OXILIA, Nino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 80 (2014)

OXILIA, Nino

Gabriele Scalessa

OXILIA, Nino (Angelo Agostino Adolfo). – Nacque a Torino il 13 novembre 1889 (Monetti, in Un tempo una città, 1983, p. 25) da Nicolò e da Giovanna Bruno, penultimo di cinque tra fratelli – Andrea Felice, che sarebbe divenuto poeta (Il ritorno, s.l. né d. [ma 1931]) e traduttore di lirici greci (Il ramo di mirto, Roma 1946), e Giovanni Battista (futuro ufficiale di carriera) – e sorelle (Anna, che sposò il pittore Cesare Maggi, e Fanny).

Iscritto dal 1898 al R. liceo-ginnasio Cavour di Torino, ebbe tra i professori Vincenzo Ussani, noto classicista; a parte un precoce interesse per la letteratura italiana, tuttavia, non dimostrò mai particolare inclinazione per lo studio.

Fra i suoi compagni di scuola figurano Orazio Quaglia (poi avvocato penalista) ed Ernesto Cazzola, presso la cui famiglia Oxilia trascorse l’estate del 1905 nelle valli di Lanzo (esperienza poi ricordata in Divagazioni estive, in Gazzetta di Torino, 8 agosto 1909). Da segnalare, inoltre, l’amicizia con Emilia Rava da cui Oxilia prendeva lezioni private di matematica e di cui si invaghì.

Per il sopraggiungere di difficoltà finanziarie familiari, dovute al fallimento della Banca Sconto (1902-03), si impiegò presso le Assicurazioni Generali Venezia. Pur rallentando il suo percorso di studi, trovò comunque il tempo per allestire una raccolta di liriche composte fra il maggio 1904 e il luglio 1905: pervasa di calchi petrarcheschi e dannunziani e mai pubblicata in vita, Primi versi segnò il faticoso avvio sulla strada della letteratura.

Verosimilmente contemporaneo all’ultima lirica (L’opera mia!, del 5 luglio 1905, dedicata a D’Annunzio) è il breve saggio La poesia moderna e Gabriele D’Annunzio (apparso solo postumo, assieme ai Primi versi, nell’omnia poetica oxiliana a cura di Roberto Tessari, 1973), che denuncia il debito giovanile nei confronti del poeta pescarese. I quattro sonetti che compongono la corona Dulcis amor, apparsi nella Gazzetta del popolo della domenica n. 21 del 1906, a firma «Angiolo Nino Oxilia», costituiscono «uno dei primi tentativi di presentazione del poeta al grosso pubblico dei lettori» (Monetti, 1982, p. 135). Altri versi videro la luce nel medesimo giornale alcuni mesi dopo (fino alla lirica Non son mica geloso… sul n. 18 del 1910).

Conseguita la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, che frequentò per due anni (senza mai ottenere la laurea), attratto più dalle lezioni di storia della letteratura di Arturo Graf alla facoltà di lettere. Contemporaneamente, nel 1907, entrò nella redazione della Gazzetta di Torino, diretta da Dante Signorini De Palesi, ove curò la rubrica di cronaca mondana I “sans soucis” a partire dal 14 dicembre (chiamandovi poco dopo Sandro [Alessandro] Camasio) e in cui pubblicò anche recensioni fra il 1909 e il 1910.

Furono anni caratterizzati da numerose amicizie letterarie, agevolate dalla frequentazione degli ambienti universitari, dei movimenti goliardici della Torino début du siècle e del mondo della carta stampata: Oxilia conobbe Salvator Gotta, Nino Berrini, Guido Gozzano, Amalia Guglielminetti e Carlo Chiaves. Ma fu il sodalizio con Camasio a dare i frutti migliori in termini artistici, conducendo alla realizzazione di un’opera teatrale a quattro mani, la commedia in tre atti La zingara, premiata dalla Commissione di lettura della Società degli Autori, che fu rappresentata al teatro Carignano di Torino il 12 novembre 1909 dalla compagnia di Virgilio Talli, e successivamente a Genova e a Milano.

Quelle teatrali non furono le uniche aspirazioni artistiche di questi anni. Dopo le acerbe esperienze poetiche di gioventù, Oxilia aveva continuato a comporre versi e, in una lettera dell’8 febbraio 1909, chiese a Cazzola di fare da tramite con l’editore Spezia per la pubblicazione di una silloge.

Il poeta, che si firmava «angiolo oxilia», vi forniva indicazioni precise riguardo il formato del volume e la collocazione delle liriche, che voleva stampate solo sulla pagina di destra, secondo un modello che sosteneva di avere individuato in una edizione del Canto novo dannunziano. Le sue disposizioni vennero eseguite alla lettera, eccetto per il titolo, che da Versi (come voleva l’autore) fu mutato in Canti brevi (Torino 1909). La raccolta (l’unica personalmente curata dal poeta) comprendeva 61 componimenti senza titolo: Oxilia avrebbe dato all’editore 30 lire per il costo dell’operazione, mentre Spezia avrebbe trattenuto parte del ricavato delle vendite per coprire eventuali spese aggiuntive. L’epigrafe sulla copertina minimizzava sul valore dei versi contenuti nel volumetto, così rinnovellando un topos crepuscolare (quello dell’inutilità o della vergogna di essere poeti) attraverso una citazione da Gor’kij: «Sono cose così vecchie, così rancide, che non vale la pena di parlarne, a che pro?» (Poesie, 1973, p. 33). Ma i motivi cari a quel gruppo torinese di poeti ‘all’ombra di Medusa’ (secondo una felice definizione di Carlo Calcaterra, il quale così indicava Gozzano, Carlo Vallini e Giulio Gianelli che seguivano le lezioni di Graf, autore della raccolta poetica Medusa) sono solo parzialmente recuperati da Oxilia. Nel suo crepuscolarismo (ambito poetico nel quale viene solitamente collocato), se non mancano le «piccole cose» (Piccole cose che m’avete dato), riflessioni sulla vita e sulla morte (La nebbia fascia la città. Le cose), addirittura apostrofi al cuore (la cui retorica ha però poco a che vedere con le tonalità di un Corazzini: O mio cuore, o mio cuore dai fremiti selvaggi), con qualche accento pascoliano qua e là, si intersecano anche esaltazioni di un erotismo sensuale prossimo a quello dannunziano delle Laudi (Amo la tua bocca infantile). Vi si riscontrano, inoltre, meditazioni sulla vanità delle speranze e sul tempo che fugge (Addio, passato, sogni, tenerezza!), quasi a continuare (ma con toni più cupi) quella celebrazione degli anni verdi che si legge nella canzone Il commiato, che Oxilia compose sempre nel 1909 su musica di Giuseppe Blanc, suo compagno di studi presso la facoltà di giurisprudenza. Il successo di questa canzone, nata come inno dei goliardi torinesi (uscì infatti con il titolo Inno dei Laureandi in 150 copie presso le edizioni Gori di Torino), si sarebbe perpetuato fra gli Arditi durante la prima guerra mondiale, e l’inno, con minimi ritocchi, sarebbe stato fatto proprio dal fascismo con il celebre titolo di Giovinezza!.

L’anno successivo Oxilia, che non aveva abbandonato l’attività giornalistica, lasciò la Gazzetta di Torino per approdare al Momento, un quotidiano progressista di indirizzo cattolico fondato nel 1903 (il suo primo articolo vi comparve l’11 settembre 1910).

Il sodalizio letterario fra Oxilia e Camasio, condito di «fugaci avventure amorose» (Cazzola, 1992, p. 445) con attrici del palcoscenico, diede il suo frutto più maturo con la commedia in tre atti Addio giovinezza!, rappresentata la prima volta il 27 marzo 1911 al teatro Manzoni di Milano dalla compagnia Talli-Melato.

Il protagonista, lo squattrinato Mario, venuto dalla provincia per studiare legge, prossimo alla laurea, si ritrova diviso fra l’amore per la candida modista Dorina e l’attrazione per la misteriosa Elena. Sullo sfondo la Torino goliardica degli scioperi studenteschi, organizzati non certo per motivi politici, bensì per ottenere ulteriori sessioni d’esame all’Università. Rappresentativa di un intero milieu, dunque, la vicenda assume tratti gozzaniani (Dorina ricorda la signorina Felicita), ed è soffusa di quella nostalgia per il bel tempo che fu, in questo sviluppando la poetica del Commiato. La pièce apparve in volume nel 1914, con prefazione di Salvator Gotta.

Nel 1912, insieme con Camasio e Nino Berrini, Oxilia pubblicò la «rivista satirica in tre atti e quattro quadri» Cose dell’altro mondo (Roma), rappresentata al politeama Chiarelli di Torino l’8 marzo di quell’anno. Si tratta di una curiosa composizione plurimetrica, che comincia con una satira su D’Annunzio (il primo atto si intitola infatti La vendita della Capponaia) e prosegue con un breve viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso scandito da incontri con alcuni personaggi dell’epoca (come Sem Benelli).

Sempre in quell’anno, inoltre, si manifestò l’interesse di Oxilia per il neonato mezzo cinematografico, all’epoca ancora muto, che condivise con l’amico Camasio. Entrato dapprima come consigliere artistico alla Savoia Film, fu poi aiuto regista di Roberto Danesi per Vampe di gelosia (1912), La falsa strada e Lo scherno feroce (entrambi del 1913). Ancora nel 1913 divenne aiuto regista di Ubaldo Maria del Colle per Giovanna d’Arco e di Oreste Mentasti per Il cadavere vivente. Tutti questi film videro l’interpretazione di Maria Jacobini, che divenne la sua fidanzata. In collaborazione con Camasio, nello stesso anno, diresse la pellicola Addio, giovinezza…!, a partire dalla pièce del 1911, realizzata stavolta dalla Itala Film (che l’anno seguente produsse la celeberrima Cabiria di Giovanni Pastrone) e interpretata da Lydia e Letizia Quaranta e Amerigo Manzini. Da solo, poi, Oxilia diresse In hoc signo vinces, prodotto dalla Savoia nel 1913, che vide ancora l’interpretazione di Jacobini.

Gli altri film diretti da Oxilia furono Il velo d’Iside (Savoia Film, 1913) e Il focolare domestico (ibid., 1914), entrambi con Maria Jacobini, Dillo Lombardi e Alberto Nepoti; L’ammiraglia (Cines, 1914) e La monella (ibid.), interpretati da Dina Galli, Amerigo Guasti, Ignazio Bracci; Veli di giovinezza (ibid.), con Pina Menichelli, Ruggero Ruggeri; Retaggio d’odio (ibid.), con Maria Carmi, Bruto Castellani, Pina Menichelli, Ugo Piperno; Sangue blu (Celio, 1914) e Nella fornace (ivi, 1915), con Francesca Bertini, André Habay, Angelo Gallina; Ananke (ibid.), con Leda Gys, Maria e Diomira Jacobini, Fernando Ribacchi; Papà (Cines, 1915) e Il sottomarino n. 27 (ibid.), entrambi con Ruggero Ruggeri, Pina Menichelli; Odio che ride (ivi, 1916), con Matilde Di Marzio, André Habay, Ruggero Barni.

Di Fior di male (Cines, 1915), diretto da Carmine Gallone, con Lyda Borelli e Augusto Poggioli, Oxilia scrisse soggetto e sceneggiatura (Chiti, 1997). Un posto a parte, infine, occupa Rapsodia satanica, fra i primi esempi di cinema fantastico italiano, uscito nel 1917 e diretto da Oxilia con le musiche di Pietro Mascagni. Tratto da un poema di Fausto Maria Martini, è la storia di Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli), che stipula un patto con Mephisto (Giulio Bazzini) per riavere la perduta giovinezza. Riavutala in cambio di una eterna rinunzia all’amore, Alba viene corteggiata da due fratelli, Sergio e Tristano; respinte con sprezzo le avances del primo, che si uccide per la disperazione, si innamora del secondo, che intende sposare, venendo condannata di nuovo alla vecchiaia, però, per l’infrangimento del patto diabolico.

Il 1913 fu anche l’anno della morte di Camasio, per il quale Oxilia scrisse una commemorazione su La vita cinematografica del 30 maggio.

Trasferitosi a Roma, dove cominciò a lavorare presso la casa cinematografica Società italiana Cines, Oxilia tentò ancora la strada del teatro, questa volta da solo. Ma la commedia La donna e lo specchio del 1914 (pubbl. in Comoedia, 1924, n. 22) fu un solenne fiasco e segnò il definitivo abbandono del palcoscenico. Rituffatosi nell’industria cinematografica, Oxilia lasciò momentaneamente la Cines per la Celio Film.

Allo scoppio della Grande Guerra si arruolò volontario e, dopo l’addestramento, fu nominato sottotenente al 3° reggimento artiglieria. Chiamato dall’Ufficio speciale di propaganda del ministero della Marina, collaborò con il reparto cinematografico, realizzando due documentari tra la fine del 1916 e il 1917 (Dall’Adriatico all’Egeo. Sbarco delle forze italiane in Albania e Dalla ritirata d’Albania alle trincee di Macedonia) e, sempre nel 1917, durante un periodo di licenza, il film L’uomo in frak (per la Cines), con Berta Nelson e Augusto Poggioli. Fu poi a Udine, dove entrò a far parte del comitato del Teatro del soldato assieme a Renato Simoni.

Nell’ultima sua cartolina, datata 7 novembre 1917 e indirizzata a Cazzola, Oxilia scrisse di stare bene, «come può star bene un cane randagio» (Cazzola, 1992, p. 459), e di trovarsi sulla linea di sbarramento, dopo alcune notti insonni, tra fucilate e bombardamenti. Morì il 18 novembre , quando la batteria da lui guidata fu colpita da una granata austriaca alle pendici del monte Tomba. Il suo corpo non fu mai ritrovato.

Insignito di una laurea ad honorem postuma dall’Università di Torino il 27 maggio 1918, nello stesso anno uscì, per i tipi di Alfieri & Lacroix, la raccolta Gli orti (Milano), per interessamento di Renato Simoni che, nella prefazione al volume, specificò tuttavia come circa un terzo del manoscritto originale fosse andato perduto al fronte. La silloge avrebbe dovuto includere almeno dodici componimenti in più: apparve, invece, comprensiva di 42 liriche (alcune delle quali mutile), fra cui Il saluto ai poeti crepuscolari, in cui si ricordavano Corazzini (nelle vesti di cantore della provincia e delle tragedie dei burattini), Gozzano (cantore di divani tarlati e dagherrotipi) e Camasio. Da alcuni considerata il ‘canto del cigno’ della poetica crepuscolare, la lirica è in realtà utile anche per chiarire la posizione di Oxilia: mentre Corazzini e Gozzano sono identificati come laudatores temporis acti, infatti, l’autore si proclama rivolto alle corse vertiginose, dichiarando prossima la fine delle province domenicali, destinate a essere soppiantate dalle scoperte scientifiche e dalle invenzioni (l’età nuova del telegrafo e del cinematografo, di cui parla in Primo intermezzo, II). Tale apertura in chiave futuristica (avvalorata anche dalla presenza dell’automobile in alcuni testi) non impedisce, tuttavia, che la raccolta resti ancorata proprio a una base di crepuscolarismo (come il titolo del resto suggerisce), con movenze che richiamano D’Annunzio paradisiaco (v. Invito a Maria convalescente) o Corazzini del Libro per la sera della domenica (È tardi), senza contare, ovviamente, situazioni, figure e stilemi che rinviano, fra gli altri, a Fausto Maria Martini e soprattutto al Gozzano dei Colloqui. Tuttavia l’altrove esibito catalogo crepuscolare appare in generale assai ridotto negli Orti (Farinelli, 2005, p. 575), dove Oxilia predilige una poetica più eclettica, in cui si intravedono sì Gozzano e i viciniori, ma anche gli stilnovisti e Petrarca, il D’Annunzio delle Laudi e, come si è visto, tracce futuriste.

Opere: Fra le edizioni più recenti si vedano le Poesie, a cura di R. Tessari (Napoli 1973; rist., ibid. 1978 e 1988) e Un tempo una città, a cura di F. Monetti (Torino 1983).

Fonti e Bibl.: S. Lopez, Commemorazione… (tenuta al teatro Rossini la sera del 15 dicembre 1917), Torino 1917; F.M. Martini, In morte di N. O. tenente d’artiglieria caduto sul Monte Tomba il 18 novembre 1917 (letta presso il teatro Argentina di Roma nel novembre 1918); L. Mondo, N. O.: la necessità di attraversare Gozzano, in Id., Natura e storia in Guido Gozzano, Roma 1969, pp. 155 ss.; S. Jacomuzzi, Gli altri crepuscolari: Carlo Chiaves..., in Letteratura italiana contemporanea (Lucarini), I, Roma 1979, pp. 565-567; F. Monetti, Nota bibliografica su N. O., in Studi piemontesi, XI (1982), 1 (marzo), pp. 135-138; P. Cazzola, Lettere inedite di O. e Camasio…, ibid., XX (1992), 2 (novembre), pp. 441-459; R. Chiti, Diz. dei registi del cinema muto italiano, Roma 1997, ad vocem; G. Farinelli, «Perché tu mi dici poeta?». Storia e poesia del movimento crepuscolare, Roma 2004, pp. 561-579.

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