VITELLI, Niccolo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 99 (2020)

VITELLI, Niccolò

Pierluigi Licciardello

– Nacque a Città di Castello nel 1414 (secondo la tradizione) o nel 1411 (secondo la Vita scritta da Antonio Capucci), figlio di Giovanni e di Maddalena di Ugolino dei marchesi di Petriolo (un ramo dei marchesi di Monte Santa Maria Tiberina).

La Vita di Capucci, che si conserva in copia unica in Città del Vaticano, Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 2949, è una fonte di primaria importanza per la biografia di Vitelli, soprattutto per i periodi della giovinezza e degli anni di esilio da Città di Castello. L’opera è costruita sui documenti d’archivio e sui ricordi personali dell’autore, un giurista e uomo politico che fu tra i partigiani dei Vitelli. Fu redatta dopo la morte di Niccolò (6 gennaio 1486), entro la data di copiatura del manoscritto (4 giugno 1492).

La famiglia Vitelli, di origine popolare, si era arricchita con la mercatura e alla fine del Trecento il nonno di Niccolò, Gerozzo, ottenne una posizione di rilievo in città. Morì nel 1398 lasciando due figli, Giovanni e Vitellozzo; alla morte di Giovanni, avvenuta nel 1415, Vitellozzo prese in mano le redini della famiglia e in seguito mandò il nipote Niccolò a studiare ad Arezzo presso l’umanista Carlo Marsuppini.

Seguendo le alterne fortune dello zio, coinvolto nella lotta tra le fazioni cittadine, Niccolò fu più volte esiliato da Città di Castello. Il suo nome compare per la prima volta nella pacificazione tra le parti del 28 gennaio 1428, ma tra l’ottobre di quell’anno e il 1431-32 subì un primo esilio, seguito da un altro tra il 1435 e il 1441. Stavolta fu accolto a Roma da papa Eugenio IV e si mise al suo servizio: nel 1439 fu presente alla resa di Bevagna, tra i conestabili dell’esercito pontificio, nel 1443 circa fu inviato come commissario ad Acquapendente, appena tornata sotto il governo della Chiesa. Rientrato in patria, si sposò il 1° giugno 1442 con Pantasilea di Giovanni Abocatelli; pochi giorni dopo fu costretto di nuovo a lasciare la città e riparò presso il pontefice. Questi, nel giugno del 1444, lo inviò a Città di Castello come suo rappresentante, per mettere ordine negli affari locali, ma senza successo.

I Vitelli furono riaccolti in città nel novembre del 1447 e fino al 1461 Niccolò alternò la residenza a Città di Castello con il servizio in varie città della Toscana e del Patrimonio di S. Pietro, con le cariche di capitano del Popolo, governatore o podestà: a Todi (1446), Firenze (1450), Perugia (primo semestre del 1452), Siena (secondo semestre del 1452), Spoleto e Genova (tra il 1453 e il 1460), Lucca (1461), in data imprecisata a Rieti e Ascoli. In questi anni maturò una notevole esperienza politica, che gli permise di svolgere un ruolo di primo piano nella turbolenta vita della sua città.

Capucci parla, per questi anni, di una sua intensa attività volta al rinnovamento urbanistico e civile di Città di Castello, con la riparazione degli edifici pubblici e privati, l’incremento delle attività commerciali e agricole, la cura della pestilenza (endemica in quegli anni) e il potenziamento dell’istruzione pubblica, con la chiamata all’insegnamento di uno dei migliori maestri in circolazione in Toscana, Guglielmo Gallico (da Bourges). Risultato di questa molteplice attività furono, a detta del biografo, una ritrovata concordia e pace in città. Ma se Niccolò ebbe questi meriti, dovette condividerli con lo zio Vitellozzo, fino alla morte di questi (16 agosto 1462).

Nel settembre del 1452 Vitelli fece parte della commissione incaricata di rivedere gli statuti di Città di Castello, nel 1453 fu ambasciatore a Roma per conto della città, nell’ottobre 1463 aggiornò i registri del catasto comunale e acquistò numerose proprietà terriere nella Massa Trabaria.

Il crescente potere dei Vitelli suscitò rivalità e inimicizie profonde, che portarono a ripetute congiure. Una prima, in data imprecisata (forse nel 1450), fu ordita da Paolo Virili; una seconda fu organizzata nel 1457 da Cencio Fucci e Paolo Girolami; una terza coinvolse i fratelli Annibale e Coriolano Cerboni, un certo Martino, e Amedeo Giustini, dal 1448 senatore di Roma e molto potente in Curia. Quest’ultimo per il momento fu graziato, ma non cessò di tramare contro Niccolò, mettendolo in cattiva luce presso papa Paolo II con l’accusa di volersi impadronire di Città di Castello e sobillando contro di lui Antonio Virili e Giovanni Battista Fucci, già appartenenti alla fazione vitelliana.

Agli inizi di aprile del 1468 il papa, dando credito alle parole di Giustini, riservò a sé la nomina dei magistrati di Città di Castello e vi inviò un nuovo podestà insieme a Lorenzo Giustini, figlio di Amedeo, mentre si diffondeva la voce che un esercito pontificio si stesse dirigendo contro la città; intanto i Fucci si preparavano ad attentare alla vita dei Vitelli. Ma i partigiani di Niccolò li prevennero e il 10 aprile 1468 attaccarono di notte le case dei Fucci e dei Giustini, facendone strage: persero la vita diciassette membri delle due famiglie. Il papa punì la città con l’interdetto, inviò come commissario speciale Lorenzo Zane arcivescovo di Spalato e colpì Niccolò con la scomunica e l’esilio; ma questi riuscì abilmente a giustificarsi e tra il 28 marzo e il 16 aprile 1470 l’interdetto e la scomunica furono ritirati.

Da questo momento Vitelli ebbe mano libera a Città di Castello, con il tacito accordo del pontefice, e per alcuni anni esercitò di fatto la signoria sulla città, pur senza alcun riconoscimento formale: non scomparvero le magistrature cittadine (il podestà, gli otto priori del Popolo, i vari consigli dei Sedici e dei Trentadue) e non si interruppe la serie dei governatori pontifici, ma i consigli furono presidiati dai fautori dei Vitelli.

Questa situazione si protrasse finché il nuovo pontefice, Sisto IV, non decise di intervenire con la forza per allontanare Niccolò dalla città. Nei primi anni del pontificato il papa si era mostrato amichevole con lui e il 17 settembre 1471 aveva confermato gli statuti cittadini e i privilegi che Città di Castello aveva ricevuto dai suoi predecessori; poi però, improvvisamente, nel febbraio del 1474, inviò in Umbria il nuovo cardinale legato, Giuliano Della Rovere, alla testa di un forte esercito, insieme a Giulio da Varano signore di Camerino, Pino Ordelaffi signore di Forlì e Lorenzo Giustini. L’esercito sottomise Spoleto e Todi e mosse alla volta di Città di Castello.

Secondo il Platina (1913-1932, pp. 410 s.) nell’estate del 1473 Vitelli si era rifiutato di partecipare alla riunione indetta a Gubbio dal cardinale legato Pietro Riario, con lo scopo di ricondurre sotto la sovranità della Chiesa le varie città dell’Umbria e delle Marche in mano ai vicari pontifici, che vi avevano instaurato delle signorie personali, e la sua risposta ironica aveva irritato il pontefice. Forse quest’ultimo nutriva anche il proposito di assegnare Città di Castello a suo nipote Giovanni Della Rovere, così come infeudò Imola all’altro nipote Girolamo Riario.

A Città di Castello si decise di resistere e fin dal 23 giugno furono allontanate dalla città le bocche inutili e si apprestarono le difese. Pochi giorni dopo arrivò l’esercito pontificio, forte di quattromila cavalieri e cinquemila fanti, e cominciò l’assedio. Dalla parte di Vitelli si schierarono il duca di Milano e i fiorentini, che inviarono soccorsi per paura che, caduta Città di Castello nelle mani del pontefice, questi potesse prendere di mira la vicina Borgo Sansepolcro (dal 1440 in mano a Firenze). Cominciò un intenso lavoro diplomatico da entrambe le parti per sciogliere e creare nuove alleanze, mentre gli assalti contro la città si infrangevano di fronte alla tenace resistenza degli assediati. Il 28 agosto giunse da Roma Federico da Montefeltro, da poco nominato duca di Urbino, e Vitelli accettò la sua mediazione per scendere a patti. Il 1° settembre lasciò la città nelle mani del governatore pontificio Zane e di Giustini, raggiungendo Roma per discutere con il pontefice le condizioni della resa. Si doveva trovare un accordo soprattutto per le sue proprietà, che sarebbero state espropriate dietro corrispettivo in denaro (fu fatta una stima di 30.000 fiorini). In seguito Niccolò fu confinato con i figli a Castiglion Fiorentino, dove prese la cittadinanza, e si mise al servizio dei fiorentini, ma meditando sempre di rientrare a Città di Castello.

Fece un primo tentativo il 18 ottobre 1475, ma fu respinto e condannato in contumacia, mentre i suoi seguaci in città venivano arrestati o giustiziati; il 31 dicembre 1476 un suo ritratto infamante fu fatto dipingere nella torre del palazzo comunale. Tentò di nuovo in seguito alla congiura dei Pazzi del 26 aprile 1478, quando i fiorentini, ora in guerra aperta contro il papa, lo inviarono contro Città di Castello. Vitelli pose la città sotto assedio, ma non poté vincerne la resistenza, per cui dovette spostare la sua azione in territorio perugino e cortonese: prima si difese nel monastero di Targia, presso Cortona, poi, nel giugno del 1479, partecipò alla battaglia del lago Trasimeno, contribuendo alla vittoria dei fiorentini. Ma nel trattato di pace tra Firenze e il papa del 13 marzo 1480 fu posto tra le condizioni che i Vitelli restassero lontani da Città di Castello. In questo difficile periodo dunque Niccolò visse in esilio con i suoi più fedeli seguaci, al servizio dei fiorentini e di vari signori: nel luglio del 1480 si trovava presso Galeotto Manfredi a Faenza, da dove mosse contro Forlì in aiuto dei figli di Pino Ordelaffi.

L’occasione propizia per il rientro in patria gli fu offerta dallo scoppio della guerra di Ferrara, che vide coinvolte nel 1482 tutte le maggiori potenze italiane. I fiorentini, alleati del duca di Ferrara, inviarono Vitelli verso Città di Castello con cinquemila fanti e millecinquecento cavalieri. Il 19 giugno 1482 si svolsero aspri combattimenti, alla fine dei quali la città aprì le porte a Vitelli e a Costanzo Sforza, mentre resistevano le due rocche in mano ai pontifici, edificate sopra le porte di S. Giacomo e di S. Maria. Queste si arresero il 12 luglio e quella di porta S. Maria fu subito smantellata; con i mattoni che se ne ricavarono fu eretta una nuova chiesa in città, S. Maria Maggiore. Nei mesi seguenti Vitelli completò la riconquista dei castelli del contado e tornò a esercitare la signoria sulla città, con il sostegno dei fiorentini. I rivali dei Vitelli furono esiliati e furono ripristinate le magistrature comunali.

Con gli accordi di Cremona del 2 marzo 1483, che posero fine alle ostilità, il papa pretese che Città di Castello tornasse sotto la Chiesa e che Vitelli fosse allontanato, ma questi rifiutò di ritirarsi e il pontefice lo scomunicò (3 maggio 1483), inviando contro di lui Giordano Orsini e Giustini. I fiorentini, pur aderendo formalmente alle richieste del pontefice, non cessavano di aiutare segretamente Vitelli. Per tutta l’estate e l’autunno seguente il territorio tifernate fu conteso tra le forze dei Vitelli, al comando di Niccolò e dei suoi figli, e i pontifici, con continui scontri e imboscate. Durante un’incursione a Celalba Camillo, figlio di Niccolò, fu preso prigioniero e condotto a Roma a Castel S. Angelo. Questo fatto, insieme al perdurare delle ostilità e al riavvicinamento dei fiorentini al papa, convinsero Niccolò a scendere a patti. Il 3 maggio 1484 a Roma fu concluso un accordo con cui la famiglia Vitelli lasciava Città di Castello al papa e si poneva al suo servizio: Niccolò fu nominato governatore della Campagna e Marittima, poi, all’inizio del 1485, della Sabina.

Ma l’età avanzata e le precarie condizioni di salute convinsero il nuovo pontefice, Innocenzo VIII, a concedergli il rientro in patria. Il 7 settembre 1485 Niccolò si trovò a Città di Castello; agli inizi dell’anno seguente era in fin di vita e il consiglio comunale deliberò di insignirlo del titolo onorifico di pater patriae.

Morì il 6 gennaio 1486 e ai solenni funerali, tenuti il 16 gennaio in S. Domenico, parteciparono le autorità cittadine con un enorme concorso di popolo. In seguito la salma fu traslata nella cappella di famiglia nella chiesa di S. Francesco a Città di Castello.

Niccolò Vitelli lasciò quattro figli maschi, Giovanni (m. 1487), Camillo (1459 circa-1496), Paolo (1461-1499), Vitellozzo (dopo il 1461-1502), tre femmine (Anna, Lisa e Maddalena) e alcuni figli naturali, tra i quali Giulio (1458-1530, vescovo di Città di Castello dal 1499).

Fonti e Bibl.: Città di Castello, Archivio storico comunale, Diplomatico, filza 9, nn. 55, 56, 67; 10, nn. 21, 24, 38; Annales, nn. 42, 52. [Bartholomei] Platynae historici Liber de vita Christi ac omnium pontificum, a cura di G. Gaida, in RIS, III, 1-2, Città di Castello-Bologna 1913-1932, pp. 410-416; Roberti Ursi De obsidione Tiphernatum, a cura di G. Margerini Graziani, ibid., XVII, 3, Bologna 1922, ad ind.; A. Ascani, Due cronache quattrocentesche, Città di Castello 1966, ad ind.; Lettere di Lorenzo de’ Medici, I-VII, Firenze 1977-1998, II, pp. 21-32, 69, 139-144, 475-484, III, pp. 153-155, 169, 333, IV, pp. 385 s., V, pp. 275, 283 s., VI, pp. 179, 294 s., VII, pp. 27, 57, 150, 154, 263, 326, 330, 339 s., 487, 519, 528 s., 533, 545; A. Capucci, Vita di N. V. tifernate, dal ms. Vaticano Latino 2949, a cura di P. Licciardello, Roma 2014.

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