Opinione pubblica

Dizionario di Storia (2010)

opinione pubblica


Giudizio e modo di pensare collettivo della maggioranza dei cittadini, o anche questa maggioranza stessa. Il concetto di o.p. incominciò a prendere forma in Europa in seguito alla crisi dei regimi assoluti e alla formazione dei moderni Stati nazionali (tra il 17° e il 18° sec.). La formazione dell’o.p., infatti, è strettamente collegata all’organizzazione di una società moderna, nella quale gli individui possano esprimere, in quanto collettività, giudizi sia sulla politica del governo sia su altri temi culturali, religiosi e sociali. Il processo si è sviluppato nel tempo in seguito alle profonde trasformazioni economiche e sociali, all’aumento dell’alfabetizzazione, alla formazione di circoli politici e culturali e alla diffusione della stampa. Nel Seicento, con l’affermazione della borghesia, si aprì un dibattito sui limiti dei poteri dello Stato e sui diritti degli individui. Il tema del rapporto tra sfera pubblica e privata, con tutte le sue implicazioni, così come il nodo del rapporto tra morale e politica, incominciavano quindi ad assumere un ruolo centrale. Nel Saggio sull’intelletto umano (1690) J. Locke attribuisce all’o.p. una funzione di controllo nella società, stabilendo una distinzione tra la legge morale, espressa dall’o.p., e la legge civile, emanazione del potere politico. Si comincia ad affermare l’importanza della «pubblicità», cioè del coinvolgimento politico e del controllo dei cittadini nei confronti del potere costituito. Nel Settecento la grande battaglia degli illuministi contro la censura e per la libertà di stampa fece riferimento in primo luogo al ruolo fondamentale della opinion publique come bussola dei governi in una società progredita. Si deve a uno scrittore vicino a Diderot, L.-S. Mercier, una delle più limpide formulazioni del concetto di o.p.: «I buoni libri – egli dice – spandono lumi in tutte le classi del popolo, ornano la verità. Sono essi che già governano l’Europa, che illuminano il governo sui suoi doveri, sui suoi errori, sui suoi veri interessi, sull’opinione pubblica che esso deve ascoltare e seguire: questi buoni libri sono maestri pazienti che attendono il risveglio degli amministratori degli Stati e la calma delle loro passioni». Nei primi decenni dell’Ottocento sono stati i pensatori liberali a difendere l’o.p. e a esaltarne il ruolo. La stessa rappresentanza parlamentare, dice B. Constant, è viva e vitale solo se ha radici profonde nell’o.p., e solo in tal caso essa è in grado di esprimere un governo degno di questo nome. Il legame tra la rappresentanza e l’o.p. deve essere tanto più favorito e garantito in quanto, dice Constant, «le assemblee sono sempre troppo inclini ad acquisire uno spirito di corpo che le isola dalla nazione». Queste posizioni di Constant si riconnettono alla concezione inglese dell’o.p., quale fu espressa da E. Burke in diverse lettere ai suoi elettori, nelle quali egli sottolineava che sono «l’opinione generale» e «lo spirito pubblico» a dare legittimità al Parlamento. Ma con A. de Tocqueville emerse nel pensiero liberale una preoccupazione nuova: che nelle società democratiche – caratterizzate dal dominio irresistibile della maggioranza – venga a configurarsi una vera e propria tirannide dell’o.p. ai danni delle minoranze e dei dissenzienti. Tocqueville rileva a questo proposito che, a mano a mano che i cittadini diventano più eguali e più simili tra loro, la disposizione di ciascuno a identificarsi nella massa e a credere in essa aumenta, ed è sempre più l’opinione comune a guidare il mondo. Il pubblico viene quindi a godere, presso i popoli democratici, di un singolare potere: «Non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelligenza di ciascuno», per cui «si può prevedere che la fede nell’opinione pubblica diverrà come una specie di religione, di cui la maggioranza sarà il profeta». Si delineava così, secondo Tocqueville, il pericolo di un nuovo dispotismo, tanto più pericoloso in quanto non controllava solo i movimenti e le azioni esteriori, bensì annichiliva l’autonomia dello spirito e isteriliva la creatività dell’intelligenza. E in Gran Bretagna J. Stuart Mill fece valere preoccupazioni analoghe. Nel Novecento, nelle società industriali avanzate, vengono espresse forti preoccupazioni sulla «manipolazione» della o.p. a opera dei sempre più potenti mass media, controllati da grandi organizzazioni. Così W. Lippmann, nel suo libro Public opinion (1922), osserva che nelle società complesse «ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date». L’insieme delle immagini in base alle quali gli individui o i gruppi di individui agiscono, costituisce appunto l’o. pubblica. Ma tali immagini vengono diffuse – con un grado più o meno cosciente di manipolazione – attraverso i mass media controllati dalle grandi forze (economiche, politiche, religiose, militari), dominanti nella società. Questi temi svolti da Lippmann sono stati ripresi da un’ampia letteratura. Ma altre correnti sociologiche e politologiche hanno insistito sul fatto che i processi di formazione della pubblica opinione non vanno solo dall’alto vero il basso, bensì molto spesso dal basso verso l’alto: nel senso che nel pubblico, o in vasti settori e strati di esso, si formano continuamente, in modo repentino e inaspettato, dei «ribollimenti» o movimenti d’opinione (femminismo, ecologismo, pacifismo ecc.) che non sono stati previsti, e che spesso non sono affatto desiderati, dalle élite dirigenti: tali movimenti spontanei finiscono per imporsi e per plasmare largamente la pubblica opinione.

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