NUOVI MUSEI

XXI Secolo (2010)

Nuovi musei

Massimo Locci

La progettazione museografica ha costituito, fino a vent’anni fa, un settore disciplinare autonomo dell’architettura, specialistico e differente per metodologie, linguaggi, logiche e tecniche di valorizzazione dei materiali esposti. Dall’analogia museo-mausoleo, a suo tempo teorizzata dal filosofo Theodor W. Adorno, cioè da luogo di conservazione della memoria, si è passati alla valorizzazione dell’opera attraverso il contenitore architettonico che è anche centro culturale pulsante, luogo di segnali e messaggi, spazio per la comunicazione dei new media. Arricchendosi di nuove finalità e significati simbolici, l’ideazione di spazi museali ha perso la propria specificità metodologica, divenendo centrale nella disciplina del progetto.

L’architettura oggi viene sempre più concepita come un’opera spettacolare che si inserisce nella scena urbana come una performance e che, anche tecnologicamente, afferma la sua natura espressiva. Il museo del nuovo secolo, prima ancora di rispondere a esigenze funzionali e costruttive, definisce un’immagine, rivendica la propria ‘presenza’ nel contesto. Icona della contemporaneità, esso occupa una posizione privilegiata nella struttura urbana, registra le oscillazioni del gusto e le evoluzioni culturali. Il ‘sistema dell’arte’ ha cambiato il museo contemporaneo, che ha assunto funzioni e responsabilità inedite. Il dialogo, una volta controverso, tra architettura e arte è da una parte risolto nell’assimilazione reciproca dei linguaggi, dall’altra reso più conflittuale dalla volontà del contenitore di essere esso stesso il catalizzatore di tutte le attenzioni estetiche, espressione eclatante di un’arte urbana, vetrina di sé stessa.

La poetica high-tech

Il postulato high-tech ha avuto proprio nel settore museale le espressioni più alte grazie a Norman Foster, Renzo Piano e Richard Rogers. L’orientamento ipertecnologico nel tempo ha perso parte della sua atopicità e astrattezza da manifesto, e si è poeticamente contaminato attraverso la sensibilità paesaggistica e di contesto, la fascinazione del segno libero, la mescolanza di materiali naturali e artificiali, esaltando l’originale propensione per la flessibilità, la trasparenza, gli aspetti bioclimatici e la polifunzionalità.

Foster ha realizzato a Londra il ridisegno del Brit-ish Museum, coprendo la Great Court con una cupola vetrata e leggera (2003). La tensostruttura, con elementi metallici a maglie triangolari, realizza un grande spazio urbano, memore delle ricerche di Buckminster Fuller, che accoglie molte nuove funzioni collettive a supporto dell’attività museale e della città. Un intervento apparentemente semplice che ha trasformato integralmente il complesso.

Se il Centre Georges Pompidou (1977, di Piano e Rogers) a Parigi rappresenta una pietra miliare dell’architettura contemporanea e non solo per i musei, due successivi progetti di Piano, The Menil Collection (1986) a Houston e il Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre (1998) a Nouméa in Nuova Caledonia, sono significativi della sua visione, per la chiarezza dell’impianto, l’essenzialità del linguaggio espressivo, il rapporto paesaggistico. A queste due esperienze si rifanno il Zentrum Paul Klee (2005) a Berna, il Broad Contemporary Art Museum (2008), ampliamento del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), e la California Academy of Sciences a San Francisco (con Ove Arup & partners; 2008).

Il Zentrum Paul Klee, ubicato ai margini dell’autostrada, emerge dalla collina con tre onde come un’apparizione fantasmatica, creando un nuovo principio di identità che la sera diffonde suoni e immagini, come una lanterna magica. In sintonia con la poetica dell’artista svizzero, Piano si interroga sulla genesi del segno, rintracciando in esso una forte capacità di prefigurare lo spazio e le sue trasformazioni. La ‘casa di Klee’ è uno scrigno interrato che dal sottosuolo diffonde energia, le cui onde simbolicamente si propagano nell’ambiente creando un sommovimento del terreno, una dolce e armoniosa modulazione, una superficie sinuosa che dalla collina nasce e muore.

Nell’ampliamento del LACMA, viceversa, Piano propone un corpo edilizio elementare con megastendardi per creare un sistema di comunicazione a scala urbana. Essenziale e pratico, ma capace di riorganizzare una vasta area di Los Angeles, il museo si struttura come una ‘fabbrica’ per la fruizione dell’arte. Formalmente il nuovo padiglione si caratterizza per una teoria di grandi lucernari in copertura, citazione di quelli elegantissimi della Menil Collection. Il tema della luce e quello della creazione di un nuovo paesaggio sono centrali nella California Academy of Sciences, una gigantesca piastra rettangolare con una copertura piana che si inflette creando morbide colline a prato. Una serie di oblò illumina suggestivamente il fluido spazio sottostante, che ingloba la serra sferica in vetro per la foresta pluviale e il planisfero astronomico.

Essenzialità e continuità urbana

Nel 1992 Rem Koolhaas aveva immaginato la Kunst-hal di Rotterdam come parte di una struttura urbana, attraversata da percorsi pedonali e carrabili, fondendo nel suo linguaggio tre riferimenti paradigmatici della modernità architettonica: la promenade architecturale di Le Corbusier, l’idea wrightiana della strada che diventa rampa interna, la visione di Ludwig Mies van der Rohe della scatola espositiva asettica e dello spazio aperto e trasparente. Ritroviamo gli stessi temi nel Seoul National University Museum of Art (2005), progettato con OMA (Office for Metropolitan Architecture), che Koolhaas ipotizza come un semplice volume prismatico, a sbalzo dal nucleo centrale e con un angolo piegato in obliquo, che crea un piano inclinato per l’auditorium. Il livello terreno è completamente libero per permettere la massima interazione tra spazi espositivi, attività didattiche e ludiche degli studenti.

Una strada attraversa la Pinakothek der Moderne (2002) a Monaco di Baviera, di Stephan Braunfels, e il doppio cubo di vetro e pietra del nuovo Kunstmuseum (2004) a Stoccarda, di Hascher Jehle Architektur (Rainer Hascher, Sebastian Jehle): le opere, in entrambi i casi, sono percepibili dalla città come se fossero in una vetrina. Il Kunstmuseum, inoltre, è parte di un complesso sistema di ristrutturazione urbana che ha consentito di convertire in gallerie espositive alcuni sottopassaggi pedonali inutilizzati.

A Rovereto, Mario Botta ha pensato al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto (MART, 2002) come a una parte di città, con una piaz-za circolare coperta e in continuità con i tracciati urbani. La struttura compositiva simmetrica è vivacizzata dagli scarti volumetrici interni e dalle prospettive inconsuete. L’impianto planimetrico ricorda il San Francisco Museum of Modern Art (1995), realizzato dallo stesso architetto, ma con elementi invertiti: al vuoto circolare corrisponde il cilindro pieno, al dissolvimento nella struttura urbana la monade totemica isolata.

Ancora uno spazio urbano baricentrico nello Jüdisches Zentrum (2006) nella Jakobsplatz a Monaco di Wandel Hoefer Lorch Architekten, costituito da tre blocchi stereometrici, due in pietra e uno sovrapposto in cristallo, che galleggiano in un grande vuoto del centro storico e che creano effetti percettivi sovrapposti tra nuovo e preesistente.

La sensualità delle forme astratte

Gli svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron agli inizi della propria ricerca proponevano un linguaggio razionalista con forti principi insediativi e un’espressività ridotta all’essenziale, un minimalismo calvinista comune ad altre esperienze mitteleuropee, da Peter Zumthor, autore della Kunsthaus (1997) a Bregenz in Austria, a Morger & Degelo, autori del Kunstmuseum (2000) a Vaduz nel Liechtenstein, da Ortner & Ortner, autori del MuseumsQuartier (2001) a Vienna, a Diener & Diener.

In seguito Herzog & de Meuron, teorizzando l’indifferenza del linguaggio rispetto ai contenuti, hanno realizzato architetture dalla forte carica simbolica e spesso acontestuali, come lo Schaulager (2003) a Basilea, città ad altissima concentrazione museale, e il Miami Art Museum (MAM; la costruzione è iniziata nel 2008). Nello Schaulager, Herzog & de Meuron, per conservare le opere della collezione Emanuel Hoffmann, hanno realizzato un dispositivo architettonico del tutto inedito, in cui è possibile osservare le opere in modo diverso. Pensato come museo-deposito, luogo di studio e galleria per mostre, si presenta come un volume chiuso e asettico di nove livelli con una serie di box chiusi, uno per ciascun artista, che si aprono solo su richiesta. Il MAM è inserito all’interno del Museum Park di Miami, che ospiterà anche il Miami Science Museum (progetto del 2007) di Nicholas Grimshaw. In considerazione della panoramicità del sito e della volontà di dare continuità alla macchia costiera, gli architetti ipotizzano un museo inserito nel waterfront e costituito da semplici volumi disposti liberamente su pilotis e inglobati in un volume serra, che accoglie la natura al suo interno.

Tra le opere di questi anni di Herzog & de Meuron fa, però, in parte eccezione l’Espacio de las Artes (2008) nell’isola di Tenerife, un luogo d’incontro nel centro storico, dove i progettisti hanno creato un passaggio attraversabile evidenziato da uno scenografico taglio in diagonale che lega lo spazio museale alla città. La facciata è caratterizzata da un sistema di ‘bucatu-re’, in forma di megapixel vetrati, che mostra all’ester-no l’attività e crea l’interfaccia tra paesaggio urbano e arte contemporanea.

Si ispira alla stessa logica dello Schaulager di Herzog & de Meuron il cubo del Museion (2008) a Bolzano, progettato dallo studio berlinese KVS: un parallelepipedo svuotato all’interno e trasparente su due lati, quasi a formare un cannocchiale aperto sul centro storico e sul paesaggio. L’involucro presenta una struttura a tunnel, in acciaio e cemento, e facciate bioclimatiche interamente vetrate e piegate verso l’interno. La loro forma e l’uso di sistemi di retroproiezione rappresentano una vetrina per l’arte e rafforzano l’immagine caleidoscopica della galleria urbana.

David Adjaye, uno dei nuovi protagonisti dell’architettura contemporanea, nel Bernie Grant Arts Centre (2007) a Londra e nel Museum of Contemporary Art (2007) di Denver in Colorado, ha affiancato alle preesistenze asettici padiglioni pensati come luoghi per la ricerca artistica e per l’incontro. L’architettura è povera, semplici volumi prismatici trasparenti rivestiti da un fitto dogato di legno, ma è percettivamente permeabile e leggera, tanto da non ingombrare lo spazio, come se fosse solo temporanea.

Il Brandhorst Museum di Monaco, completato nel 2008 da Sauerbruch & Hutton (Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton), si caratterizza per un trattamento di facciata in ceramica policroma, anche con funzione bioclimatica; nel gioco di parallelepipedi a incastro, le variazioni cromatiche si riflettono nello spazio urbano e negli interni.

Luis M. Mansilla ed Emilio Tuñón, che portano avanti la lezione di Rafael Moneo, nell’ultimo decennio hanno realizzato in Spagna due pregevoli interventi: il Museu de Belles Arts de Castelló (2001) e il Museo de arte contemporáneo de Castilla y León (MUSAC, 2004). L’immagine architettonica del primo si affida ai grandi lucernari che, con un’alternanza di pieni e vuoti, si sovrappongono alle facciate cieche e illuminano quattro livelli di gallerie; scomponendo l’austero volume, creano un gioco di doppie altezze, travasi spaziali e sconfinamenti visuali. Il MUSAC, viceversa, è composto da una serie di tessere che si aggregano in modo libero e informale, definendo un tessuto polifunzionale di spazi fluidi, aperti e chiusi, non diversificati formalmente per ruolo o funzione, anzi uniformati dalla texture caratterizzata da un macropixel multicolore. Il MUSAC sviluppa una diversa modalità di approccio all’arte del 21° sec., proiettandosi in una dimensione sperimentale e di confronto relazionale, dove il pubblico non è semplicemente osservatore ma partecipe dell’evento.

Minimalismo e spazio del silenzio

La ricerca espressiva, la struttura della comunicazione e la poetica di numerosi architetti giapponesi contemporanei sono essenziali, pure, minimaliste; i volumi degli spazi espositivi vengono concepiti come luoghi operativi e presentano un uso sapiente e allo stesso tempo simbolico della luce.

Calibratissimi tagli nelle superfici murarie con trattamento monomaterico, ora in cemento armato ora in legno, sono presenti nel Modern Art Museum (2001) a Fort Worth in Texas, di Tadao Ando, situato in un importante centro culturale, dove hanno sede anche il Kimbell Art Museum (1972) di Louis I. Kahn, imprescindibile riferimento nella concezione del moderno museo d’arte, e l’Amon Carter Museum (1961), ideato da Philip Johnson. Il design dei cinque lunghi padiglioni, progettati dall’architetto giapponese, rappresenta emblematicamente l’orientamento descritto. L’impaginato geometrico dei muri e delle scarne bucature trova il proprio punto di forza nella riduzione estrema del linguaggio e nel dialogo silente dei rispecchiamenti sull’acqua.

Natura, arte e architettura convivono in piena armonia a Naoshima, una piccola isola a un centinaio di chilometri da Osaka. Tra il verde delle colline e il blu del mare sorgono gli edifici progettati da Tadao Ando per il Chichu Art Museum (2004), pensati per stabilire un nuovo rapporto tra uomo e natura. Nell’innovativa struttura ipogea l’articolato percorso espositivo si snoda a più livelli, con ambiti concatenati, interni ed esterni, e con suggestivi tagli murari che si aprono verso il cielo, il mare, l’ambiente.

Ritroviamo un medesimo minimalismo sensuale nel Glass Pavillion (2006) presso il Toledo Museum of Art nell’Ohio, di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (SANAA), uno tra gli interventi espositivi più originali di questi anni. Realizzato come padiglione del complesso museale della città, accanto al Center for the Visual Arts (1992) di Frank O. Gehry, il nuovo edificio presenta pareti integralmente in vetro, con gli angoli arrotondati per rendere indefinibile il confine tra i piani e smaterializzare il volume. La totale trasparenza della vetrata, alternata a velature, consente di far dialogare lo spazio interno con il contesto, il bosco e le altre architetture, che si manifestano come apparizioni fantasmatiche.

Il 21st Century Museum of Contemporary Art (2004) a Kanazawa, in Giappone, anch’esso progettato dal gruppo SANAA, presenta un grande basamento circolare interamente vetrato, che inscrive una serie di volumi di altezze diverse e quattro spazi, formanti altrettanti cortili. L’opera è emblematica della loro poetica, basata su composizioni di geometria primaria, addizioni e sottrazioni di volumi, permeabilità e trasparenza per azzerare la separazione interno-esterno.

Altrettanto essenziale nella morfologia (una semplice sovrapposizione di sei prismi lievemente sfalsati) e nel trattamento delle superfici esterne è il New Museum of Contemporary Art di New York (2007), realizzato dallo stesso gruppo nel Lower East Side. Più che un edificio sembra una gigantesca scultura minimalista definita da volumi ciechi di rete metallica. All’interno dieci livelli liberi, di cui due interrati, per gallerie e attività di supporto; con uno spazio polivalente all’ultimo piano, denominato sky room, e una straordinaria terrazza panoramica.

Un orientamento minimalista e antimonumentale è ancora più evidente nel Towada Art Center (2008) nella provincia di Aomori all’estremo nord del Giappone, progettato da Nishizawa. La nuova struttura, che ospita poche opere poste all’interno e all’esterno di semplici box metallici bianchi, risponde a uno specifico programma del Ministero della cultura giapponese per rivitalizzare, attraverso l’arte, le piccole città in via di spopolamento.

Il paradigma metamorfico

La visione architettonica di Gehry, anche se costituita da forme libere come nella sfera naturale, rifiuta il mimetismo ambientale e non accetta l’annullamento dell’opera nel contesto urbano. Nel Richard B. Fisher Center for the Performing Arts (2003) ad Annandale-on-Hudson, per es., l’architetto ripropone i grandi elementi aerei in titanio per trasformare la gestualità in evento sociale o, come nell’Experience Music Proj-ect (2000) a Seattle, per creare una macchina interattiva. Altrettanto radicale è l’addizione all’Art Gallery of Ontario (AGO; 2008), ancora a Toronto, progettata dallo stesso Gehry come un sistema di gallerie espositive interconnesso con una spettacolare scala elicoidale. Le nuove facciate, fortemente scultoree, sono risolte da complesse superfici piegate in titanio, legno e vetro.

Anche Oscar Niemeyer, nonostante la matrice linguistica e metodologica del tutto differente, concepisce l’architettura come una narrazione poetica e plastica che deve sorprendere e affascinare per la sua morfologia e per la possibilità di essere vissuta in maniera totale. L’opera deve dare speranza anche a un favelado, afferma, e certificare che la bellezza può migliorare la vita. Ne è un esempio il Museu Oscar Niemeyer (2002) di Curitiba in Brasile, uno spazio espositivo polifunzionale di 27.000 m3 che sorge al centro di una favela e che vuole essere ‘una fabbrica di cultura’, un luogo di incontro oltre che uno spazio altamente specializzato per l’arte. Niemeyer scompone il museo in due ambiti distinti, uno ipogeo e uno aereo. Il primo è un grande corpo rettangolare attraversato da flessuose rampe curvilinee, il secondo è un atrio polifunzionale sollevato dal suolo che, in virtù della forma di grande occhio, appare come un nume tutelare del sito.

In un piccolo lotto a Porto Alegre in Brasile, compreso tra una scarpata e la costa, Álvaro Siza Vieira ha realizzato per la Fundação Iberê Camargo un elegante e plastico museo (2008) che sfrutta consapevolmente l’intera esigua area a disposizione, anche quella sotto la strada, fornendo contemporaneamente un senso di ariosa spazialità. Concepito come un masso scultoreo che si staglia sullo sfondo compatto della vegetazione, il museo si caratterizza per le rampe inclinate che fuoriescono dalla sagoma ondulata e raccordano l’atrio con i tre livelli delle sale espositive. Uno spazio armonico e luminoso prevalentemente introverso che consente solo alcune selezionate aperture verso il paesaggio.

La deformazione delle matrici spaziali

Nella Cidade da cultura de Galicia (progetto del 1999) a Santiago de Compostela, Peter Eisenman ha rimodellato morfologicamente un’intera porzione di territorio, che è stato sagomato con un doppio processo, additivo e sottrattivo, per formare colline artificiali, in parte a verde e in parte pavimentate, e profondi solchi. Ne è risultata un’architettura tellurica con fluidi spazi ipogei, che non è mimetica rispetto alla natura anzi appare come una stratificazione di segni antropici nel paesaggio.

L’ampliamento del Nelson-Atkins Museum of Art (2007) a Kansas City, nel Missouri, che Steven Holl ha voluto con le superfici di vetro latte e senza alcuna aggettivazione formale, si pone in netta contrapposizione con l’edificio neoclassico esistente. I cinque eterei elementi prismatici, una sorta di lucernari a scala di paesaggio, sono tra loro interconnessi in modo da definire un sistema di gallerie espositive a percorrenza libera. La luminosità è intensa, diffusa dalle pareti traslucide e dagli elementi curvi che trasportano la luce in profondità. All’interno le volumetrie, definite da ‘pareti-lente’, formano spazi con diverse angolazioni e notevole dinamismo, mettendo in comunicazione un livello con l’altro in una condizione atemporale. Grazie alle superfici lattiginose delle pareti vetrate il rapporto con l’esterno è evanescente e soltanto in alcuni punti significativi del percorso principale è possibile vedere l’edificio esistente, il parco delle sculture, il paesaggio.

Le neoavanguardie espressioniste

In questi anni, nella cultura architettonica sono emersi nuovi temi di ricerca e di approccio teorico che si innestano su alcuni filoni delle avanguardie storiche e dell’architettura degli anni Sessanta. I protagonisti di quella stagione di ricerca, infatti, dopo anni di sterili elaborazioni teoriche hanno cominciato a progettare e a costruire opere rilevanti, soprattutto nella comunicazione del linguaggio, e, grazie alle nuove tecnologie, innovative nel processo costruttivo.

Attraverso travi a sbalzo, forme sospese e galleggianti si articolano la poetica e il paradigma espressivo del gruppo Coop Himmelb(l)au, sintetizzabile nello slogan: «il sogno dell’architetto è di disfarsi della gravità», come testimonia il Musée des confluences a Lione (in costruzione dal 2001), il quale si costituisce come nuovo landmark espressivo e punto di riferimento culturale della città.

Il progetto per l’Art Museum (2007) ad Akron, in Ohio, consiste nell’ampliamento di un edificio esistente di fine Ottocento con un nuovo fabbricato dal design avveniristico, tipico del gruppo austriaco. Pur nella forte differenziazione delle parti, tre sono gli elementi caratterizzanti l’insieme: la galleria, uno spazio flessibile per esposizioni che galleggia tra le lunghe travi a sbalzo; la pensilina, una struttura che abbraccia il vecchio e il nuovo edificio; l’atrio in vetro e acciaio, fuoco visivo del complesso e piazza urbana coperta.

Provocatoria e figlia delle sperimentazioni degli anni Sessanta, di cui l’autore Peter Cook (insieme a Colin Fournier) e il suo gruppo Archigram sono stati protagonisti e animatori, è la nuova Kunsthaus (2003) a Graz. A metà tra un organismo zoomorfo e una navicella spaziale, la ‘casa dell’arte’ non è solo un eccellente spazio espositivo ma un simbolo della città, testimonianza di una nuova coscienza culturale basata sul valore della comunicazione, sull’effimero e sulla mutazione continua dell’immagine, specie nella versione se-rale. Nel centro storico della città la sua diversità è eclatante, nelle forme, nella materia e nei colori. Realizzata con tecnologie avveniristiche e senza mediazioni contestuali dichiara la sua appartenenza al futuro.

Kisho Kurokawa, animatore negli anni Sessanta della corrente Metabolism, ha concepito il National Art Center (2006) di Tokyo come una scultura di luce. Il museo consiste in una piastra a forma di parallelepipedo e in un volume polimorfo con superfici ‘svirgolate’ e flessuose, come una tenda realizzata integralmente in vetro.

Il pathos e la forma decostruita

Daniel Libeskind ha realizzato di recente tre musei, tutti dimensionalmente significativi ma meno coinvolgenti, sul piano emozionale, del loro più celebre precedente, il Jüdisches Museum (2001) di Berlino. L’Imperial War Museum North (2002) di Manches-ter documenta gli effetti dei conflitti che hanno caratterizzato il 20° secolo. Il concept sviluppa il tema della frantumazione; come se l’architetto avesse unito alcuni frammenti della superficie solida del pianeta dopo una catastrofica esplosione.

L’edificio consiste in una grande piastra convessa aperta sul canale, un luogo tra i tanti che sono stati teatro di eventi bellici, scelto come ambito della riconciliazione fra i popoli, come spazio di partecipazione e ricomposizione dei conflitti.

Il nuovo Denver Art Museum (2006), in Colorado, è l’ampliamento della preesistente struttura espositiva realizzata da Giò Ponti (in collaborazione con James Sudler) nel 1971, con cui si pone in stretta connessione. Il nuovo corpo aggiuntivo è caratterizzato da una morfologia espansa e fortemente plastica, un elemento scultoreo composto da volumi a incastro in acciaio, vetro e calcestruzzo rivestito di granito e titanio.

Il Royal Ontario Museum (ROM, 2007) a Toronto, è stato radicalmente ristrutturato dallo stesso Libeskind affiancando all’austero edificio esistente una volumetria in acciaio e vetro che lo fa sembrare un iceberg di cristallo. Il contrasto tra i volumi in pietra del vecchio museo e la leggerezza dell’ampliamento conferisce una forte identità al complesso.

Fluidità e continuità dello spazio

All’inizio degli anni Novanta, grazie al paradigma informatico, abbiamo assistito a una sorta di rivoluzione del progetto architettonico. Con il diverso approccio metodologico e le recenti parole d’ordine, sono emersi nuovi protagonisti che lavorano sui temi della stratificazione e della concatenazione volumetrica, sulla deformazione e piegatura delle superfici, sulla fluidità, sui conflitti tra elementi, sulla gestione di figure complesse, verificabili solo attraverso l’uso del computer e della geometria booleana.

L’Ordrupgaard Art Museum (2005) di Zaha Hadid, presso Copenaghen, consiste nell’ampliamento di un palazzo, in stile neoclassico e inserito in un parco storico, immaginato come parte integrante dell’area verde attraverso la modellazione del suolo in cui si dissolve il paesaggio circostante. Ne risulta una figura modulata inserita nella topografia con un sensuale involucro nero a onda, una superficie che si piega e si inflette raccordando il tetto al suolo.

L’ampliamento del Lois & Richard Rosenthal Center for Contemporary Art (2003) a Cincinnati, una tra le prime istituzioni culturali degli Stati Uniti, opera della stessa Hadid, presenta, viceversa, facciate composte da una concatenazione di volumi prismatici, realizzate in cemento armato e vetro, ora a sbalzo ora arretrate, con un’immagine fortemente differente rispetto al suo linguaggio organico.

Arte, architettura ed eventi dal vivo possono convivere nella sequenza spettacolare del MAXXI (Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, 2010) a Roma. Il progetto di Hadid recupera un pezzo di città, proponendo un edificio da attraversare liberamente, con percorrenze non pianificate che definiscono una rete di connessioni. Un’architettura, dinamica e spettacolare, che incuriosisce fin dall’atrio invitando alla scoperta degli altri spazi in sequenza. Il MAXXI è un ‘campo’ con un’estensione spaziale urbana, strutturato da soli muri e cannocchiali ottici deformati, elementi di flusso che mettono in discussione le usuali nozioni di interno e di esterno.

Il Mercedes-Benz Museum (2006) a Stoccarda, progettato da UN Studio, rappresenta un nuovo concetto di spazio, all’interno del quale il visitatore si muove aprospetticamente, percependo dinamicamente l’articolazione espositiva del museo. L’innovativa struttura elicoidale a twist, elementi portanti a doppia curvatura che ricordano le eliche di aerei, consente di realizzare sale larghe 33 m prive di sostegni intermedi. Le rampe poggiano su pilastri inclinati che organizzano visivamente la struttura spaziale: sono contemporaneamente parete verticale, arco che si avvita verso l’esterno, superficie percorribile. Non è facile distinguere tra superfici orizzontali e superfici verticali, tra realtà e virtualità della percezione. Non solo una spirale infinita, che lo stesso UN Studio aveva utilizzato nella Möbius House (1998) a Het Gooi (Paesi Bassi), ma una forma più complessa, caratterizzata da una doppia elica trilobata. All’esterno l’edificio, interamente in alluminio e con superfici aerodinamiche, sfida sul piano della contaminazione plastica un viadotto in curva, che ne lambisce la sagoma, giocando sull’ambiguità tra immagine e funzione. Come nel celebre Guggenheim Museum (1959) di Frank Lloyd Wright, l’idea dello spazio espositivo è legata al concetto di continuità del percorso, la strada penetra metaforicamente nell’edificio, strutturando un rapporto di continuità dinamica con lo spazio urbano e il paesaggio.

Contestualismo

Una delle aporie più evidenti della ricerca contemporanea riguarda il rapporto con il contesto naturale. Jun Aoki nell’Aomori Museum of Art (2006), nell’omonima prefettura, la risolve con una soluzione semi-ipogea, con scavi e riporti del suolo, contrapposti a innalzamenti e abbassamenti della copertura. Tra effetti di compressione e di dilatazione, interferenze e aperture verso l’esterno si attua un efficace principio d’ordine interpretativo del paesaggio.

L’Okinawa Prefectural Museum & Art Museum (2007), realizzato dal gruppo Ishimoto-Nikisekkeishitsu a Omoro-machi (Naha, Giappone), al margine di un vasto parco urbano, nella forma esterna è esplicitamente riferibile ai tradizionali gusuku, i fortilizi giapponesi del regno indipendente di Ryūkyū. In verità si tratta di un involucro in cemento bianco, traforato e dai bordi arrotondati, che riveste come una doppia pelle bioclimatica i diversi e articolati corpi espositivi. Per accedere al Miho Museum (1996), immerso nella natura di Kyōto, l’architetto Ieoh Ming Pei e lo studio Kibowkan international hanno ipotizzato di attraversare un tunnel con una volta riflettente e un ponte strallato a cavi tesi, sostenuto da un arco con struttura in acciaio. Il museo è in gran parte ipogeo: ne emerge solo la facciata che si integra nel paesaggio circostante, salvaguardando la visuale e riducendo l’impatto ambientale nei boschi di pini rossi.

Architetture di contesto e di paesaggio sono le seguenti opere: lo Shimane Museum of Ancient Izumo (2003), in Giappone, di Fumihiko Maki; lo Stonehenge Visitor Centre (il concorso è stato vinto nel 2001), nel Wiltshire, di Denton Corker Marshall (John Denton, Bill Corker, Barrie Marshall); il Kitakami Canal Museum (1999), a Ishinomaki nella prefettura di Miyagi, di Kengo Kuma; lo Shoji Ueda Museum of Photography (1995), a Kishimoto-cho in Giappone, di Shin Takamatsu.

A Doha, nel Qaṭar, Ieoh Ming Pei ha realizzato il Museum of Islamic Art (MIA, 2008) creando una cittadella sull’acqua in pietra bianca, con poche e selezionate aperture sul paesaggio. L’isola artificiale, quasi un miraggio, è connessa alla terraferma da sottili strisce di suolo: oasi artificiali rettilinee con palme e specchi d’acqua. Più che con il sito, il museo cerca legami con la cultura architettonica dell’intero Medio Oriente. Il riferimento è ai grandi complessi a recinto della Medina e del Cairo, alla moschea Aḥmad ibn Ṭūlūn in particolare. Il nuovo museo si presenta come una stratificazione ‘cubista’ di volumi ruotati o, meglio, appare come una massa omogenea in pietra lavorata per sottrazione, come una cupola islamica scalettata.

Per Santiago Calatrava il tema del sito, più che per il dato ambientale, ricorre come soluzione ai problemi climatici: nel Qaṭar Photography Museum (inizio progetto 2007), ancora a Doha, ha ipotizzato una struttura in acciaio che ruota per filtrare la luce solare.

Ancora il tema del paesaggio artificiale è stato affrontato da Jean Nouvel per il distaccamento del museo del Louvre nell’isola di Saadiyat ad Abu Dhabi (il cantiere è iniziato nel 2009). Il complesso è stato immaginato come un borgo sull’acqua con bianchi volumi prismatici, libere aggregazioni lineari alternate a canali navigabili. L’elemento più significativo della composizione è la grande e bianca copertura lenticolare, con struttura metallica ad arabeschi, che si sovrappone all’impianto creando effetti luministici e un microambiente naturalmente raffrescato.

Nouvel, autore negli anni Ottanta del celebre Institut du monde arabe (IMA, 1987) a Parigi, con questo intervento e con il progetto (2008) dell’ampliamento del Qaṭar National Museum a Doha, di grande suggestione, si pone anche l’obiettivo ambizioso di creare un’immagine moderna dell’architettura islamica, quasi un brand innovativo ma al tempo stesso sensibile alla tradizione culturale dell’area: soluzioni capaci di contrastare la proliferazione di atopici linguaggi tecnologici e con morfologie spesso del tutto gratuite, che rappresentano un nuovo, banalizzato International style.

Musei virtuali e sperimentazioni metamorfiche

L’informazione multimediale e l’ibridazione dei linguaggi in questi anni hanno contaminato le tecniche espressive, sconfinando nel campo della moda, del design, della pubblicità. Anche i musei hanno modificato strutturalmente i propri assetti comunicativi, come dimostra l’evoluzione dei supporti didattici e grafici, tradizionali o informatici. Oggi la tecnologia può offrire sistemi e strumenti sofisticati per esposizioni ‘intelligenti’ con sensori per immersioni tridimensionali interattive, visite teleguidate e un coinvolgimento ad ampio spettro dell’utente.

Con il progetto del 2004 per l’Eyebeam Museum of Art and Technology a New York, non realizzato, Diller, Scofidio+Renfro (Elizabeth Diller, Ricardo Scofidio, Charles Renfro) attraverso le nuove tecnologie hanno radicalmente cambiato il modo di esporre l’arte e di allestire le mostre, azzerando le suddivisioni per ambiti specialistici e concependo un interno in continuità. Il museo non ha muri ma lo spazio è compreso in un semplice nastro piegato che, alternativamente, è solaio e parete. Soluzioni formali e tecniche di comunicazione che il gruppo statunitense ha in parte concretizzato nell’ICA (Institute of Contemporary Art, 2006), a Boston, in cui la natura e il mare entrano nell’edificio e dialogano con la tecnologia.

Superato il ruolo di aulico contenitore di memorie voluto dal pensiero illuminista, il museo negli ultimi anni è diventato l’emblema della ricerca espressiva e dell’innovazione, interpretando le trasformazioni in atto nella scena architettonica e ponendosi sempre più spesso come una vera e propria emittente d’informazioni della cultura contemporanea.

Nel Musée Hergé (2009), dedicato al padre del personaggio dei fumetti Tintin, a Louvain-la-Neuve, di Christian de Portzamparc, lo spazio risulta contaminato da effetti cinematografici, con campi e controcampi, in cui utenti e materiali espositivi svolgono ruoli paritetici e scambievoli. Un gioco di sovrapposizioni, slittamenti, ambiguità percettive.

Progressivamente il mondo dell’immateriale, dell’intangibile, dei media prende il sopravvento su quello materiale, sulla realtà degli oggetti, amplificando la domanda culturale. La rilevante produzione di arte digitale consente ora di immaginare nuovi contenitori espositivi totalmente virtuali, dove è l’artista stesso a progettare sia il proprio intervento sia la corretta ambientazione, scegliendo con quali altre opere porsi in relazione; ma dove anche l’utente può interagire, avendo la libertà di scegliersi il proprio percorso di visita. Sarà possibile attuare così l’intuizione felice del Musée à croissance illimitée teorizzato e progettato nel 1939 da Le Corbusier.

Negli Stati Uniti istituzioni e musei prestigiosi come il San Francisco Museum of Modern Art, il Walker Art Center di Minneapolis e il Whitney Mu-seum of American Art di New York, propongono agli artisti spazi virtuali per mostre temporanee insieme a gallerie per esposizioni on-line.

Greg Lynn a San José in Costa Rica ha progettato l’Ark of the World Museum (2002), inserito in un parco naturalistico nella foresta pluviale, con architetture simboliche in forma di essenze arboree, che contengono gli spazi espositivi e un teatro.

Ampliamenti di grandi musei

In un breve periodo, i tre principali musei di Madrid – il Prado, il Reina Sofía e il Thyssen-Bornemisza – si sono rinnovati e potenziati. Grazie all’essenzialità delle sue linee, l’ampliamento del Thyssen-Bornemisza (2004) ha valorizzato il raffinato edificio ottocentesco. Il gruppo BOPBAA ha disegnato una candida facciata, con tagli e finestrature verticali sporgenti, che si alleggerisce progressivamente verso l’alto. La parte più plastica ed espressiva si concentra a piano terra, nel nuovo ingresso con tetto curvilineo coperto da prato, e nei nuovi spazi espositivi con i lucernari.

La consistente addizione del Prado (2007), opera di R. Moneo, è in gran parte ipogea e con tetto giardino. Grazie a un sapiente uso della luce naturale il nuovo allestimento migliora la percezione delle opere, anche all’interno della parte ottocentesca tradizionalmente allestita a quadreria.

Il Reina Sofía, nato negli anni Novanta come museo per l’arte contemporanea adattando un ospedale settecentesco, è stato ampliato nel 2005 con un corpo di fabbrica rosso lacca, firmato da J. Nouvel. L’architetto francese ha voluto dare alla nuova addizione un’immagine accattivante e di forte richiamo. Sotto alla grande copertura aggettante, i volumi ospitano spazi per mostre temporanee e happenings artistici, una biblioteca, un auditorium e un grande atrio-piazza, luogo della continuità tra il museo e la città.

A Roma vari progetti sono stati redatti per migliorare gli spazi di accoglienza dei Musei vaticani, tra cui una complessa e affascinante soluzione ipogea che attende di essere attuata. Per il Giubileo del 2000, lo studio Passarelli, con Sandro Benedetti e Angelo Molfetta, ha ridefinito l’accesso su viale Vaticano, ricavando, sulle mura e sul retrostante terrapieno, un grande spazio a più livelli, quasi impercettibile dalla strada. Concepito come una piazza stratificata in altezza con una copertura vetrata, l’intervento ha il suo fulcro nella rampa elicoidale, caratterizzata dallo slittamento progressivo delle volute e dalla continuità materica che conferisce all’insieme un marcato carattere scultoreo.

Il recupero del Palazzo delle Esposizioni di Roma è seguito al restauro degli anni Ottanta di Costantino Dardi che aveva riportato la struttura al suo assetto originario. L’ultimo, misurato intervento (2007) di Michele De Lucchi e Firouz Galdo ha risolto con soluzioni innovative i problemi funzionali e, lavorando sulla luce, ha valorizzato gli accademici spazi interni. In copertura, lo studio ABDR si è occupato della riedificazione della Serra Piacentini per creare una galleria civica sviluppata in verticale, che integra spazi culturali e d’incontro, ambiti di servizio e per la ristorazione. Il grande volume, interamente vetrato, si sovrappone alla volumetria ottocentesca, dialogando con la preesistenza per differenza linguistica.

Il MoMA (Museum of Modern Art) di New York, ridisegnato (2004) con molta sapienza da Yoshio Taniguchi, ha raddoppiato gli spazi espositivi a disposizione e gli altri ambiti dedicati ad auditorium, laboratori d’arte e biblioteca. L’intervento, con spazi a ponte, differenziazioni in altezza e terrazze giardino aperte verso la città e la corte interna, presenta dettagli eleganti e rarefatti effetti di sospensione.

A Berlino da alcuni anni si sta rinnovando la Museumsinsel. Heinz Tesar ha ristrutturato il Bode-Museum (2004), lo scomparso Oswald Mathias Ungers (1926-2007) ha progettato (2000) l’ampliamento del Pergamonmuseum, David Chipperfield (insieme a Julian Harrap) ha radicalmente rinnovato il Neues Museum (2009). I nuovi accessi a quest’ultimo costituiscono un diafano volume high-tech, una macchina bioclimatica in acciaio e vetro, che s’inserisce bene nel contesto, puntando sulla contrapposizione tra densità e rarefazione, gravità e leggerezza, caratteristici della poetica dell’architetto britannico.

Il museo come brand

Da conservatori del patrimonio artistico mondiale i grandi musei diventano strutture della comunicazione e diffusione dei propri capolavori, sia con l’ampliamento delle loro sedi storiche, sia attraverso l’attivazione di nuove sedi in altre località. Le grandi istituzioni museali tendono oggi a costituirsi come veri e propri brands multinazionali, moltiplicando l’offerta espositiva e ‘vendendo’ un’immagine culturale, l’aura del proprio patrimonio fino alla capacità organizzativa della struttura.

Per ospitare i capolavori del Louvre, R. Piano ha realizzato un ampliamento dello High Museum of Art (2005) di Atlanta, in Georgia, che andrà ad affiancarsi al preesistente edificio disegnato da Richard Meier nel 1983. Consiste in più padiglioni, quello principale collegato alla preesistenza attraverso ponti in vetro.

Il Centre Georges Pompidou avrà, dal 2010, una nuova sede a Metz in Lorena, disegnata da Shigeru Ban e Jean de Gastines. Tre parallelepipedi sovrapposti e ruotati ospitano spazi museali tradizionali e altri volumi destinati alle performances, ma anche ad auditorium, libreria e caffetteria. A questi, concepiti come cannocchiali che inquadrano luoghi significativi della città, si sovrappone una trasparente struttura reticolare, concepita come una sinuosa superficie elastica deformabile.

T. Ando, oltre al riallestimento (2007) per la Fondation François Pinault del Museo di Palazzo Grassi a Venezia, ha realizzato, nella stessa città, il Centro d’arte (2009), intervenendo con grande sensibilità negli antichi magazzini di Punta della Dogana, e ha progettato nel 2001 la Fondation d’art contemporain Île Seguin, sulla Senna, al centro di Parigi, riconvertendo una vecchia area industriale.

R. Koolhaas, con il suo studio OMA, ha realizzato a Las Vegas il Guggenheim Hermitage Museum (2001), nato dalla collaborazione con il museo di San Pietroburgo. Il singolare spazio d’esposizione temporanea, ormai chiuso, consisteva in un grande box co-struito in acero e acciaio COR-TEN con pareti rotanti, incastonato nella baroccheggiante hall di un albergo. Z. Hadid ha progettato nel 2003 un nuovo Guggenheim Museum a Taiwan, con due corpi flessuosi e porosi concepiti come estensione dello spazio pubblico e come ambito catalizzatore di quello naturale. F. Gehry ha, infine, progettato nel 2006 la nuova sede Guggenheim ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.

Musei in edifici di archeologia industriale

Se il Sainsbury Centre for Visual Arts a Norwich e il Beaubourg, che nella loro immagine essenziale devono molto ai manufatti industriali, si sono dimostrati macchine museali efficientissime, è evidente che, per analogia, gli edifici di archeologia industriale si prestino bene alla funzione espositiva. La specifica tipologia e la dimensione degli spazi consentono sia i grandi afflussi di utenti sia le modalità performative proprie dell’arte contemporanea. Molti nuovi musei, attraverso trasformazioni più o meno integrali e/o addizioni di corpi edilizi, ne sfruttano le potenzialità funzionali ed espressive.

Il tema del riuso di vecchi magazzini e opifici è comune a tutte le città industriali e mercantili. Tra gli esempi più efficaci vi è il Baltic Centre for Contemporary Art (2002) di Gateshead, un mulino trasformato in museo da Ellis Williams architects, e la Tate Modern (2000) di Londra, realizzata da Herzog & de Meuron all’interno di una stazione elettrica, il cui manufatto originario è stato integrato dagli architetti svizzeri con semplici e sobri volumi vetrati, che si affacciano sulla galleria interna. In considerazione del grande successo di pubblico, agli stessi autori è stato richiesto di progettare un ampliamento con un espressivo volume di undici piani.

I medesimi Herzog & de Meuron hanno realizzato anche il CaixaForum (2008) a Madrid, un centro culturale che recupera una centrale elettrica dismessa. La facciata originale, tagliata alla base in modo da risultare sospesa sopra il vuoto dell’atrio, viene reintegrata con un fascinoso volume traforato in acciaio COR-TEN. Il coraggioso intervento, a cominciare dal portico di metallo sfaccettato fino all’attico multifunzionale, è per immagine e materiali del tutto differente dal contesto, eppure si inserisce perfettamente nel centro storico di Madrid.

Koolhaas e lo studio OMA hanno trasformato nel Kohlenwäsche Museum (2008) i 10 ha della monumentale miniera di carbone di Zeche Zollverein nella Ruhr. L’intervento, ponti e rampe in cristallo inseriti nelle preesistenze senza modificarne le sagome, ha creato una nuova fascinosa identità, in particolare nella vista notturna.

Lo studio Wilkinson Eyre architects (Chris Wilkinson, Jim Eyre), per realizzare il National Waterfront Museum (2005) a Swansea, ha ristrutturato e ampliato con quattro blocchi sfalsati i docks della città gallese, la cui storia, sin dall’età medioevale, è strettamente legata al porto fluviale e al commercio dei materiali ferrosi. L’innovazione tecnologica, anche per l’uso di installazioni e ricostruzioni digitali integrative, supporta l’attività di documentazione e sostiene il recupero urbano, volano dello sviluppo economico.

Il Nestlé Chocolate Museum (2007) a Toluca di Città di Messico, realizzato dallo studio Rojkind arquitectos, è un edificio-galleria dalle superfici sfaccettate integralmente chiuso, che poggia al suolo solo con bassi pilotis. Il manufatto, un origami di lamiera rossa che si connette alla fabbrica esistente, è fortemente plastico e si costituisce come elemento segnaletico.

Nuova architettura e preesistenze convivono anche nel citato MAXXI di Roma di Hadid, che ridisegna un significativo pezzo di città. Altrettanto interessante, poiché animato dalle stesse finalità, è il recupero urbano dell’area dell’ex stabilimento Peroni, sempre a Roma, dov’è stato realizzato il MACRO (Museo di Arte Contemporanea Roma). La trasformazione più recente (progetto del 2001) è stata affidata a Odile Decq: un’architettura introversa, appena percettibile all’esterno, che lavora sui vuoti interstiziali nella preesistenza e, attraverso un linguaggio innovativo, fornisce una nuova identità al complesso. Ne deriva uno spazio vitale capace di coagulare funzioni diverse oltre a quelle propriamente espositive, dispiegate lungo un percorso che dalla piazza coperta al livello stradale conduce fino al tetto giardino.

Nel 2000 Massimiliano Fuksas, all’interno delle ex Scuderie Aldobrandini a Frascati, ha realizzato uno spazio espositivo polivalente (caratterizzato soprattutto dal Museo tuscolano) concepito come un dialogo per differenza tra l’involucro e la nuova architettura d’interni. L’idea espositiva è sintetizzabile in un lamellare volume di vetro disposto longitudinalmente, che contiene i reperti archeologici e lascia vuoto il resto dello spazio. La vicinanza delle due lastre semispecchianti crea inaspettati riflessi e piacevoli fenomeni di rifrazione della luce.

A Milano e a Torino, città con molte aree industriali dismesse, varie strutture sono state riconvertite in spazi espositivo-museali. Nella prima sono attive la Fondazione Arnaldo Pomodoro (2001), progettata da Pierluigi Cerri e Alessandro Colombo, e il Museo d’arte contemporanea della Fondazione Prada, progettato nel 2008 da Koolhaas.

A Torino, oltre al Museo nazionale del cinema realizzato nel 2000 su progetto di Gianfranco Gritella, dentro la Mole antonelliana, gli interventi più interessanti riguardano la sede della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli (2002) di Piano, un piccolo volume di metallo a sbalzo sulla pista del Lingotto, sede storica della Fiat progettata da Giacomo Matté Trucco, e quella della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (2002) di Claudio Silvestrin e James Hardwick, elegante nei materiali dal disegno rarefatto.

Musei archeologici

Questo specifico tema, che riguarda centri storici e aree di scavo, città e paesaggi, spesso in sovrapposizione, ha avuto in questi anni un grande sviluppo sia per la diversa modalità espositiva dei reperti, sia per il mutato sistema di comunicazione dei contenuti scientifici, ora sempre più didattico e interattivo.

Gli interventi contemporanei all’interno delle città storiche, caratterizzate da una secolare stratificazione architettonica, non possono che valorizzarne l’immagine. A Roma, in particolare, il Museo dell’Ara pacis (2006) progettato da R. Meier, costituisce un significativo esempio di ciò. L’intervento è consistito nella sostituzione della preesistente teca in cemento armato con una nuova struttura adeguata per una migliore tutela, una efficiente comunicazione didattica e una gradevole fruizione del monumento. L’architettura, attraverso la trasparenza delle pareti, cerca una nuova relazione con il contesto che si rafforzerà ulteriormente una volta completata la sistemazione dell’area del mausoleo di Augusto.

Il tema dei musei archeologici è per Atene altrettanto significativo. Il nuovo museo dell’Acropoli (2009) progettato da Bernard Tschumi, si articola su tre strati, ciascuno a più livelli: un porticato con l’atrio affacciato sugli scavi, una piastra trapezoidale per le gallerie espositive, un parallelepipedo con una corte interna per accogliere i marmi, visibili anche dall’Acropoli. Nell’attico, ruotato e disposto parallelamente al Partenone, i tagli rispondono a relazioni auree geometrico-matematiche, attualizzando il senso della classicità nel rapporto volume e luce.

Il Cultural Park of the Hellenic Cosmos (progetto del 2007) ad Atene, disegnato da Anamorphosis architects, non è pensato per esporre materiali in senso canonico ma come contenitore della storia della cultura greca. L’esperienza si concretizza lungo un percorso tra muri avvolgenti e vuoti a spessore variabile, tra camere di luce e spazi esterni inglobati.

Il Museo Nacional de Arqueología Marítima (2008) a Cartagena in Spagna, di Guillermo Vázquez Consuegra, è una parte significativa della trasformazione del porto. Nel nuovo waterfront le banchine scavate contengono un corpo ipogeo da cui emergono solo due corpi longitudinali. Il primo è un volume prismatico in cemento armato che contiene l’atrio, il secondo ha forma irregolare come una spezzata, è realizzato in vetro e funge da grande lucernaio per le sale espositive.

Il Museo de Arqueología de Álava (2009), a Vitoria in Spagna, di Francisco José Mangado Beloqui, è un volume scatolare che chiude un lotto libero nel centro storico. Sul lato esterno è prevalentemente massivo e con poche bucature, sulla corte è, viceversa, integralmente vetrato. Il corpo delle sale espositive è attraversato al suo centro da una serie di parallelepipedi lattiginosi, verticali e inclinati, che suddividono lo spazio e diffondono una luce eterea.

Un piccolo ma significativo museo archeologico (2002) è stato infine costruito da Gigon/Guyer a Kalkriese, nel sito dove nel 9 d.C. si svolse un’importante battaglia tra l’esercito romano e le tribù germaniche. Un luogo senza rovine o memorie concrete che si può spiegare solo in modo astratto. Il museo è un’attrezzatura nel parco con parallelepipedi in ferro rugginoso disposti in orizzontale e in verticale senza toccare il suolo. Simbolicamente rappresentano l’orizzonte e il tempo della sospensione. Inoltre un grande stetoscopio e una terrazza panoramica consentono di amplificare i suoni dell’ambiente e di inquadrare i luoghi, rappresentando il tempo dello sguardo e dell’ascolto.

Musei multiculturali

J. Nouvel, che negli anni Ottanta sulle sponde della Senna aveva realizzato l’Institut du monde arabe, aprendo un primo fattivo confronto con la cultura di Paesi non occidentali, ora con il Musée du Quai Branly (2006) ha messo in connessione il primo, il secondo e il terzo mondo. Situata a Parigi in prossimità della Tour Eiffel, la struttura è nata per esporre un’importante collezione d’arte dell’Africa, dell’Asia, dell’Oceania e delle Americhe con l’obiettivo di valorizzarne il patrimonio antropologico, definendone le molteplici influenze culturali, religiose e storiche. L’architettura di Nouvel ricerca nell’utente una risposta emozionale, sia direttamente nel rapporto con l’oggetto esposto sia indirettamente con l’artefice, con la sua cultura materiale, i suoi riferimenti simbolici, la sua spiritualità. Nell’impianto museale, con grandi spazi polifunzionali, ha un gran rilievo il giardino disegnato da Gilles Clément, inteso come un bosco sacro, con essenze autoctone ed esotiche che continua sulle facciate, creando un’efficiente macchina bioclimatica.

I temi del multiculturalismo, della molteplicità linguistica e dell’ecologia rappresentano la chiave interpretativa del Millennium Park (2003), dove sorgerà un centro culturale e museale, ad Abuja in Nigeria, opera dello Studio Nicoletti. L’architettura sconfina nei territori dell’antropologia e della scienza: un melt-ing pot di culture che, dilatando il recinto del significante alla massima apertura comunicativa, prospetta un universo riconciliato e magico che coniuga la ricerca tecnologica con la natura e l’arte.

A New York, un piccolo edificio, realizzato da Tod Williams e Billie Tsien su un lotto nel centro di Manhattan, ospita l’American Folk Art Museum (2002). La facciata, scomposta in più piani, è stata reintegrata dai progettisti in un monumentale bassorilievo a scala urbana. All’interno lo spazio si espande in profondità e in verticale intorno alla scala di connessione tra i livelli: senza definire precisi ambiti espositivi, crea emozioni percettive captando la luce zenitale del tetto.

Il de Young Museum of Art (2005), nel Golden Gate Park di San Francisco, è stato pensato da Herzog & de Meuron per ospitare collezioni d’arte molto diverse fra loro. Si tratta di un edificio dal disegno unitario, che viceversa valorizza la specificità e la varietà. Nel grande rettangolo verde costituito dal celebre parco, gli architetti svizzeri hanno realizzato un edificio organizzato su tre fasce parallele, interconnesse da ponti ed elementi a piastra, metafora dello scambio tra culture. Nelle corti, in cui s’incunea il verde, creano uno spazio da scoprire: flessibile, permeabile e aperto alla città e alla natura. Gli elementi di maggiore richiamo sono la grande pensilina, che definisce uno spazio d’incontro, e la torre, segnata da un’insolita forma tortile, che si riallinea al reticolo stradale, ponendosi come nuova, potente icona nel paesaggio architettonico della città californiana.

Nel Flint RiverQuarium (2004), una sorta di museo del fiume ad Albany in Georgia, Antoine Predock ha puntato a catalizzare intorno alla struttura museale il recupero della cultura degli indiani Creek: nella ricerca di una nuova identità, si avvale di nuove strumentazioni comunicative, didattiche e interattive. L’architetto ha progettato una struttura semi-ipogea: con una semplice articolazione del suolo, crea il cosiddetto blue hole, sorta di fortilizio caratterizzato da spesse murature.

Il National Heritage Museum (2000) ad Arnhem, opera del gruppo nederlandese Mecanoo architecten, è un museo inserito in un grande parco con altri padiglioni esistenti, ideato per documentare la cultura popolare dei Paesi Bassi. È composto da pochi elementi: un lungo muro in laterizio con gli accessi, un filare di querce, un sistema di spazi ipogei con una espressiva copertura a uovo. Questa plastica soluzione incorpora un congegno tecnologico per le rappresentazioni multimediali, che ne caratterizzano sia l’immagine esterna sia lo spazio interno.

Interessante, infine, sia per la volontà di documentare e valorizzare con modalità di comunicazione innovative la cultura materiale della regione, sia per l’immagine e la tecnica costruttiva, è il Downland Gridshell (2002) nel Weald & Downland Museum nel Sussex, progettato da Edward Cullinan. Il manufatto si presenta come un corpo allungato, in parte ipogeo, caratterizzato da un involucro ondulato composto da una struttura bioclimatica a guscio con elementi reticolari in legno e manto esterno in legno e vetro.

Musei della memoria

Sul tema dell’Olocausto sono stati realizzati molti musei in tutto il mondo. Tra le opere più poetiche e dense di pathos si annoverano il memoriale all’Olocausto Denkmal für die ermordeten Juden Europas (2005), costruito da Eisenman a Berlino, e l’Holocaust History Museum Yad Vashem (2005) a Gerusalemme, pensato da Moshe Safdie come una lunghissima asta prismatica che, integrando diversi corpi edilizi, s’incunea nella collina. Le due estremità si proiettano nel paesaggio, quasi a guisa di uno spettacolare cannocchiale. Tale elemento cavo a sezione triangolare è contemporaneamente spazio espositivo e percorso: non può essere fruito in senso longitudinale, ma soltanto attraversato momentaneamente, come connessione degli spazi ipogei laterali.

Il Kolumba Museum (2007) di Colonia realizzato da Zumthor nel centro della città tedesca, quasi del tutto distrutta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, identifica un’altra modalità di interpretazione della memoria. L’edificio s’inserisce in un contesto totalmente moderno cercando un dialogo con le testimonianze storiche del luogo, in particolare i ruderi di una chiesa gotica, e, indirettamente, con la cappella Madonna in den Trümmern di Gottfried Böhm. Lo spazio interno è scarno e silente, una sorta di memoriale risolto con un poetico azzeramento del linguaggio. Le pareti-filtro, volutamente non tecnologiche, rappresentano una simbolica membrana che fa gradualmente permeare la luce.

Riconvertendo un edificio d’epoca, Libeskind ha infine realizzato a San Francisco il Contemporary Jewish Museum (2008). Nello spazio esistente l’artista ha introdotto nuovi articolati volumi che rappresentano la speranza di un risanamento delle lacerazioni generate dall’Olocausto. La composizione risulta distesa e l’uso di luce omogenea crea un dialogo non conflittuale con la preesistenza.

Musei della scienza

A partire dallo Science Museum (1857) di Londra fino al Pavilhão do conhecimento (1999) di Lisbona, si è assistito a una proliferazione di musei della scienza. Sono tutti di concezione innovativa, sia perché interattivi e stimolanti, sia perché si propongono come laboratori didattici. I musei scientifici sono spazi da vivere e da esplorare, offrendo la possibilità di partecipare, anche ludicamente, alle esperienze scientifiche, divise per tematismi. Moltissimi gli esempi in tutto il mondo: quelli citati rappresentano una casistica significativa ma non esaustiva.

L’affascinante megastruttura del Phaeno Science Center (2005) a Wolfsburg, di Z. Hadid, ha forme sinuose e organiche, con grandi pilastri conici. La sagoma emerge inaspettatamente nel tessuto denso del centro della cittadina tedesca, in prossimità di un corso d’acqua e della ferrovia. Lo spazio è definito da elementi strutturali traforati, in cemento e acciaio, che creano un suolo sopraelevato, fanno filtrare la luce e contribuiscono alla configurazione interna ed esterna. Si tratta di un’architettura complessa anche per il modo in cui si inserisce nel paesaggio, fondendo elementi naturali e antropici e ricucendo i tracciati urbani.

L’addizione del Museu de la Ciència CosmoCaixa (2005) di Barcellona consiste in un volume vetrato che si affianca all’elegante, preesistente edificio modernista, che ne costituiva la sede originaria ai piedi del monte Tibidabo. Il complesso, insignito del titolo di migliore museo europeo nel 2006, è una sorta di iceberg, con sei livelli su nove ipogei, che comprende ambientazioni naturalistiche per le specie di flora e fauna autoctone, una foresta amazzonica e una pluviale (il bosque inundado) e una piazza della Scienza all’esterno. I progettisti, Esteve e Robert Terradas, attraverso scenografici pozzi luce, hanno reso impercettibile l’effetto sotterraneo, esaltando le trasparenze del volume di cristallo e spettacolarizzandone l’allestimento interno.

Il Forum (2004) di Herzog & de Meuron a Barcellona accoglie un auditorium e una fluida area espositiva, con un innovativo allestimento sulle trasformazioni urbane dell’area metropolitana e uno straordinario plastico della città. La massa dell’edificio, sospesa su pochi pilastri, incorpora cavità porose che fungono da condensatori di luce naturale e dialogano con il soffitto rivestito da lamine argentee, generando imprevedibili riverberi. Al piano inferiore le strombature a soffitto convogliano lo spazio urbano dentro l’edificio, mentre i volumi sghembi direzionano il passante verso il piano superiore.

La Ciutat de les arts i de les ciències (2004) a Valencia, di S. Calatrava, riprende i linguaggi già sperimentati nel Milwaukee Art Museum (2001), che consentono di entrare nel suo complesso universo artistico, fondato sulla ricerca di differenti modalità espressive tra spazio in movimento ed estetica delle forme plastiche. In un interessante gioco di rimandi, il progettista lega ingegneria, architettura e scultura, con un’attenzione costante alla sperimentazione dei materiali e delle tecnologie. Il concetto di flusso e di metamorfosi spiega le relazioni tra la forma dei suoi spazi, organicamente plasmati, e la biologia, ma anche il dialogo con lo spazio urbano e naturale.

La già citata California Academy of Sciences di San Francisco, progettata da Piano, è contemporaneamente una macchina espositiva e un vero e proprio laboratorio scientifico e ambientale, con forti componenti sperimentali bioclimatiche.

L’Osaka Maritime Museum (2000), progettato da Paul Andreu, costituisce un’importante occasione per approfondire il rapporto che da secoli lega la città giapponese al mare e storicamente ne definisce lo spirito commerciale, testimoniato dalla ricostruzione di una higaki kaisen, una nave mercantile del 17° secolo. Il museo, che sembra emergere dalle acque della baia, è caratterizzato da un tunnel sottomarino trasparente e da una piattaforma circolare sull’acqua, sormontata da un’imponente cupola in acciaio e vetro, e, all’interno di tecnologiche sale di proiezione, offre la possibilità di navigare virtualmente mediante un sofisticato simulatore navale.

Per sondare il rapporto tra spazio fisico e virtuale, è significativo l’esperimento del Museo della scienza (2003) di Napoli, progettato da Pica Ciamarra associati, che ha recuperato alcuni manufatti dell’area industriale di Bagnoli. L’integrazione moderna ha ridefinito gli invasi, rafforzandone la concezione spaziale originaria, modellando il suolo come un ‘nastro di Möbius’, e ha introdotto una griglia su cui, senza schemi compositivi fissi, s’inseriscono i singoli dispositivi didattici e le microarchitetture interne.

Nella Serra scientifica per farfalle tropicali (2002), un piccolo museo scientifico a Catania, opera di Manfredi Nicoletti, sono rintracciabili etimi liberty, espressionisti e high-tech che sconfinano in un’elegiaca forma di naturalismo. Altrettanto palese è l’interesse per le geometrie complesse e le valenze bioclimatiche, con soluzioni sperimentali e dal design elegante.

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