LOMI, Orazio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LOMI (Gentileschi), Orazio

Luca Bortolotti

Nacque a Pisa, qualche giorno prima del 9 luglio 1563 (quando fu battezzato nella chiesa di S. Biagio alle Catene), figlio dell'orafo fiorentino Giovan Battista e fratello minore dei pittori Baccio e Aurelio, quest'ultimo figura di primo piano della pittura toscana tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Il L. rivendicò sempre con fierezza le proprie origini fiorentine, evidenziandole in vari atti formali e in diverse firme apposte su suoi dipinti (Ward Bissell, pp. 1, 80, 101).

Tra il 1576 e il 1578 (come si evince da due lettere scritte dall'artista, rispettivamente il 3 luglio 1612 alla granduchessa di Toscana e il 18 luglio 1633 a Ferdinando II di Toscana: ibid., p. 2) il L. si trasferì a Roma presso uno zio materno capitano delle guardie di Castel Sant'Angelo, forse accompagnato dal fratello Aurelio. Con quest'ultimo egli certamente conviveva nel 1587, nelle vicinanze di S. Maria in Vallicella (Masetti Zannini). Dallo zio il L. derivò il cognome Gentileschi, che ben presto scelse di assumere per sé e col quale quasi sempre ebbe a firmare le proprie opere.

Pressoché ignoti appaiono i termini della formazione artistica del L., il quale nei primi anni di attività risulta essere sostanzialmente allineato agli stilemi convenzionali della tarda maniera romana.

L'unica suggestione dalle fonti a tale riguardo proviene da Giovanni Baglione, il quale afferma che l'artista fece il suo tirocinio col fratello Aurelio (p. 359): ipotesi ragionevole, ma alla quale riesce impossibile offrire il supporto di una qualunque evidenza stilistica. Ancora Baglione afferma che, all'incirca nel 1588-89, il L. fu tra i pittori che parteciparono alla decorazione pittorica della Biblioteca Sistina in Vaticano, guidata da Cesare Nebbia.

L'8 luglio 1593, dall'unione con Prudenzia di Ottaviano Montoni, nacque la figlia primogenita del L., Artemisia, destinata a divenire una personalità di spicco nella pittura italiana del Seicento. Sempre nel 1593, il L. prese parte al ciclo di Storie della Vergine dipinto su commissione del cardinale Domenico Pinelli nella parte superiore della navata centrale di S. Maria Maggiore, affrescando la debole Presentazione di Cristo al tempio. Il 6 dic. 1594 venne battezzato il primo figlio maschio del L., Giovanni Battista.

Il 24 apr. 1595 il L. fu pagato per la realizzazione delle pitture che decoravano il catafalco del cardinale Marco Sittico Altemps. La struttura effimera era stata progettata da Onorio Longhi e comprendeva anche decorazioni scultoree di Ippolito Buzio. L'8 giugno 1596 il pittore risulta essere impegnato in una pala d'altare raffigurante la Conversione di s. Paolo, destinata al transetto della basilica di S. Paolo fuori le Mura, opera che andò perduta nell'incendio che distrusse la chiesa nel 1823.

Al principio del 1597 il L. prese accordi coi benedettini dell'abbazia di Farfa per realizzare un imponente complesso decorativo.

Per la somma ingente di 300 scudi, il 27 febbraio il pittore sottoscrisse un accordo che lo impegnava, con l'aiuto di collaboratori, ad affrescare la prima e la terza cappella di sinistra e a realizzare un totale di sei tele d'altare destinate alle medesime cappelle. Nel luglio del 1598, con un secondo contratto, fu incaricato di affrescare anche la seconda cappella della navata sinistra. Svariati pagamenti si susseguirono nel corso del 1598, sino al saldo conclusivo del 2 febbr. 1599 (Ward Bissell, pp. 100, 135). Il L., peraltro, partecipò in misura contenuta alla realizzazione tanto degli affreschi delle cappelle e delle lunette poste fra le stesse, quanto della maggior parte delle pale d'altare: il suo intervento predominante si riconosce soprattutto nelle tele raffiguranti il Trionfo di s. Orsola e il Martirio dei ss. Pietro e Paolo.

L'11 giugno 1597 venne battezzato il secondo figlio maschio del L., Francesco. Secondo l'atto, il pittore era residente in "Platea Ss. Trinità" (ora piazza di Spagna) e parrocchiano della chiesa di S. Lorenzo in Lucina (ibid., p. 100).

Dopo l'agosto del 1597 il L. ricevette l'incarico di affrescare la seconda cappella di destra nella chiesa romana di S. Giovanni dei Fiorentini (Major Germond, p. 755).

A commissionare i lavori fu Agnolo Fiorenzuola, ricco mercante tessile figlio di Simone, membro influente della comunità fiorentina di Roma. Poco dopo la morte del padre venne concessa ad Agnolo la proprietà della cappella, all'epoca intitolata ai Ss. Simone e Giuda Taddeo, cui sono dedicate le storie degli affreschi delle pareti laterali. L'impresa decorativa procedette con grande lentezza, anche a causa della bancarotta di Agnolo nel 1603 e del suo successivo ritorno a Firenze. Non è del tutto chiaro quanta parte degli arredi pittorici della cappella spetti al L.; ma si può desumere dai documenti che egli sia stato attivo in S. Giovanni dei Fiorentini nell'arco di tempo compreso fra il 1605 e il principio del 1611 (ibid., p. 759).

Poco tempo dopo il maggio del 1599, il L. fece parte della squadra che, in occasione del giubileo del 1600, realizzò sotto la guida del Cavalier d'Arpino (Giuseppe Cesari) gli affreschi voluti da Clemente VIII nel transetto di S. Giovanni in Laterano. In tale impresa, stando a Baglione, il L. fu artefice del S. Taddeo alla destra dell'organo, che doveva essere già ultimato nell'agosto del 1600. Il 16 sett. 1599, fu battezzato il terzo figlio maschio del L., Giulio. All'epoca il pittore risiedeva in via Paolina (l'attuale via del Babuino).

Nel medesimo torno di tempo il L., sempre a Roma, affrescò quattro Angeli musicanti nella cupola della chiesa della Madonna dei Monti (i pagamenti relativi risalgono al maggio e al luglio 1599: Ward Bissell, p. 100), e realizzò, ancora in affresco, la perduta decorazione nella tribuna di S. Nicola in Carcere, commissionata dal titolare della chiesa, il cardinale Pietro Aldobrandini (per quest'opera ricevette pagamenti il 31 luglio 1599 e il 5 giugno 1600: O. e Artemisia Gentileschi, p. XIV).

Giusto al principio del secolo, il L. avviò la svolta sostanziale del suo percorso artistico, abbandonando i sentieri dello stile monumentale, corsivo e apertamente non naturalistico codificatosi nelle imprese pittoriche legate a Sisto V e Clemente VIII, per abbracciare la strada del caravaggismo.

Di tale tendenza pittorica, che deflagrò improvvisa sulla scena romana nel corso del primo decennio del Seicento, il L. fornì una versione particolarmente personale, lirica e preziosa, in cui il realismo della luce, delle superfici, degli incarnati, così come quello delle fisionomie e delle espressioni, si incontravano con un colorismo brillante e prevalentemente chiaro, accompagnandosi a una sicura dottrina disegnativa e a un rigore compositivo quasi classico. Ad accendere il radicale impulso evolutivo caravaggesco del L. interagirono la profonda impressione suscitata dalle tele della cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi e la diretta frequentazione del L. con lo stesso Caravaggio (Michelangelo Merisi), che fu piuttosto intensa proprio sul volgere del secolo. Di ciò, come pure della successiva consunzione dell'amicizia fra i due artisti, costituisce un prezioso documento la testimonianza resa dal L. il 12 e il 14 luglio 1603 al processo per diffamazione intentato da Giovanni Baglione nei confronti del Caravaggio.

Il 22 marzo 1601 il L. avanzò la propria candidatura per realizzare parte dei cartoni per i mosaici della cupola di S. Pietro (ibid., p. 446).

Tale impresa imponente, che riguardava anche il tamburo della cupola, si stava allora per intraprendere sotto la direzione del Cavalier d'Arpino: essa coinvolse un gran numero di artisti, ed ebbe a concludersi nel marzo 1612. I pagamenti al Cavalier d'Arpino si estendono dall'11 luglio 1603 al 20 genn. 1613; quelli che riguardano specificamente il L. risalgono all'aprile 1609, in riferimento ai mosaici del tamburo, al luglio e al dicembre dello stesso anno, nonché al maggio, giugno e agosto del 1610, relativamente alle figure di un angelo e della Madonna destinate alla decorazione della cupola (Ward Bissell, p. 148).

I primi anni del secolo riservarono al L. una catena di lutti. Il 24 sett. 1601 perse il figlio Giovanni Battista; pochi giorni più tardi, il 13 ottobre, battezzò un altro figlio con lo stesso nome di quello appena defunto, ma anch'egli spirò infante, il 2 febbr. 1603. Il 30 maggio del 1604 nacque un altro figlio maschio, che fu chiamato Marco; ma il 26 dic. 1605 morì Prudenzia, la moglie appena trentenne. Lo Stato delle anime di S. Maria del Popolo, documenta come il 23 febbr. 1606 l'artista vivesse ancora in via Paolina, coi quattro figli e la sorella Lucrezia (ibid., pp. 100 s.).

Nonostante tali gravi traversie sul versante della vita privata, il primo decennio vide il L. impegnato in una sequenza d'opere di altissimo profilo (ancor più impressionante a paragone con la sua attività precedente), tutte conseguenti alla recente svolta evolutiva del pittore, nella chiave di un naturalismo caravaggesco ben temperato.

La critica conviene nel datare entro o attorno la metà del primo decennio una serie di notevoli dipinti del L., sebbene non sussistano certezze documentarie a loro riguardo. Innanzi tutto il S. Francesco in estasi sorretto dall'angelo, nelle due versioni (che dovrebbero risalire ai primissimi anni del secolo: ripr. in O. e Artemisia Gentileschi, nn. 2-3), entrambe conservate in collezioni private, e in quella più evoluta, e di alcuni anni successiva, di Madrid, Museo del Prado. Tale iconografia, che incarna con particolare efficacia le principali istanze espressive e comunicative della devozione controriformata, fu tra le predilette dal L. al principio della sua fase caravaggesca. Le profonde e intime connotazioni psicologiche che caratterizzano il tema trovano, in effetti, un'ideale corrispondenza nel linguaggio pittorico del L., capace di un eloquio sottile, astratto e concentrato, e forte di una trama coloristica raffinata e carica di vibrazioni. Chiaramente, l'elaborazione compositiva del L. scaturisce dall'impressione suscitata dall'Estasi di s. Francesco del Caravaggio (oggi a Hartford, CT, Wadsworth Atheneum Museum of Art), dipinta intorno alla metà del decennio precedente e conservata nella collezione romana del banchiere genovese Ottavio Costa. Un'ulteriore redazione dello stesso soggetto di mano del L., particolarmente essenziale e meditativa, oggi a Roma, Galleria nazionale di Palazzo Barberini, veniva di solito avvicinata cronologicamente alla tela del Prado; ma più di recente è prevalso un orientamento favorevole a posticiparne la realizzazione di qualche anno, verso il 1612. La tela presenta un'accurata iscrizione dipinta in oro, "Horate pro R.D. Horatio Griffo / huius oratorii et cellae / fundatore", che sicuramente allude al committente. Orazio Griffi, ordinato sacerdote nel 1594, dal 1609 fece parte della Congregazione di S. Girolamo della Carità, il cui oratorio (andato distrutto da un incendio nel 1631) egli fondò nel 1612: e proprio a quest'ultima circostanza è stato persuasivamente proposto di ricondurre l'esecuzione del dipinto (Vodret).

Sono ancora da considerare all'interno di questo primo gruppo di esiti caravaggeschi la Salita al Calvario, Vienna, Kunsthistorisches Museum, nonché la Madonna in gloria e la ss. Trinità, dipinta per la chiesa di S. Maria al Monte dei Cappuccini, a Torino, e oggi conservata nel locale Museo civico.

La tela torinese rappresenta un anello evolutivo essenziale verso un'originale metabolizzazione del naturalismo caravaggesco anche nell'ambito delle grandi pale d'altare. Da una guida della chiesa, redatta alla metà del Settecento, sappiamo che il dipinto del L., alla maniera di un sipario, era abitualmente collocato sull'altare maggiore davanti a un'altra effigie della Vergine Assunta (con ogni probabilità scultorea), e che esso veniva sollevato in occasione delle festività. In una lettera spedita da Genova a Carlo Emanuele I di Savoia il 2 apr. 1623, il L. fa riferimento a un'opera che aveva realizzato per il duca "da giovanetto", che sembra ragionevole individuare nella pala per la chiesa dei cappuccini (Ward Bissell, p. 139).

Subito a seguire, tra la metà e la fine del primo decennio, in una successione ravvicinata e stringente sotto il profilo dell'evoluzione stilistica, è da collocare un nucleo nutrito di dipinti del L., tutti di fattura magistrale e considerevole temperatura espressiva, a cominciare dalla grande pala d'altare con la Circoncisione di Cristo, realizzata per la chiesa del Gesù, in Ancona.

Il dipinto fu realizzato tra il 14 apr. 1605, quando furono avviati i lavori di edificazione della chiesa, e il 24 giugno 1607, quando la tela venne posta in opera sull'altare maggiore dell'edificio non ancora ultimato. L'opera del L. fu commissionata dal nobile anconetano Giovanni Nappi, sotto il cui patrocinio la chiesa fu costruita. Grazie alla trascrizione ottocentesca di un documento perduto, si sa che il pittore ricevette per quest'opera il compenso decisamente ragguardevole di 303 scudi (ibid., p. 144). Allo stesso periodo del dipinto anconetano, o subito dopo, può esser fatta risalire la calibratissima redazione del David oggi a Dublino, National Gallery of Ireland; invece le versioni dello stesso soggetto, e di fattura altrettanto notevole, conservate nella Galleria Spada di Roma e nella Gemäldegalerie di Berlino (quest'ultima su rame) dovrebbero essere di pochi anni successive (circa 1610-13).

Attorno al biennio 1607-08 il L. portò a compimento altre tre pale d'altare, cruciali nel processo di definizione di uno stile pienamente personale. In esse, i diversi punti cardinali artistici che agitavano il rovello creativo del L. (non escluso un certo, mai rinnegato, elegante formalismo d'ascendenza manierista) approdano a un equilibrio maturo e convincente.

Il Battesimo di Cristo, per la cappella dedicata a S. Giovanni Battista nella chiesa romana di S. Maria della Pace, fu commissionato il 27 marzo 1607 dal banchiere Settimio Olgiati. Il L. s'impegnò a portare a termine il suo cimento, "conforme al disegno fatto", nell'arco di sei mesi. Il compenso previsto per il pittore ammontava a 150 scudi, di cui 60 da versare contestualmente alla firma del contratto. Il committente si sarebbe preoccupato anche di fornire telaio, tela, nonché tutto l'azzurro oltremarino di cui il L. avesse avuto bisogno (O. e Artemisia Gentileschi, p. 77). Essendo la famiglia Olgiati originaria di Como, è lecito ipotizzare che Settimio abbia svolto qualche ruolo nella commissione al L. della tela con i Ss. Cecilia, Tiburzio e Valeriano visitati dall'angelo, per l'altare maggiore della chiesa agostiniana di S. Cecilia a Como (oggi a Milano, Pinacoteca di Brera). L'opera, fra i capolavori del L. e tra i suoi esiti più intimamente caravaggeschi, è firmata "Horatius Gentilesc(us) / Florentinus fecit". Una recente scoperta documentaria ha permesso di fissare con una certa precisione la cronologia della pala (in precedenza assai dibattuta): il resoconto di una visita compiuta il 25 nov. 1607 dal cardinale Paolo Sfondrato, il quale espresse un giudizio di grande ammirazione sul L., affermando fra l'altro che la pala solo da poco aveva preso posto sull'altare (ibid., p. 72). Il S. Michele Arcangelo sconfigge il demonio, infine, fu dipinto dal L. per la chiesa parrocchiale del Salvatore, a Farnese, in provincia di Viterbo. L'opera, che era stata commissionata dalla locale Confraternita dei Disciplinati, fu compiuta prima del 31 maggio 1608, quando una visita pastorale diede testimonianza della presenza del quadro sull'altare (ibid., pp. 86-89).

La Madonna col Bambino del Museo artistico nazionale di Bucarest costituisce un prezioso puntello cronologico tra le opere da cavalletto che chiudono la produzione del L. nel primo decennio del secolo.

Si tratta di un dipinto di raro equilibrio, che combina magistralmente un realismo vivido e quasi popolare con una grazia composta ed essenziale. Sul rovescio della tela, in occasione di un recente restauro, è riemersa un'iscrizione con la firma e, caso unico fra le opere note del L., la data: "Horatius Gentileschi faciebat 1609".

Fra la fine del primo decennio e l'inizio del secondo, il L. andò precisando con sempre maggiore autorevolezza i termini idiomatici della propria poetica, attraverso un gruppo di tele omogeneo sia dal punto di vista stilistico, sia da quello qualitativo.

La Giuditta con la testa di Oloferne (Oslo, Galleria nazionale) costituisce uno dei vertici virtuosistici del L. quanto ad acume narrativo, brillantezza cromatica e smagliante realismo nella resa delle superfici. Gli indumenti e le capigliature delle due protagoniste, i gioielli di Giuditta, i panneggi dello scialle della serva, il sontuoso tendaggio sullo sfondo sono restituiti pittoricamente attraverso una lenticolare analisi luministica, magnificata dall'effetto di concentrata sospensione temporale indotto dalla composizione. Il S. Gerolamo penitente (Torino, Museo civico) corrisponde con ogni probabilità al dipinto dello stesso soggetto per il quale il palermitano Giovanni Pietro Molli, nella testimonianza da lui resa il 27 luglio 1612 al processo contro Agostino Tassi, affermò di avere posato per il Lomi (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del governatore, Processi del XVII secolo, vol. 104, cc. 395-397, 421-422, 426). Nel Carnefice con la testa del Battista (Madrid, Museo del Prado) l'artista scelse un tono di schietto realismo, che la fisionomia ordinaria del carnefice e la sua postura sgraziata contribuiscono a declinare in una chiave leggermente grottesca. Il dipinto presenta la firma "Hor(atiu)s Lomi", che costituirebbe l'unica circostanza nota nella quale il L. abbia fatto ricorso al suo vero cognome: ma occorre soggiungere che sono stati sollevati ragionevoli dubbi sull'autografia dell'iscrizione (Ward Bissell, p. 150).

La Suonatrice di liuto di Washington, National Gallery of art, e il Cristo coronato di spine di Brunswick, Herzog Anton Ulrich-Museum, sono opere generalmente collocate intorno agli anni 1612-15, in cui sembra trovare il logico compimento un decennio di assidua e sottile elaborazione formale.

Nella prima tela, il L. esprime il lato meditativo, astratto e quasi metafisico della sua poetica, traducendo la pluralità delle valenze allegoriche che accompagnano il tema in un lirismo di trascendentale immobilità, che richiama gli esiti più alti della natura morta olandese di primo Seicento. Il Cristo coronato di spine di Brunswick può essere considerato l'esito più calibrato della serrata riflessione svolta dal L. intorno alla produzione romana del Caravaggio (il termine di paragone fondamentale è qui la tela dello stesso soggetto dipinta per Vincenzo Giustiniani, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna) e ai suoi superbi e originalissimi meccanismi di costruzione del pathos. La tela faceva probabilmente parte della collezione del principe Paolo Savelli, ammiratore e importante committente del L. durante il secondo decennio, se, come sembra appropriato, può esser fatta coincidere con "Una Coronatione di Cristo 3 meze figure, del Gentileschi per traverso p(al)mi 6 in circa", registrata in due inventari della collezione Savelli del 1650 (O. e Artemisia Gentileschi, p. 133).

All'inizio del 1611 il L. abbandonò la vecchia abitazione in via Paolina e si trasferì a via Margutta. Di lì a poco, però, il pittore traslocò ancora, andando ad abitare dapprima in via della Croce e poi, entro il principio del 1612, in Borgo Santo Spirito, dall'altro lato del Tevere. Non oltre il 1611, il L. avviò un'intensa e fruttuosa relazione professionale col pittore Agostino Tassi.

I due artisti decorarono per papa Paolo V Borghese la volta della sala del Concistoro (oggi salone delle Feste) nel palazzo del Quirinale, Tassi dipingendo le prospettive architettoniche per le quali era celebre e il L. realizzando, come informa Baglione (p. 360), figure allegoriche con arditi scorci di sotto in su (gli affreschi furono distrutti intorno al 1870). Fra il 1611 e l'inizio del 1612, la collaborazione fra il L. e Tassi si ripeté, e raggiunse il suo apice, nello spettacolare dipinto murale raffigurante un Concerto musicale con Apollo e le muse, realizzato sulla volta del casino delle Muse, nel giardino del palazzo di Scipione Borghese (oggi palazzo Pallavicini Rospigliosi).

Ma a interrompere bruscamente una collaborazione che appariva destinata a successi duraturi, dal 2 marzo al 29 ott. 1612 fu il processo in cui il L. accusò Tassi di avere violentato e (cosa ancor più grave per la legge dell'epoca) deflorato la figlia Artemisia, nel maggio dell'anno precedente.

Il processo ebbe una speciale risonanza e si concluse con la condanna dell'imputato a cinque anni di lavori forzati, oppure, in alternativa, al bando perpetuo da Roma. Tassi scelse il bando; ma la pena di fatto non venne eseguita (Lapierre, pp. 201 s.; P. Cavazzini, in O. e Artemisia Gentileschi, p. 287). L'evento nel suo complesso, anche per la ridda di commenti che suscitò, dovette incidere profondamente sulle vite sia del L., che ebbe forse qualche indiretta responsabilità nell'accaduto e certamente tenne un atteggiamento poco trasparente, sporgendo denuncia solo dopo aver terminato i suoi affari con Tassi, sia della figlia Artemisia, all'epoca del processo appena diciannovenne, investita della fama di giovane dai facili costumi.

Nel periodo che si estende dal 1613 al 1620, il L. intervallò con ogni probabilità la sua permanenza a Roma con reiterati soggiorni nelle Marche, ove realizzò parecchie imprese pittoriche. Innanzitutto, forse già dal 1613, l'artista dipinse gli affreschi con Storie della Passione di Cristo e la tela d'altare con la Crocifissione nella cappella del Crocifisso della cattedrale di S. Venanzo, a Fabriano.

Il L. condusse tale rilevante impresa, che dovette concludersi intorno al 1617-18, tutta all'insegna di una castigatezza stilistica quasi arcaizzante, lavorando su un registro espressivo intimo, spoglio e meditativo, e su un assetto narrativo di rimarchevole chiarezza e semplicità.

Fabriano costituì, in effetti, un polo essenziale dell'attività del L. tra la metà e la fine del secondo decennio, se egli, sia durante, sia dopo il cospicuo impegno in cattedrale, la rifornì con una nutrita sequenza di opere di destinazione ecclesiastica.

In primo luogo, la severa Maddalena penitente, in S. Maria Maddalena, databile intorno al 1615 e dipinta su commissione della locale università dei cartai, potente istituzione che aveva sede presso la stessa chiesa. Poi, leggermente successiva, la Madonna col Bambino e s. Francesca Romana, oggi nella Galleria nazionale delle Marche di Urbino, proveniente dalla chiesa olivetana di S. Caterina: espressione raffinata di un misticismo sottile e silenzioso, realistico e immediato ma anche lucidamente introspettivo. Frutti estremi del legame con la cittadina marchigiana devono intendersi la pala d'altare raffigurante la Madonna del Rosario in S. Lucia (circa 1618-20) e quella del S. Carlo Borromeo che medita sui simboli della Passione posta sull'altare della cappella dedicata al santo in S. Benedetto ed eseguita a ridosso del 1620 quando la cappella fu consacrata.

Nello stesso periodo che lo vide così intensamente attivo per Fabriano, il L. dipinse anche altre opere di notevole rilievo. In primo luogo il S. Francesco riceve le stimmate, realizzato all'incirca fra il 1616 e il 1620 per la chiesa romana di S. Silvestro in Capite, dove andò a occupare l'altare della cappella di famiglia del principe di Palombara Paolo Savelli, il maggiore committente dell'artista durante i suoi ultimi anni nella città capitolina. La pala fu appena la terza, e peraltro l'ultima, che il L. portò a termine per l'altare di una chiesa romana.

Sempre sul finire del secondo decennio si può collocare la S. Cecilia con un angelo (Washington, National Gallery of art) e fors'anche il Riposo durante la fuga in Egitto (Birmingham, City Museum and Art Gallery), probabile prototipo di una redazione del tema di cui esistono varie repliche più o meno estesamente autografe. Il dipinto di Washington si richiama inequivocabilmente, nelle figure della Vergine e dell'angelo, alla Visione di s. Francesca Romana della Galleria nazionale di Urbino. La tela risulta registrata nell'inventario della collezione di Felice Zacchia Rondanini compilato nel 1662, ove si dice che solo le teste sono di mano del L., mentre il resto del dipinto viene attribuito a Giovanni Lanfranco: curioso suggerimento, che sembra però trovare una almeno parziale conferma nelle recenti risultanze radiografiche (O. e Artemisia Gentileschi, pp. 155-157).

Nel 1621 il L. si recò a Genova. Il trasferimento seguì l'invito del ricco patrizio locale Giovanni Antonio Sauli (Soprani - Ratti, pp. 451 s.), formulato nel corso di un soggiorno di questo a Roma, come membro della delegazione genovese in onore del neoeletto papa Gregorio XV. All'epoca, la città ligure era un centro artistico tra i più stimolanti, attivi e prestigiosi d'Europa (sempre nel 1621 vi giunse anche Anton Van Dyck da Anversa); e il L. non dovette percepire il trasferimento come un declassamento, ma piuttosto come una non trascurabile occasione professionale.

Per Sauli il L. realizzò varie opere. In particolare, sono descritte accuratamente in Soprani - Ratti (p. 452), una Maddalena penitente, oggi in collezione privata (ripr. in O. e Artemisia Gentileschi, n. 35); un Lot e le figlie, che dovrebbe coincidere con l'esemplare di Los Angeles, J. Paul Getty Museum, più che con quello del Museo Thyssen di Madrid, di qualità meno sostenuta (la variante autografa di Ottawa, National Gallery of Canada, potrebbe costituire la redazione del tema che nel 1622 l'artista inviò a Carlo Emanuele I duca di Savoia); e infine una Danae, oggi nella collezione Feigen di New York (ripr. ibid., n. 36), di cui la versione di Cleveland, Museum of art, rappresenta un'eccellente replica autografa. Tutte queste tele magistrali sono accomunate, oltreché dalla fattura supremamente raffinata, da un'elegante sensualità e un acceso lirismo.

Ancora a Genova, il L. dipinse il Sacrificio di Isacco, Genova, Galleria nazionale di Palazzo Spinola, che faceva parte dell'importante collezione di Pietro Gentile. Qui era stato registrato da Ratti nell'inventario da lui compilato nel 1780 (Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova, Genova 1780, p. 112), insieme, fra le altre cose, con una Giuditta e la serva che potrebbe coincidere con la tela oggi a Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of art: un dipinto, questo, di sontuoso virtuosismo coloristico e sopraffina sapienza compositiva, la cui cronologia, peraltro, dà ancora adito a qualche controversia. Per la chiesa genovese di S. Siro il L. realizzò l'Annunciazione, dipendente da un'altra versione, in tutto simile ma di dimensioni maggiori e qualità considerevolmente più alta, oggi nella Galleria Sabauda di Torino. Quest'ultima tela fu inviata dal pittore, per il tramite del figlio Francesco, in dono al duca Carlo Emanuele I di Savoia, come si evince da una lettera di accompagnamento della tela scritta dallo stesso Lomi. Il regalo di un'opera così mirabilmente rifinita, che seguiva di un anno l'omaggio della replica del Lot e le figlie dipinto per Sauli, è rivelatore dell'intento maturato dal L. (ma destinato a insuccesso) di trasferire i suoi servigi alla corte sabauda. L'opera fu posta nella cappella del castello torinese, dove si trova segnalata nell'inventario del 1631. Nel 1624, infine, il L. ultimò i perduti affreschi con Storie dell'Antico Testamento nella loggia del casino di Marcantonio Doria, a Sampierdarena (poco distante da Genova): in assoluto l'impresa più vasta cui il pittore attese mai, della quale si trova una descrizione dettagliata in Soprani - Ratti (pp. 452 s.).

Fu probabilmente dopo l'agosto del 1624 (quando a Marcantonio Doria fu suggerito di impiegare Battistello Caracciolo per stimare gli affreschi appena ultimati dal L. a Sampierdarena) che il L., su invito di Maria de' Medici regina madre di Francia, lasciò Genova per recarsi a Parigi, per soggiornarvi fino all'autunno del 1626.

Colà fu tra gli artisti che, a più riprese, vennero impegnati dalla regina madre nella decorazione del Palais du Luxembourg. Per quella sede prestigiosa il L. dipinse La Felicità pubblica trionfa sui pericoli (oggi al Louvre), posta nell'anticamera della regina, sopra il caminetto: una tela di superbo impianto monumentale, che introduce al carattere ricercato e aristocratico, e alla più delicata paletta cromatica, propri della maniera estrema del pittore.

Tra il settembre e l'ottobre del 1626 l'artista decise di trasferirsi in Inghilterra, accogliendo l'invito di George Villiers primo duca di Buckingham, suo grande estimatore. Subito dopo l'arrivo a Londra, il L. eseguì un tondo di imponenti dimensioni raffigurante Apollo e le muse, per il soffitto della dimora cittadina del duca. Questi, figura di assoluto spicco nella corte di Carlo I, ospitò generosamente nella sua residenza il pittore, insieme con i figli Francesco, Giulio e Marco, e tale circostanza permise al L. di essere introdotto al livello più alto nel mondo artistico londinese: realtà complessa, nel contesto della quale i tratti più scostanti e controversi della sua personalità finirono presto per prendere il sopravvento. Il 23 ag. 1628 il duca di Buckingham fu assassinato, e il L. perse così il più convinto mecenate e sostenitore su cui potesse contare in Inghilterra. Egli si trovò, dunque, nella necessità di stringere maggiormente il legame con la corte di Carlo I, il quale nel 1627 si era unito in matrimonio con la figlia di Maria de' Medici, Henrietta Maria. E fu proprio quest'ultima a divenire negli anni successivi il referente artistico privilegiato del pittore italiano.

L'impegno maggiore che il L. assolse per la regina Henrietta Maria fu il soffitto della Queen's House di Greenwich, oggi conservato alla Marlborough House di Londra. Composto di nove tele di vario formato, volte a raffigurare una complessa Allegoria della Pace e delle Arti, il soffitto fu dipinto fra il 1635 e la fine del 1638. È possibile che l'iconografia della composizione sia stata elaborata dal pittore d'accordo con Inigo Jones, architetto dell'edificio, e che nell'esecuzione delle tele, di qualità piuttosto diseguale, il L. si sia avvalso dell'aiuto del figlio Francesco, pure pittore.

Il L. non fu granché prolifico negli anni inglesi; ma la sua tarda maniera, abbandonata ormai ogni stringente reminiscenza caravaggesca, doveva comunque riservare alcuni esiti d'indiscutibile maestria. Fra essi, Lot e le figlie (firmato) oggi a Bilbao, Museo de bellas artes, dipinto per Carlo I nel 1628; Diana cacciatrice (Nantes, Musée des beaux-arts), tela di distillata eleganza acquistata nel 1630, a Londra, dal duca Roger du Plessis de Liancourt per 460 lire; Mosè salvato dalle acque, nelle due redazioni dipinte entro il 1633 per Carlo I (oggi in collezione privata: ripr. in O. e Artemisia Gentileschi, n. 48) e per Filippo IV di Spagna (Madrid, Museo del Prado); Giuseppe e la moglie di Putifarre (Hampton Court, Royal Collection) eseguito per Henrietta Maria.

In Inghilterra il L., nonostante le lamentele che a più riprese espresse a tale proposito, dovette condurre un'esistenza di una certa agiatezza, potendo contare su una pensione reale di 100 sterline annue.

In quest'ultima fase della sua attività, egli accentuò la ricerca di effetti coloristici luminosi e misurati, concentrandosi su modalità di impaginazione della storia di tenore sempre più sofisticato e classicistico; ma i dipinti realizzati nella lunga stagione trascorsa oltre Manica, dimostrano come l'ispirazione artistica del L. non fosse estinta, e la sua mano non avesse perso in sicurezza di stile.

Senza mai entrare in sintonia con l'ambiente artistico inglese - e attraverso una spessa trama di invidie, rivendicazioni, frustrazioni e accese inimicizie (prima fra tutte quella con Balthazar Gerbier, pittore, mercante, fine diplomatico, protégé di Carlo I prima e dopo la sua ascesa al trono) - il L. rimase comunque nell'orbita della corte reale sino alla morte, che avvenne a Londra il 7 febbr. 1639. Come chiosò Soprani, "il suo cadavere fu con onorevole pompa seppellito sotto l'altar maggiore della Regia Cappella di Sormersethaus" (Soprani - Ratti, p. 453).

Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del governatore, Processi del XVII secolo, vol. 104, cc. 270-447; G. Baglione, Le vite de' pittori, scultori et architetti (1642), a cura di J. Hess - H. Röttgen, Città del Vaticano 1995, pp. 359 s.; F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua (1681), a cura di F. Ranalli, III, Firenze 1975, pp. 711-713; R. Soprani - C.G. Ratti, Vite de' pittori, scultori, ed architetti genovesi (1768), II, Bologna 1970, pp. 451-453; R. Longhi, Gentileschi padre e figlia (1916), in Scritti giovanili. 1912-1922, Firenze 1961, pp. 219-283; G.L. Masetti Zannini, Pittori della seconda metà del '500 in Roma, Roma 1974, p. 43; R. Ward Bissell, O. Gentileschi and the poetic tradition in caravaggesque painting, University Park 1981; E. Schleier, O. Gentileschi, in Caravaggio e il suo tempo (catal.), Napoli 1985, pp. 148-157; P. Zampetti, O. Gentileschi, in Andrea Lilli nella pittura delle Marche tra Cinquecento e Seicento (catal., Ancona), Roma 1985, pp. 209-220; Artemisia, a cura di R. Contini - G. Papi (catal., Firenze-Roma), Milano 1991, passim; S. Major Germond, O. Gentileschi and S. Giovanni dei Fiorentini, in The Burlington Magazine, CXXXV (1993), pp. 754-759; E. Giffi Ponzi, Gentileschi a Genova: un nuovo dipinto e alcune considerazioni …, in Boll. dei Musei civici genovesi, XVI (1994), pp. 51-59; A. Lapierre, Artemisia, Milano 1999, pp. 201 s., 399-462; O. Gentileschi at the court of Charles I (catal.), a cura di G. Finaldi, London 1999; R. Vodret, in Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi in Palazzo Barberini (catal., Roma), a cura di C. Strinati - R. Vodret, Napoli 1999, pp. 38-40; J. Wood, O. Gentileschi and some Netherlandish artists in London: the patronage of the duke of Buckingham…, in Simiolus, 2000-01, n. 28, pp. 103-128; O. e Artemisia Gentileschi (catal., Roma), a cura di K. Christiansen - J.W. Mann, Milano 2001 (con bibliografia completa); M. Castaldi Gallo, The Sauli collection, two unpublished letters …, in The Burlington Magazine, CXLV (2003), pp. 345-353; Orazio Gentileschi e Pietro Molli, a cura di F. Simonetti (catal.), Genova 2005; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XIII, pp. 410-412 (s.v. Gentileschi).

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