalla carica, rendono necessario lo scioglimento del Consiglio e la nomina di un commissario.

Gli «altri enti locali»: Unioni di Comuni, Comunità montane e Consorzi fra enti locali

Da Comuni, Province e Città Metropolitane – che insieme a Regioni e Stato costituiscono l’insieme degli enti territoriali/pubblici poteri –, vanno tenuti distinti gli «altri enti locali», ai quali, prima della riforma del 2001, l’art. 118 Cost. si riferiva esplicitamente: essi erano assimilati a Province e Comuni, tanto quali (eventuali) attributari di funzioni amministrative «di interesse esclusivamente locale» (co. 1); tanto quali (eventuali) delegati dalla Regione, «normalmente», per l’esercizio delle «sue funzioni amministrative» (co. 3); tanto, infine, quali “beneficiari” di un «controllo di merito» particolarmente blando, quello «nella forma di richiesta motivata agli enti deliberanti di riesaminare la loro deliberazione», che il co. 2 dell’art. 130 Cost. (oggi abrogato) riservava nei «casi determinati dalla legge», appunto, agli «atti delle Provincie, dei Comuni e degli altri enti locali». L’originario modello costituzionale di governo delle comunità infranazionali assegnava, oltre che a Province e Comuni, anche a questi “altri” soggetti un ruolo politico, che non era pensabile riconoscere a soggetti scollegati dalla investitura popolare, e cioè ad enti istituzionali operanti su circoscrizioni locali. Gli «altri enti locali», perciò, vennero identificati con quelli che comunque vantassero, sia pur indirettamente, una rappresentatività delle comunità stanziate sui rispettivi territori. Benché la riforma del 2001 non abbia riproposto la formula, ciò nondimeno le conclusioni cui si era pervenuti vigente il testo originario sembrano tuttora fondatamente persistere, sicché, anche in oggi, sono riconoscibili quali enti locali (ulteriori rispetto a Città metropolitane, Province e Comuni) le Unioni di Comuni, le Comunità montane ed i Consorzi fra enti locali: enti che, pur non essendo dotati di organi politici direttamente investiti dal voto popolare, sono non arbitrariamente assimilabili agli enti territoriali locali, vista la loro esponenzialità democratica “di secondo grado” (come s’è chiarito, del resto, oggi si caratterizzano per un’analoga connotazione anche Città metropolitane e Province).

a) Le Unioni di Comuni. Delle Unioni vi è traccia già nell’art. 118, r.d. 4.2.1915, n. 148 (Testo unico della legge comunale e provinciale). Previste poi dall’art. 26, l. n. 142/1990, e confermate dall’art. 32, co. 1, TUEL, esse sono oggi disciplinate dalla l. n. 56/2014, che le definisce come «enti locali costituiti da due o più comuni per l’esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza» (art. 1, co. 4). L’istituto, unitamente a quello della fusione di Comuni (entrambi, a dir così, “incentivati” dalla l. n. 56/2014), mira con ogni evidenza a risolvere il problema dell’eccessivo numero di Comuni (oltre 8.000), da chiunque considerato di ostacolo per un’amministrazione pubblica più efficiente e meno costosa. Naturalmente, mentre con la “fusione” non si genera una nuova species di ente locale, il processo esitando nella nascita di un nuovo Comune in luogo di quelli che si fondono (il che rende superfluo occuparsene, la relativa disciplina essendo quella riferita supra alla lett. d), ciò non accade per l’Unione di Comuni, che costituisce invece una ulteriore figura soggettiva, la cui origine si spiega con l’esigenza di razionalizzare la gestione di una funzione o di un servizio (obiettivo che gli unendi Comuni ritengono non utilmente conseguibile attraverso la mera stipula di una convenzione, ex art. 30 TUEL), e che, proprio per questo, è funzionalizzata al perseguimento di fini determinati.

Alla luce dell’art. 32, co. 3, TUEL (come modificato dall’art. 19, l. 7.8.2012, n. 135, e dal co. 105 dell’art. 1, l. n. 56/2014), organi dell’Unione sono il Presidente, la Giunta ed il Consiglio. La loro formazione non può implicare «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», essi dovendo essere composti «da amministratori in carica dei comuni associati». In particolare, mentre il Presidente «è scelto tra i sindaci dei comuni associati», e la Giunta «tra i componenti dell’esecutivo dei comuni associati», il Consiglio, che «è composto da un numero di consiglieri definito nello statuto», è eletto «dai singoli consigli dei comuni associati tra i propri componenti, garantendo la rappresentanza delle minoranze e assicurando la rappresentanza di ogni comune». Giusta il co. 4 dell’art. 32 TUEL (come modificato dal co. 105, l. n. 56/2014), all’Unione, cui è riconosciuta «potestà statutaria e regolamentare», vanno applicati, «in quanto compatibili e non derogati con le disposizioni della legge recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni, i principi previsti per l’ordinamento dei comuni, con particolare riguardo allo status degli amministratori, all’ordinamento finanziario e contabile, al personale e all’organizzazione». Quanto sinteticamente esposto sembra suggerire di qualificare l’Unione come una figura “ibrida”, giacché, se per un verso, sotto il profilo strutturale, risponde alla logica propria degli enti territoriali (è infatti ente esponenziale della comunità, sia pur di secondo livello), a questi potendo perciò assimilarsi, per altro verso, sotto il profilo funzionale, evoca invece la logica propria degli enti istituzionali strumentali (è infatti vocata al perseguimento di fini determinati eterostabiliti).

b) Le Comunità montane. Originariamente previste dall’art. 4, co. 2, della l. 3.12.1971, n. 1102 (recante Nuove norme per lo sviluppo della montagna), sono oggi disciplinate dal TUEL, che le qualifica espressamente come «enti locali», definendole «unioni di comuni» costituite «fra comuni montani e parzialmente montani, anche appartenenti a province diverse», allo scopo di valorizzare le «zone montane» (art. 27, co. 1). Gli ambiti territoriali nei quali è consentito costituirle sono individuati dalla Regione (co. 3). Esse possono esercitare tanto, in modo associato, «funzioni comunali», quanto «funzioni proprie» e «funzioni conferite» (artt. 27 e 28). Per realizzare i propri fini, le Comunità «adottano piani pluriennali di opere ed interventi e individuano gli strumenti idonei a perseguire gli obiettivi dello sviluppo socioeconomico, ivi compresi quelli previsti dalla Unione europea, dallo Stato e dalla regione» (art. 28, co. 3) e «concorrono alla formazione del piano territoriale di coordinamento» (co. 4).

Lo schema degli organi fondamentali della Comunità ricalca essenzialmente quello proprio degli enti territoriali locali: in particolare, essa «ha un organo rappresentativo e un organo esecutivo composti da sindaci, assessori o consiglieri dei comuni partecipanti. Il presidente può cumulare la carica con quella di sindaco di uno dei comuni della comunità. I rappresentanti dei comuni della comunità montana sono eletti dai consigli dei comuni partecipanti con il sistema del voto limitato garantendo la rappresentanza delle minoranze» (art. 27, co. 2). La Comunità montana appare figura meno “ibrida” della Unione di Comuni, considerato che, presentandosi del tutto simile a questa sotto il profilo strutturale, anche sotto quello funzionale sembra più assimilabile agli enti territoriali, vista la vocazione pianificatoria generale che la legge le riconosce.

c) I Consorzi fra enti locali. Già disciplinati anch’essi in varie disposizioni del Testo Unico del 1915 (artt. 117, 163, 164, 165, 167, 198, 241, 242 e 312), vennero sistemati organicamente, ma circoscrivendone in qualche modo la funzionalizzazione – «I comuni hanno facoltà di unirsi in consorzio fra di loro o con la provincia per provvedere a determinati servizi od opere di comune interesse» (art. 156, co. 1) – dal r.d. 3.3.1934, n. 383 (nuovo Testo Unico della legge comunale e provinciale), per poi essere riproposti, dapprima dalla l. n. 142/1990, ed oggi dall’art. 31 del TUEL. I Consorzi attualmente previsti, diversamente da quelli disciplinati dal Testo Unico del 1915, non si configurano quali enti a fini generali (del resto, vi possono aderire anche «altri enti pubblici», sempre che «siano a ciò autorizzati, secondo le leggi alle quali sono soggetti»), giacché possono essere costituiti soltanto per il perseguimento di fini determinati, e cioè per «la gestione associata di uno o più servizi» di interesse comune degli enti consorziati, o per «l’esercizio associato di funzioni» (art. 31, co. 1). Istituire un Consorzio è facoltà degli enti locali; nondimeno, «In caso di rilevante interesse pubblico, la legge dello Stato può prevedere la costituzione di consorzi obbligatori per l’esercizio di determinate funzioni e servizi» (co. 7).

Lo schema degli organi del Consorzio è parzialmente diverso da quello degli altri enti locali: esso consta, infatti, di una Assemblea, «composta dai rappresentanti degli enti associati nella persona del sindaco, del presidente o di un loro delegato, ciascuno con responsabilità pari alla quota di partecipazione fissata dalla convenzione e dallo statuto» (co. 4), e di un Consiglio di amministrazione, eletto dalla prima (co. 5). La composizione degli organi, dunque, è, sia pur in modo indiretto, rappresentativa; tuttavia, non potendo configurarsi sotto il profilo funzionale quali enti a fini generali sembra corretto ritenere fondate anche per i Consorzi le perplessità in precedenza menzionate per le Unioni.

Il decentramento e il policentrismo autarchici degli enti territoriali infranazionali: gli enti strumentali ed ausiliari di Regioni, Province e Comuni

I fenomeni di decentramento e policentrismo autarchici, che di regola operano in relazione al sistema amministrativo nazionale, riguardano anche quello autonomistico. L’autarchia, infatti, può ben dirsi attribuita agli enti strumentali e ausiliari degli enti territoriali infranazionali alla stessa stregua degli enti strumentali e ausiliari dello Stato. In altre parole, se è vero, da un canto, che tutti gli enti territoriali (non solo lo Stato), qualunque sia l’estensione della loro circoscrizione, dispongono naturalmente e originariamente di autarchia, dall’altro, è vero pure che essi sono in grado di attribuirla, nel costituire enti strumentali ovvero (più raramente, ma non lo si può escludere) nel riconoscere enti ausiliari, rispettivamente al momento della nascita o della “fagocitosi” di questi. Se ne consegue che tanto la Regione, quanto la Città metropolitana, la Provincia e il Comune possono perseguire i loro scopi, non soltanto attraverso l’attività dei loro apparati amministrativi, ma anche mediante persone giuridiche pubbliche, le quali dispongono, in quanto tali, di una più significativa autonomia amministrativa. Data la grande varietà tipologica, in gran parte derivante proprio dalla autonomia politica della quale tutti gli enti territoriali sono dotati, è pressoché impossibile, e certamente inutile, procedere ad una elencazione degli enti istituzionali facenti capo ad essi. Esemplificativamente vanno ricordati, per un verso, gli enti strumentali della Regione, tra i quali spiccano certamente gli enti regionali di sviluppo, di regola nei settori dell’agricoltura e dell’artigianato; e, per un altro, gli enti istituzionali degli enti territoriali locali, fra i quali vanno menzionati – oltre a Consorzi ed Unioni (v. supra, § 6), che si caratterizzano per una vocazione prevalentemente monofunzionale – le “aziende speciali” e le “istituzioni”, che il TUEL prevede quali forme strutturali per la gestione dei servizi pubblici locali (art. 114).

Fonti normative

R.d. 4.2.1915, n. 148, Testo unico della legge comunale e provinciale; r.d. 3.3.1934, n. 383, Approvazione del testo unico della legge comunale e provinciale; l. 8.6.1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali; l. 15.3.1997, n. 59, Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa; l. cost. 22.11.1999, n. 1, Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni; d.lgs. 18.8.2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali; l. cost. 18.10.2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione; l. 5.6.2003, n. 131, Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3; l. 2.7.2004, n. 165, Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione; l. 7.8.2012, n. 135, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, recante disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini; l. 7.4.2014, n. 56, Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni.

Bibliografia essenziale

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