VACCAI, Nicola

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 97 (2020)

VACCAI, Nicola

Jeremy Commons

VACCAI (Vaccaj), Nicola. – Nacque a Tolentino il 15 marzo 1790 e fu battezzato l’indomani, secondogenito di Giuseppe Maria Vaccaj e di Colomba Longhi.

Crebbe a Pesaro, dove il padre, medico itinerante, finalmente si stabilì nel 1797. Stando alla Vita di Nicola Vaccaj stilata dal figlio Giulio (1882, pp. 5-8), il genitore mandò entrambi i figli a studiare a Roma, nel 1802/03 il primogenito Luigi, medicina, nel 1807 Nicola, giurisprudenza. Ma in Nicola l’inclinazione alla musica, coltivata già in Pesaro, ebbe presto il sopravvento: fu dapprima allievo di Giuseppe Jannacconi (dal 1811 maestro di cappella in S. Pietro), indi dell’anziano Giovanni Paisiello a Napoli.

Appunto a Napoli furono eseguite le primizie di Vaccai, in particolare la cantata Andromeda e il primo melodramma, I solitari di Scozia (libretto di Andrea Leone Tottola; teatro Nuovo, Carnevale 1815). Ritornato al Nord, il musicista diede due opere a Venezia, il «melodramma di sentimento» Malvina (Gaetano Rossi; teatro di S. Benedetto, primavera 1816) e Il lupo di Ostenda, ossia L’innocenza salvata dalla colpa (Bartolomeo Merelli; ibid., primavera 1818). Tra il 1821 e il 1823 lavorò a Trieste; nel 1822 per un trimestre fu al servizio di Carolina Bonaparte, vedova di Gioacchino Murat, nel castello di Frohsdorf presso Vienna. Soltanto a trentaquattr’anni un suo melodramma, il dramma buffo Pietro il Grande, ossia Un geloso alla tortura (Merelli; Parma, teatro Ducale, Carnevale 1824), ebbe davvero buon esito. Fu l’inizio di una serie notevole di successi che fecero di lui uno degli operisti più promettenti d’Italia. Spiccano tre opere che ebbero poi ampia e durevole diffusione in Italia e Oltralpe: La pastorella feudataria (Merelli; Torino, Carignano, autunno 1824), Zadig ed Astartea (Tottola; Napoli, S. Carlo, Carnevale 1825) e Giulietta e Romeo (Felice Romani; Milano, Canobbiana, autunno 1825), generalmente considerata il suo capolavoro (ed. facsimile dello spartito a cura di P. Gossett, New York-London 1989).

La straziante sequenza finale dell’opera – la morte di Romeo sulla tomba di Giulietta (atto II, scene 11-13) – ebbe una singolare ventura. Fin dai primi anni Trenta, nelle riprese della «tragedia lirica» I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini – un’opera imbastita in fretta e furia nel 1830 su un rimaneggiamento del libretto di Giulietta e Romeo – alcune acclamate prime donne che impersonavano la parte en travesti di Romeo, e in particolare Maria Malibran (Bologna 1832), vollero rimpiazzare il finale belliniano con quello dell’opera di Vaccai, da alcuni critici reputato superiore. Questa versione mescidata della scena delle tombe nei Capuleti restò in uso per il resto del secolo, e ancora per tutto il Novecento gli spartiti dell’opera di Bellini recarono il finale di Vaccai in appendice (cfr. Toscani, 2004; Poriss, 2009).

Oltre che nelle fonti musicali, nei libretti e nelle cronache, la carriera di Vaccai è ampiamente documentata nell’assiduo carteggio che dal 1817 fino a pochi giorni prima della morte il musicista tenne con l’amico veneziano Girolamo Viezzoli, impiegato governativo e tenore dilettante (mezzo migliaio abbondante di missive; Il carteggio..., 2008, I, pp. 455-1120). Dopo il successo di Giulietta e Romeo Vaccai ebbe una traiettoria artistica piuttosto accidentata, spesso per cause contingenti estranee al merito della sua musica. Bianca di Messina (Lodovico Piossasco de Feys; Torino, teatro Regio, Carnevale 1826) ebbe lì per lì favorevole accoglienza, ma patì l’effetto delle tormentate revisioni inflitte al libretto ed ebbe poi un solo altro allestimento (Madrid 1832). Il melodramma semiserio Il precipizio, o Le fucine di Norvegia (Merelli; Milano, Scala, autunno 1826) fu compromesso dalla malattia di un tenore, dall’imperizia del sostituto e dai numerosi tagli che ne conseguirono. Una rivalutazione almeno parziale procurò il «melodramma romantico» Giovanna d’Arco (Rossi; Venezia, Fenice, Carnevale 1827); senonché, riveduto per una ripresa napoletana nell’agosto del 1828, la ‘prima’ fu funestata da incidenti scenotecnici (cfr. Il carteggio..., 2008, I, p. 733). Il «melodramma tragico» Saladino e Clotilde (Luigi Romanelli; Milano, Scala, Carnevale 1828) naufragò per il disfavore del pubblico nei confronti del tenore, Giovanni David, e per le impuntature della prima donna, Henriette Méric-Lalande: aveva preteso una particina per suo fratello, «che ha una voce dura come un macigno, pronunzia pessima, e non sempre intuona», come il musicista confidò a Viezzoli (ibid., p. 679). D’altro canto la «tragedia lirica» Saul (Romani e Tottola), applaudita a Napoli (S. Carlo, quaresima 1829), fu meno apprezzata nella ripresa autunnale a Milano (la prima donna, Adelaide Comelli, moglie del tenore Giovanni Battista Rubini, «non è gradita al pubblico»; p. 769).

Frattanto Vaccai aveva conquistato vasta fama come insegnante di canto e squisito interprete delle proprie ariette da camera. Non gli mancarono le traversie nella vita privata. Lungamente infatuato di un’allieva, Anna Corradini (in arte Adele o Adelaide Cesári, la prima interprete di Zadig, di Romeo e di Ruggiero in Saladino e Clotilde), capacitatosi infine della di lei indifferenza, nel 1827 si fidanzò con Giulia Puppati (1805-1889), figlia del sindaco di Castelfranco Veneto: sodalizio promettente, se Giulia non si fosse ammalata gravemente, con conseguente rottura di ogni proponimento matrimoniale. Non senza sensi di colpa, l’inquieto musicista abbandonò l’Italia. Nel 1829 andò a Parigi e di lì, due anni dopo, a Londra, dove rimase finché la morte del padre, nel 1834, lo richiamò in patria. Risale a questi anni la stesura del famoso Metodo pratico di canto italiano per camera: pubblicato in proprio a Londra (1834), indi a Parigi (Troupenas) e Milano (Ricordi, 1837), arricchito poi di un’appendice di esercizi e cadenze (London, Boosey, 1837), è rimasto in uso fino ai giorni nostri presso i cantanti del mondo intero (ed. commentata a cura di M. Aspinall, Torino 2000).

In Italia ritornò alla carriera teatrale: aggiunse un nuovo duetto a Giulietta e Romeo per una ripresa scaligera con Malibran nella parte di Romeo (autunno 1835). Avesse avuto successo, l’allestimento avrebbe potuto rinverdire la decennale popolarità di Vaccai, ma ogni speranza andò delusa per i capricci e gli arbìtri della diva ribelle, che a dispetto dell’autore e incurante di ogni pertinenza drammatica «ha voluto introdurvi cose tanto estranee al soggetto ed al carattere da meritarsi la disapprovazione universale» (Vaccai a Viezzoli, in Il carteggio..., 2008, I, p. 888); la ripresa fu cancellata dopo una sola recita. La cosa fu tanto più incresciosa in quanto Malibran era scritturata anche per la ‘prima’, due mesi dopo, di un’opera nuova di Vaccai, Giovanna Gray (Carlo Pepoli; Carnevale 1836). Anche in questo caso il potenziale buon esito fu minato da fattori extra-musicali: la cantante, pur fattasi più giudiziosa, cadde in preda a una grave crisi di nervi («un orgasmo sì forte che le toglieva parte dei suoi mezzi»; p. 896). Una seconda recita decisamente più propizia non preservò l’opera dagli strali della critica, talché ebbe soltanto tre esecuzioni complete più una parziale.

Nel dicembre del 1835 Vaccai fu nominato vicecensore del Conservatorio di Milano: il posto gli assicurò una certa stabilità e sicurezza, non senza periodi di aspettativa per dedicarsi alla composizione e alla concertazione di questa o quell’opera. Promosso a censore nel 1838, restò in carica fino al 1844, conquistando ottima fama come docente, amministratore, promotore di importanti concerti degli allievi (tra l’altro una sinfonia e il Cristo sul monte degli ulivi di Beethoven, lo Stabat mater di Pergolesi, la Creazione e le Sette parole di Haydn, il Messiah di Händel e il Requiem di Mozart). Al momento del rientro in Italia, si era fatto un dovere di riprendere la relazione con Giulia Puppati: riconciliatisi, si sposarono il 29 agosto 1835.

Nessuna delle ultime tre opere di Vaccai incontrò grande fortuna: eppure sono, a ben vedere, tra le sue più ragguardevoli, e meriterebbero di essere riportate in scena. Marco Visconti (Luigi Toccagni, da Tommaso Grossi; Torino, Regio, Carnevale 1838) fu applaudito ma per ragioni ignote non fu più ripreso dopo la prima stagione. Ancor più interessante è La sposa di Messina (Jacopo Cabianca, da Schiller; Venezia, la Fenice, 1839), caduta alla prima recita: il pubblico si sarebbe disgustato per lo svelamento in scena di un cadavere e per il soggetto lugubre, un fratricidio a scena intrecciato a un doppio incesto, sia pur inconsapevole e inconsumato. Per l’ostilità della platea, la prima donna, Carolina Ungher, «perdette la testa» (I carteggi..., 2008, I, p. 217) e nell’ultima scena (che, a giudicare da un’esecuzione in forma di concerto data al festival Rossini di Wildbad nel 2009, sarebbe stata il culmine dell’opera) fu sommersa dalle proteste del pubblico. Quanto a Virginia (Camillo Giuliani; Roma, teatro Apollo, Carnevale 1845), a onta di una compagnia di modesta levatura riscosse un successo strepitoso, reiterato a Pesaro l’anno dopo: ma ormai gli impresari teatrali sgomitavano per accaparrarsi le opere dell’astro nascente, Giuseppe Verdi, a scapito della generazione precedente.

Nel 1844 Vaccai si ritirò a Pesaro. Gli ultimi anni furono turbati da seri dissidi con il fratello. La vita di Luigi era stata funestata da gravi prove: nel 1834 gli era morta la moglie, trentanovenne, per una patologia ereditaria all’epoca non diagnosticabile (probabilmente il morbo di Addison), cui tutti e sette i figli soccombettero, infanti o adolescenti. Accusato da Nicola, non senza qualche fondamento, di aver sperperato degli investimenti comuni, pretese che la casa di famiglia venisse ristrutturata in due appartamenti non comunicanti. Per converso felicissimo fu il matrimonio di Nicola, da cui nacquero tre figli: Giuseppe (1836-1912), poi sindaco di Pesaro, senatore del Regno e apprezzato paesaggista; Amalia (1837-1909); e Giulio (nato nel 1845), autore della ben documentata Vita di Nicola Vaccaj (1882), che attinge a piene mani dal carteggio con Viezzoli.

Morì a Pesaro nella notte tra il 5 e il 6 agosto 1848, di un cancro non diagnosticato. Almeno dal 1841 pativa di disturbi della digestione. Giulia gli sopravvisse più di quarant’anni.

È noto che nell’Italia di primo Ottocento il successo di un melodramma poteva dipendere da circostanze contingenti poco o nulla attinenti al pregio della composizione musicale. L’esito propizio o infausto di una ‘prima’ poteva consacrare o condannare un’opera per sempre. Vaccai, da tutti riconosciuto come ottimo musicista ed eccellente insegnante, è l’esempio tipico del compositore che, dopo le alte promesse degli esordi, vide ripetutamente frustrato il successo delle opere seguenti, vuoi per gli accidenti imprevedibili del teatro, vuoi per il mutare di un gusto cui, alla stregua di tanti altri compositori coevi, non si sentì di aderire.

L’acme del successo, 1824-25, durò troppo poco perché Vaccai conquistasse una durevole preminenza tra gli operisti del momento, cosicché già ai tempi suoi egli venne ricordato più che altro per le scene finali di Giulietta e Romeo e per il Metodo pratico di canto italiano. Ma non è detto che le riscoperte teatrali dei giorni nostri non correggano il giudizio distorto della storia e riconoscano i pregi di talune sue opere. Il riesame delle sue ultime partiture rivela ch’egli seppe ben progredire dall’alternanza ‘recitativo secco / numero chiuso’, tipica ancora di Giulietta e Romeo (salvo le scene finali), verso uno stile assai più duttile ed espressivo, dove i recitativi accompagnati conglobano frasi ariose che sbocciano infine nell’aria o nel pezzo concertato. Nel caso ideale, l’entità di base è data non più dal singolo numero chiuso bensì dall’intera scena, animata e sospinta da un’invenzione melodica coerente, raffinata e ben individuata. Se esordì come un contemporaneo del quasi coetaneo Gioachino Rossini, Vaccai chiuse la carriera come un compositore non meno sensibile e originale del tardo Gaetano Donizetti.

Fonti e Bibl.: G. Vaccaj, Vita di N. V., Bologna 1882; F. Coviello, Catalogo dei manoscritti di N. V. della Biblioteca comunale Filelfica, Tolentino 1985; J. Budden, V., N., in The new Grove dictionary of music and musicians, XXVI, London-New York 2001, pp. 190 s.; C. Cirilli, “Giovanna d’Arco” di Gaetano Rossi e N. V.: genesi e ricezione dell’opera, fonti testuali e musicali, in Fonti musicali italiane, VIII (2003), pp. 87-126; C. Toscani, Bellini e V.: peripezie di un finale, in Vincenzo Bellini nel secondo centenario della nascita, a cura di G. Seminara - A. Tedesco, Firenze 2004, pp. 535-567; Id., V., N., in Die Musik in Geschichte und Gegenwart. Personenteil, XVI, Kassel 2006, coll. 1245-1249; Il carteggio personale di N. V. che si conserva presso la Biblioteca Comunale Filelfica di Tolentino, a cura di J. Commons, I-II e CD-rom, Torino 2008; H. Poriss, Changing the score: arias, prima donnas, and the authority of performance, Oxford 2009, pp. 100-124; A. Roccatagliati, “Giulietta e Romeo” di Romani, tra V. e Bellini, in Shakespeare all’opera. Riscritture e allestimenti di “Romeo e Giulietta”, a cura di M.I. Biggi - M. Girardi, Bari 2018, pp. 57-72.

Si ringrazia Andrea Malnati per l’attenta revisione.

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