Olimpiadi estive: Los Angeles 1984

Enciclopedia dello Sport (2004)

Olimpiadi estive: Los Angeles 1984

Gian Paolo Ormezzano

Numero Olimpiade: XXIII

Data: 28 luglio-12 agosto

Nazioni partecipanti: 140

Numero atleti: 6829 (5263 uomini, 1566 donne)

Numero atleti italiani: 289 (237 uomini, 52 donne)

Discipline: Atletica, Calcio, Canoa, Canottaggio, Ciclismo, Equitazione, Ginnastica, Hockey su prato, Judo, Lotta greco-romana, Lotta libera, Nuoto, Pallacanestro, Pallamano, Pallanuoto, Pallavolo, Pentathlon moderno, Pugilato, Scherma, Sollevamento pesi, Tiro, Tiro con l'arco, Tuffi, Vela

Numero di gare: 221

Ultimo tedoforo: Rafer Johnson

Giuramento olimpico: Edwin Moses

Los Angeles per ottenere i Giochi dovette semplicemente candidarsi. Non vi fu nessuna concorrenza: l'esito dei Giochi di Montreal 1976, con un deficit gravoso per lo Stato del Quebec, fu un deterrente quando venne assegnata, nel 1979, l'edizione di cinque anni dopo. Ma più che la metropoli californiana ad aggiudicarsi i Giochi fu un privato cittadino, Peter Ueberroth, oriundo tedesco, agente di viaggi, commissioner (direttore generale) del baseball professionistico, che si prese l'impegno di organizzare i Giochi senza chiedere denaro pubblico. I governanti californiani e statunitensi gli lasciarono mano libera per l'acquisizione di denaro dalle fonti più disparate: porte aperte dunque alle televisioni (200 milioni di dollari dalla sola ABC, titolare dei cosiddetti primi diritti sulle gare) e agli sponsor, che poterono intitolare ai loro prodotti velodromi, piscine e palazzetti dello sport, costruiti di fretta e sommariamente, nonostante l'assenza ai Giochi di pubblicità esplicita degli sponsor istituzionali, come da regola del CIO. Furono autorizzati impianti precari (a pochissimi giorni dall'inizio dei Giochi gli atleti del tiro a volo non sapevano ancora dove avrebbero disputato le loro gare) e privi di norme per la sicurezza degli spettatori e degli stessi concorrenti. La vigilanza fu affidata a un'armata di volontari, pagati dalla soddisfazione di rendere possibile il miracolo dei primi Giochi della storia non solo autosufficienti, ma 'in attivo'. Sembra infatti che alla fine della sua fatica Ueberroth avesse messo da parte 300 milioni di dollari.

Ueberroth fra l'altro lavorò sotto l'incubo, divenuto poi realtà, del boicottaggio sovietico. Se ne parlava da Mosca 1980, l'annuncio ufficiale arrivò puntuale a poche settimane dall'inizio della manifestazione. I governanti dei paesi dell'Est europeo non parlarono di restituzione del colpo basso di quattro anni prima, né si riallacciarono a grandi eventi della politica mondiale. Semplicemente l'URSS disse che i suoi atleti non andavano negli Stati Uniti per ragioni di sicurezza e tutto il blocco di Varsavia, più Cuba e affini, si associò, con la sola eccezione di Romania e Iugoslavia in pieno strappo ideologico con l'URSS e forse anche nella speranza di medaglie più facili.

I Giochi di Los Angeles furono dunque ridotti, come lo erano stati quelli di Mosca: stavolta di un quarto, allora di metà, 140 Comitati olimpici nazionali contro 80. Fra le nazioni presenti ci fu finalmente la Cina, a rappresentare oltre un miliardo di uomini; nella pistola libera Xu Haifeng vinse la prima medaglia d'oro per il paese di cui alcuni già annunciavano il prossimo venturo predominio nello sport.

Giustamente al blocco sovietico venne rinfacciato di usare il pretesto della sicurezza come un modo per restituire il boicottaggio senza avere il coraggio di dirlo esplicitamente. Però quello della sicurezza a Los Angeles fu effettivamente un problema. Furono Giochi blindati, più che quattro anni prima a Mosca. Il clima generale fu reso ancora più pesante dalle ispezioni pignole e dai controlli reiterati di documenti e credenziali, eseguiti da una troupe di volontari impreparata a un compito nuovo e delicato. L'apparato di sorveglianza non riuscì comunque a impedire che si aprissero delle falle del sistema di sicurezza, delle quali fortunatamente nessuno approfittò.

La cerimonia inaugurale fu spettacolare, vivacizzata dall'esibizione di un 'uomo volante' che si librò sul Memorial Coliseum affidandosi alla propulsione di uno zainetto-jet portato sulle spalle. Come già a Mosca furono coinvolti gli spettatori, che sulle gradinate tenevano in mano un rettangolo colorato di plastica a formare un gigantesco puzzle rappresentante le bandiere degli Stati presenti a quei Giochi. Lo stadio era lo stesso di Los Angeles 1932, neppure particolarmente ristrutturato, data la politica al risparmio praticata da Ueberroth.

Iniziarono poi le competizioni e nonostante tutto fu una bella edizione, con gare di alto livello, persino più che nel 1980, e con personaggi validissimi. Su tutti spiccò Carl Lewis, il nuovo re nero dello sprint soprannominato 'figlio del vento', già annunciato tale dai Trials, le preolimpiche statunitensi che, impietose e tesissime, in certe prove devono selezionare tre atleti fra concorrenti che sono tutti all'altezza di una finale olimpica. Lewis vinse quattro medaglie d'oro, ricalcando esattamente l'impresa compiuta a Berlino 1936 da Jesse Owens, come lui dell'Alabama: 100 e 200 m, lungo e staffetta. Bello, altero sino ad apparire protervo, Lewis disse subito che correva per diventare famoso e ricco, progetto certamente portato a termine. Sui 100 m andò addirittura sotto i 10″ (9,99″). Al terzo posto, staccato di 23 centesimi, giunse un nero canadese di origini giamaicane di cui si sarebbe sentito parlare molto: si chiamava Ben Johnson, era goffo, timido, frenato anche dalla balbuzie ma dotato di una muscolatura incredibile.

Il boicottaggio, specialmente dei sovietici e delle tedesche orientali, svuotò di valore alcuni ordini d'arrivo e classifiche. Si rividero quelli che avevano rinunciato a Mosca: su tutti Edwin Moses, che riprese a imporsi nei 400 m ostacoli. Nel mezzofondo si ripropose il duello interbritannico di Mosca fra Coe e Ovett: stravinse Coe, che prese l'oro nei 1500 m e arrivò secondo dietro al brasiliano Joaquim Cruz sugli 800 m. Ottavo in questa gara, Ovett fu schiantato dall'afa californiana della piena estate e dovette lasciare lo stadio in barella. Sui 5000 m si rivelò un altro grande atleta, il marocchino Saïd Aouita, destinato a durare a lungo. Venne molto applaudito il trentasettenne portoghese Carlos Lopes, il più vecchio vincitore olimpico della più vecchia prova olimpica, la maratona (è possibile che questo primato ufficiale sia invalidato dall'incerta data di nascita di altri atleti africani già vittoriosi nelle stessa gara, per es. l'etiope Mamo Wolde medaglia d'oro ai Giochi del 1968).

Si era temuto che il sole californiano avrebbe stroncato maratoneti e marciatori, stravolgendo gli ordini d'arrivo. Non fu così, anche se vi furono alcuni casi drammatici. Il più vistoso riguardò la svizzera Gabriela Andersen Schiess nella prima maratona femminile disputata ai Giochi (vinse la statunitense Joan Benoit, professoressa di ginnastica, reduce da una operazione a un tendine subita appena due mesi prima, su due grandi interpreti di questa fatica speciale, la norvegese Grete Waitz, protagonista specialmente della maratona di New York, e la portoghese Rosa Mota). Entrata nello stadio, Andersen Schiess impiegò sette minuti per fare il giro della pista: disidratata, sfinita, ma soprattutto menomata (lo si seppe dopo) da uno stiramento muscolare, zigzagava da una corsia all'altra, respingendo con gesti secchi chi voleva aiutarla (facendola magari squalificare per eccesso di soccorso, come era accaduto a Londra 1908 all'italiano Dorando Pietri), finché per pura forza di volontà riuscì a tagliare il traguardo da trentasettesima; poi fu portata via in barella e dovette essere ricoverata in ospedale. Il presidente Ronald Reagan, che aveva inaugurato i Giochi, la volle alla Casa Bianca per complimentarsi del suo coraggio e premiarla con una speciale medaglia d'oro.

Le donne avevano avuto accesso ad altre nuove distanze: i 400 m ostacoli e i 3000 m, e il pentathlon femminile aveva acquisito due nuove prove, diventando eptathlon. Nei 400 m ostacoli ci fu un evento storico: la vittoria di Nawal El Moutawakel del Marocco, prima africana medaglia d'oro ai Giochi, araba anticonformista, visto che l'islam non incoraggia certamente le donne a fare sport. Lo sprint dei 100 m vide il successo di Evelyn Ashford, nera statunitense di grande talento e grande carriera, mentre nei 200 e 400 m vinse Valerie Brisco-Hooks, sua connazionale. L'assenza di tedesche orientali e sovietiche semplificò le cose a molte atlete, il livello delle gare non fu certamente alto, non si registrarono primati mondiali. La tedesca occidentale Ulrike Meyfarth si riprese l'oro del salto in alto dodici anni dopo Monaco 1972 (quando aveva appena 16 anni), seconda fu un'altra atleta non più giovanissima, Sara Simeoni. L'unica presenza proveniente dall'Est Europa fu quella delle rumene: tra Doina Melinte e Maricica Puica, che vinsero gli 800 e i 3000 m, riuscì a sorpresa a infilarsi, conquistando la medaglia dei 1500 m l'italiana Gabriella Dorio, che si lasciò alle spalle proprio le due rumene. Nel mezzofondo femminile erano date come grandi favorite della vigilia la statunitense Mary Deker, molto amata dal pubblico americano, e Zola Budd, bianca sudafricana divenuta britannica per l'estromissione degli atleti di Pretoria dai Giochi: ambedue fallirono invece la loro prova, fra cadute e sgambetti della sorte e non solo.

Per quanto riguarda il nuoto i nordamericani riuscirono ad attenuare le conseguenze dell'assenza dei tedeschi orientali con l'aiuto anche di un tedesco occidentale, Michael Gross, detto 'l'albatros' per la grande apertura delle braccia, capace di vincere i 200 m stile libero e i 100 m farfalla a colpi di primati del mondo, togliendo la ribalta massima al canadese Alex Baumann, specialista in stile libero, e allo statunitense Rick Carey, vincitore dei due ori nel dorso. A Los Angeles vennero poi introdotte, a scopo di puro e semplice riempitivo dei tempi morti televisivi, le finali dei secondi, disputate cioè dagli atleti che in eliminatoria avevano segnato dal nono al sedicesimo tempo. Accadde che nei 400 m stile libero questa finale di consolazione venne vinta dal tedesco Thomas Fahrner in 3′50,91″, mentre quella vera e propria, quella che assegnava le medaglie, venne vinta dallo statunitense George Dicarlo con un tempo di 32 centesimi di secondo superiore.

Per le donne il programma venne arricchito dall'ingresso in cartellone del nuoto sincronizzato, specialità che gli uomini difficilmente avrebbero reclamato anche per loro. Ci fu un ex aequo nei 100 m stile libero fra due statunitensi, Carrie Steinseifer e Nancy Hogshead. Se a Monaco 1972 nei 400 m misti Tim McKee aveva ceduto l'oro a Gunnar Larsson per 2 millesimi di secondo, a Los Angeles 1984 Steinseifer, che toccò il bordo tre millesimi di secondo in anticipo sulla rivale, non fu dichiarata prima in base al nuovo regolamento secondo il quale almeno un centesimo di secondo, cioè dieci millesimi, doveva separare i concorrenti perché l'ordine d'arrivo ne tenesse conto.

Molti personaggi contribuirono a ridimensionare la portata del boicottaggio. Nella ginnastica artistica femminile un paziente lavoro delle giurie diede alla fine l'oro più importante, quello del completo individuale, alla statunitense Mary Lou Retton che non vinse in nessun concorso particolare, ma si piazzò sempre bene e nell'insieme dei punteggi si trovò davanti alla rumena Ecaterina Szabo, che pure si era aggiudicata due medaglie d'oro individuali e una a squadre. Mary Lou firmò poi moltissimi contratti pubblicitari, specialmente per prodotti alimentari destinati ai giovanissimi.

A questo proposito c'è da dire che a Los Angeles 1984 si smise di sottilizzare sullo status dilettantistico degli atleti. I calciatori italiani per es. schieravano Salvatore Bagni, il quale aveva appena firmato un contratto faraonico con il Napoli, e nessuno trovò niente da ridire, anche perché molti degli olimpici e olimpionici avevano già fatto intendere chiaramente che il loro futuro sarebbe stato professionistico (con fior di contratti ad hoc per la specifica attività sportiva) o almeno professionale (borse di studio e carriere agevolate).

Molti dei nuovi atteggiamenti erano dovuti al cambio di presidenza del CIO. Dopo Mosca 1980 l'incarico era passato da lord Killanin allo spagnolo della Catalogna Juan Antonio Samaranch, ex governatore di Barcellona ai tempi del franchismo, abile uomo politico che fra l'altro aveva ricoperto il difficile ruolo di ambasciatore della 'nuova' Spagna nell'URSS e nella Mongolia. Samaranch, ex pugile dilettante ed ex giocatore di hockey a rotelle, si rivelò molto abile nel mantenere sostanzialmente la linea del CIO, pur introducendo varie innovazioni. Dopo aver licenziato dalla direzione generale la francese Monique Berlioux, ex nuotatrice divenuta, data la non assidua presenza di Killanin a Losanna, il vero capo dell'ente, aprì alle donne, nominando fra di esse nuovi membri del CIO e in chiave strettamente sportiva accettando l'istanza di avere gare olimpiche femminili anche in specialità e su distanze sin lì riservate solo agli uomini. La spinta modernista dei tempi e quella relativa alla peculiarità dell'organizzazione dei Giochi 1984, nel senso che bisognava essere decisionisti e aperti a tutto, si combinarono benissimo con lo spirito riformista di Samaranch, il quale fece partire da Los Angeles 1984 la politica di arricchimento del CIO, lasciando agli organizzatori libertà massima nel trattare i diritti televisivi, che in linea di principio avrebbero dovuto essere concessi gratuitamente a tutte le emittenti del mondo, purché la metà della cifra incassata fosse destinata al Comitato olimpico. La commercializzazione dei Giochi, all'insegna dello show business televisivo, partì dunque da Los Angeles nel 1984, sia pure travestita da particolari esigenze di un'organizzazione privata.

Ancora una volta il pugilato presentò il suo campione olimpico destinato al grande mercato della boxe professionistica sino al titolo mondiale: si trattò di Evander Holyfield, altro celebre nome dopo quelli di Clay, Frazier e Foreman. Holyfield era stato pronosticato facile vincitore del titolo dei mediomassimi, ma in semifinale contro l'australiano Kevin Barry sferrò il pugno del k.o. mentre l'arbitro comandava un break; Barry andò al tappeto per un tempo ben superiore ai dieci secondi, ma l'arbitro decise che Holyfield aveva sferrato il pugno dopo il comando e lo squalificò; furono inutili le proteste non solo di Holyfield, ma dello stesso Barry il quale, ripresosi, disse che il colpo gli era arrivato prima dello 'stop' arbitrale. Barry, traumatizzato in tutti i sensi, rinunciò alla finale e la medaglia d'oro andò allo iugoslavo Anton Josipovic, che non ebbe bisogno neanche di scendere sul ring. Lo stesso Josipovic poi volle che Holyfield, a quel punto medaglia di bronzo (il pugilato premia così entrambi gli sconfitti delle semifinali), nella premiazione salisse accanto a lui sul gradino più alto del podio.

Gli Stati Uniti conquistarono sul ring ben cinque titoli su dodici. Ovviamente spadroneggiarono in un po' tutte le discipline, premiati alla fine dalla classifica per nazioni che li vide primi con ben 83 ori davanti alla sbalorditiva Romania a quota 20, seguita da Germania Ovest, Cina e Italia. Una insolita riserva di caccia fu per gli USA il ciclismo, dove gli atleti di casa si aggiudicarono una quantità di medaglie, fra l'altro non lasciandosi sfuggire una prova nuova, quella femminile su strada. Vinse Connie Carpenter, in una volata nella quale non poté fare nulla l'azzurra Maria Canins, diventata campionessa riconosciuta due anni prima, in età già sportivamente avanzata, dopo una maternità e soprattutto al termine di una grandissima attività nello sci di fondo e nella corsa a piedi in salita. Canins era la più forte ma aveva bisogno delle salite del Tour de France, dove spadroneggiava, e comunque di un percorso durissimo: le strade piatte della California non le servirono per fare selezione e allo sprint fu soltanto quinta. Sul piano emotivo importante fu il successo dello statunitense supermassimo della lotta greco-romana Jeff Blatnick, che soltanto un anno prima aveva seguito una devastante chemioterapia per debellare il morbo di Hodgkin che lo stava uccidendo: sconfisse in finale lo svedese Thomas Johansson poi squalificato per doping da steroidi. Nella lotta libera arrivarono all'oro due coppie di fratelli: Dave e Mark Schultz nei welter e nei medi, Edward e Luis Banach nei massimi leggeri e nei massimi.

L'insieme delle medaglie italiane (14 ori, 6 argenti e 12 bronzi) si avvicinò a quello record conseguito dall'Italia nella stessa Los Angeles 52 anni prima (12 ori, 12 argenti e 14 bronzi). La nostra presenza olimpica fu bella e forte a prescindere anche dall'importanza degli assenti. Per esempio Alessandro Andrei nel peso venne senz'altro avvantaggiato dalla mancata partecipazione degli specialisti dell'Europa dell'Est, ma al tempo stesso la sua gara e il suo lancio misero in evidenza grande puntualità e forza ben contenuta entro schemi di movimenti e ben incanalata nella maniera più provvida e tempistica. Gabriella Dorio si affermò sui 1500 m correndo in un buon tempo e non lasciandosi tatticamente chiudere fra le due rumene Melinte e Puica. La sua gara fu bella, precisa, sostenuta da una notevole forza interiore che la spinse a impegnarsi al massimo in quella che sapeva essere l'ultima grande occasione sportiva della sua vita. La terza medaglia d'oro nell'atletica fu ottenuta nei 10.000 m da Alberto Cova, intelligente interprete delle esigenze della gara, attentissimo sfruttatore degli errori e dei difetti degli avversari, provvisto di uno spunto finale straordinario, a tratti irrefrenabile (così almeno appariva a quelli che lo vedevano schizzare al loro fianco negli ultimi metri della prova). Cova in una carriera neanche troppo lunga riuscì a collezionare un titolo europeo ad Atene 1982, un titolo mondiale a Helsinki 1983 e un titolo olimpico a Los Angeles 1984. Il tedesco orientale Werner Schildauer, superato a Helsinki di appena 14 centesimi di secondo, era il suo storico rivale ma a Los Angeles era assente per boicottaggio. Lo rimpiazzò, come avversario sul quale correre e sul quale prevalere nel finale, il finlandese Martti Vainio, erede di una grandissima tradizione del mezzofondo. Cova lo bruciò senza neanche doversi impegnare al massimo, tanto è vero che l'ordine di arrivo allo stadio sancì fra i due un distacco di 3,53″. Vainio fu poi squalificato in seguito al controllo antidoping per assunzione di steroidi anabolizzanti. Così l'argento andò a Michael McLeod della Gran Bretagna, il bronzo a Michael Musyoki del Kenya, e al quarto posto salì l'italiano Salvatore Antibo, che a livello europeo sarebbe poi diventato un validissimo successore di Cova, prima di essere frenato dall'epilessia.

Maurizio Damilano, vincitore di Mosca, ottenne il bronzo nella 20 km di marcia, stesso risultato ottenuto nei 50 km da Alessandro Bellucci, nonché da Giovanni Evangelisti nel lungo dopo essersi trovato vicinissimo all'argento. All'argento di Sara Simeoni nel salto in alto si è già accennato: la medaglia ottenuta, nonostante l'età (31 anni) e il logorio dei tendini, con un salto superiore ai 2 m, appena 2 cm in meno della tedesca occidentale Ulrike Meyfarth, ebbe quasi il valore di un oro. Mennea, invece, alla sua quarta finale olimpica, fu settimo nei 200 m.

Da tre anni i fratelli napoletani, Carmine e Giuseppe Abbagnale, con il timoniere Peppino di Capua, dominavano nel canottaggio mondiale il due con. Finalmente arrivò per loro il successo olimpico, seguito dalla retorica puntuale su uno sport così bello e povero e i suoi campioni ricchissimi solo di umanità, spirito di sacrificio e nobiltà d'impegno. Più accattivante fu forse il nostro successo nel pentathlon moderno, disciplina durissima, grande summa di grandi sport (corsa, nuoto, equitazione, scherma e tiro), individualmente con Daniele Masala, a squadre con Masala, Carlo Massullo (bronzo nell'individuale) e Pierpaolo Cristofori: naturalmente anche qui ci fu una felice scoperta di uno sport sin lì trascurato.

Dopo la delusione di Mosca la scherma italiana riprese a conseguire medaglie d'oro. Strepitosa fu quella di Mauro Numa nel fioretto: mancava un minuto alla fine della contesa e il tedesco Matthias Behr stava conducendo per 7 a 3, Numa riuscì a pareggiare sul 9 a 9 e poi a piazzare la stoccata dell'oro. Terzo in quella stessa arma fu Stefano Cerioni che poi con Numa, Andrea Borella, Andrea Cipressi e Angelo Scuri vinse l'oro a squadre. La sciabola a squadre vide la vittoria italiana con Gianfranco Dalla Barba, Giovanni Scalzo, Fernando Meglio, Angelo Arcidiacono e Angelo Marin, argento nella prova individuale. Ancora due bronzi arrivarono nella spada a squadre e nel fioretto femminile, con Dorina Vaccaroni, favorita dopo anni di supremazia mondiale ma che in gara sembrò risentire di una sorta di solitudine 'psicoagonistica' dentro a una squadra che più che amarla la invidiava.

Altre vittorie meritano di essere citate. Vincenzo Maenza, detto Pollicino, ottenne un commovente e anche emozionante oro nella lotta greco-romana, categoria minimosca. L'atletica detta pesante offrì un altro oro inatteso, quello di Norberto Oberburger nel sollevamento pesi categoria massimi pesanti. Il tiro a volo vide la nuova affermazione nel piattello dalla fossa di Luciano Giovannetti, che replicò il successo di Mosca, e il bronzo nel tiro skeet di Luca Scribani Rossi. Nel tiro a segno femminile argento (classifica mista) nella carabina ad aria compressa per Edith Gufler. Nel pugilato vi furono la medaglia d'oro di Maurizio Stecca, peso gallo che avrebbe poi avuto una buona carriera anche nel professionismo insieme al fratello Loris, e quelle d'argento di Francesco Damiani, supermassimo, e di Salvatore Todisco nei minimosca. Luciano Bruno e Angelo Musone arrivarono alla semifinale rispettivamente nei welter e nei massimi, ottenendo pertanto il bronzo. Nel ciclismo invece ci fu soltanto l'oro della 100 km a cronometro a squadre con Marcello Bartalini, Marco Giovannetti, Eros Poli e Claudio Vandelli, i quali non ebbero poi gran successo nel professionismo, come accade a chi si è prosciugato da giovane in una specialità così esigente, debilitante e tecnica insieme. Nel judo sino a 71 kg Ezio Gamba non replicò il successo di Mosca ma fu argento, perdendo la finale contro il sudcoreano Ahn Byeong-Keun. Ci furono ancora il bronzo nella vela classe Star con Giorgio Gorla e Alfio Peraboni, che a Mosca avevano avuto lo stesso risultato, e quello nella pallavolo maschile dietro a Stati Uniti e Brasile. Delusione invece da calcio, pallacanestro e pallanuoto, sport in cui pure l'assenza dell'Europa dell'Est, ridotta a Iugoslavia e Romania, avrebbe dovuto garantire ottime possibilità di podio.

Si è più volte fatto cenno ai controlli antidoping. A Los Angeles si parlò nuovamente, e molto, di autoemoperfusione, una pratica non esplicitamente proibita, inizialmente concepita per dare vigore ai traumatizzati da gravi operazioni chirurgiche e consistente nel togliersi un po' di sangue, depurarlo sino a ridurlo ai globuli rossi, conservarlo in emoteca, per poi iniettarselo quando all'organismo fosse utile una 'frustata'. Si parlò poco invece di ormoni, ma poco dopo la fine dei Giochi un medico di Los Angeles, Robert Kerr, fece sapere che molti degli atleti saliti sul podio erano passati a farsi prescrivere steroidi anabolizzanti nel suo studio. Kerr sosteneva di aver elaborato un sistema scientifico di somministrazione di ormoni destinato a quanti, anche e soprattutto non atleti, desideravano irrobustirsi in fretta per non patire complessi di inferiorità fisica e non potevano permettersi lunghe sedute di muscolazione classica in palestra. Il racconto di questi 'miracoli' era arrivato al mondo del grande sport e Kerr aveva avuto clienti di tipo nuovo. Il suo nome sarebbe poi venuto fuori anche nel corso del processo a Ben Johnson, dopo la squalifica ai Giochi di Seul.

La cerimonia finale di Los Angeles fu sfarzosa ma non trionfalistica. Il mondo olimpico doveva fare i conti con tre boicottaggi consecutivi e Samaranch aveva già voluto lanciare la sfida delle sfide: l'appuntamento che al Coliseum fu dato, come da copione di chiusura, alla gioventù di tutto il mondo riguardava la capitale di una nazione ancora in guerra ufficiale con il suo confinante, una città piena di soldati. Si trattava di Seul, Corea del Sud, a 100 km dalle armate della Corea del Nord. Si parlò all'epoca di decisione pazzesca, di mancanza da parte del CIO di senso della realtà. Fu invece una decisione spavalda, aggressiva, ottimistica: insomma una decisione sportiva.

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