Olimpiadi invernali: Albertville 1992

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi invernali: Albertville 1992

Gian Paolo Ormezzano

Numero Olimpiade: XVI

Data: 8 febbraio-23 febbraio

Nazioni partecipanti: 64

Numero atleti: 1801 (1313 uomini, 488 donne)

Numero atleti italiani: 123 (93 uomini, 30 donne)

Discipline: Biathlon, Bob, Freestyle, Hockey su ghiaccio, Pattinaggio, Pattinaggio artistico,

Sci alpino, Sci nordico, Slittino

Numero di gare: 57

Ultimi tedofori: Michel Platini e François-Cyrille Grange

Giuramento olimpico: Surya Bonaly

I Giochi di Albertville, che significarono un ritorno alla montagna dopo l'esperienza cittadina di Calgary, patirono un duplice equivoco, il primo di natura geografica, il secondo di natura anagrafica. Cominciamo dal primo: forse quei Giochi avrebbero dovuto avere un altro nome, essere per es. chiamati Giochi della Savoia. Albertville infatti ospitò solo le gare di pattinaggio sul ghiaccio mentre tutte le altre prove furono distribuite per monti e valli proprio come era accaduto nella precedente edizione olimpica invernale francese, quella di Grenoble 1968. La cittadina savoiarda è più piccola di Grenoble e consiste più che altro in una piattaforma abitata a fondo valle con snodi stradali da cui si parte per raggiungere le montagne, le quote giuste per lo sci alpino. La candidatura vincente di Albertville era stata basata sull'assicurazione della brevità dei tempi di spostamento per andare dal centro dei Giochi alle varie località di gara, tempi misurati in condizioni ottimali di strada e di traffico, poi tutti smentiti dalla pratica giornaliera, quando bastavano due pullman in più per creare uno stop su qualche curva a stretto raggio. Chi si era fidato delle garanzie di spostamento veloce e facile si trovò spesso bloccato per strada, nonostante la circolazione delle vetture private fosse stata chiusa e pochissime fossero le auto ufficiali.

C'era poi l'equivoco anagrafico. Chi gareggiava ad Albertville sapeva da tempo della novità, introdotta dal CIO, dei Giochi invernali sfasati di due anni rispetto a quelli estivi, a partire dall'edizione successiva, che quindi si sarebbe tenuta nel 1994 a Lillehammer, in Norvegia. La decisione era legata alla volontà di caratterizzare maggiormente le singole manifestazioni e quindi gli specifici 'prodotti', anche e soprattutto televisivi, evitando che uno costituisse una sorta di prologo per l'altro, ottimizzando l'impegno degli sponsor e sventando concorrenze anche indirette tra di loro. Questa scelta aveva fatto seguito a un'altra decisione del CIO poco pubblicizzata, quella di stroncare ogni tentativo da parte di alcune federazioni di far passare nel programma dei Giochi invernali alcuni sport che faticavano a esprimersi al meglio in estate: si pensi al basket, al pugilato, al sollevamento pesi e alla lotta, che sono tipicamente sport di sala. Samaranch, lo spagnolo eletto presidente del CIO dopo i Giochi estivi di Mosca 1980, era parso all'inizio del suo mandato poco attento ai Giochi invernali, ma poi la crescita degli sponsor anche intorno a questa manifestazione lo aveva convinto della loro importanza in chiave economica, e anche della necessità di mantenerli ben distinti da quelli estivi. Dunque niente spostamenti di discipline che non fossero quelle della neve e del ghiaccio. E proprio la definizione di Giochi della neve e del ghiaccio piacque al presidente del CIO, che forse l'avrebbe preferita a quella di Giochi Olimpici invernali. L'equivoco anagrafico era dunque legato alla possibilità di gareggiare nuovamente ai Giochi due anni dopo Albertville, senza dover attendere il periodo canonico di quattro anni, sdrammatizzando così per una volta l'importanza dell'appuntamento olimpico nei suoi termini di rarità e a volte unicità nella carriera degli atleti (quattro anni nello sport di vertice possono essere moltissimi). La vicinanza del tutto eccezionale della successiva edizione di Lillehammer, dunque, non era una semplice alchimia del calendario, ma faceva scendere sacralità e tensioni in quella di Albertville.

Ad Albertville Alberto Tomba divenne il primo al mondo, nello sci alpino, capace di rivincere il titolo olimpico nello slalom gigante dopo quattro anni, ma non fu quello il solo evento importante realizzato dagli atleti azzurri: Stefania Belmondo fu la prima donna italiana vincitrice di una medaglia d'oro nel fondo, e in una prova, quella sui 30 km, introdotta in quei Giochi e definibile anche come la prima vera maratona bianca per donne. Accadde il 10 febbraio; tre giorni dopo Deborah Compagnoni si affiancò a Belmondo vincendo il supergigante. Sul piano statistico forse l'impresa della Belmondo ha la massima rilevanza anche per aver 'profanato' riserve di caccia che sembravano essere delle scandinave e delle sovietiche e casomai delle cecoslovacche e delle tedesche, portando direttamente il nostro fondo femminile dalla zona fuori medaglie all'oro e prevalendo su una schiera di avversarie forse mai come in quell'Olimpiade di tanto valore. La vittoria di un'italiana in una gara di sci alpino, seppure brillantissima, non costituiva invece una novità assoluta (Paoletta Magoni aveva vinto a Sarajevo otto anni prima nello slalom). Comunque Deborah Compagnoni trionfò con quasi un secondo e mezzo di vantaggio sulla francese Carole Merle che pure correva in casa; terza l'austriaca Katja Seizinger, quarta un'altra austriaca, Petra Kronberger, nella quale molti vollero vedere la sciatrice di quei Giochi, perché capace di vincere la combinata (prima nella discesa, terza nello slalom) e lo slalom speciale.

La cerimonia inaugurale, ispirata a una sorta di spettacolo circense, fu la più 'intellettuale' sin lì organizzata. Per l'ultimo tratto la fiaccola fu affidata al calciatore Michel Platini, accompagnato da un bambino, una sorpresa che pochi ritennero una contaminazione. Fu quello, forse, l'unico vero momento olimpico di Albertville, per una edizione dei Giochi assai poco unitaria, con gli atleti che dimoravano in paesi e anche villaggi residenziali secondari. Fra l'altro i partecipanti erano molti, e ciò significò l'introduzione di una nuova logistica dei Giochi, con la famiglia olimpica molto distribuita e con arrivi di concorrenti anche dell'ultima ora, dopo una preparazione svolta su altre nevi, magari assai lontane.

Rispetto a Calgary e alla partecipazione di nazioni e atleti, era intervenuta la caduta del muro di Berlino: e allora ecco che le due Germanie erano diventate una, l'URSS si era divisa, dando origine a nuovi Stati. Tornarono le tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, che in un lontano passato avevano preso parte autonomamente ai Giochi, mentre Ucraina, insieme con Bielorussia, Kazakistan e Uzbekistan, alle quali si era unita la Russia, diedero vita alla Squadra Unita, come era chiamata la rappresentativa che ‒ in attesa di piena ufficializzazione di nuovi comitati olimpici nazionali ‒ nella cerimonia inaugurale di Albertville 1992 sfilò sotto la bandiera del CIO, quella bianca con i cinque cerchi, e che in caso di successi avrebbe fatto suonare l'inno olimpico. La disgregazione iugoslava aveva dato vita a squadre che rappresentavano la Croazia e la Slovenia. Infine bisogna rilevare che Albertville 1992 ebbe in cartellone nuove discipline e specialità, il biathlon per le donne, il freestyle, lo short track ‒ cioè il pattinaggio di velocità in pista corta, già visto a Calgary quattro anni prima ma senza ufficialità di programma ‒ e tre sport dimostrativi, il curling, lo sci acrobatico e il chilometro lanciato; quest'ultima disciplina si segnalò per l'abbondanza di sponsor per le sue gare che comportavano rischio e coraggio.

Alberto Tomba vinse lo slalom gigante per 32 centesimi davanti a Marc Girardelli, mezzo austriaco (nascita), mezzo italiano (origine) e tutto lussemburghese come affiliazione sciatoria e assegnazione del suo successo a una nazione, capace di vincere in tutte le specialità proprio mentre infuriava l'obiettivo della specializzazione. Dietro a Girardelli c'erano Kjetil André Aamodt, norvegese, Paul Accola, svizzero, e Ole Kristian Furuseth, anche lui norvegese, tutti atleti che contrassegnavano lo sci alpino di quei tempi e che rappresentavano sia le nazioni tradizionali sia quelle scandinave, di promozione relativamente recente ai vertici di questa specialità. Era la terza gara dello sci alpino, a parte le prove diventate specifiche per la combinata, cioè uno slalom e una discesa riservati a chi tentava questa speciale classifica, apparsa ai Giochi invernali nel 1936 e nel 1948, poi scomparsa sino al 1988, o meglio presente solo in chiave di titolo mondiale, in quanto ricavata dalle classifiche specifiche delle prove olimpiche di discesa e slalom, senza l'organizzazione di una discesa e uno slalom ad hoc.

Prima c'era stata la discesa, dove l'austriaco Patrick Ortlieb aveva strappato per 5 centesimi di secondo il titolo al francese Franck Piccard, che aveva prenotato il successo sulle nevi di casa sua, sulle piste dove da bambino aveva imparato a sciare. Lo svizzero Franz Heinzer, un favorito (vincitore di quasi tutte le grandi prove della stagione), lì ai Giochi arrivò soltanto sesto per un grave errore, e terzo fu l'austriaco Günther Mader, ad appena 10 centesimi da Ortlieb. Il primo italiano, Franco Colturi, fu decimo davanti all'altro azzurro Kristian Ghedina, che avrebbe poi messo insieme una gran bella carriera, anche se priva di acuti. Nel supergigante, ormai noto come 'Super G', Aamodt riuscì a dare 73 centesimi di secondo a Girardelli che a sua volta aveva preceduto altri due norvegesi, Jan Einar Thorsen e Furuseth. Davvero cambiavano le etnie dominanti, e il quinto posto dell'italiano Josef Polig era in fondo abbastanza rassicurante per chi paventava uno scardinamento completo dei valori classici; dodicesimo fu Gianfranco Martin. Polig aveva anche conseguito il nono posto nel gigante vinto da Tomba.

Qualcuno temeva un rilassamento dell'atleta bolognese, il quale avrebbe potuto considerare sostanzialmente chiusa la sua pratica olimpica, con quel successo di straordinaria valenza statistica. La prima manche dello slalom speciale diede forza a questa tesi, ma la seconda manche offrì un Tomba così motivato e determinato che l'ottimo secondo posto finale, secondo molti pareri, lo rese soddisfatto solo in apparenza, lasciandolo invece nel sostanziale rimpianto della mancata vittoria. La gara rischiò in effetti di vedere una delle più straordinarie rimonte della storia. Dopo la prima manche Tomba era sesto, a 1′58″ da Finn Christian Jagge, norvegese, che precedeva Michael Tritscher, austriaco, Roger Staub, svizzero, Paul Accola, svizzero, e Thomas Fogdoe, svedese. Tomba scese nella seconda manche per primo dei sei e segnò il tempo di 52,96″, che lì per lì non sembrò neanche troppo sensazionale, non tanto perché mancavano riferimenti quanto perché nel suo entourage si parlava di lamine troppo affilate. Ma poi cominciarono a delinearsi via via le possibilità, le probabilità, la speranza, la certezza del podio, perché tutti presero da lui distacchi consistenti. Restava Jagge, che scese saggiamente e conservò 28 centesimi di vantaggio. Carlo Gerosa, undicesimo, fu il primo azzurro dopo Tomba. Si parla spesso nello sport di vincitore morale e si dice che il secondo posto quasi sempre è peggio dell'ultimo: quella volta Tomba fu secondo ed ebbe probabilmente più onori e applausi che se fosse giunto primo perché un'altra sua vittoria avrebbe dato il senso della superiorità ineluttabile e per certi aspetti poco interessante, scontata, mentre la rimonta incompiuta restituiva il campione a una dimensione più umana ma ne ribadiva la straordinaria valenza tecnica, pronta a riproporsi dopo un possibile calo di tensione.

Anche la mancata vittoria di Deborah Compagnoni nello slalom gigante fu vissuta e valutata dai media con maggiore intensità rispetto al primo posto conseguito nel 'Super G', perché l'azzurra appunto dopo il 'Super G' era favorita. Nella prima manche scese bene, ma poi cadde, avvertì dentro il ginocchio un male terribile; il suo dolore, in quel momento più fisico che morale, trasmesso in diretta creò molta emozione. E mentre lei piangeva già si facevano i conti di una carriera breve e intanto già profondamente segnata da avversità fisiche anche gravi, tali da seppellire voglie, vocazioni, entusiasmi in una che non fosse stata una autentica campionessa, nel talento e nella volontà, come lei. Quella gara andò alla svedese Pernilla Wiberg, davanti alla statunitense Diann Roffe e all'austriaca Anita Watcher. Parvero tutte usurpatrici della gloria prenotata da Compagnoni.

Considerando anche il successo della canadese Kerrin Lee-Gartner nella discesa, si deve parlare di disfatta delle francesi. Delle italiane, da citare Paoletta Magoni, dodicesima nello slalom che aveva vinto otto anni prima a Sarajevo. Infine una curiosità: nel supergigante vinse Compagnoni che poi cadde nel gigante, nello slalom vinse Kronberger che era caduta nel gigante, nel gigante vinse Wiberg che sarebbe poi caduta nello slalom. Grande assente da questo andare e venire di trionfi e avversità speciali la Svizzera, che peraltro in tutto lo sci alpino prese soltanto un bronzo, quello della combinata maschile, prova della estrema volatilità dei valori tecnici.

Altre medaglie per l'Italia vennero dalla combinata, discesa più slalom: una d'oro, con Josef Polig altoatesino, e una d'argento, con Gianfranco Martin. C'era un grande favorito, l'austriaco Hubert Stroltz, e in effetti stava per vincere, ma uscì a pochissime porte dalla conclusione dello slalom, stessa disavventura toccata quattro anni prima allo svizzero Zurbriggen. Polig così si trovò in testa, unendo il sesto posto nella discesa al quinto nello slalom. Martin fu rispettivamente secondo e settimo e nella classifica finale venne distanziato di pochissimo dal connazionale. Staccato di molto il terzo, lo svizzero Steve Locher. Kristian Ghedina fu sesto. Ci fu festa in casa Italia, festa improvvisa: il premio di un oro olimpico in più apparve sin troppo grosso, considerata la scarsa attenzione prestata alla vigilia alla nuova specialità.

Con 14 medaglie (4 ori, 6 argenti, 4 bronzi) l'Italia finì al quinto posto per nazioni, preceduta da Austria, Norvegia, Squadra Unita cioè ex URSS e, qui sta la novità grossa, Germania: una sola rappresentativa tedesca, dopo la caduta del muro di Berlino, e subito la sensazione di una nuova superpotenza (10 ori, 10 argenti, 6 bronzi). Come numero di medaglie l'Italia si lasciò indietro Stati Uniti (5 ori, 4 argenti, 2 bronzi) e Francia (3 ori, 5 argenti, 1 bronzo). L'oro di Stefania Belmondo fu, come si è detto, il più importante di tutti perché non solo Belmondo diventò la prima azzurra salita sul podio dello sci nordico (e addirittura subito con la medaglia d'oro), ma vinse la 30 km, cioè la maratona per le donne, la gara più difficile. Fu sempre in testa, e soltanto nel corso del 19° chilometro sembrò poter essere rimontata da Lyubov Yegorova, siberiana, che le arrivò a 10 secondi. Poi il ricorso a tutte le energie, ma senza trascurare la coordinazione. La gara era definita 'a tecnica classica', essendo stata decisa, proprio a partire da Albertville 1992, l'assegnazione di ori olimpici a seconda dello stile adottato dai concorrenti (e anche questa spartizione contribuì all'aumento del numero delle prove e dunque delle medaglie). Le distanze a tecnica classica venivano coperte secondo il tradizionale procedere dei fondisti, detto passo alternato, le distanze a tecnica libera prevedevano e in pratica comandavano il nuovo passo, il pattinaggio, a lungo avversato dagli scandinavi, sacerdoti da sempre dello sci nordico e nemici dei 'riti' moderni, fra l'altro spesso premianti la forza delle braccia su quella delle gambe. Belmondo vinse, sulla distanza lunga e a passo alternato, dunque con la classicità del procedere spinta e incrementata dalla volontà e dal sacrificio, su due grandissime competitrici, Yegorova e Yelena Välbe. Quest'ultima sarebbe stata nel futuro un grande intralcio per l'attività di Stefania, collezionista di successi, togliendole per scarti minimi grandi soddisfazioni a livello di campionati mondiali.

Nel settore femminile era stata introdotta una prova nuova, di sprint, sui 5 km a tecnica classica, e la stessa prova ne faceva nascere un'altra detta a inseguimento, sui 10 km a tecnica libera, dove le concorrenti partivano in ordine rovesciato rispetto alla graduatoria dei 5 km: in pratica, la prima veniva inseguita dalla seconda, la seconda dalla terza e così via. Quarta sui 5 km, Belmondo rimontò due concorrenti, cioè la finlandese Marjut Lukkarinen, vittoriosa sui 5 km e la stessa Välbe, arrivando così all'argento a 24 secondi dalla Yegorova. Un'altra azzurra, Manuela Di Centa, fu dodicesima e decima nelle due classifiche. Dopo il quinto posto di Belmondo sui 15 km a tecnica classica (nona per l'Italia Gabriella Paruzzi, destinata a una carriera lunga e bella), arrivava appunto il trionfo della 30 km, con Di Centa sesta e Paruzzi dodicesima. Infine la staffetta, tecnica mista, e per Bice Vanzetta, Di Centa, Paruzzi e Belmondo ci fu un ottimo terzo posto dietro alla Squadra Unita e alla Norvegia, davanti alla Finlandia e al resto del mondo. Yegorova con l'oro della 10 km, della 15 km e della staffetta, nonché con l'argento della 5 e della 30 km, arrivò alla quota record di cinque medaglie in una sola Olimpiade, come Välbe che però prese soltanto un oro, quello della staffetta, e per fare cinque ebbe bisogno di quattro bronzi. Ma il record più carico di simpatia fu quello della russa siberiana Raisa Smetanina, arrivata a 39 anni e 353 giorni alla sua decima medaglia nei Giochi, in staffetta, chiudendo una storia cominciata nel 1976 con l'argento sui 5 km e durata per sedici anni.

Se con Stefania Belmondo il fondo femminile azzurro aveva cambiato pagina, quello maschile non riusciva ad allinearsi, quanto a esiti eclatanti, a gare d'oro, ma faceva pur sempre cose belle, e quasi in ogni prova. Albarello, Vanzetta e De Zolt avevano preso negli anni precedenti una caratura mondiale, non sufficiente però a vincere nei 10 km a tecnica classica (primo Vegard Ulvang, norvegese, secondo appunto Albarello e settimo Giorgio Vanzetta), nella nuona speciale combinata 10 km a tecnica classica+15 km a tecnica libera (prevalse Bjørn Daehlie, altro campione norvegese, su Ulvang, poi arrivarono Vanzetta e Albarello, e Silvio Fauner fu settimo), nei 30 km a tecnica classica (Albarello fu quarto dietro a tre norvegesi, Ulvang, Daehlie e Terje Langli), nei 50 km (Daehlie prevalse su De Zolt e Vanzetta). L'ottima salute complessiva era certificata dalla staffetta, con Giuseppe Puliè, Albarello, Vanzetta e Fauner staccati soltanto dai norvegesi, i tre già citati più Kristen Skjeldal, ma davanti a finlandesi, svedesi ed ex sovietici. A proposito dei campioni che avevano battuto gli italiani, da segnalare l'impresa di Ulvang che si era allenato anche compiendo in 24 giorni di sci di fondo la traversata della Groenlandia, 100 anni dopo che il grande esploratore, anche lui norvegese, Fridjof Nansen aveva coperto lo stesso percorso, calzando però gli snow boots anziché gli sci.

Niente per l'Italia nel resto dello sci nordico, che individuò il personaggio non fondista nel finlandese Toni Nieminen, vincitore il 14 febbraio del titolo olimpico dal trampolino da 120 m: aveva 16 anni e 259 giorni, un giorno di meno dello statunitense William Fiske, che nei Giochi di St. Moritz 1948 aveva vinto col bob a quattro. Sette giorni prima Nieminen dal trampolino di 90 m si era classificato terzo dietro ai due austriaci Ernst Vettori e Martin Höllwarth; e nella sua gara vittoriosa precedette Höllwarth e Heinz Kuttin. L'azzurro Ivan Lunardi fu settimo nel trampolino lungo. Nieminen vinse anche la prova a squadre, la sua Finlandia si piazzò davanti ad Austria e Cecoslovacchia. La combinata nordica individuale fu a sorpresa per due francesi, Fabrice Guy, medaglia d'oro, e Sylvain Guillaume, medaglia d'argento; nella prova a squadre vinse il Giappone su Norvegia e Austria. I tedeschi, fin lì strapazzati, si rifecero un pochino vincendo il biathlon dei 10 km con Mark Kirchner, oro, e Ricco Gross, argento (settimo l'italiano Andreas Zingerle). Sui 20 km prevalse Yevgeniy Redkin (ex URSS) su Kirchner (settimo l'italiano Johann Passler), e anche nella staffetta l'ex URSS ebbe la meglio sulla Germania (Italia quarta, dopo la Svezia). Anche il biathlon delle donne fu spartito fra ex URSS (Anfisa Reztsova sui 7,5 km davanti a Antje Miserksy, tedesca) e Germania (Miserksy sui 15 km davanti a Svetlana Pecherskaya, ex sovietica). Ma nella staffetta ci fu il risultato più sorprendente: vinsero le francesi, su tedesche ed ex sovietiche, grazie al premio forse eccessivo dato dalle prove di tiro.

Il pletorico programma dei Giochi Olimpici previde infine lo sci acrobatico, o freestyle, o gobbe, riservato soprattutto a uomini francesi e donne statunitensi. Ci furono pure dimostrazioni di salto e di balletto sia per i maschi sia per le femmine. A livello di sport dimostrativo si ebbe lo sci di alta velocità, con il ritorno del chilometro lanciato di ancora fresca memoria. Il francese Michel Prufer e la finlandese Tarja Mulari, perfettamente ignoti nel mondo dello sci alpino rituale, furono capaci di raggiungere rispettivamente i 229,299 km/h e i 219,245 km/h.

Sul ghiaccio, con pochissima Italia, si vide un alternarsi sempre maggiore di personaggi, di scuole, di valori classici e non. Arrivarono nell'ordine un equipaggio svizzero e due tedeschi nel bob a due (dove gli italiani Günther Huber e Stefano Ticci furono quinti), mentre nel bob a quattro vinse un equipaggio austriaco seguito da uno tedesco e da uno svizzero (primo riconoscimento olimpico elvetico nella disciplina).

La gara dello slittino monoposto andò a un tedesco, Georg Hackl, davanti a due austriaci e all'italiano Norbert Huber, altoatesino. L'altro azzurro Oswald Haselrieder fu settimo. Nel biposto si imposero due equipaggi tedeschi, il bronzo andò a quello italiano di Hansjörg Raffl e Huber. In ambito femminile si aggiudicarono i primi due gradini del podio due austriache nel monoposto, dietro di loro si piazzarono una tedesca e la promettente italiana Gerda Weissensteiner.

Nel pattinaggio di velocità la gara dei 1500 m andò a un norvegese, Johan Olav Koss, che si annunciava già come il favorito di Lillehammer 1994. Fra gli uomini vittorie tedesche, norvegesi, olandesi, presenze forti giapponesi e sudcoreane. Fra le donne vittorie statunitensi e soprattutto tedesche (grande sui 3000 m Gunda Niemann). Arrivò ufficialmente lo short-track, che vide l'affermazione del coreano Kim Ki-Hoon (seguito dal canadese Frédéric Blackburn e dal connazionale Lee Joon-Ho) in ambito maschile, e della statunitense Cathy Turner fra le donne. Nomi senza retroterra.

Il pattinaggio artistico premiò fra gli uomini un ex sovietico, Viktor Petrenko, e fra le donne la statunitense (di origine giapponese) Kristi Yamaguchi, che finì davanti alla giapponese Midori Ito. Al terzo e al quarto posto due statunitensi, Nancy Kerrigan e Tonya Harding, la cui rivalità avrebbe fatto la fortuna dei tabloid due anni dopo ai Giochi di Lillehammer. I sovietici vinsero sia nella prova a coppie, sia nella danza.

Infine la gara di hockey, vinta stavolta dalla squadra dell'ex URSS, capace di ripristinare la sua supremazia nonostante le molte defezioni verso il professionismo. Secondo il Canada, terza la Cecoslovacchia davanti agli Stati Uniti. E sempre sul ghiaccio ci fu ancora uno sport dimostrativo, il curling, quel lancio di pietre speciali, circolari, che imita il gioco delle bocce e prevede l'uso di scopette per segnare sul ghiaccio la strada alla pietra e creare con l'attrito una pellicola liquida utile allo scivolamento (gesti non altamente atletici ma soprattutto non comportanti né rischio né necessità di ardire). Più bravi gli svizzeri, fra gli uomini come fra le donne. Mentre lo sci di velocità assoluta non ce l'ha fatta a entrare ufficialmente nel programma olimpico, il curling invece è stato introdotto nel 1998.

Albertville visse e offrì una edizione dei Giochi ispirata ancora ai vecchi, grandi temi dello sci: quasi che lo spettacolo inaugurale, la cerimonia di apertura con uno show circense, avesse voluto rivendicare il diritto dei Giochi a essere ancora un po' bambini, a coltivare gli stupori di una volta.

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