NUOVI PRODOTTI DANNOSI

XXI Secolo (2009)

Nuovi prodotti dannosi

Ugo Carnevali

Il diritto e l’eredità del Novecento

Alcune nozioni di base

Nel linguaggio giuridico per prodotto ‘dannoso’ s’intende il prodotto che, a causa di una sua non perfetta progettazione o inadeguata sperimentazione ovvero a causa di una sua difettosa o inaccurata costruzione, può essere pericoloso per l’integrità fisica e per i beni di coloro che ne fanno uso o di coloro che, pur non facendone uso, si trovano esposti, occasionalmente o meno, al pericolo. È l’opposto di prodotto ‘sicuro’. Quest’ultimo, infatti, secondo la definizione legislativa, è il prodotto che in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili «non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, compatibili con l’impiego del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone» (art. 103, co., Codice del consumo).

Spesso il prodotto ‘dannoso’ viene designato anche come ‘difettoso’ (nella sua progettazione o sperimentazione oppure nella sua costruzione o nell’insufficiente informazione circa il suo modo d’impiego), secondo una tradizionale terminologia giuridica che ha le sue radici nella codificazione civile, dove viene disciplinato il caso in cui il bene oggetto di compravendita presenta dei ‘vizi’ che lo rendono inidoneo all’uso o ne diminuiscono il valore (art. 1490 c.c.). In realtà, l’aggettivo difettoso, pur essendo corretto, non appare il più adatto a mettere in luce i problemi della disciplina giuridica del prodotto dannoso, che non sono quelli di non funzionare o di avere un minor valore economico, bensì sono quelli di esporre le persone a un rischio irragionevole di subire un danno alla salute o ai loro beni. Sotto questo aspetto l’aggettivo insicuro appare decisamente più appropriato e più significativo.

Le cause che possono rendere non sicuro e dunque potenzialmente dannoso un prodotto, nuovo o no che sia, sono di diversa natura. Meno gravi sono le conseguenze di un difetto di costruzione che inerisce soltanto a taluni esemplari, rendendoli non sicuri, all’interno di una serie produttiva di per sé sicura: l’esiguo numero di siffatti prodotti che entrano nel mercato rende di scarsa entità il rischio derivante dalla loro natura pericolosa. Ben diverso è il caso, tipico dei ‘nuovi’ prodotti, anche se non solo di essi, in cui è la stessa progettazione o sperimentazione del prodotto che non rispetta quello che viene definito come lo stato dell’arte, cioè il livello più evoluto raggiunto dalla scienza e dalla tecnica: in questi casi ciascuno dei molti prodotti immessi sul mercato è pericoloso e dunque potenzialmente dannoso, e di conseguenza il rischio per la salute delle persone e i loro beni è assai elevato. Nel secolo scorso gli effetti collaterali di taluni prodotti farmaceutici non sufficientemente sperimentati hanno causato gravissimi danni alla salute di migliaia di persone, tanto che nella letteratura giuridica è stata coniata l’espressione danni di massa: ben noto è il tragico caso del Contergan (talidomide), mentre in altri casi il pronto ritiro del farmaco dal mercato ha prevenuto il ripetersi di analoghi episodi. Infine, la natura potenzialmente dannosa di un prodotto può dipendere dalle insufficienti istruzioni che lo accompagnano circa il suo modo d’impiego e la prevenzione di eventuali rischi.

La legislazione e le sue linee di sviluppo

La tutela delle persone da prodotti dannosi (nel significato sopra chiarito) rappresenta uno degli aspetti della generale protezione dei consumatori, che il Trattato istitutivo della Comunità europea ha incluso tra i suoi fini istituzionali (art. 153).

A partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso la Comunità europea – anche nel quadro di una armonizzazione delle legislazioni nazionali in tema di prodotti dannosi – ha emanato e continua a emanare, sotto forma di direttive rivolte agli Stati membri, norme di carattere generale e norme di carattere settoriale in tema di prodotti pericolosi, che si prestano a essere applicate non soltanto ai prodotti esistenti al momento della loro emanazione, ma anche a nuovi prodotti dannosi che lo sviluppo della scienza e della tecnica porta a realizzare nel tempo. Queste normati-ve si fondano su un bilanciamento di contrapposti interessi: l’interesse delle persone alla tutela della salute e dei loro beni; l’interesse dell’industria a non essere gravata da eccessivi costi per la sicurezza dei prodotti, che potrebbero riflettersi pesantemente sul prezzo dei prodotti stessi, anche al punto tale da scoraggiarne l’immissione sul mercato. Il frutto di questo bilanciamento di interessi si riassume nella formula legislativa del ‘rischio accettabile’. La rilevanza del criterio del ‘rischio accettabile’ diventa evidente soprattutto quando vengono presi in considerazione prodotti di particolare utilità sociale, come, per es., nuovi prodotti farmaceutici: nonostante un’accurata sperimentazione di questi ultimi, può restare il dubbio di una loro pericolosità sotto l’aspetto di possibili gravi effetti collaterali per chi ne fa uso, e tuttavia la loro immissione sul mercato può essere giustificata dal fine terapeutico che essi perseguono, che rende accettabile il rischio degli effetti collaterali dannosi.

La tutela giuridica offerta dalle normative comunitarie sopra richiamate e da quelle di origine nazionale si basa sul diritto civile e sul diritto processuale civile. Scarsa rilevanza in questo settore riveste invece il diritto penale, dal momento che la progettazione e la realizzazione dei prodotti industriali coinvolgono la ricerca e il lavoro di un’intera struttura aziendale e non è perciò di norma possibile individuare una determinata persona alla quale sia penalmente imputabile la dannosità di un prodotto, salvo che una specifica norma penale indichi il soggetto penalmente responsabile.

Le linee di tendenza della normazione comunitaria, integrata settorialmente da norme nazionali degli Stati membri, si sono sviluppate e continuano a svilupparsi in una duplice direzione: prevenire per quanto possibile l’immissione in commercio di prodotti non sicuri e quindi potenzialmente dannosi, da un lato, e, dall’altro, garantire alle persone danneggiate da un prodotto pericoloso il risarcimento del danno subito alla salute o ai beni.

Le normative di prevenzione

L’obiettivo primario di qualunque normativa a tutela dei consumatori e degli utenti è ovviamente quello di prevenire l’immissione in commercio di prodotti che, per una loro imperfetta progettazione o per una loro difettosa realizzazione, possano rivelarsi dannosi per la salute delle persone o per i beni di queste.

A questo obiettivo tende una direttiva comunitaria, riveduta nel 2004 e recepita dall’Italia nell’ambito del Codice del consumo del 2005 (artt. 102-113), che riguarda la generalità dei prodotti, quale che sia la loro natura o composizione fisica (meccanica, chimica, agricola ecc.) o immateriale (software) e quali che siano gli scopi a cui i prodotti servono. Gli strumenti ai quali questa normativa – che enuncia il principio generale per cui «il produttore immette sul mercato solo prodotti sicuri» (art. 104, 1° co., Codice del consumo) – fa ricorso sono molteplici: la prescrizione alle industrie di specifici standard progettuali e costruttivi, tali da poter far presumere la sicurezza del prodotto; l’obbligo imposto al produttore di accompagnare il prodotto con tutte le informazioni utili alla valutazione e prevenzione dei rischi derivanti dall’uso del prodotto e perciò utili anche per l’eventuale scelta di più sicuri prodotti alternativi; l’obbligo per il produttore (e anche per il distributore del prodotto) di tenersi informato circa eventuali rischi che possano essere individuati per prodotti già commercializzati, in modo da prendere tutte le misure idonee a neutralizzarli, ivi compreso il ritiro del prodotto dal mercato.

A partire soprattutto dall’ultimo decennio del secolo scorso la normativa sulla sicurezza generale dei prodotti è stata integrata, e continua oggi a essere integrata in via permanente, da altre numerose normative comunitarie di carattere settoriale, nel senso che ciascuna di esse si applica a una specifica categoria di prodotti (macchine, prodotti elettrici ed elettronici, apparecchi a gas, giocattoli ecc.). Questo metodo di affiancare la normativa di carattere generale, che viene così ad assumere in pratica un valore tendenzialmente residuale, con delle normative specifiche per singole categorie di prodotti, presenta un duplice vantaggio: da un lato, la normativa specifica è più idonea a imporre all’industria particolari e ‘mirati’ standard progettuali e costruttivi al fine di prevenire quelli che potrebbero rivelarsi i rischi di danno connessi all’uso di quel determinato prodotto; dall’altro lato, le normative specifiche costituiscono una serie aperta, nel senso che esse vengono emanate in sede comunitaria (e talora anche solo in sede nazionale) ogniqualvolta si mostri la necessità di intervenire sulla fabbricazione di qualche nuovo prodotto allo scopo di prevenire una sua eventuale dannosità, cioè prevenire eventuali rischi connessi al suo uso.

Una particolare normativa comunitaria di prevenzione, che si ispira al cosiddetto principio di precauzione e che è stata recepita dall’Italia nel 2001 e nel 2003, riguarda l’impiego di Organismi geneticamente modificati (OGM) e di prodotti contenenti OGM.

Il progressivo ampliarsi degli interventi pubblici a tutela della salute dei consumatori, nonché dei loro beni, condurrà nei prossimi anni a un’intensificarsi dell’attività legislativa di prevenzione sia a livello europeo sia a livello nazionale.

La normativa sul risarcimento del danno da prodotto

L’altro versante della tutela del consumatore, complementare alla tutela di carattere preventivo, è rappresentato dalla normativa relativa al risarcimento del danno che colpisce la persona nella sua integrità fisica o nei suoi beni. Il Codice del consumo del 2005 ha recepito la normativa comunitaria.

Il presupposto di questa tutela è dato dal fatto che il danno sia stato causato da un prodotto che non offra la sicurezza che può essere ragionevolmente pretesa, nel senso che sopra è stato chiarito. Nella prassi giudiziaria (quella che con termine tecnico viene indicata come giurisprudenza) la natura non sicura di un prodotto viene spesso desunta dalle stesse modalità di accadimento del danno nel corso di un uso regolare del prodotto stesso.

Una volta accertata la natura non sicura del prodotto, il fabbricante ha ben poche difese per respingere una sua responsabilità per il danno. Una di queste difese merita di essere menzionata, perché assume particolare importanza per molti dei nuovi prodotti di cui si farà menzione tra breve: ai sensi dell’art. 118, lett. f, del Codice del consumo il produttore può liberarsi da responsabilità dimostrando che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche esistenti al momento in cui il prodotto è stato messo sul mercato non permetteva ancora di considerarlo come non sicuro. Questa causa di esonero da responsabilità è stata introdotta nella normativa comunitaria per le pressioni esercitate dall’industria farmaceutica, preoccupata per gli eventuali effetti collaterali nocivi dei suoi prodotti, ma è stata interpretata dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza in senso assai restrittivo, come il livello più avanzato, anche solo sperimentale, delle conoscenze scientifiche e tecniche. Inoltre, qualora il progresso delle conoscenze scientifiche e tecniche riveli la natura pericolosa per la salute di prodotti già immessi sul mercato perché ritenuti sicuri in base alle conoscenze del tempo, il produttore non è esonerato da responsabilità per danni qualora non abbia provveduto a informare adeguatamente il pubblico e le pubbliche autorità competenti, nonché, nei casi più gravi, a bloccare la distribuzione di questi prodotti e a richiamare quelli già commercializzati.

Una categoria aperta

Il continuo sviluppo della scienza e della tecnica fa sì che vengano immessi sul mercato prodotti di nuova concezione che possono o si teme che potrebbero rivelarsi non sicuri, e quindi dannosi, per la salute delle persone e per i loro beni. La loro tipologia può essere riassunta nelle tre seguenti categorie.

Per prodotto di nuova concezione si può intendere un prodotto del tutto nuovo, che non ha precedenti nel suo genere: il caso più rilevante, che ha suscitato a tutti i livelli (giuridico, economico, etico) molte discussioni e polemiche soprattutto dall’inizio di questo secolo, riguarda l’impiego delle biotecnologie, cioè la produzione di OGM e di prodotti contenenti OGM, utilizzabili in molti settori dell’attività umana (agricoltura, medicina, tutela dell’ambiente, e via dicendo).

Per prodotto di nuova concezione si può poi intendere anche un prodotto appartenente a un genere già noto e diffuso tra il pubblico, ma che lo sviluppo delle tecnologie ha consentito nel trascorso decennio o consentirà nei prossimi anni di riproporre in versioni del tutto nuove, più avanzate e più efficaci o funzionali. Sotto questo aspetto gli esempi più diffusi riguardano l’impiego dell’elettronica: vari chip, muniti di un loro software fisso (firmware), consentono di svolgere funzioni che prima erano svolte manualmente o non erano realizzabili. L’ambito dei prodotti che incorporano questi chip è assai ampio e si va estendendo sempre più. L’esempio più noto è quello dell’elettronica applicata agli autoveicoli: i chip regolano importanti funzioni quali la frenata, l’antipattinamento, la prevenzione del blocco di una ruota, e via dicendo. Nell’ambito della chirurgia e della microchirurgia delicati interventi a organi vitali possono essere guidati da robot che assistono il chirurgo, sollevandolo da rischiose operazioni manuali che prima erano indispensabili. Infine, da qualche anno, grazie ai progressi compiuti dalla domotica, è già attuale la possibilità di comandare a distanza, mediante telefoni cellulari, varie operazioni dell’ambito domestico: avvio di apparecchi elettrodomestici e di riscaldamento, chiusura o apertura di porte, di finestre e così via. La domotica è tuttavia l’applicazione delle moderne tecnologie elettroniche che pone problemi di minor gravità: escluso il pericolo di danni alla salute, il malfunzionamento dell’elettronica può causare danni solo ai beni dell’utente. Passando dal settore dell’elettronica a quello dei prodotti farmaceutici, farmaci di nuova concezione sono stati ‘indiziati’ di causare nocivi effetti collaterali, cancerogeni (preparati contro la calvizie) o al circolo e al cuore (preparati contro disfunzioni sessuali).

Alla categoria dei nuovi prodotti dannosi possono, infine, essere annoverati anche prodotti (antenne radio, impianti per le reti di telefonia mobile e per la radiodiffusione, elettrodotti ecc.) il cui uso appariva fino ad alcuni anni fa del tutto privo di rischi e che invece da qualche anno, in virtù di accurati studi scientifici, solleva dubbi e allarmi per la salute delle persone, tanto da indurre il legislatore, spesso per la pressione dell’opinione pubblica, a intervenire con norme ad hoc. Si tratta del cosiddetto elettrosmog, e cioè il presunto inquinamento elettromagnetico generato dai campi elettromagnetici e dalle radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti che sono prodotte, per es., dalle reti per telefonia cellulare e dagli stessi telefoni cellulari. Alcuni studi recenti documentano la possibilità di vari effetti nocivi dei campi elettromagnetici sulla salute umana, soprattutto su quella dei bambini. Le radiazioni da onde elettromagnetiche causano l’innalzamento della temperatura dei tessuti biologici attraversati e mettono in moto due meccanismi che sono alla base di effetti cancerogeni (shock termico delle proteine e formazioni di micronuclei). Tali radiazioni, inoltre, agiscono sul cervello determinando una drastica riduzione degli ormoni tiroidei T4 e T3. Sono ‘indiziati’ anche apparecchi di uso domestico, come il forno a microonde.

La natura eterogenea dei prodotti sopra menzionati pone il diritto di fronte a problemi differenziati di disciplina. I nuovi prodotti che risultano dallo sviluppo di tecnologie già conosciute trovano, nel momento in cui si rivelino ‘non sicuri’ e perciò dannosi o quanto meno pericolosi, un’idonea disciplina nelle normative comunitarie e nazionali che sono state elaborate nel corso del secolo passato, le quali sono in grado, per la loro elasticità, di essere applicate anche a essi.

Quando invece a livello scientifico risulta incerta e controversa la stessa natura dannosa del prodotto, come nel caso degli OGM o nel caso di farmaci di nuova concezione, il riferimento alle tradizionali categorie giuridiche diventa meno agevole e di conseguenza appaiono più deboli gli strumenti che il diritto civile appresta per la tutela della salute delle persone e dei loro beni. Sotto l’aspetto della prevenzione un ruolo importante può essere svolto solo dalle pubbliche amministrazioni preposte al controllo della sicurezza dei prodotti, e ciò in due modi: in primo luogo, quando la legislazione sottopone al preventivo controllo e alla preventiva autorizzazione di organi pubblici l’immissione sul mercato di determinati prodotti di cui è incerta la sicurezza (è il caso, si vedrà più avanti, degli OGM); in secondo luogo, quando la legislazione attribuisce alle pubbliche amministrazioni poteri d’indagine sulla sicurezza di taluni prodotti e poteri di vietarne l’immissione sul mercato o disporne il ritiro dal commercio (così come stabilisce l’art. 107 del Codice del consumo).

Gli organismi geneticamente modificati

Una categoria esemplare di nuovi prodotti di cui è controversa la sicurezza e che di conseguenza possono dirsi potenzialmente dannosi, sono gli Organismi geneticamente modificati (OGM) e i prodotti che li contengono.

Secondo la definizione legislativa, gli OGM sono organismi viventi (funghi, piante, virus, batteri), diversi da un essere umano, il cui materiale genetico è stato modificato in modo differente da quanto si verifica in natura mediante accoppiamento o incrocio o con la ricombinazione genetica naturale.

La modifica avviene artificialmente, tramite le tecniche dell’ingegneria genetica, introducendo nelle cellule un gene estraneo che proviene da una specie diversa e cioè attraverso una ricombinazione che mescola due patrimoni genetici diversi tra loro (DNA ricombinante). L’organismo così modificato acquista nuove caratteristiche (un genoma nuovo) trasmissibili alla progenie. In sintesi, l’operazione d’ingegneria genetica si svolge nel modo seguente: il gene da trasferire viene dapprima isolato dall’organismo dal quale proviene e poi è introdotto in una nuova ­molecola di DNA (vettore) che lo trasporta nell’organismo ospite, dove viene copiato a mano a mano che quest’ultimo si riproduce.

È opportuno non confondere la manipolazione genetica con la clonazione: attraverso quest’ultima si possono ottenere esseri che hanno lo stesso patrimonio genetico e cioè esseri il cui DNA non è modificato, bensì riprodotto fedelmente come in una fotocopia (Bussolati, Morandi 2000, p. 114).

Diversi sono i settori in cui gli OGM sono o possono essere utilizzati: medicina, agricoltura, tutela dell’ambiente.

Nel settore farmacologico gli OGM possono essere utilizzati per la produzione di biofarmaci – come l’insulina umana, l’emoglobina umana, l’eritropoietina, l’interferone, le immunotossine, agenti fibrinolitici come il tPA (tissue Plasminogen Activator) ecc. – e di biovaccini (contro il virus dell’epatite B, contro la pertosse ecc.). Farmaci e sostanze farmaceutiche come, per es., vaccini, enzimi, anticorpi, ormoni della crescita, sono prodotti a basso costo da piante geneticamente modificate.

Nel settore agricolo la sperimentazione riguarda diverse varietà di vegetali che vengono modificate per renderle più resistenti a parassiti, diserbanti e variazioni climatiche, o per migliorarne le caratteristiche nutrizionali e organolettiche, oppure per migliorare le sementi aumentando la produttività delle piante tradizionali. Nel nostro Paese non vi sono allo stato coltivazioni commerciali autorizzate di prodotti OGM, mentre esistono coltivazioni autorizzate a titolo sperimentale; sono invece reperibili prodotti alimentari, soprattutto mangimi, composti con OGM.

Nel settore della tutela ambientale gli organismi geneticamente modificati sono utilizzati per la produzione di biorimedi contro l’inquinamento, capaci di degradare anche le sostanze non degradabili dai microrganismi presenti nell’ambiente e capaci di metabolizzare gli idrocarburi.

Il dibattito scientifico sui potenziali effetti dannosi

Già dall’ultimo decennio del secolo scorso si è aperto un ampio dibattito scientifico in sede nazionale e internazionale – che non ha ancora portato a risultati condivisi dall’intera comunità degli studiosi e che ha però indotto il legislatore comunitario a intervenire con specifiche normative – circa potenziali effetti collaterali nocivi nel medio o lungo periodo degli OGM e dei prodotti che li contengono. Peraltro, la polemica sugli OGM è andata ben al di là di un sereno dibattito scientifico, come è noto, e ha visto fronteggiarsi con toni anche accesi associazioni ambientaliste e di tutela dei consumatori, da un lato, e, dall’altro lato, le imprese interessate alla produzione e commercializzazione di prodotti OGM.

L’aspetto sul quale si è concentrato questo dibattito riguarda soprattutto i prodotti agricoli transgenici e la sicurezza alimentare. Un primo rischio temuto è una potenziale tossicità (a livello neurologico, respiratorio ed ematico) degli organismi geneticamente modificati per l’uomo e per gli animali. Altro rischio riguarda la possibilità di causare reazioni allergiche in soggetti predisposti. Un ulteriore rischio che si paventa è quello di indurre resistenza agli antibiotici.

Oltre al tema della sicurezza alimentare il dibattito scientifico si è allargato agli effetti sull’ambiente e sulla cosiddetta biodiversità. È stato prospettato il rischio che le piante geneticamente modificate possano comportarsi come specie invasive e alterare l’ecosistema a danno delle altre specie e varietà. In particolare, si teme per la coesistenza tra coltivazioni OGM e coltivazioni non OGM, e cioè si teme per la diffusione di semi e polline di OGM verso coltivazioni tradizionali o biologiche in tale misura per cui queste ultime non potrebbero più certificarsi come prodotti non OGM o OGM-free con conseguenti danni economici per i loro produttori.

Quest’ultima preoccupazione è sorta anche in relazione alle colture farmaceutiche transgeniche, che potrebbero contaminare con la diffusione di biofarmaci altre colture. Inoltre, secondo alcune opinioni scientifiche, i biofarmaci potrebbero indurre tolleranza orale, la quale impedirebbe al sistema immunitario di produrre anticorpi compromettendo così la capacità dell’organismo di resistere alle infezioni.

Le normative comunitarie

Nel settore degli OGM la Comunità europea è intervenuta con due direttive: la direttiva 1998/81/CE sull’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati, e la direttiva 2001/18/CE sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati. Queste due direttive sono state recepite dal nostro Paese, rispettivamente, con il d. legisl. 12 apr. 2001 n. 206, e con il d. legisl. 8 luglio 2003 n. 224.

La normativa comunitaria è poi completata da due regolamenti del 2003 (1829 e 1830/2003/CE), che sono direttamente applicabili negli Stati membri. Il primo di essi disciplina la procedura comunitaria di autorizzazione alla quale sono soggette le imprese che hanno sviluppato piante geneticamente modificate destinate all’alimentazione umana o animale; tale autorizzazione ha lo scopo di poter valutare preventivamente la sicurezza per la salute umana o animale e per l’ambiente degli OGM ai quali la domanda di autorizzazione si riferisce. Il secondo regolamento stabilisce norme per l’etichettatura e la tracciabilità degli OGM in modo da offrire ai consumatori ogni più opportuna informazione per scelte consapevoli. Esso ammette una presenza accidentale di OGM (purché autorizzati) fino al limite dello 0,9%: il che significa che un prodotto, anche da agricoltura biologica, può essere etichettato come non OGM solo se ha un contenuto di materiale geneticamente modificato al di sotto della soglia dello 0,9% (poco meno di un seme su cento), per cui ben si comprendono le preoccupazioni per la diffusione accidentale di semi o polline OGM verso coltivazioni tradizionali o biologiche.

Le misure di prevenzione

Le linee-guida della normativa comunitaria si ispirano al ‘principio di precauzione’ (espressamente richiamato dall’art. 1 del d. legisl. 8 luglio 2003 n. 224) onde evitare che siano emessi nell’ambiente o immessi sul mercato organismi geneticamente modificati che possano rivelarsi nocivi per la salute delle persone o degli animali o per l’ambiente. Inoltre, la normativa comunitaria predispone strumenti per portare alla conoscenza del pubblico sia la natura di prodotto OGM immesso sul mercato (mediante idonea etichettatura), in modo da consentire acquisti informati, sia tutti i fatti rilevanti concernenti gli OGM autorizzati o non autorizzati.

I titolari degli impianti in cui si procede all’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati, gli utilizzatori di tali impieghi, coloro che intendono procedere all’emissione deliberata di OGM nell’ambiente per scopi diversi dall’immissione sul mercato (per es., per scopi sperimentali) e coloro che intendono immettere sul mercato OGM come tali o prodotti contenenti OGM, devono procedere, secondo i casi, alla notifica di tali attività alla Commissione europea, ovvero al Ministero della Salute (per quanto riguarda i microrganismi geneticamente modificati) oppure al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio (per quanto riguarda gli OGM), e ottenere da questi organi le relative autorizzazioni. Tali autorizzazioni vengono concesse (o negate) dopo un’adeguata istruttoria da parte di apposite Commissioni che procedono, anche sulla base della documentazione allegata alla domanda e contenente tutte le informazioni scientifiche disponibili circa la sicurezza dell’organismo, alle valutazioni scientifiche e tecniche del caso ed esprimono il relativo parere all’organo deputato a concedere o negare l’autorizzazione.

L’autorizzazione deve individuare con precisione il prodotto autorizzato, indicare il periodo di validità dell’autorizzazione stessa (ma alla scadenza può essere rinnovata), stabilire le condizioni d’impiego, di manipolazione e d’imballaggio del prodotto, e imporre obblighi di etichettatura dello stesso a garanzia dell’informazione e della tutela dei consumatori. L’etichetta deve riportare la dicitura «questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati».

Il titolare dell’autorizzazione è obbligato a comunicare agli enti che gli hanno dato l’autorizzazione le eventuali nuove conoscenze scientifiche rilevanti per la natura e la gravità dei rischi, e deve adottare tutte le misure necessarie per tutelare la salute umana e animale, e l’ambiente.

È previsto che tutte le informazioni concernenti gli OGM autorizzati o non autorizzati (loro elenco, relazioni di valutazione e pareri dei comitati scientifici consultati, risultati del monitoraggio ecc.) siano portati alla conoscenza del pubblico mediante inserimento nel sito web del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio.

Le disposizioni sopra menzionate, che impongono la richiesta e l’ottenimento di un’autorizzazione per l’impiego di OGM, sono assistite da una sanzione penale (arresto e ammenda pecuniaria) che colpisce chi vi contravviene.La sanzione penale è maggiore se vi è pericolo per la salute pubblica o di grave degradazione dell’ambiente.

Danni da OGM e responsabilità civile

Tipologia

La dottrina giuridica si è posta il problema se eventuali danni causati da OGM o da prodotti contenenti OGM possano comportare una responsabilità civile, con conseguente obbligo di risarcire il danno, e a carico di chi. Finora non si sono presentati casi di questo genere davanti ai tribunali, perciò si tratta di studi soltanto teorici. D’altro lato, le normative comunitarie in tema di OGM che sono state esaminate in precedenza non regolano specificamente tale aspetto e questo giustifica l’interesse pur teorico dei giuristi.

I potenziali danni sono stati classificati in tre categorie: danni alla salute, danni all’ambiente e danni per contaminazione di coltivazioni non OGM. Quest’ultimo caso concerne l’eventuale contaminazione, accidentale o meno, di coltivazioni tradizionali o biologiche con coltivazioni transgeniche, tali da impedire alle prime di essere classificate come non OGM con relativo danno economico per i loro produttori.

La questione di una responsabilità civile per danni si pone non solo per gli OGM che non sono stati oggetto di una specifica autorizzazione secondo le normative sopra menzionate, ma in linea di principio anche per gli OGM che sono stati oggetto di una regolare autorizzazione. Il principio è stato espressamente enunciato nell’art. 7, co., del menzionato regolamento n. 1829/2003/CE, dove si dispone che la concessione dell’autorizzazione (comunitaria) non riduce la responsabilità civile e penale di un operatore del settore alimentare. Si tratta peraltro di un principio generale: le autorizzazioni amministrative non esonerano il soggetto autorizzato da una propria eventuale responsabilità per danni, ma hanno la sola funzione di rimuovere un ostacolo all’esercizio di una determinata attività. Un esempio ben noto riguarda la registrazione dei prodotti farmaceutici: la registrazione di un prodotto farmaceutico non impedisce che il produttore possa incorrere in una responsabilità per danni nei confronti dei consumatori che ne hanno fatto uso qualora il prodotto stesso si riveli avere nocivi effetti collaterali. Il problema semmai, soltanto accennato nella dottrina giuridica, è se la concessione dell’autorizzazione all’impiego di un OGM, che si dovesse poi rivelare dannoso, senza che sia stato fatto un diligente e approfondito esame della documentazione scientifica e tecnica data dall’interessato, non comporti, accanto alla responsabilità per danni di quest’ultimo, anche una responsabilità dello Stato.

Potenziali danni alla salute

La normativa di riferimento per i potenziali danni alla salute causati da OGM è quella, riassunta precedentemente, che disciplina la generale responsabilità per danno da prodotto non sicuro. Infatti la nozione di ‘prodotto’ rilevante ai fini della normativa suddetta abbraccia, oltre ai prodotti dell’industria, anche tutti i prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame. È inoltre fuori discussione che un prodotto OGM potenzialmente dannoso per la salute è un prodotto che non offre la sicurezza che il consumatore può legittimamente attendersi ed è tale quindi da comportare in linea di principio una responsabilità civile in capo a chi lo ha immesso sul mercato.

Tuttavia le difficoltà che incontrerebbe una persona danneggiata da un prodotto OGM per ottenere in giudizio il risarcimento del danno alla salute sulla base della normativa suddetta, sarebbero pressoché insormontabili.

Un primo ostacolo deriva dal fatto che il danneggiato è tenuto a provare di avere fatto uso almeno per un qualche tempo di un determinato prodotto OGM. Questa prova è assai ardua da ottenere, tenuto conto che l’eventuale danno da prodotto OGM si manifesterebbe non a breve distanza di tempo dall’uso, bensì nel medio o lungo periodo, e questo va a svantaggio del danneggiato, che per il periodo di tempo trascorso ben difficilmente sarebbe in grado di fare ricorso alla prova per testimoni per dimostrare di avere fatto uso di un determinato prodotto OGM.

Un secondo ostacolo consiste nel fatto che il danneggiato deve provare l’esistenza di un nesso causale tra prodotto OGM e danno alla salute. Anche sotto questo aspetto nuoce al danneggiato il non breve periodo di tempo che intercorre tra l’uso del prodotto e il manifestarsi dell’eventuale danno alla salute, dal momento che il danno (per es., un’allergia) potrebbe dipendere anche da altre cause (uso di altri prodotti) o da cause naturali.

Un terzo ostacolo deriva dal fatto che il produttore di un OGM può esonerarsi da responsabilità se dimostra che, quando ha immesso sul mercato quel prodotto OGM, lo stato delle conoscenze scientifiche non permetteva ancora di considerarlo pericoloso per la salute. Poiché, a oggi, non vi è evidenza scientifica della natura potenzialmente pericolosa dei prodotti OGM, è chiaro che la possibilità di questa dimostrazione da parte del produttore significa una drastica riduzione dell’area di tutela dei danneggiati.

In conclusione, una eventuale responsabilità del produttore di un OGM per danni alla salute sembra confinata, in pratica, a casi marginali e soprattutto a quelli in cui l’impiego di OGM non è stato preceduto da un’autorizzazione secondo la normativa comunitaria, o ai casi in cui chi ha immesso sul mercato un prodotto OGM non abbia provveduto a prendere adeguate misure di prevenzione del danno (informazione diretta al pubblico, ritiro del prodotto dal mercato ecc.) qualora successivamente all’immissione in commercio si siano manifestati effetti nocivi del prodotto stesso prima assolutamente impensabili. Si riconferma così la maggiore utilità che nel settore dei prodotti OGM hanno le normative di prevenzione e di controllo sulla sicurezza di tali prodotti, unitamente agli obblighi del produttore in tema di etichettatura del prodotto e d’informazione del consumatore.

Danni all’ambiente

Si tratta dei danni causati all’ambiente dall’emissione e diffusione di pollini, semi ecc., che potrebbero portare a un pregiudizio per il pool genetico naturale, nonché a modificazioni delle piante selvatiche che vivono nell’ambiente circostante e a modificazioni delle popolazioni di insetti (api, farfalle ecc.). Al riguardo si fa ricorso frequentemente all’espressione onnicomprensiva danno alla biodiversità.

L’ambiente è un bene collettivo e di conseguenza la legislazione in tema di danni all’ambiente considera lo Stato come il soggetto legittimato a ottenere il risarcimento del danno ambientale.

Attualmente non esiste una normativa specifica in tema di danno ambientale causato dall’emissione o diffusione di OGM. Perciò occorre riferirsi alla normativa generale relativa ai danni all’ambiente contenuta nel d. legisl. 3 apr. 2006 n. 152, che ha recepito la direttiva comunitaria 2004/35/CE.

L’applicazione di questa normativa, al pari di quella in tema di danni alla salute, va incontro a ostacoli pratici pressoché insormontabili.

Anzitutto è necessario riuscire a individuare l’autore materiale del danno ambientale, cioè il soggetto a cui è dovuta l’emissione o la diffusione nell’ambiente degli OGM inquinanti. Una volta superato questo ostacolo, poi, se ne presenta un altro. Invero, la normativa sul danno ambientale richiede che all’autore del danno sia imputabile una colpa specifica, che consiste nella violazione di norme di legge o di regolamento. Perciò una tale colpa specifica vi sarà solo nei casi in cui l’autore del danno ambientale da OGM abbia omesso di chiedere e ottenere l’autorizzazione alla produzione di OGM secondo la normativa. Invece, nei casi in cui una tale autorizzazione è stata chiesta ed ottenuta, all’autore del danno ambientale da OGM non potrà essere imputata alcuna colpa specifica e di conseguenza non vi potrà essere alcuna responsabilità per danni verso lo Stato. Infine ci si deve chiedere quale utilità possa avere il risarcimento del danno. Il pregiudizio arrecato all’ambiente per la diffusione di OGM è sostanzialmente irreversibile e una riparazione pecuniaria non giova granché alla collettività. Anche sotto l’aspetto del danno ambientale da OGM è evidente, in conclusione, che un’utilità ben maggiore hanno le normative di prevenzione e di controllo, anziché quelle di risarcimento dei danni.

Danni per contaminazione di coltivazioni non OGM

Sono i danni economici che subisce l’imprenditore che opera nel settore delle coltivazioni tradizionali o biologiche per il fatto che le sue coltivazioni vengano contaminate accidentalmente da semi o polline di OGM, anche se derivanti da coltivazioni transgeniche sperimentali.

La questione ha notevole rilevanza pratica, tanto che la Commissione europea ha emanato la raccomandazione 2003/556/CE del 23 luglio 2003 con la quale sono state date agli Stati membri alcune indicazioni per adottare strategie e regole uniformi idonee a garantire la coesistenza tra le diverse coltivazioni.

A seguito di questa raccomandazione, l’Italia ha promulgato la l. 28 genn. 2005 n. 254, con la quale era prevista l’adozione da parte delle Regioni di piani atti a garantire tale coesistenza. Questa legge aveva introdotto anche il diritto al risarcimento del danno a favore del coltivatore danneggiato dall’inosservanza delle misure del piano di coesistenza e del piano di gestione aziendale per la coesistenza che doveva presentare chi intendesse mettere a coltura OGM. Tuttavia la Corte costituzionale, con sentenza 17 marzo 2006 n. 116, ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme-cardine di questa legge per violazione della competenza legislativa in materia di agricoltura riservata dalla Costituzione alle Regioni.

Con la suddetta sentenza della Corte costituzionale è venuta a cadere l’unica norma che riguardava espressamente il risarcimento del danno per contaminazione causata da coltivazioni transgeniche. Di conseguenza, la dottrina giuridica si è interrogata sulla possibilità di applicare ai casi in esame le norme generali in tema di immissioni e di responsabilità civile.

La premessa da cui muove la dottrina – e affermata anche dalla menzionata sentenza n. 116/2006 della Corte costituzionale – è costituita dal riconoscimento che la coesistenza tra coltivazioni tradizionali, biologiche e transgeniche è un valore tutelato dalla Costituzione quale sintesi di due contrapposti interessi tutelati a livello costituzionale: da un lato, l’interesse al libero esercizio dell’attività economica dell’imprenditore agricolo, e, dall’altro lato, l’esigenza che tale libertà non venga esercitata in contrasto con l’utilità sociale e in particolare con il pericolo di danni all’ambiente e alla salute.

In tema di immissioni l’art. 844 c.c. vieta le ‘propagazioni’ da un fondo a un altro che superino la normale tollerabilità. Nella categoria delle ‘propagazioni’ può essere inclusa, si afferma, anche la contaminazione da pollini e semi OGM, e il superamento della normale tollerabilità può essere visto nel superamento della soglia dello 0,9% che, ai sensi della normativa comunitaria, rende obbligatoria l’etichettatura come prodotto OGM. Tuttavia l’applicabilità dell’art. 844 c.c. non risolve completamente la questione, perché essa consente che il danneggiato ottenga dal giudice un provvedimento che inibisce la continuazione dell’attività lesiva, ma non attribuisce un diritto al risarcimento del danno che si è già verificato.

Per il risarcimento del danno è stata proposta l’applicazione dell’art. 2050 c.c., che si riferisce al danno causato nell’esercizio di un’attività pericolosa e che consente al danneggiato di liberarsi da responsabilità solo se dimostra di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno. Quest’opinione, però, non appare condivisibile perché non è possibile, allo stato delle conoscenze scientifiche, qualificare come ‘pericolosa’ in sé l’attività agricola avente per oggetto coltivazioni transgeniche.

Non resta pertanto che applicare la norma generale dell’art. 2043 del codice civile. Il requisito del danno ‘ingiusto’ richiesto da tale disposizione può essere visto nel fatto che la contaminazione ha portato al superamento della soglia che rende obbligatoria l’etichettatura del prodotto come prodotto OGM, e la ‘colpa’, pure richiesta dalla disposizione in esame, può consistere nel fatto che l’autore della contaminazione non ha adottato tutte le precauzioni tecniche che la diligenza avrebbe imposto per evitare la contaminazione stessa. Dati empirici desunti da ricerche compiute da taluni enti hanno indicato come circa 20 m di aree buffer siano sufficienti per mantenere il contenuto di mais OGM al di sotto della soglia dello 0,9%.

Quanto al danno risarcibile, la cui esistenza e la cui entità devono essere dimostrate da chi chiede il risarcimento, esso può consistere nella incommerciabilità dei prodotti contaminati e non più certificabili come non OGM, o nel minor prezzo al quale tali prodotti devono essere venduti, o infine anche nell’esclusione dai finanziamenti comunitari.

Da alcuni studiosi si auspica l’introduzione di un’assicurazione obbligatoria a carico di chi coltiva piante transgeniche allo scopo di poter fare fronte all’onere di eventuali risarcimenti dovuti a terzi, così come aveva disposto la menzionata l. 28 genn. 2005 n. 254 dichiarata incostituzionale.

Altri nuovi prodotti

Nella seconda categoria di nuovi prodotti si possono comprendere quei prodotti che, pur appartenendo a generi tradizionali, sono il frutto del progresso scientifico e tecnologico: nuovi farmaci, nuovi prodotti chimici, nuovi apparecchi governati dall’elettronica (software), come è stato indicato in precedenza. Esulano invece dalla categoria in questione i prodotti di natura meccanica, ai quali ben difficilmente può essere attribuita la qualifica di ‘nuovi’.

Per i prodotti qui considerati è minore il rischio che essi possano rivelarsi dannosi. Dal momento che costituiscono sia uno sviluppo sia un’innovazione rispetto a prodotti appartenenti a categorie già note, essi hanno alle spalle un patrimonio consolidato di conoscenze scientifiche e tecniche e di dati empirici che consente all’impresa che li progetta e li fabbrica di individuare i possibili rischi per la sicurezza delle persone e di prevenirli per quanto possibile, anche mediante un’adeguata informazione fornita a coloro che ne fanno uso.

Le normative di prevenzione e di responsabilità civile sono in grado, per la loro natura ‘aperta’, di dare un’adeguata disciplina anche a queste categorie di nuovi prodotti.

Per i prodotti farmaceutici e per i prodotti di natura chimica che si rivelino dannosi occorre peraltro tenere presente il limite legislativo posto alla responsabilità del produttore, che esonera quest’ultimo dall’obbligo di risarcire il danno: l’impossibilità di rendersi conto della loro natura dannosa in base al più avanzato livello delle conoscenze scientifiche e tecniche esistenti al momento della loro immissione sul mercato.

Il cosiddetto elettrosmog

Così come è accaduto per gli OGM, anche l’inquinamento da campi elettromagnetici (cosiddetto elettrosmog) prodotto da determinati impianti e apparecchiature è stato solo ‘indiziato’ di possibili effetti nocivi a lunga scadenza sulla salute umana, ma non esiste allo stato attuale un’evidenza scientifica di questo rischio.

Tuttavia, anche per effetto della pressione dell’opinione pubblica, sensibilizzata da campagne talora allarmistiche promosse da associazioni ambientaliste e di consumatori e da comitati di cittadini, molti Paesi si sono dotati di una normativa ispirata al principio di precauzione e finalizzata a stabilire limiti all’emissione di campi elettromagnetici.

Il nostro Paese ha provveduto con la l. quadro 22 febbr. 2001 n. 36, la quale persegue i suoi scopi di prevenzione di eventuali danni alla salute mediante tre strumenti: la fissazione di limiti di esposizione; la fissazione di valori di attenzione; il raggiungimento di obiettivi di qualità.

Il limite di esposizione è il valore di campo (elettrico, magnetico, elettromagnetico) considerato come valore di immissione che non deve essere superato in alcuna condizione di esposizione del pubblico per la tutela della salute. Questi limiti sono stati definiti con due decreti del presidente del Consiglio dei ministri dell’8 luglio 2003.

Il valore di attenzione è il valore di campo (elettrico, magnetico ed elettromagnetico) considerato come valore di immissione che non deve essere superato negli ambienti abitativi e scolastici e nei luoghi adibiti a permanenza prolungata (almeno quattro ore giornaliere). Anche questi limiti sono stati definiti con i due decreti sopra menzionati.

Gli obiettivi di qualità consistono in criteri localizzativi, standard urbanistici e incentivazioni per l’uso delle migliori tecnologie disponibili, nonché nei valori di campo da raggiungere nel tempo per una progressiva minimizzazione dell’esposizione ai campi suddetti. Anche questi valori di campo sono stati stabiliti dai due decreti sopra menzionati.

È stato previsto da questa normativa che gli impianti esistenti alla data di entrata in vigore della legge stessa (luglio 2003) debbano essere adeguati ai limiti di immissione stabiliti sulla base di piani di risanamento adottati dalle Regioni entro dodici mesi dalla data suddetta. L’adeguamento deve avvenire nel termine di 24 mesi; in mancanza, è prevista la disattivazione dell’impianto e una sanzione pecuniaria, peraltro di trascurabile entità.

I controlli sull’applicazione di queste norme vengono fatti dalle amministrazioni comunali e provinciali mediante l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente (ARPA).

La l. 22 febbr. 2001 n. 36 ha poi istituito un catasto nazionale delle sorgenti fisse e mobili dei campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici e delle zone interessate, nonché un Comitato interministeriale che ha, oltre ad altri compiti, quello di aggiornare lo stato delle conoscenze, conseguenti a ricerche scientifiche nazionali e internazionali, in materia dei possibili rischi sulla salute originati dai campi elettromagnetici.

Sono esclusi dall’ambito di applicazione della l. n. 36/2001 gli apparecchi di uso domestico, individuale e lavorativo che generano campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici. Tra questi vi sono anche i telefoni cellulari (mentre la normativa suddetta si applica agli impianti fissi di telefonia mobile), oltre ad apparecchi altrettanto diffusi, come il forno a microonde. Per tutti questi apparecchi non esiste una normativa relativa ai limiti delle radiazioni elettromagnetiche che essi emettono. La direttiva 2004/108/CE, recepita nel nostro Paese dal d. legisl. 6 nov. 2007 n. 194, regola la compatibilità di questi apparecchi che emettono radiazioni elettromagnetiche, con altre apparecchiature e con l’ambiente, senza creare perturbazioni elettromagnetiche, ma non si occupa dei problemi relativi alla salute. Tutto ciò non esonera i fabbricanti di simili apparecchi dall’obbligo di munirli di adeguate istruzioni per un uso privo di rischi: per es., i fabbricanti di telefoni cellulari sono tenuti ad avvertire di tenere l’apparecchio a una certa distanza da un pacemaker.

Ci si chiede quali possano essere, nell’inerzia dei pubblici poteri, gli strumenti di tutela a disposizione dei privati cittadini, oltre alla denuncia ai competenti organi pubblici, nel caso in cui accanto ai luoghi dove vivono o lavorano vengano installati impianti e antenne radio che non rispettano i limiti imposti dalla legge n. 36/2001. Poiché le onde elettromagnetiche rientrano nel concetto giuridico di ‘immissioni’, i privati possono avvalersi, adattandola a questi nuovi problemi, della norma dell’art. 844 c.c., in base alla quale il giudice inibisce quelle immissioni che superano la normale tollerabilità, tali dovendo essere considerate le immissioni elettromagnetiche che superano i limiti di esposizione o i valori di attenzione stabiliti dai due decreti del presidente del Consiglio dei ministri del 2003 sopra menzionati. Di conseguenza, per effetto della sentenza del giudice gli impianti dovranno subire opere di adeguamento dell’intensità dei campi elettromagnetici per ricondurli nei limiti di legge o dovranno essere disattivati.

L’esistenza di impianti e antenne radio le cui emissioni non rispettano i limiti di legge può essere inoltre causa di danni economici ai proprietari degli immobili situati nelle vicinanze: trattative per la vendita o per la locazione dell’immobile che non vanno a buon fine, vendita o locazione stipulata a un prezzo molto inferiore a quello di mercato, spese per munire le unità abitative di misure di protezione contro le radiazioni. Questi danni sono risarcibili in base alle norme generali di responsabilità civile.

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