Olimpiadi invernali: Vancouver 2010

Enciclopedia dello Sport (2012)

Olimpiadi invernali: Vancouver 2010


NUMERO OLIMPIADE: XXI

DATA: 12 febbraio – 28 febbraio

NAZIONI PARTECIPANTI: 82 Comitati olimpici nazionali

NUMERO ATLETI: 2.566

NUMERO ATLETI ITALIANI: 109

DISCIPLINE: Biathlon, Bob, Combinata nordica, Curling, Freestyle, Hockey su ghiaccio, Pattinaggio di figura, Pattinaggio di velocità, Salto, Sci alpino, Sci di fondo, Short track, Skeleton, Slittino, Snowboard.

NUMERO GARE: 86

ULTIMo TEDOFORO: Wayne Gretzky, giocatore di hockey su ghiaccio.

GIURAMENTO OLIMPICO: Hayley Wickenheiser, giocatrice di hockey su ghiaccio.

La XXI edizione dei Giochi Olimpici invernali, che si è disputata dal 12 al 28 febbraio 2010 a Vancouver in Canada, non è stata certo un’edizione felice: gli organizzatori sono stati costretti a fare i conti con contestazioni, maltempo, ritardi ed infortuni, ma soprattutto con la drammatica morte del giovane slittinista georgiano Nodar Kumaritashvili.

La capitale della Columbia britannica aveva ottenuto l’assegnazione dei Giochi il 2 luglio 2003, superando la concorrenza dell’austriaca Salisburgo e, per soli tre voti, della sudcoreana Pyeongchang. Per la terza volta dunque, dopo quelle estive di Montreal 1976 e quelle invernali di Calgary 1988, le Olimpiadi tornavano nel Paese della foglia d’acero.

Oltre a Vancouver, sede dei tornei di hockey su ghiaccio, curling e short track, il Comitato organizzatore (VANOC) aveva individuato: Whistler, una località di villeggiatura situata a 125 km a nord della capitale statale, per ospitare le gare di sci alpino, sci di fondo, biathlon, combinata nordica e salto con il trampolino, la città di Richmond, per il pattinaggio di velocità, e Cypress Mountain, per il freestyle e lo snowboard.

Rispetto alle discipline presenti a Torino l’unica novità di rilievo dell’edizioni del 2010 fu l’introduzione, all’interno del programma del freestyle, dello ski cross, gara che prevede la contemporanea discesa di più atleti per una pista in cui vengono introdotte artificialmente difficoltà tecniche come curve, gobbe e salti.

Il sogno delle saltatrici con gli sci di portare, anche a livello femminile, la loro disciplina sul palcoscenico olimpico venne invece spezzato sul nascere. Benché nel maggio del 2006 la Federazione Internazionale di Sci avesse consentito alle saltatrici di partecipare a partire dal 2009 ai Campionati mondiali di sci nordico, il CIO negò loro l’esordio a cinque cerchi, definendo la pratica femminile in questo sport «non abbastanza matura». Petizioni e battaglie legali che coinvolsero persino la Canadian Human Rights Commission non furono sufficienti a far accogliere le istanze del gruppo Let Women Ski Jump in 2010. Il VANOC infatti, essendo contrattualmente legato al CIO, la cui residenza legale è in Svizzera, non poteva legalmente essere perseguito per discriminazione dalla giustizia canadese; le saltatrici potranno pertanto fare il loro esordio solo a Soči 2014.

Poiché la Columbia britannica era uno dei pochi Stati canadesi a non aver ancora firmato alcun trattato di riconciliazione con i discendenti delle tribù che abitavano nei territori prima dell’invasione britannica, nel periodo pre-olimpico fu posta con forza la questione del rapporto con i nativi. Nonostante un uso estensivo da parte del VANOC di simboli come canoe, totem e vestiti tradizionali nel promuovere i Giochi – basti citare che come logo fu adottato la stilizzazione di un inuksuk, ovvero una costruzione in pietra a forma di uomo usata come punto di riferimento da diversi popoli autoctoni della zona artica dell'America settentrionale – il concreto coinvolgimento dei nativi fu assolutamente marginale. Al fine di disinnescare un potenziale conflitto, il VANOC e il governo fecero importanti promesse nei confronti dei nativi ma, escluse quelle di natura economica, le concessioni in materia di programmi di inclusione e di infrastrutture sportive per queste comunità non rispettarono affatto gli impegni della vigilia. Le polemiche sul coinvolgimento solo strumentale dei nativi e le proteste dei movimenti anti-globalizzazione furono comunque tutto sommato silenziate dalla narrazione del mainstream mediatico.

Vancouver e il Canada si erano preparati con cura per una cerimonia d’apertura che si annunciava, come sempre, altamente spettacolare, ma a poche ore dal suo inizio l’atmosfera di festa fu drammaticamente interrotta dalla notizia della morte di Nordar Kumaritashvili nel corso delle prove della gara di slittino. Mentre scendeva a 140 km/h il giovane georgiano fu sbalzato violentemente fuori dalla pista, andando a sbattere contro un pilone d’acciaio privo di alcun tipo di protezione e rimanendo ucciso sul colpo.

Se ai non più giovani balzò subito alla mente il parallelismo con lo slittinista britannico nato in Polonia Kazimierz Kay-Skrzypecki, morto anch’egli a seguito di una caduta durante le prove alle Olimpiadi di Innsbruck 1964, l’impressione fu che Kumaritashvili fosse la vittima sacrificale di una costante ricerca del limite, non solo da parte degli atleti, ma anche degli organizzatori e dei progettisti alla ricerca del miraggio di una superpista da 150 Km/h.

Dopo che la vita di Kumaritashvili si era spezzata a un passo dal sogno olimpico, il presidente del CIO Jacques Rogge sinceramente colpito dichiarò «Il nostro primo pensiero va alla famiglia, agli amici ed ai colleghi dell’atleta. Tutta la famiglia olimpica è toccata da questa tragedia, che chiaramente getta un’ombra su questi Giochi», eppure dopo il dramma si decise che lo “show” non poteva fermarsi e la cerimonia d’apertura, pur con diversi richiami alla sua memoria, si svolse regolarmente. Lo spettacolo, in buona parte sostenuto da tecnologie virtuali, fu un tentativo di promuovere la storia canadese in funzione della riconciliazione con le popolazioni native. Con l’eccezione dei georgiani, vestiti a lutto e applauditi da tutto lo stadio, gli atleti delle 82 nazioni presenti alla cerimonia, due in più che a Torino, marciarono con il consueto entusiasmo.

Al contrario di quanto era accaduto a Sydney, Atene e Torino e sulla scia di quanto era invece avvenuto a Pechino le due Coree si presentarono rigorosamente separate a conferma del raffreddamento dei rapporti politici. Per la prima volta parteciparono ai Giochi invernali i CNO di: Isole Cayman, Colombia, Ghana, Montenegro, Pakistan, Perù e Serbia.

La scelta dell’ultimo tedoforo non riservò alcuna sorpresa, visto che tutti i canadesi si aspettavano “the great one”, Wayne Grestzky, il più grande giocatore di hockey del Paese. L’accensione della torcia invece si rivelò più complessa del previsto per un guasto tecnico ad uno dei quattro piloni del braciere olimpico che causò attimi di imbarazzo nel momento clou della serata; l’ennesimo segnale, forse, che il fato si fosse messo di traverso ai Giochi.

Mentre in patria la salma del giovane slittinista georgiano veniva scortata dalla guardia d’onore, in Canada, nonostante le polemiche, si cercava di dimenticare in tutta fretta la sua morte. Un mazzo di fiori sul luogo del decesso e una striscia nera sul casco dei suoi colleghi furono fra le poche iniziative volte a ricordare e onorare la sua morte. Venne immediatamente aperta un’inchiesta per accertare le responsabilità del decesso ma né i progettisti, né il designer, né i realizzatori del tracciato furono in alcun modo incriminati. Il VANOC e la Federazione internazionale negarono qualsivoglia responsabilità e, malgrado il tracciato fosse stato accorciato di 176 metri per garantire la sicurezza degli atleti, l’unica conclusione a cui arrivarono le indagini fu quella dell’incidente tecnico causato da un errore umano.

Seppur meno drammatiche, le sventure delle Olimpiadi canadesi erano tutt’altro che finite. Le elevate temperature iniziali e le successive nevicate accompagnate dalla nebbia imposero per la prima settimana rinvii che provocarono gare a singhiozzo, compressione del calendario e caos biglietti. Particolarmente colpito fu lo sci alpino, con ben sette prove cronometrate annullate e quattro gare rinviate. Inoltre si tornò a parlare del problema sicurezza e non solo per la gara dello slittino: nel bob, dove furono modificate più volte alcune curve considerate pericolose, si registrarono ben otto cadute durante le prove e il frenatore australiano Duncan Harvey finì in ospedale e nella discesa libera femminile, in una pista lunga e difficile non provata a sufficienza, si susseguirono le cadute, che provocarono alla Rolland la rottura del crociato, alla Miklos la rottura del ginocchio e alla Gisin una leggera commozione cerebrale.

Gli azzurri, dopo un ventennio di trionfi inaugurato ad Albertville 1992, conquistarono una medaglia d’oro solo all’ultima giornata di gare. Eppure tutto sembrava essere cominciato nel migliore dei modi grazie al sorprendente bronzo di Alessandro Pittin nella combinata nordica. Prima del suo esordio il combinatista di Cecivento aveva dichiarato umilmente: «Penso che la mia Olimpiade arriverà fra quattro anni», ma dopo un ottimo salto che lo proiettava al sesto posto, non si lasciò sfuggire l’occasione di bruciare le tappe. Raggiunse nella frazione con gli sci di fondo il gruppetto dei migliori e riuscì a finire alle spalle del fenomeno Lamy Chappuis e dell’americano Spillane nello sprint finale, conquistando la prima medaglia in questa disciplina per l’Italia.

Con una certa delusione tra l’opinione pubblica e gli addetti ai lavori fu invece accolto il bronzo dell’eterno Armin Zöggeler nella gara maledetta dello slittino. Pesantemente penalizzato dalla scelta di abbassare la partenza e dal ghiaccio molle, il carabiniere di Foiana si dovette arrendere allo strapotere dei tedeschi Felix Loch e David Möller, ma fu capace comunque di respingere l’assalto del russo Albert Demčenko, conquistando così la sua quinta medaglia in altrettante Olimpiadi. Sempre nello slittino la coppia formata da Oberstolz e Gruber ottenne un beffardo quarto posto, che si andò ad aggiungere alle tre “medaglie di legno” conquistati in passato nei Campionati mondiali.

A Casa Italia le delusioni arrivarono specialmente dallo sci di fondo, una disciplina che nelle edizioni passate era stata una miniera apparentemente inesauribile di medaglie. La 15 km a tecnica libera, in cui il trentacinquenne Pietro Piller Cottrer conquistò uno strepitoso argento giungendo alle spalle dell’inarrivabile svizzero Dario Cologna, ma davanti ai più quotati Lukáš Bauer, Markus Hellner e Vincent Vittoz, non fu altro che un fuoco di paglia. Quell’argento fu a tutti gli effetti il colpo di coda di due generazioni straordinarie di fondisti capaci di sfidare per un ventennio le grandi squadre del nord Europa. Guidati dal veterano Giorgio di Centa, scelto anche come portabandiera, i fondisti pagarono a Vancouver il logorio, l’implacabile avanzare dell’età e, soprattutto, l’assenza di un ricambio generazionale. Al di là dello straordinario exploit individuale di Piller Cottrer gli azzurri finirono fuori dai dieci nella 30 km, nella 50 km e nella sprint, mentre non andarono oltre l’ottava posizione nella team sprint e in particolare delusero nella staffetta. Dopo cinque edizioni costantemente sui primi due gradini del podio, gli “eroi di Torino” – con Checchi al posto di Valbusa – finirono mestamente noni. In campo femminile le maggiori delusioni arrivarono invece dalle veterane Arianna Follis e Marianna Longa, mentre sorpresero le prestazioni offerte da Magda Genuin, quinta nella sprint e quarta nella team sprint con la Follis. Fu però nuovamente la staffetta, che con la lenta frazione di Sabina Valbusa perse una medaglia alla portata, a certificare il fallimento della spedizione.

Nelle discipline sul ghiaccio non sembrò offrire grandi vantaggi l’assai pubblicizzato binomio a livello tecnologico-scientifico fra il CONI e la Ferrari, portato avanti dal Dipartimento di Scienza dello Sport del CONI e dalla direzione tecnica del Cavallino. I risultati nel bob e nello slittino – tolta la qualità individuale di Zöggeler – furono tutt’altro che esaltanti, ma le note negative arrivarono soprattutto dal pattinaggio di velocità in cui, complice l’involuzione di Enrico Fabris, dopo l’estemporaneo exploit di Torino 2006, non ci furono investimenti adeguati.

A colmare, almeno in parte, queste lacune ci pensò la diciannovenne Arianna Fontana nel sempre imprevedibile short track. La giovanissima valtellinese chiuse la finale dei 500 metri alle spalle della formidabile cinese Wang Meng e della beniamina di casa Marianne St-Gelais, diventando così la prima donna italiana a vincere una medaglia olimpica individuale in questa disciplina.

Nel pattinaggio però la principale delusione fu senza dubbio rappresentata da Carolina Kostner. La campionessa europea del 2007, 2008 (anno in cui era arrivata seconda al Mondiale) e del 2010 nonché portabandiera a Torino, per preparasi al meglio a quelle che dovevano essere le sue Olimpiadi, aveva deciso di trasferirsi a Los Angeles per farsi seguire dal coach del futuro campione olimpico Lysaceck. Tanto il soggiorno all’estero quanto l’oro europeo avevano contribuito ad aumentare le aspettative sulla sua prestazione. In una gara dominata dalla classe della diciannovenne sudcoreana Kim Yu-na la caduta della Kostner, che le valse solo il 16° posto, divenne il simbolo della deludente spedizione azzurra in terra canadese. Letteralmente massacrata dai giornalisti che la davano per finita e persino dai suoi stessi dirigenti – basti pensare che il presidente del CONI dichiarò: «Non è una campionessa, lo dico da padre di famiglia» – nel 2012 la pattinatrice gardenese saprà prendersi una personale rivincita conquistando nuovamente il titolo europeo e, per la prima volta, anche il Mondiale.

La partecipazione azzurra fu insignificante e talvolta disastrosa nel biathlon, nello snowboard, nel freestyle, nello skeleton e nel salto dal trampolino, mentre nell’hockey e nel curling nessuna squadra italiana aveva ottenuto il pass per il Canada.

Lo sci alpino, disciplina che alle Olimpiadi ha spesso riservato sorprese, merita invece un discorso a parte. In pieno ricambio generazionale, la spedizione femminile deluse le aspettative soprattutto in gigante, ma trovò in Johanna Schnarf, chiamata all’ultimo per sostituire l’infortunata Nadia Fanchini, un jolly capace di sfiorare il podio in Super G e di conquistare un onorevole ottavo posto in supercombinata. Se si esclude il disastro dei quotati Blardone, Moelgg, Simoncelli e Ploner, incapaci di entrare nei dieci in slalom gigante, la squadra maschile offrì invece nel complesso una buona prestazione, basti pensare che nel supergigante Heel, Innerhofer e Staudacher terminarono rispettivamente al quarto, sesto e settimo posto a una manciata di centesimi dal podio e che l’esordiente Dominik Paris, era secondo dopo la prima manche in supercombinata. Fu quindi tutto sommato coerente con l’andamento generale dei risultati che proprio dallo sci alpino, nell’ultima prova utile, arrivasse il primo e unico oro per la spedizione azzurra: un metallo che a quel punto sembrava del tutto insperato. Giuliano Razzoli, in testa dopo la prima manche pur partendo col pettorale numero 13 su una pista già rovinata, riuscì con grande classe a difendersi dalla rimonta di Ivica Kostelić e soprattutto a gestire la pressione che lo circondava. Uno slalomista emiliano che vince alle Olimpiadi in Canada non poteva che riportare alla memoria le gesta di Alberto Tomba 22 anni prima a Calgary. Nonostante una neve difficile e un tracciato pieno di insidie e cambi di ritmo, “Razzo” azzeccò due manches impeccabili, che fecero esplodere di gioia gli italiani e il suo fedelissimo fan club, meritandosi così di essere portabandiera alla cerimonia di chiusura.

Al di là delle luci e delle ombre della spedizione azzurra le Olimpiadi di Vancouver ebbero in Shaun White, che con i suoi strabilianti tricks si riconfermò medaglia d’oro nell’half pipe, un assoluto protagonista. Questa disciplina, un tempo simbolo di una controcultura e di un modo alternativo di intendere gli sport invernali, istituzionalizzatasi nel calendario olimpico, ha cambiato molti suoi connotati e si è completamente professionalizzata. Basti pensare che lo snowboarder americano si era allenato in Colorado, dove una nota bevanda energetica gli aveva finanziato un half pipe privato dotato di telecamere a raggi infrarossi e vasche piene di schiuma ad alta densità e che con 9 milioni di dollari, 7.5 dei quali garantiti solamente dagli sponsor, è stato l’atleta più pagato alle Olimpiadi.

Un altro grande personaggio, pur fallendo il bis olimpico, fu lo “zar del ghiaccio” Evgenij Pljuščenko. Argento a Salt Lake City 2002 e oro a Torino 2006 nel pattinaggio artistico, per due anni aveva girato il mondo con il suo show e, tornato alle gare nell’inverno 2009-2010 vincendo gli Europei, era attesissimo. Soprattutto dopo l’introduzione di un nuovo sistema di giudizio, il russo era infatti un simbolo per tutti coloro che nel pattinaggio artistico volevano privilegiare i salti e i gesti atletici sulla creatività e l’emozione, rappresentata invece da Lysacek e Takahashi. Dopo una gara tiratissima, con 257.67 punti contro i 256.36 di Pljuščenko, il campione olimpico fu però l’americano Evan Lysacek, il quale, benché non avesse mai effettuato il salto quadruplo, fu impeccabile negli aspetti artistici e non commise errori nei salti. L’esercizio del russo fu come sempre ammiccante e sfrontato, ma, pur senza sbagliare i salti, pagò a caro prezzo qualche sbavatura. Non convinto del verdetto finale, lo sconfitto provocò Lysacek: «In questo sport bisogna saltare non ballare […] Non so se il nuovo campione è capace di fare un quadruplo, io sì».

Nello sci alpino Lindsey Kildow Vonn, la stella annunciata, riuscì a vincere un oro nella discesa libera e un bronzo nel super G, ma dovette condividere il palcoscenico con l’amica-rivale Maria Riesch (oro nello slalom speciale e nella supercombinata), con Viktoria Rebensburg, a cui andò il gigante, e con Andrea Fischbacher, che vinse a sorpresa il super G. Non ci fu nessun dominatore assoluto nemmeno in campo maschile – dove significativamente l’Austria rimase a secco nel medagliere – ma Bode Miller, considerato dagli addetti ai lavori ormai in declino, riuscì a conquistare ben tre medaglie (una per ogni metallo) raggiungendo così quell’agognato oro olimpico che in passato gli era sempre sfuggito.

Degne di nota furono anche la doppietta dello svizzero Ammann, il quale ripetendo gli exploit di Salt Lake City vinse l’oro sia dal trampolino grande che da quello piccolo e le cinque medaglie (3 ori, 1 argento e 1 bronzo) della fondista norvegese Marit Bjørgen, che con l’eccezione della 30 km a tecnica classica ebbe la meglio nel confronto diretto con la rivale polacca Justyna Kowalczyk.

Ad altissimi livelli si confermarono anche il biatleta norvegese Ole Einar Bjørndalen, il quale con l’argento nella trenta km e l’oro nella staffetta centrò la sua 11° medaglia olimpica individuale, i bobbisti tedeschi André Lange e Kevin Kuske, che conquistarono il quarto oro ai Giochi olimpici invernali diventando gli atleti più vittoriosi nella storia di questa disciplina, e il funambolo dello short track Apolo Ohno, capace grazie ad un argento e due bronzi di diventare, con 8 medaglie, l’atleta americano più decorato nella storia dei Giochi invernali.

Nel Canada immerso nel “sogno olimpico” il torneo di hockey su ghiaccio assunse più di ogni altra disciplina un significato particolare. Per un paese con mezzo milione di tesserati e più di 13.000 piste dimenticare l’onta del 7° posto di Torino 2006 era una priorità assoluta. Con un percorso non certo travolgente, grazie alle parate di Roberto Luongo e alle reti del talentuoso Sidney Crosby, il 28 febbraio i canadesi superarono gli statunitensi ai supplementari per 3 a 2, facendo esplodere di gioia un’intera nazione. Per non essere da meno, tre giorni prima le ragazze si erano confermate campionesse olimpiche sconfiggendo sempre gli Stati Uniti per 2 a 0 e lasciandosi andare a festeggiamenti a sigari, birra e champagne che fecero storcere il naso al presidente del CIO Jacques Rogge.

Grazie ad una presenza massiccia in tutte le discipline i padroni di casa conclusero al primo posto il medagliere per nazioni con 26 medaglie e 14 ori davanti a Germania e Stati Uniti che, pur alle spalle dei canadesi negli ori, vinsero un numero maggiore di medaglie: rispettivamente 30 e 37.

Il Presidente russo Medvedev non partecipò alla cerimonia di chiusura, deluso per i risultati dei suoi atleti – fuori dalla top-ten nel medagliere con 3 ori 5 argenti 7 bronzi – e per la mancata finale nell’hockey. Un concetto espresso anche dal Primo Ministro Putin che ammise: «Ci aspettavamo di più. Ora dobbiamo creare le condizioni per una partecipazione competitiva a Soči».

Il presidente del CONI Petrucci parlò di «Giochi in chiaroscuro, tra il 5,5 e il 6», ma l’exploit finale di Razzoli non fu certo sufficiente per celare il ritorno a un numero esiguo di medaglie al livello degli anni Ottanta e il 16° posto finale. Mai nel secondo dopoguerra l’Italia, complice una sottovalutazione dell’importanza delle nuove discipline, era finita così in basso nel medagliere olimpico. Come scrisse Emanuela Audisio su «Repubblica»: «Torino è stata un’esperienza positiva, ma […] non c’è stato investimento su quel successo, solo la speranza che durasse».

Medagliere

Giochi paraolimpici

Paralimpiadi invernali Vancouver 2010

I X Giochi Paraolimpici invernali si svolsero a Vancouver e a Whistler dal 12 al 21 marzo 2010. Le discipline in programma furono: biathlon, curling, hockey, sci alpino e sci di fondo. Vi presero parte 506 atleti in rappresentanza di 44 CNO (5 in più rispetto a Torino).

Come a Torino, la Russia fece incetta di medaglie, ben 38 di cui 12 d’oro, ma la Germania, grazie ai suoi 13 successi vinse il medagliere. Alle loro spalle con 10 vittorie e 19 medaglie si posizionarono i padroni di casa, trascinati dal fondista ipovedente Brian McKeever che, pur non avendovi preso parte per scelta tecnica, era stato iscritto anche alle Olimpiadi di Vancouver.

L’Italia chiuse all’undicesimo posto con 1 medaglia d’oro, 3 d’argento e 3 di bronzo. Nello sci alpino l’azzurro ipovedente Gianmaria Dal Maistro, con la sua guida Tommaso Balasso, conquistò l’argento in supercombinata e due medaglie di bronzo nello slalom gigante e speciale. Una medaglia d’argento in supergigante, nella categoria “in piedi”, arrivò anche dalla portabandiera ai Giochi paralimpici del 2006, Melania Corradini. Nel fondo invece la versatile Francesca Porcellato, alla seconda partecipazione invernale dopo le sei estive, vinse l’oro nella sprint nella categoria “seduti”, mentre le altre due medaglie (un argento nella 10 km e un bronzo nella 15 km categoria “seduti”) furono vinte da Enzo Masiello.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Movimenti anti-globalizzazione

Giochi paraolimpici

Columbia britannica

Hockey su ghiaccio

Opinione pubblica