ORAZIONE

Enciclopedia Italiana (1935)

ORAZIONE

Achille BELTRAMI
Vincenzo ARANGIO-RUIZ

. Antichità classica. - Il sistema retorico che, derivato dalla conciliazione dei due indirizzi pratico e scientifico risalenti rispettivamente ai sofisti e ai filosofi, in particolare ai peripatetici e agli stoici, e fondato sulla teoria e sulla praxis insieme combinate specialmente per merito di Ermagora di Temno, dominò come fondamento comune a Greci e Romani a un dipresso dal principio del sec. I a. C. sino agli ultimi tempi della nuova sofistica e del neoplatonismo, ossia da Cornificio e Cicerone fino a Longino e Siriano, abbracciava, nel suo complesso, la seguente materia. Anzitutto la natura, lo scopo, il contenuto della τέχνη, ars, e la precettistica sulle singole parti di essa come formatrice del futuro oratore. Queste parti per Ermagora erano: εὕρεσις, οἰκονομία e probabilmente anche μνήμη e ὑπόκρισις; l'οἱκονομία si suddivideva in κρίσις (iudicium), διαίρεσις (partitio), τάξις e λέξις. In seguito venne e rimase normale la divisione della tecnica retorica in cinque parti: εὕρεσις (inventio), τάξις (dispositio o ordo), λέξις (elocutio), μνήμη (memoria) e ὑπόκρισις (pronuntiatio o actio). Fondamentale era poi la dottrina della quaestio, del tema dell'orazione, il quale poteva essere generale, di carattere astratto, filosofico (ϑέσις, quaestio infinita) o particolare (ὑπόϑεσις, quaestio finita o causa): questo secondo costituiva il vero e proprio oggetto dell'oratoria riflettendo questioni di carattere concreto con determinazione di persone, di tempi e di luoghi, ed era suscettibile di diversi stati (στάσεις, status) ossia di diverse specie possibili di contrasto fra accusa e difesa. La quaestio finita rientrava in uno dei tre generi d'eloquenza fissati la prima volta da Aristotele: l'eloquenza delle assemblee (γένος συμβουλευτικόν, genus deliberativum), dei tribunali (γ. δικανικόν, g. iudiciale) e quella intesa alla lode o al biasimo (γ. ἑπιδεικτικόν, g. demonstrativum).

In connessione poi con le prime due parti dell'ars era trattata la dottrina dell'oratio e delle sue parti. Queste per Corace erano tre, προοίμιον, ἁγών, ἑπίλογος; per Aristotele due, πρόϑεσις esposizione dell'oggetto, e πίστεις prove, argomentazione; ma già alla sua età si stabilivano solitamente quattro parti, προοίμιον, πρόϑεσις, πίστις, ἑπίλογος, e quattro erano anche per Ermagora: προοίμιον (prooemium, esordio, introduzione), διήγησις (narratio, esposizione del fatto), πίστις (probatio o argumentatio, argomentazione) e ἐπίλογος (peroratio, perorazione, chiusa). A una quadruplice partizione ritorna Cicerone nel suo ultimo scritto retorico, De partitione oratoria (o partitiones oratoriae), osservando che la narratio e la confirmatio servono ad rem docendam, il principium e la peroratio mirano ad pellendos animos. Ma nei Libri rhetorici (o De inventione) e nel De oratore dello stesso Cicerone, come già nell'Auctor ad Herennium, le parti dell'orazione sono portate a sei, e precisamente exordium, narratio, partitio o divisio, confirmatio, reprehensio o confutatio, conclusio. Questo numero è conservato da Quintiliano che distingue nell'orazione il principium o exordium, la narratio, la partitio, la probatio, la refutatio, la peroratio. Egli poi nello svolgere la sua trattazione tocca anche parti minori, come la digressione (παρέκβασις, egressio o egressus) tra la narratio e la partitio, dà alle due parti dell'argomentazione (probatio e refutatio) il maggiore sviluppo e, a proposito della peroratio, insiste sulla mozione degli affetti, non limitandosi a ciò che ha letto e appreso, ma esponendo anche le cognizioni che ha acquistate dalla sua esperienza e dalla stessa natura che gli ha servito di guida.

Questa divisione dell'orazione aveva di mira particolarmente la eloquenza giudiziaria, ma, nel complesso, valeva anche per il genere deliberativo e il dimostrativo. Ciascuna delle parti era ampiamente e minutamente svolta dai trattatisti rispetto al contenuto, allo scopo, al metodo, ecc.; ma, almeno in Quintiliano, ricorre insistente il monito che i precetti hanno valore come guida ma non come regola assoluta e non escludono che l'oratore modifichi e aggiunga secondo gli suggerisce la pratica. E in realtà, sebbene l'eloquenza attica sia stata non una immediata manifestazione dello spirito umano ma un'arte sotto l'influsso dell'esperienza e della teoria anche prima che sorgessero i trattati di retorica, e sebbene in Roma la grande eloquenza s'iniziasse dopo che vi erano affluiti gli esemplari e i maestri greci, è ovvio pensare che il vero oratore non si peritasse di staccarsi dalle norme e dagli schemi quando la pedissequa applicazione del meccanismo retorico sarebbe riuscita nociva all'interesse e all'effetto dell'orazione.

Bibl.: R. Volkmann, Die Rhetorik der Griechen und Römer in systematischer Uebersicht dargestellt, 2ª ed., Lipsia 1885; Fr. Blass, Die attische Beredsamkeit, 2ª ed., Lipsia 1887; Ad. Berger-V. Cucheval, Histoire de l'éloquence latine depuis l'origine de Rome jusqu'à Cicéron, Parigi 1872; V. Cucheval, Histoire de l'éloquence romaine depuis la mort de Cicéron, ecc., Parigi 1893; G. Curcio, Le opere retoriche di M. Tullio Cicerone, Acireale 1900.

Oratio principis.

Oratio principis (o, più completamente, o. pr. in senatu habita) è nome che si dà a tutte le comunicazioni, orali e scritte, che nell'epoca del principato l'imperatore faceva al senato. Più particolarmente il nome si riserva alle proposte che l'imperatore presenta in virtù del suo ius agendi cum senatu, e che mettono capo a senatoconsulti normativi. Sotto la dinastia Giulio-Claudia, tali proposte erano di solito concordate in precedenza con la commissione senatoria, della quale l'imperatore si circondava, e presentate personalmente dal principe (v., per es., l'oratio Claudii de iure honorum Gallis dando nella nota epigrafe di Lione): in quest'epoca, la deliberazione conserva il nome tradizionale di senatusconsultum. Ma nel tempo successivo gl'imperatori trasmettevano al senato proposte scritte, che generalmente venivano lette da appositi funzionarî imperiali, detti quaestores candidati principis o Augusti; d'altra parte, il progressivo incremento dell'autorità del principe fece considerare come semplice e vana formalità l'approvazione dell'alta assemblea, sicché col nome di oratio (del tale o tal altro imperatore) i giuristi usarono indicare il provvedimento già perfetto ed entrato in vigore: si veda, p. es., la oratio Hadriani contro i fedecommessi a favore di stranieri, l'oratio Severi contenente il divieto di alienazione dei fondi pupillari per parte del tutore, le numerose orationes divi Marci, ecc. Al quale risultato concorse anche il fatto che da Adriano in poi le proposte di carattere legislativo non poterono più essere presentate da altri che dal principe.

Bibl.: J.-B. Mispoulet, Institutions politiques des Romains, I, Parigi 1892, p. 367 segg.; Th. Mommsen, Droit public rom., trad. P.-F. Girard, IV, Parigi 1894, p. 272 segg.; V, 1896, p. 173 segg.; P. Bonfante, Storia del dir. rom., I, 3ª ed., Milano 1923, p. 363; P. De Francisci, Storia del dir. rom., II, i, Roma 1929, p. 324 segg.

Per l'orazione funebre, v. morte, XXIII, pp. 887-88.