GATTILUSIO, Niccolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 52 (1999)

GATTILUSIO, Niccolò

Enrico Basso

Secondo di questo nome, figlio terzogenito di Dorino (I) signore di Focea Vecchia e di Lesbo (che i genovesi Gattilusio avevano ricevuto in feudo nel 1355), e di Orietta Doria, nacque probabilmente a Focea Vecchia, sulla costa dell'Asia Minore, dopo il 1420.

A partire dal 1449 cooperò con il fratello maggiore, Domenico, nell'attività di governo esercitata in nome del padre, gravemente malato. Nell'estate 1455, durante l'assenza di Domenico, recatosi a ricevere dal sultano Maometto II l'investitura ufficiale della signoria di Lesbo, il G. esercitò le funzioni di reggente dell'isola; in tale occasione, entrò in urto con l'ammiraglio turco Junus Pasha, al quale rifiutò di consegnare una nave mitilenese che questi aveva inseguito fino all'imboccatura del porto e sulla quale viaggiava la suocera di Domenico. Questo contrasto offrì al sultano il pretesto per procedere all'occupazione di Focea Nuova, dipendente dalla Maona di Chio ma amministrata in appalto da Paride Giustiniani, suocero di Domenico, e quindi, di fronte alle proteste dei Gattilusio, anche di Focea Vecchia, che questi stessi avevano amministrato a partire dal 1402.

Dopo il ritorno di Domenico a Lesbo, nell'autunno 1455, al G. venne affidato il governo dell'isola di Lemno, annessa ai domini della casata nel 1453, ma in questa veste egli diede prova di un carattere così tirannico e prevaricatore che, in coincidenza con la campagna lanciata nell'inverno 1456 da Maometto II contro i possedimenti del ramo dei Gattilusio di Enos, Imbro e Samotracia, gli abitanti dell'isola si ribellarono, invocando un intervento dei Turchi. La spedizione di soccorso inviata da Domenico Gattilusio sotto il comando di Giovanni Fontana e Spinetta Colomboto, con il mandato di cercare di rimediare alla situazione evitando, se possibile, di ricorrere all'uso della forza, venne sopraffatta dal corpo di spedizione turco agli ordini dell'ammiraglio Ismail Pasha, i due comandanti furono catturati e scamparono al patibolo solo grazie all'intervento di Ducas, segretario di Domenico nonché letterato e storico, immediatamente inviato come ambasciatore presso il sultano. Il G. fu quindi costretto a rientrare a Lesbo, mentre il governo di Lemno veniva assunto da Hamza Pasha in nome del sultano Maometto.

Tornato nel castello di Mitilene, l'ambizioso G. iniziò a considerare la possibilità di sottrarre il potere al fratello e, alla fine del 1458, approfittando delle gravi difficoltà che la situazione politico-militare del momento aveva creato a Domenico, lo depose con l'aiuto del cugino Luchino e di altri congiurati, accusandolo di voler consegnare Lesbo ai Turchi e facendolo strangolare in carcere pochi giorni dopo.

Divenuto così signore di Lesbo, il G. intraprese una politica assai più ostile nei confronti dei Turchi di quella seguita dal fratello, probabilmente nel tentativo di legittimarsi agli occhi delle potenze occidentali a dispetto del fratricidio commesso; tuttavia, tale politica, concretizzatasi soprattutto nell'assistenza offerta, in cambio di una compartecipazione nella spartizione dei bottini, alle navi dei pirati catalani e cicladici che infestavano l'Egeo, nonché ai mercanti di schiavi che razziavano le città turche della costa anatolica, non valse a ottenergli significativi aiuti da parte della Cristianità occidentale, mentre contribuì decisivamente ad accrescere sempre più la collera di Maometto II, già profondamente contrariato per l'assassinio di Domenico. I rapporti diplomatici con Genova erano nel frattempo ostacolati gravemente dal rifiuto del G. di restituire la dote della vedova di Domenico, Maria Giustiniani, il cui padre, influente partecipe della Maona di Chio, aveva messo in campo tutto il proprio peso politico per ottenere il rispetto dei diritti della figlia, facendo della questione un aspetto fondamentale dei rapporti fra Genova e Mitilene. Nel tentativo di uscire da queste difficoltà, il G. inviò in Occidente l'arcivescovo di Mitilene, il domenicano Leonardo di Chio, incaricandolo di contattare, oltre al pontefice Pio II, anche Giovanni d'Angiò duca di Calabria, governatore di Genova in nome di Carlo VII di Francia, nonché il duca di Borgogna, Filippo III e lo stesso re di Francia, per ottenere l'invio di una spedizione di soccorso contro un attacco turco, divenuto sempre più probabile dopo la rioccupazione da parte dei Turchi, nel 1459, delle isole di Lemno, Taso e Samotracia, che erano state conquistate poco tempo prima, nel 1456, dalla flotta pontificia guidata dal patriarca di Aquileia, Ludovico Scarampo, e affidate alla custodia del gran maestro dei cavalieri di S. Giovanni.

Leonardo di Chio poté ottenere tuttavia solo impegni verbali da parte delle potenze occidentali, e anche dopo il ritorno al potere in Genova del doge Ludovico Fregoso, marito di una cugina del G., il governo genovese, a causa dei gravissimi problemi finanziari che lo stringevano, pur comprendendo lucidamente le drammatiche conseguenze di un'eventuale caduta di Lesbo poté unicamente, oltre a inviare parole di apprezzamento per la politica antiturca del G. e di incoraggiamento alla resistenza contro la minaccia del sultano, confermare le disposizioni già adottate nel 1455-57 per la difesa di Mitilene e garantire un intervento per favorire un riavvicinamento fra il G. e la Maona di Chio, la sola forse in grado di offrirgli un aiuto effettivo.

Il suo persistente rifiuto di accogliere le richieste di Paride Giustiniani rese tuttavia vano l'intervento del doge che, ancora il 28 apr. 1462, inviò un appello alla Maona perché, in nome del comune interesse e della fede cristiana, intervenisse in aiuto del G. in caso di attacco, qualora anche questi avesse accettato però di accollarsi la sua parte degli oneri della difesa. Nel frattempo, Maometto aveva maturato la propria decisione e il 1° sett. 1462 la flotta ottomana comparve davanti a Mitilene, mentre l'esercito, guidato personalmente dal sultano, si schierava nella piana di Troia; avendo rifiutato l'ultimatum presentatogli da Mahmud Pasha, che gli imponeva di consegnare l'isola, il G. si preparò alla difesa e inviò una richiesta d'aiuto all'ammiraglio veneziano Vettore Cappello, la cui flotta, superiore per forza a quella turca, incrociava in quel momento fra Chio e Mitilene. Il mancato intervento dell'ammiraglio, frenato dai tassativi ordini impartitigli dal Senato veneto, lasciò tuttavia il G. solo di fronte ai Turchi. La cittadella di Mitilene, difesa da 5000 soldati locali, 70 cavalieri di Rodi e 110 mercenari catalani, resistette eroicamente per due settimane all'assedio finché, piegati dal micidiale bombardamento dell'artiglieria turca e demoralizzati per la caduta del castello inferiore, il Melanudion, i difensori offrirono la resa in cambio della garanzia per le loro vite e i loro beni. Il G., dopo aver consegnato le chiavi di Mitilene al sultano e ordinato ai comandanti delle altre fortezze di aprire le porte ai Turchi, venne quindi portato prigioniero a Costantinopoli insieme al cugino Luchino e ad altre 10.000 persone. Nel tentativo di sfuggire all'ira di Maometto, il G. e Luchino accettarono di convertirsi all'Islam e vennero per questo rimessi in libertà, ma la sua precedente condotta, e in particolare il rifugio da lui offerto a suo tempo a Lesbo a uno dei favoriti del sultano fuggito da Costantinopoli e convertitosi al cristianesimo, non fu perdonata dal sospettoso sovrano, che poco dopo li fece nuovamente arrestare, incarcerare e quindi strangolare con lo stesso sistema della corda d'arco che essi avevano utilizzato nel 1458 per assassinare Domenico Gattilusio.

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