PICCINNI, Niccolò

Enciclopedia Italiana (1935)

PICCINNI, Niccolò

Andrea Della Corte

Musicista, nato a Bari nel 1728, morto a Passy (Parigi) nel 1800. Studiò probabilmente nel conservatorio di S. Onofrio. Maestro a ventisei anni, una protezione aprì le porte dei Fiorentini alle sue Donne dispettose, l'anno stesso dell'uscita dal conservatorio. Il giovane, pur non rinnovando l'opera comica, già riusciva assai piacevole. Ai primi saggi comici seguirono alcuni melodrammi, accolti al San Carlo col favore del pubblico, la stima dei competenti, la soddisfazione del Metastasio. In due anni il P. aveva composto quattro commedie e un melodramma, e già il suo nome risuonava in Italia.

Alla metà del secolo, la commedia musicale appariva stanca della sua futile esistenza, negl'intrighi sempliciotti, nella riapparizione dei medesimi personaggi, quasi maschere convenzionali, ancora lontana dalle tendenze patetiche svolgentisi nella letteratura internazionale, ancora schiva della sensiblerie. Mentre l'opera seria faceva questioni più accademiche che essenziali, la commedia, agile e spregiudicata, poté essere più facilmente penetrata da nuovi spiriti. I quali le vennero non da compositori, incolti quanto "sensibili", ma dal solo scrittore da teatro che si degnasse in quel secolo di "poetare" per la scena comica. Il Goldoni, che già aveva ispirato al Galuppi veneziano un efficace tratteggio di persone comiche, suggerì al meridionale P., vocalmente eloquente, un appassionato canto di nuove anime, squisitamente settecentesche. Con la Cecchina s'iniziava una seconda maniera del Piccinni e una nuova fase dell'opera comica nostrana.

I romanzi sentimentali dell'abate Prévost, del Marivaux, quelli sentimentali e moralistici del Richardson, influirono sulla librettistica goldoniana. Dalla Pamela inglese all'italiana, e da questa alla Cecchina o La buona figliuola, la trama subì più d'una essenziale variante, mentre le persone e i loro sentimenti s'andavano sempre più italianizzando. Sono nella Cecchina tutti gl'ingredienti della consueta commedia, dalle "parti serie", che cantano nello stile manierato dell'opera seria, alla macchietta del soldato tedesco, beone e rude, con la sua stramba parlata barbaresca e i ritmi burbanzosi. Più importa notare che tutte le persone furono psicologicamente approfondite dal compositore e collegate in un'atmosfera particolare. Un che di malinconico garbatamente involge e vela i principali episodî. Servette pettegole, innamorati incostanti, aderiscono con i nobili e col bizzarro tedesco, e realmente vivono attorno alla buona figliola, che, sperduta in Italia dal nobile suo genitore, ammessa in un'aristocratica casa, è insidiata nell'onore, scacciata, mandata alla ventura, beffata, e finalmente riconosciuta e reintegrata nella sua posizione sociale. Con la Cecchina (1760) sembra che una nuova interpretazione dell'anima femminile si riveli; che, mutato il cielo e il paesaggio, un nuovo pathos vibri nelle cantilene e nelle armonie. L'opera nuova rispondeva alle sensibilità nuove e diffuse. Infatti, mentre la moltitudine delle opere comiche napoletane soleva arrestarsi alle porte della città e al più giungeva a Roma, la Cecchina trionfò in tutta Italia, passò le Alpi.

Fra il 1760 e il '70 il P. compose oltre cinquanta fra opere serie e comiche, fra le quali sono da ricordare Le vicende della sorte, La bella verità, Il cavaliere per amore, La contadina bizzarra, Il barone di Torreforte, La molinarella, La notte critica. Nel '74 compose il suo più valido e maturo melodramma, l'Alessandro nelle Indie, nel quale pertanto restò tradizionalista, nel confronto con N. Jommelli e con T. Traetta. E forse per questa sua caratteristica fu chiamato a Parigi, nel '76, dai sostenitori del melodramma metastasiano ed eminentemente melodico e cantabile, capeggiati dall'ambasciatore di Napoli, il Caracciolo. Il P. vi si recò senza sapere quale momento storico si vivesse a Parigi, agitata dagli enciclopedisti, dove i Francesi sostenevano M. Grétry e I. de Mondonville, e anche, poiché era stato ferito l'orgoglio nazionale, la tradizione di G. B. Lulli e J. Ph. Rameau.

In tanta crisi d'idee e di fatti, il P. stentava nello studio della lingua francese, e fra amarezze e nostalgie s'accingeva a musicare i drammi di Quinault e di Marmontel, lontanissimi dal suo spirito. Mentre componeva il Roland, ne aveva fatto ascoltare alcune parti in casa Caracciolo e ottenuto un grande successo. La signora d'Épinay confidava all'abate Galiani le sue preoccupazioni: meglio non far conoscere l'opera prima della rappresentazione, per non destare entusiasmi prematuri e pericolosi. Nel giugno la querelle era ardente. Marmontel si dichiarò pubblicamente in favore del P., che era sostenuto, oltre che dal Caracciolo, dal conte di Creutz, dal principe Belowelsky, da D'Alembert, da Laharpe, da Chastellux, dalla signora d'Houdetot, da altri letterati. Suard e l'abate Arnaud contrattaccavano beffardamente. Il P. contemperò, mescolò maniere e, poiché era musicista istintivo, esperto del teatro, maestro sicuro, anima sensibile, riuscì qua e là, in Roland ('78), nella Didone ('83), a grandi e belle pagine. Ma non conquistò durevolmente le vette. La memoria di lui rimane affidata alla sua interpretazione comica della vita dei suoi tempi.

In quanto alla struttura, l'opera comica del P. consta di una sinfonia, per lo più mediocre nelle idee ed elementare; di un'introduzione, pezzo d'insieme che raramente ha valore drammatico; di arie o buffe (sovente in forma di canzoni, in cui a un lento succede un allegro in tempo dispari), o patetiche (forma di canzone o col da capo o cavatina), o da opera seria, congiunte dal recitativo secco; di due o tre insieme, per lo più nel mezzo dell'atto, di scarsa importanza; di finali - o semplicissimi in un tempo e in forma di aria, o risultanti dalla successione di un vario numero di pezzi, senza collegamento drammatico - o di una ben organizzata serie di episodî scenici, a ciascuno dei quali risponde un motivo, in forma di rondò, sì che lo svolgimento dell'azione venga minuziosamente espresso, sia nella situazione scenica, sia nello stato d'animo dei personaggi. E questa terza specie di finale, la sola veramente drammatica, si riscontra eccellente nella Cecchina.

La strumentazione non ha pregio d'originalità, ma il contributo dell'orchestra è notevole, sia per alcuni tentativi programmatici, sia nella partecipazione alla composizione, sovente intessuta con parità di compiti delle voci umane e di quelle strumentali. Non ricca né novatrice l'armonia, ma capace con esigui tocchi (passaggi dal maggiore al minore) di rappresentare un trapasso sentimentale. La ritmica, senza straordinarie ricerche di adeguatezza al testo, muove opportunamente le melodie, che, pur ritenendo talvolta della canzone e della danza popolaresca, si elevano ad intensa espressione. Il tessuto della composizione è complesso e omogeneo; la sonorità è schiettamente meridionale, piacente e toccante.

Bibl.: P. L. Ginguené, Notice sur la vie et les ouvrages de N. P., Parigi 1801; G. Desnoiresterres, Gluck et P., ivi 1872; H. De Curzon, Les dernières années de P. à Paris, ivi 1890; H. Abert, P. als Buffokomponist, in Peters Jahrbuch, 1913; A. Della Corte, Piccinni, Bari 1928.

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Lingua francese

J. ph. rameau

Opera comica

D'alembert

Melodramma