Nudità

Universo del Corpo (2000)

Nudità

Stefano Allovio
Marco Bussagli

La condizione di essere nudi rappresenta un concetto importante nello studio della vita di relazione dell'uomo. Il suo valore varia a seconda dei contesti culturali e la confusione tra il concetto di nudità e quelli di pudore e di morale ha generato in passato molti errori nel modo in cui l'Occidente europeo valutava i popoli 'primitivi' con i quali veniva via via a trovarsi in contatto. In numerosi gruppi umani, infatti, il senso del pudore non è necessariamente collegato al fatto di avere determinate parti del corpo scoperte. Come genere specifico delle arti figurative, il 'nudo' è il risultato dei mutamenti che ha subito l'idea di nudità nella cultura occidentale.

Aspetti antropologici

1.

Il concetto di nudità

Il concetto di nudità, lungi dall'essere marginale nello studio dell'uomo, pare importante nel definire l'essere umano in relazione al regno animale. Infatti, fra le 193 specie viventi di scimmie, 192 sono ricoperte di pelo e solo l'uomo si presenta come uno 'scimmione nudo' (Morris 1967). Se fra i Primati la pulizia del mantello di pelliccia è una delle attività centrali attorno alla quale si organizza la vita sociale, fra gli esseri umani questa si connette alle abitudini e agli abiti con cui gli scimmioni nudi ‒ per dirla ancora con D. Morris ‒ si relazionano e ricoprono il proprio corpo. Nelle discipline etnoantropologiche è possibile rintracciare il concetto di nudità su due livelli differenti. Da una parte, all'origine della curiosità dell'Occidente nei confronti delle culture 'altre' (si pensi alla scoperta dell'America) è spesso presente l'idea della nudità in quanto elemento caratterizzante l'immagine dell'uomo 'primitivo', sicché le forme di umanità che si pensavano attardate in uno stato di selvatichezza venivano spesso definite a partire dalla 'incivile' nudità: l'immagine del 'selvaggio nudo' ha segnato gli esordi della curiosità etnologica; solo successivamente lo sviluppo delle discipline antropologiche ha fatto emergere una concezione dell'essere umano in cui la nudità veniva svuotata di significati, mentre l'accento era posto su ciò che più conta nella definizione dell'uomo, gli abiti e le abitudini. Dall'altra parte, ogni società umana ha una propria idea su che cosa sia la nudità e in alcuni contesti questo concetto acquista significati socialmente e culturalmente rilevanti. Il recupero e la comparazione di tali significati indigeni è senza dubbio l'aspetto più importante del nesso fra antropologia culturale e nudità.

Antropologia culturale e nudità

A partire dal 15° secolo, l'Europa assume un ruolo centrale nella scoperta e nell'organizzazione del mondo. Inizia un lungo periodo di grandi viaggi ed esplorazioni, alla cui base possono essere individuati motivi di carattere commerciale e religioso. Nei diari e nei resoconti di viaggiatori è possibile rintracciare descrizioni, immagini e valutazioni inerenti le varie forme di umanità incontrate in terre esotiche e lontane. L'uomo occidentale si confronta con altre culture e molto spesso contrappone la civiltà europea alla selvatichezza dei primitivi. In particolare, la scoperta dell'America e l'esplorazione del continente africano forniscono informazioni importanti che stimolano la riflessione non soltanto sulle altre culture ma, come in un gioco di specchi, anche sulla civiltà occidentale. Una componente della 'selvatichezza', di solito marcata nei resoconti di viaggio, è la nudità. I selvaggi si presentano nudi, o meglio, senza un abbigliamento sufficiente a nascondere le parti del corpo che nella cultura occidentale vengono generalmente coperte. La stretta correlazione, presente nella cultura europea, fra l'atto del coprire il corpo e i concetti di pudore e decoro porta a giudicare gli indigeni non solo attardati su un livello evolutivo inferiore, ma ignari delle più elementari regole morali e civili. Come si vedrà in seguito, l'errore di tale ragionamento risiede nella trasposizione in un contesto culturale diverso della relazione fra nudità e pudore, tipica soltanto di alcune culture e non dell'essere umano in generale. G. Fernández de Oviedo y Valdés, che si recò nel Nuovo mondo per diverse volte nei primi decenni del 16° secolo al servizio della corona spagnola, sottolinea nelle sue opere la depravazione dei selvaggi, esseri diabolici, senza Dio e ignari di ciò che sia la vergogna e il pudore. Una prova dei loro costumi corrotti sarebbe proprio la nudità delle 'parti vergognose', sia negli uomini sia nelle donne. In base a quanto scrive T. Ortiz (all'epoca missionario a Santo Domingo e nella Nuova Spagna) in una perorazione presentata al Consiglio delle Indie nel 1524, nella quale si sollecita la schiavitù per gli indigeni del Nuovo mondo, la nudità non sembrerebbe soltanto un evidente segno di immoralità ma addirittura un segno di animalità. Oltre ai giudizi negativi sulla selvatichezza e bestialità degli indigeni, privi di morale e regole civili, apparvero, fra il Cinquecento e il Seicento (soprattutto in Francia e in Inghilterra), rappresentazioni elogiative dell'indiano del Nuovo mondo e iniziò a diffondersi il 'mito del buon selvaggio' custode e difensore dei valori positivi presenti allo 'stato di natura' e irrimediabilmente persi dall'Europa corrotta. È significativo notare come, all'interno di questa tendenza elogiativa, la nudità permanga nel definire i selvaggi, rappresentando però non la corruzione dei costumi ma la naturalità e la libertà. Il domenicano J.-B. Dutertre, missionario alle Antille intorno alla metà del 17° secolo, sottolinea come per i selvaggi il superfluo è indegno e l'unico indumento che possiedono è quello fornito loro dalla natura. Il barone di Lahontan, grande viaggiatore, all'inizio del Settecento riconobbe nell'indigeno del Nord America (che incontrò direttamente nelle sue lunghe peregrinazioni in Canada) l'immagine di un 'filosofo nudo' (Gliozzi 1971). Ogni società stabilisce ciò che deve essere coperto e ciò che può restare senza indumenti. In un grande numero di gruppi umani le parti del corpo da coprire sono gli organi genitali. In Giappone la norma secondo la quale i genitali devono restare nascosti è già contenuta nella lingua: la sillaba in, che significa "nascosto, oscurità, ombra", è presente nei termini inbu: "genitale", inmo: "peli del pube", inno: "scroto", e inmon: "vulva" (Duerr 1988). Se nella cultura occidentale è considerata buona norma coprirsi il seno poiché correlato alla sfera della sessualità, in molte culture africane il seno, maggiormente connesso alla funzione dell'allattamento, viene spesso mostrato, mentre sono le cosce a dover restare coperte avendo un forte legame con il desiderio sessuale. In un'isola del Gaeltacht (Irlanda), convenzionalmente denominata Iris Beag dall'antropologo J. Messenger, la nudità viene considerata un atteggiamento esplicitamente sessuale. Basta essere sorpresi senza calzini per provare un forte sentimento di vergogna; gli isolani hanno orrore della nudità e per questa ragione si lavano soltanto la faccia, il collo, le braccia, le mani e le gambe sotto le ginocchia; molti si rifiutano di farsi visitare durante una malattia per la paura di doversi spogliare, e persino la nudità degli animali domestici (cani e gatti) parrebbe essere causa di angustie e imbarazzo, soprattutto nel periodo dell'eccitamento sessuale. Dal Rinascimento in poi si è sempre idealisticamente sottolineato il fatto che nella Grecia classica vigesse una forte libertà nel presentarsi nudi in combattimento e durante le gesta atletiche. In realtà il senso del pudore non era completamente svincolato dal concetto di nudità, soltanto che quest'ultima veniva ammessa in determinate occasioni e assumeva significati del tutto particolari, come nel caso della nudità dell'ebreo circonciso che, nei ginnasi, era giudicata inaccettabile (Duerr 1988). I greci erano sinceri ammiratori del pene dei fanciulli, purché questo fosse interamente ricoperto dal prepuzio. Durante gli esercizi fisici solevano legarsi il prepuzio sulla parte anteriore, in modo che non scivolasse inavvertitamente all'indietro. Un prepuzio corto era segno di un'eccessiva attività sessuale e la nudità del glande era, secondo il costume e i canoni estetici greci, riprovevole e imbarazzante. A partire dall'epoca in cui gli ebrei fecero ingresso nei ginnasi venne emanato un provvedimento secondo il quale potevano partecipare ai giochi olimpici unicamente quelli che si erano fatti nuovamente allungare il prepuzio. Come si può notare, il concetto di nudità era connesso non tanto alla mancanza di indumenti ma alla mancata copertura del glande; la nudità non era una questione di abiti ma di abitudini (nel caso specifico il 'costume' della circoncisione).

Nudità e pudore

A seconda del contesto culturale nel quale si è inseriti, il concetto di nudità si connette a determinate parti del corpo e a specifiche situazioni, ma soprattutto rimanda a una precisa concezione del pudore socialmente condivisa. La nudità è qualcosa da evitare nella misura in cui si aderisce a un determinato gruppo e si adotta il costume di quel gruppo. Se è vero che il concetto di nudità è strettamente legato a una norma culturale alla quale si è invitati a conformarsi, è altrettanto vero che la nudità può diventare uno strumento per differenziarsi dal resto della società (dal costume vigente). Fra i tangba del Benin settentrionale (Africa occidentale) si fa esplicitamente ricorso alla nudità al fine di segnare importanti distinzioni sociali. Nei villaggi tangba, analogamente a ciò che succede in gran parte dell'Africa occidentale, esistono due forme di autorità: i capi politici di origine straniera (sawa) e i sacerdoti della terra (boro-te), discendenti dei clan autoctoni e primi occupanti delle colline. I boro-te sono soliti circolare seminudi con l'immancabile pipa e un cappello rotondo di rafia intrecciata; sono loro a proteggere gli abitanti dei villaggi dalla stregoneria e da ogni forza avversa (siccità, invasori, malattie ecc.). La vita dei boro-te è fortemente condizionata da una serie di regole comportamentali. I sacerdoti della terra possono mangiare solo cibi tradizionali e cucinati nelle loro case, possono sposare esclusivamente le donne originarie del proprio villaggio e un tempo non potevano neppure abbandonare il quartiere o il villaggio dove risiedevano. Una delle regole dei boro-te, riportata anche da cronisti dell'inizio del 20° secolo, riguarda l'abbigliamento: essi non possono indossare abiti tranne il perizoma, pena la morte per mano di un feticcio . Il divieto di portare indumenti è un modo per affermare la propria identità di autoctoni contrapposta a tutto ciò che è straniero (fra cui i sawa). In effetti gli stessi abiti sono di origine straniera, importati prima dalla cultura islamica e successivamente dall'Europa, mentre la nudità può essere interpretata come 'l'abito degli antenati'. Paradossalmente, la nudità, pur contrapponendosi all'abito, diventa essa stessa costume. Un altro caso emblematico in cui la nudità assume tale valore è il movimento nudista interno alla cultura occidentale. Per esprimere l'idea della nudità intesa come costume, abito, indumento, i nudisti degli anni Venti del 20° secolo erano soliti utilizzare espressioni curiose come, per es., 'abito naturale', 'vestito di luce', 'abito di Dio'. I nudisti ritengono che la nudità sia asessuale, svincolata dall'erotismo e utile per reprimere i bruti istinti sessuali. Il nudismo non fu teorizzato come sfida anticonformistica alle costrizioni della cultura dominante, ma era visto, fino a qualche decennio fa, come una pratica in grado di liberare l'essere umano dai lacci degli istinti, uno strumento per ritrovare un rapporto sano e naturale fra i due sessi, aspirando a una purezza non turbata dall'eccitazione sessuale. Presupposto del nudismo era una notevole maturità morale, associata a uno stile di vita adeguato e a un'alimentazione priva di sostanze ritenute eccitanti, come l'alcol, il tabacco e i condimenti piccanti. Come si può constatare, la nudità non soltanto viene contemplata all'interno del costume ma si pone al centro di uno stile di vita che, a detta di chi lo pratica, migliora i rapporti fra gli uomini. Benché i nudisti ritengano che la nudità sia svincolata dall'erotismo e che la vista reciproca dei corpi nudi inibisca l'istinto sessuale, nei campi riservati in cui si riuniscono vige una precisa autodisciplina nelle interazioni fra individui, nei gesti, nelle movenze e soprattutto nello sguardo reciproco allo scopo di non favorire eccitamenti sessuali. Occorre infatti mantenere lunghi contatti visivi, fissandosi vicendevolmente nel viso onde evitare che lo sguardo cada sulle parti del corpo maggiormente connesse alla sessualità. Inoltre, si assumono posizioni convenienti, in particolare quando si resta seduti, al fine di evitare sfacciate e imbarazzanti esibizioni. Tutto ciò denota, in primo luogo, un'atmosfera forzata e non del tutto disinvolta, in secondo luogo, un'idea di pudore che non viene riposta insieme agli abiti, ma permane nel modo di gestire la propria nudità e nel modo di rapportarsi con la nudità degli altri. In un passato non troppo remoto si era soliti abbinare erroneamente la nudità delle popolazioni d'interesse etnografico con la mancanza di pudore e di morale. Tuttavia, come traspare già nel caso dei nudisti, il pudore è connesso non tanto con il coprirsi quanto con il controllo dello sguardo. Il fissare con gli occhi un corpo nudo significa 'spogliarlo' veramente. La civiltà di un individuo appartenente a una cultura che non prevede l'uso di abiti non risiede nel coprirsi, ma piuttosto nello sfiorare la nudità con lo sguardo senza soffermarsi e fissare. Per es., presso i kwoma della Nuova Guinea, abituati a circolare nudi, i bambini vengono rimproverati e puniti duramente se sono sorpresi a osservare i genitali delle donne e delle ragazze. Un tempo, fra i qunantuna della Nuova Britannia, quando un uomo faceva visita presso una famiglia, le donne della casa si ritiravano, dopo un breve saluto, dietro l'abitazione poiché, essendo l'ospite nudo, gli si volevano evitare imbarazzanti erezioni (Duerr 1988). A comportarsi in modo incivile e impudico non erano i 'nudi primitivi', bensì gli etnografi e i viaggiatori armati di apparecchi fotografici. Infatti nelle culture in cui il pudore si misura con l'intensità, la delicatezza e la durata dello sguardo, il fotografare viene percepito come lo sguardo fisso e immorale per eccellenza. Le tristi foto che ritraggono la nudità delle altre culture parrebbero mostrare non tanto l'alto grado di civilizzazione dell'Occidente, quanto l'inciviltà di uno sguardo altamente tecnologico, ma poco discreto.

Il nudo artistico

1.

Interpretazioni del nudo nell'antichità

Ripercorrere brevemente le tappe dei mutamenti che il concetto di nudità ha subito nell'ambito della cultura occidentale consente di comprendere come sia nata e come si sia modificata nel tempo l'idea di nudo artistico. Infatti il valore della nudità, vissuta o rappresentata, non è rimasto inalterato nei secoli, ma è cambiato considerevolmente di cultura in cultura. Per capire quale sia stato il processo mentale che ha portato a considerare la nudità assoluta (ben diversa da quella parziale, mitigata dalla presenza di un perizoma o di altro) come condizione saliente (positiva o negativa che sia) dell'essere umano, è necessario partire dalla constatazione che il corpo umano costituisce un messaggio segnico: l'apparire di un individuo, e quindi del suo corpo, è in sé una forma di comunicazione; pertanto, operare sul proprio corpo significa modificare scientemente il tipo di informazioni che si vogliono trasmettere al ricevente. I termini di queste modifiche sono sostanzialmente dettati dal contesto culturale nel quale l'individuo è calato, ma non possono comunque prescindere dal dato fisico di partenza che, in ogni caso, è il corpo nudo. Ne deriva che, pur in una serie infinita di sfumature e di combinazioni, strettamente condizionate dagli ambiti socioculturali di appartenenza, sono solo due le possibilità che si presentano all'individuo: coprire o scoprire il proprio corpo. Presso i dogon, popolazione africana che vive a sud dell'ansa del fiume Niger, l'etnologo M. Griaule (1948, trad. it., p. 99) ha raccolto la testimonianza secondo cui "essere nudi è essere senza parola": in alcune società 'primitive', dunque, l'essere nudi equivale a essere muti, cioè privi della possibilità di comunicare, e quindi inesistenti; chi è nudo non può avere scambi sociali, è fuori dal contesto. Questa concezione negativa della nudità era comune anche a molte civiltà del passato. Nell'antico Egitto, il canone di rappresentazione della figura umana prevedeva la presenza del gonnellino per motivi tecnici, ma anche simbolici (Panofsky 1955): infatti erano completamente nudi soltanto gli schiavi e, soprattutto, i nemici, come dimostrano la Tavolozza di Narmer (Il Cairo, Museo Egizio) e la Tavolozza degli avvoltoi (attualmente divisa tra l'Ashmolean Museum di Oxford e il British Museum di Londra). Particolarmente eloquente, in questo senso, è una mummia con maschera del periodo tolemaico-romano (1° secolo a.C.), oggi conservata presso il Museo Archeologico di Venezia: corredata di elementi in tela pressata, stuccata e dipinta per renderla più consistente, la mummia presenta, al di sotto della copertura dei piedi, quindi nella posizione di massimo degrado, due raffinati disegni che mostrano un prigioniero asiatico e uno nubiano completamente nudi e legati da una corda. Non diversamente, fra gli assiri, il grande rilievo proveniente dal Palazzo di sudovest di Ninive (Londra, British Museum), con scene della campagna militare promossa da Sennacherib, all'inizio del 7° secolo a.C., contro le tribù caldee delle paludi della Mesopotamia meridionale, mostra la figura di un nemico decapitato e gettato nell'acqua nudo: la condizione di nudità completa quella del nemico sconfitto. Al di fuori di questo simbolismo, le possibilità di rappresentazione di figure nude si riducevano alla raffigurazione di nudi contestualizzati, oppure a quella di divinità primordiali. Sono esempi del primo caso l'ostrakon con nuotatrice proveniente da Deir el Medina (Torino, Museo Egizio), in cui la nudità è giustificata dalla condizione di bagnante, oppure le truppe scelte di Assurnasirpal che attraversano l'Eufrate nel rilievo conservato a Londra (British Museum), nude per motivi di praticità e di efficacia strategica: gli armamenti le avrebbero appesantite al punto di compromettere la riuscita dell'impresa. Invece, la nudità di Geb, dio maschile della Terra, itifallico e procreatore, e quella della sorella Nut, divinità del cielo, è ampiamente giustificata dal fatto che la loro unione provocherà la nascita di Iside, Osiride, Neftis e Set, ossia di parte consistente del pantheon egizio. Spesso, infatti, le due divinità cosmologiche vengono rappresentate sui papiri (Londra, British Museum) in procinto di compiere l'atto sessuale. La nudità assoluta, del resto, difficilmente si scinde dalla componente sessuale, legata, almeno nelle civiltà primitive, soprattutto alla riproduzione. È sicuramente questo uno dei motivi che hanno spinto gli uomini del Perigordiano (24.000 anni fa) a realizzare le Veneri steatopigiche la cui funzione, al di là delle varie possibili interpretazioni, rimane comunque strettamente connessa al valore della fertilità (Leroi-Gourhan 1965). È da notare che, mentre nella nudità vissuta l'occultamento del corpo equivale all'esaltazione dei valori fisici e simbolici della parte che si nasconde, in quella rappresentata, ostentare queste stesse parti, vuol dire sottolinearne il significato. Tutto ciò spiega il proliferare delle rappresentazioni stilizzate tanto della matrice femminile quanto del membro maschile nelle grotte del Paleolitico. La vera svolta nella considerazione del significato sociale e artistico della nudità si ebbe con l'elaborazione del pensiero e dell'estetica in ambito greco. A prescindere dai complessi cambiamenti che portarono al mutamento del concetto di corpo e anima dalla società arcaica di Omero a quella altamente speculativa di Platone (Reale 1999), un punto di snodo importante può essere individuato nell'istituzione delle Olimpiadi, tradizionalmente collocata al 776 a.C. La celebrazione di giochi per la commemorazione dei defunti era certo precedente, come testimonia un lungo passo dell'Iliade (22, 345-1132) nel quale si narra di quelli voluti da Achille in onore di Patroclo; tuttavia la nascita dei giochi di Olimpia, che comportavano la contestuale sospensione delle ostilità all'interno di tutta la Grecia, ebbe la conseguenza di allargare la partecipazione al di là del ristretto gruppo di nobili e guerrieri, dando luogo a una classe di atleti specialisti i quali ricoprirono un ruolo sempre più importante all'interno della società greca (Mancioli 1987). Non solo essi godevano dell'ammirazione e del rispetto di tutti (si giunse a veri e propri fenomeni di divismo), ma il vincitore dell'agone otteneva numerosi vantaggi pratici (per es., la possibilità di mangiare gratuitamente alla mensa pubblica, il diritto ai posti migliori a teatro e, in seguito, a premi in denaro) e, soprattutto, il privilegio di avere il proprio nome ricordato in perpetuo. Il desiderio di gareggiare nel modo migliore e più efficace portò ad allontanarsi sempre più dalla matrice militare da cui erano nate le Olimpiadi, sicché si giunse a gareggiare nudi. L'ideale di bellezza greco si ancorò a quello dell'atleta nudo (è sufficiente citare per tutti l'Apoxyòmenos di Lisippo al Museo Pio Clementino, Città del Vaticano) e addirittura l'immagine dell'atleta nudo finì per divenire modello per la rappresentazione della divinità (si pensi, per es., al Poseidon di Capo Artemision che potrebbe essere un lanciatore di giavellotto o, viceversa, al Diadoumenos di Policleto il Vecchio, entrambi conservati al Museo Nazionale Archeologico di Atene, che per la presenza di arco e faretra potrebbe essere l'immagine di un Apollo vincitore). In questo modo il valore della nudità nella cultura occidentale si era completamente ribaltato. All'ideale greco s'ispirarono successivamente gli etruschi e anche i romani, nonostante fra questi persistesse una certa ostilità nei confronti dei certamina graeca, in quanto si considerava moralmente disdicevole che la gioventù romana gareggiasse nuda, secondo il costume ellenico (Bussagli 1998).

2.

Allegorie cristiane e pagane A

porre in crisi entro certi limiti il valore positivo che la cultura classica aveva attribuito alla nudità fu il pensiero cristiano, che modificò profondamente il rapporto con essa introducendo non il senso del pudore, ampiamente noto già ai romani, bensì quella che si potrebbe definire una maggiore consapevolezza dei limiti del corpo. Il racconto della Genesi, infatti, non stigmatizza la nudità in quanto tale, dal momento che Adamo ed Eva vivevano questa condizione anche prima di aver mangiato il frutto proibito dell'albero della Conoscenza: la nudità viene da Dio e non può che avere valore positivo. È Adamo che ne determina la connotazione negativa nel momento stesso in cui prende coscienza di essere nudo e se ne vergogna, misurando tutta la distanza che lo separa, lui essere creato, dal suo Creatore. Adamo, cioè, avendo voluto uguagliare Dio se ne è allontanato e, scoprendosi nudo, ovverosia limitato e caduco, si vergogna di tutte le sue insufficienze (Genesi 3, 7-11). L'arte figurativa cristiana, tuttavia, utilizza ampiamente immagini nude. Non solo qualche santo, per es. san Sebastiano, viene rappresentato dal 15° secolo in poi con un semplice perizoma (Bussagli 1998) e il Cristo, che, salvo qualche rara eccezione (Santa Maria Antiqua a Roma), è raffigurato sulla Croce nel medesimo modo, ma la figura nuda è comunemente impiegata a fini allegorici per rendere l'immagine di un'entità altrimenti irrappresentabile, vale a dire l'anima, anche in questo caso con derivazione dal mondo grecoromano (l'εἴδωλον). L'immagine dell'uomo nudo diviene così una delle costanti dei Giudizi Universali, dal grande mosaico della cattedrale di Torcello (12°-13° secolo) fino a Michelangelo e oltre. La condizione di nudità, inoltre, viene frequentemente impiegata per rappresentare un essere ultraterreno come l'angelo, la cui iconografia ha una vicenda complessa (Bussagli 1995). Jacopo della Quercia, nello scolpire la Cacciata dei progenitori sulla porta di San Petronio a Bologna, aveva in mente il modello di una divinità classica, così come Giovanni di Paolo nella piccola tavola con il medesimo soggetto conservata al Metropolitan Museum di New York. Invece l'angelo musicante della Fuga in Egitto del Caravaggio (Roma, Galleria Doria Pamphili) risponde ai dettami iconografici prescritti dal cardinal Federico Borromeo, secondo il quale gli angeli possono essere rappresentati nudi perché la loro condizione nulla ha a che vedere con le miserie umane. Questa riflessione indica che alla condizione di nudità tornavano ad attribuirsi quei valori positivi di bellezza e di gloria che erano stati propri del mondo grecoromano. Del resto, quando il Borromeo scriveva, nel 1603, il suo De pictura sacra, l'immaginario cristiano, attraverso l'esperienza rinascimentale, aveva avuto modo di assimilare e recuperare quegli ideali di classicità che nel nudo veicolavano messaggi del tutto positivi. Così, la donna nuda che alza con il braccio la lampada accesa, dipinta da Tiziano nell'Amor sacro e Amor profano (Roma, Galleria Borghese), incarna l'ideale dell'amore sacro (Panofsky 1939), e gli Ignudi dipinti da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina (1508-12) ribadiscono l'idea che la figura nuda comporta in sé l'idea di bellezza e d'innocenza. Le due opere, quasi coeve, sono profondamente diverse: la prima nasce da una committenza strettamente privata, celebrando il matrimonio fra Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto, mentre la volta della Sistina ha l'importanza e il peso di una commissione pubblica, dove gli Ignudi che tengono un lungo festone di foglie di quercia alludono all'epoca d'oro inaugurata con il pontificato di Giulio II della Rovere. Entrambe le opere, tuttavia, stanno a indicare come nella società colta di allora, intrisa di pensiero neoplatonico, la figura nuda fosse, più o meno consapevolmente e direttamente, riferita al detto oraziano nuda Veritas (Carmina, 1, 24, 7). L'espressione sintetizza assai bene quale dovesse essere il legame fra la ritrovata cultura classica e quella cristiana: essendo il cristianesimo una religione di verità, il detto oraziano permetteva di utilizzare, per rappresentarla, l'immagine più alta e più bella che il creato potesse offrire agli uomini stessi. Così, se la Venere Celeste del quadro di Tiziano finiva per incarnare in immagine "il principio della bellezza eterna e universale, ma puramente intellegibile" (Panofsky 1939, trad. it., p. 208), sotto le sembianze della quale si poteva intravedere il riflesso dell'armonia del cosmo cristiano (si pensi a Marsilio Ficino), negli Ignudi della Sistina si poteva scorgere quella genia di esseri "forti fin dagli antichi tempi e famosi" dei quali fa menzione la Bibbia (Genesi 6, 4), uomini che non dovevano essere troppo diversi da quelli vissuti nell'età dell'oro, secondo l'interpretazione di G. Vasari. In altre parole, si cercavano, si trovavano e si sentivano come palpabili quelle consonanze fra la cultura pagana e la cultura cristiana che avevano portato Ficino sulle orme della prisca Theologia. In questo clima la figura nuda trovava una sua precisa legittimità storica e filosofica, grazie alla quale il Davide di Michelangelo può tranquillamente alludere a Ercole, altro simbolo di Firenze. Per questo motivo, la figura nuda venne utilizzata per esprimere ugualmente allegorie cristiane e allegorie pagane e, quindi, in linea puramente teorica, non vi era più alcuna differenza fra l'Amor vincitore (Berlino, Kaiser-Frederich Museum) del Caravaggio e il cosiddetto san Giovannino (Roma, Pinacoteca Capitolina) dello stesso autore. Così era sostanzialmente lo stesso linguaggio quello che accomunava il Trionfo della Divina Provvidenza, dipinto da Pietro da Cortona nel salone delle feste di Palazzo Barberini, e il Trionfo del nome di Gesù, dipinto da G.B. Gaulli nella Chiesa del Gesù a Roma.

3.

L'immaginario moderno

Una nuova cesura nel modo di considerare la nudità rappresentata si verifica nel corso dei primi decenni del 18° secolo, quando germina la radice di quello che possiamo considerare il nudo moderno. Fino ad allora il nudo per essere legittimato doveva avere una giustificazione contestuale, ossia essere avallato dalla storia all'interno della quale compariva. Un nudo maschile poteva essere soltanto san Sebastiano o Sansone, Davide o Perseo, Prometeo o Apollo, oppure appartenere a un impianto decorativo (anche se simbolico), come per es. gli ignudi della Fontana delle tartarughe a Roma realizzata da T. Landini. Allo stesso modo, nudi femminili erano generalmente Susanna tra i vecchioni, oppure Venere o, ancora, Dafne o l'allegoria della Verità. Non vi era mai la semplice raffigurazione di un uomo o di una donna nudi. Per quanto riguarda il nudo femminile, questa venne introdotta, nel Settecento, dalle opere di A. Watteau, J.-H. Fragonard e F. Boucher. La rappresentazione di scene erotiche risaliva ai primordi della cultura figurativa greca e romana (Johns 1982), anche se il più delle volte gli oggetti o gli ambienti decorati con questi soggetti avevano un valore simbolico o comunque alludevano all'idea di fertilità; questi temi comparivano anche nella cultura medievale (Castelli 1997) e successivamente le immagini di M. Raimondi che illustravano i Modi, sulla medesima lunghezza d'onda dei sonetti di Pietro Aretino, avevano abbondantemente sviscerato l'argomento. Nei quadri dei tre maestri francesi, tuttavia, ci si trova dinanzi a qualche cosa di diverso: essi sono privi di ogni intento simbolico, ma pur di soggetto erotico non hanno nulla di pornografico. Il fatto che simili opere alimentassero un mercato ufficiale che si svolgeva alla luce del sole dà il segno di un forte cambiamento di gusto. Quadri come L'odalisca bionda di F. Boucher (Monaco, Alte Pinakothek) non conferiscono nessuna aura all'immagine della donna nuda, se non quel richiamo di carattere erotico che è inalienabile alla vista di un corpo maschile o femminile nudo. In questo senso, perciò, il rococò può considerarsi un punto nodale nello sviluppo della tematica della nudità rappresentata. Da qui infatti nasceranno temi tipicamente ottocenteschi come l'odalisca (J.-A.-D. Ingres) o le bagnanti (Ingres, P.-A. Renoir o P. Cézanne); un capolavoro come la Bagnante di Valpinçon (Parigi, Louvre) di Ingres sarebbe impensabile senza le premesse di Watteau o di Fragonard, i quali avevano eliminato la necessità che il nudo femminile fosse una ninfa, una dea o un'eroina del Vecchio Testamento. Dopo la parentesi neoclassica, l'Ottocento riprese dunque la strada iniziata dai maestri del rococò, ma con una freccia in più al proprio arco: quella della fotografia. Artisti come G. Courbet o A. Rodin non fecero mistero dell'uso del nuovo mezzo meccanico a supporto delle loro creazioni. La fotografia, che presto trovò un proprio spazio autonomo e venne utilizzata da pittori come F.P. Michetti quale ulteriore mezzo espressivo (Miraglia 1975), concorse non poco a una nuova e più insistita oggettivizzazione della nudità, contribuendo, almeno in un primo tempo, a modificare con il suo carattere documentario l'approccio visivo nei confronti della realtà in generale e della nudità rappresentata in particolare, come mostra, per es., l'Uomo al bagno di G. Caillebotte, del 1884 (collezione Josefowitz), impensabile senza l'esperienza fotografica. Soprattutto riguardo all'uso della fotografia deve essere sottolineata la necessità di definizione del nudo artistico. È chiaro che un gruppo di persone nude fotografate non rientra necessariamente in questa categoria. Non si tratta semplicemente del 'valore aggiunto' di un'opera d'arte che si fa risalire alla manualità del pittore o dello scultore, alla scelta di uno stile o all'impiego di colori, ma di un'operazione linguistica vera e propria. Un esempio significativo è costituito da 'N' (Nude beach) di P. Hutchinson del 1974, che mostra una foto di persone nude sulla spiaggia sormontata da una 'N' e corredata di un commento dell'autore; è evidente che l'artista si diverte a giocare con i nudi della foto nella tautologia del titolo, ma è altrettanto evidente che, se Hutchinson avesse incollato quella stessa foto sulle pagine dell'album di famiglia, quelle fotografate sarebbero state solo delle figure nude, prive di vestiti, e la foto avrebbe avuto puro valore documentario; così ricontestualizzata, invece, essa acquisisce il valore, se non proprio di opera d'arte, di operazione linguistica. Per lo stesso motivo i ragazzi nudi fotografati da T. Eakins, nel 1873, sul greto del fiume hanno valore documentario, a differenza dei vari Thomas fotografati da R. Mapplethorp, nel 1986, che hanno la dignità di nudi (Leddick 1998). Quello della fotografia è soltanto uno dei vari aspetti che si sono sviluppati intorno alla problematica della nudità nel corso del 20° secolo. Caratterizzato da enormi contraddizioni, il Novecento vede nascere da una parte, intorno agli anni Trenta, in Germania e in Inghilterra, la pratica del nudismo ispirata alla liberazione dell'uomo da preconcetti borghesi e desiderosa di reintegrarlo nella natura; dall'altra, i totalitarismi europei e successivamente quello sovietico, i quali creano un ideale maschile che ha sì le sue radici nel concetto greco di bellezza, ma si colora di pericolose rigidità morali e intransigenze razziali. Già F.L. Jahn, uno dei teorici della ginnastica moderna, pubblicando nel 1816 il suo Die deutsche Turnkunst spiegava che i patrioti tedeschi dovevano essere "casti, puri, abili, impavidi, sinceri e pronti a impugnare le armi"; tale ideale si accentuò con l'avvento del nazismo e la teorizzazione della superiorità della razza ariana. Alla volontà di plasmare il corpo in forma atletica corrispose la realizzazione di film propagandistici e didattici come Wege zur Kraft und Schönheit del 1925, nel quale si esaltava l'ideale della nudità maschile e femminile con l'intento di dimostrare che i giovani tedeschi sarebbero stati la riproposizione moderna degli antichi greci (Mosse 1996). Bisogna però precisare che, mentre l'ideale nazista 'ingessò' l'arte tedesca fino al termine della Seconda guerra mondiale, l'arte ufficiale italiana del periodo fascista produsse opere di rilievo: basterà citare M. Sironi e, soprattutto, i cartoni preparatori per gli affreschi della mai realizzata Esposizione Universale E42 approntati da A. Funi e altri. Le problematiche sviluppatesi intorno all'argomento visivo della figura nuda nel corso del Novecento prescindono comunque dai modelli vagheggiati dalla teorizzazione tedesca legata all'ideologia nazista. Sostanzialmente, i filoni di ricerca seguiti, che corrispondono a quelle che si è soliti definire 'avanguardie storiche', sono l'espressionismo, il fauvismo, il cubismo e il surrealismo. I primi due movimenti mettono l'accento sulla forte capacità di comunicazione del nudo, oscillando fra le iniziali aberrazioni anatomiche di E. Schiele e le durezze cercate da E.L. Kirchner o le acrobazie cromatiche di A. Derain; il cubismo invece prende in considerazione l'elemento plastico della figura nuda, riducendolo anche ad aspetti di rappresentazione meccanica, come per es. in F. Léger. Il surrealismo, infine, considera il corpo nudo una sorta di teatro dell'anima, all'interno del quale cercare giustificazioni psicoanalitiche alle proprie angosce, come nel caso della Venere a cassetti (Parigi, collezione privata) di S. Dalì. Sempre nel Novecento ci si orienta pure verso una dissoluzione della figura umana: nella rappresentazione del disfacimento organico, riflesso di un incontenibile disagio spirituale, come in F. Bacon, e nel tentativo di estrema stilizzazione del corpo nudo, come in A. Giacometti o, per altri versi, in J. Arp. La figura umana, nuda o meno, che sembrava essere stata completamente bandita dall'immaginario artistico, si è ripresentata, intorno agli anni Ottanta del 20° secolo, in Italia con il fenomeno del citazionismo e dell'anacronismo che ha riproposto il recupero dell'ideale classico, esponente di spicco è stato C.M. Mariani (Mussa 1983). Accanto a questo fenomeno, la componente trasgressiva della Body art ha contribuito a sottolineare le contraddizioni di quello che, giustamente, viene definito il 'secolo breve': non ultimo, il rapporto fra l'uomo e la macchina, la quale ne integra, ne migliora, ne sostituisce la fisicità. La nascita del corpo postorganico (Macrì 1997) è l'ultima frontiera che vede di nuovo protagonista il corpo umano nella sua nudità (v. vol. 1°, I, cap. 4: Il corpo come oggetto artistico: la Body art).

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