RAY, Nicholas

Enciclopedia del Cinema (2004)

Ray, Nicholas

Altiero Scicchitano

Nome d'arte di Raymond Nicholas Kienzle, regista cinematografico statunitense, nato a Galesville (Wisconsin) il 7 agosto 1911 e morto a New York il 16 giugno 1979. La sua filmografia coprì appena quindici anni, ma opere quali Johnny Guitar (1954) e Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata), per il quale ottenne una nomination all'Oscar nel 1956, influenzarono, con suggestioni insieme simboliche ed esistenziali, le generazioni a venire. Poco considerato negli Stati Uniti, divenne invece oggetto di culto tra i futuri registi della Nouvelle vague, che ne apprezzarono il lirismo e le immagini barocche. Lo si può vedere come attore-icona in Der amerikanische Freund (1977; L'amico americano) diretto da Wim Wenders, che lo riprese poi malato e agonizzante in Nick's film ‒ Lightning over water (1980; Nick's movie ‒ Lampi sull'acqua), uscito, con il nome del grande cineasta americano come coregista e co-sceneggiatore, soltanto dopo la sua morte.

Nella seconda metà degli anni Trenta, partecipò all'attività del Theatre of Action, del Group Theatre e del Federal Theatre, compagnie d'avanguardia agit-prop ispirate all'Ottobre teatrale di V.E. Mejerchol′d e ai metodi di K.S. Stanislavski. È un teatro che tenta di liberarsi dalla cornice del palcoscenico, e che è caratterizzato dalla rapidità, dai cambiamenti di tono, dall'improvvisazione. La dinamica, i forti contrasti e l'efficacia del frammento contano più della drammaturgia e della visione d'insieme. Il cinema di R. resterà fino all'ultimo debitore di tale poetica, in particolare nella direzione degli attori. Nel 1940, curò con Alan Lomax la trasmissione radiofonica Back where I come from, agile programma sulla vita quotidiana, fatto di aneddoti, interventi polemici, scenette comiche e canzoni.

Nel 1946, entrò alla RKO per realizzare They live by night (La donna del bandito). Il film fu girato in totale libertà, condizioni ideali che non si sarebbero mai più ripetute. È un noir ambientato durante la Depressione, ma il genere e la ricostruzione sono messi al servizio di una storia d'amore, spostando l'asse del film verso una rivisitazione del mito di Romeo e Giulietta. Osservata con evidente disgusto, la violenza cede il passo al candore di una giovane coppia estranea sia al mondo dei gangster sia a quello della società benpensante. La difficile ricerca di uno spazio ‒ i cui significati reali e metaforici sono racchiusi nell'inglese home ‒ dove poter vivere in armonia con sé stessi e con il mondo sarebbe rimasta al centro della poetica del regista. Nella sua novità, They live by night fu incompreso negli Stati Uniti, dove uscì nell'indifferenza generale solo alla fine del 1949. L'arrivo di Howard Hughes alla RKO obbligò R. ad accettare svogliatamente progetti imposti. Le uniche opere davvero personali di quegli anni alla RKO (che R. abbandonò nel 1953) furono On dangerous ground (1951; Neve rossa), su un poliziotto violento redento dall'innocenza di una fanciulla e dallo scontro con la natura, e The lusty men (1952; Il temerario), disincantato western moderno sul mondo del rodeo. Tuttavia, grazie all'attore-produttore Humphrey Bogart, realizzò due film fuori dal controllo di Hughes: Knock on any door (1949; I bassifondi di San Francisco) e In a lonely place (1950; Il diritto di uccidere o Paura senza perché). Nel primo appare il tema, centrale in R., dello scontro tra generazioni. Il secondo risulta più interessante: ambientato a Hollywood, ritrae uno sceneggiatore (Humphrey Bogart) dagli imprevedibili scatti di violenza che viene sospettato di omicidio e che una vicina di casa tenta di salvare con il suo amore disinteressato. È un cupo melodramma, con punte di lirismo romantico e brusche rotture di tono, dove il mondo del cinema viene descritto con crudeltà raramente eguagliata. Nel 1954, gli fu commissionato un western prodotto dalla Republic Pictures Corporation, uno studio specializzato in produzioni a basso costo. Il film venne girato in condizioni difficili, a causa dei continui capricci di Joan Crawford, che in fase di riprese richiese modifiche della sceneggiatura per valorizzare la sua presenza. R. avrebbe impiegato anni per comprendere il successo europeo di Johnny Guitar, da molti considerato il suo capolavoro. "La Bella e la bestia del western": così sarebbe stato definito da François Truffaut un film che del genere conserva solo i segni esteriori, concentrandosi sui rapporti tra i personaggi e su una storia d'amore tinta d'amarezza. Alcuni hanno parlato di metawestern, altri di archetipo: di certo è un'opera anomala, dove i cowboy sono restii a premere il grilletto, mentre le donne non esitano a impugnare il revolver. R. adopera colori stilizzati, l'immagine confina con l'astrattezza, o con un'idea di quintessenza cromatica, il saloon della protagonista Vienna (Joan Crawford) sembra una caverna, e l'azione è organizzata sul modello della tragedia classica e delle tre unità.

Con Rebel without a cause, R. conobbe il suo unico grande successo di pubblico. Il film è tuttora un mito, anche grazie all'interpretazione di James Dean. Tratto da una storia scritta dallo stesso R., riesce quasi sempre a superare il dato sociologico (la delinquenza tra i giovani provenienti dal ceto medio) per raggiungere una dimensione atemporale, ottenuta grazie all'uso simbolico dei colori e all'estro scenografico, determinante nelle sequenze più celebri: la scogliera della gara automobilistica che si conclude in suicidio; la villa abbandonata, giardino dell'Eden per i tre protagonisti; il planetario del tragico finale. Rebel without a cause avrebbe influenzato durevolmente il cinema statunitense a venire, da Francis Ford Coppola a Terrence Malick. Dopo Run for cover (1955; All'ombra del patibolo), Hot blood (1956; La donna venduta) è un'operazione irrisolta, dove la stilizzazione kitsch accompagna una storia poco verosimile ambientata nel mondo dei gitani. Le intenzioni sono confuse, tra scrupolo antropologico e tentazione del musical. Lo stesso si può dire per The true story of Jesse James (1957; La vera storia di Jess il bandito), western psicologico sul tono della ballata. Assai più compiuto è Bigger than life (1956; Dietro lo specchio), dove l'abuso di cortisone trasforma un padre di famiglia piccolo-borghese in dittatore domestico. L'uso di colori contrastati, l'architettura dinamica degli interni e i repentini scatti di violenza disegnano una visione d'orrore, che il lieto fine non riesce a dissipare: i personaggi di R. hanno finalmente trovato una casa, ma la loro esistenza è un incubo di mediocrità. Una lezione che non avrebbe dimenticato Stanley Kubrick in The shining (1980). Alla Mostra del cinema di Venezia del 1957, Amère victoire, noto anche come Bitter victory (Vittoria amara), provocò sconcerto. Intorno a questa data, R. aveva cominciato a perdere il controllo, anche a causa dell'uso di droghe e alcool. Amère victoire è un film di guerra astratto, che riflette la catastrofe privata del regista e legittima la definizione di "grande film malato" inventata da Truffaut. Ma Hollywood stava entrando in crisi e R. trovava sempre più difficoltà ad accettarne le regole, pur non riuscendo a uscire dal sistema. Nel 1958 fu allontanato dalle riprese e dal montaggio di Wind across the everglades (Il paradiso dei barbari). Mise a segno ancora un colpo da maestro con Party girl (1958; Il dominatore di Chicago), che più di tutti si avvicina al sogno mai realizzato di girare una commedia musicale. Ombre bianche, noto anche come The savage innocents (1960), coproduzione italo-franco-inglese, è uno strano film ambientato interamente al Polo Nord con Anthony Quinn nel ruolo di un eschimese. Come Wind across the everglades, contiene punte di insolita poesia, ma è ormai l'insieme a sfuggire di mano al regista. Paradossalmente, malgrado la commissione di due kolossal, King of kings (1961; Il re dei re) e 55 days at Peking (1963; 55 giorni a Pechino), la sua carriera stava rapidamente declinando e il suo nome iniziava a divenire sinonimo di poca affidabilità. In seguito forse a un infarto, R. abbandonò le riprese del secondo film, che fu terminato da Andrew Marton e Guy Green. Iniziò così un lungo periodo di nomadismo, fatto di progetti non convincenti e di deterioramento fisico (compresa la perdita dell'occhio destro). Nel 1971 insegnò regia all'Harpur College di Binghamton e realizzò insieme agli allievi We can't go home again. Il film si avvale di schermi multipli, utilizza vari supporti, e mette in scena un vecchio regista (interpretato dallo stesso R.) ossessionato dal suicidio e da oscure premonizioni. Work in progress per eccellenza, fino alla morte R. continuò ad aggiungere materiale, a montare e rimontare il suo ultimo film incompiuto, vera e propria tela di Penelope.

Bibliografia

B. Eisenschitz, Roman américain, les vies de Nicholas Ray, Paris 1990.

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