NICCOLÒ della Stella

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICCOLO della Stella

Claudio Regni

NICCOLÒ della Stella (Nicolaus de Fortebracciis). – Nacque presumibilmente intorno agli ultimi anni del Trecento da Stella di Oddo, sorella del famoso condottiero Braccio Fortebracci da Montone, e da un ser Jacopo, quasi sicuramente un nobile di S. Angelo in Vado. Preferì chiamarsi Niccolò della Stella per onorare col nome della madre lo zio.

La letteratura che lo riguarda è abbastanza vasta, essendo egli venuto in contatto, per la sua professione e per una certa fama acquisita durante il suo tempo, con molti comuni dell’Umbria, Firenze, Roma e altri grossi centri. Lo storico perugino Ariodante Fabretti scrisse la sua biografia nel 1843 e vari studiosi di cose umbre hanno notato la sua significativa presenza nel panorama politico-militare del tempo.

Nel 1424 venne fatto prigioniero in seguito alla sconfitta dell’Aquila, grazie alla quale papa Martino V poté riprendere il possesso delle terre della Chiesa prima occupate da Braccio Fortebracci, che nella battaglia trovò la morte.

I perugini, che fino ad allora erano stati sotto la sua signoria, dopo i primi momenti di sbandamento e incertezza offrirono il dominio della città a Oddo Fortebracci, figlio naturale di Braccio, che però di fronte alle truppe pontificie che avanzavano minacciosamente rinunciò spontaneamente alla signoria, favorendo così il partito di coloro che volevano tornare sotto l’alto dominio del pontefice. Ciò indusse Martino V a non calcare troppo la mano nei confronti di Perugia e della famiglia Fortebracci, alla quale anzi lasciò la piccola signoria di Montone.

Liberato, Niccolò si recò a Otricoli, dove dimorò per qualche tempo, mentre Stella governava Montone in vece sua e del nipote Carlo. Nel 1428 si trovava di nuovo nel castello umbro e la sua non fu sicuramente una presenza tranquilla e docile al dominio della Chiesa tanto che agli inizi del gennaio 1429 i priori di Perugia gli inviarono ambasciatori che lo persuadessero a fare atto di sottomissione e obbedienza incondizionata al pontefice. Ma la piccola signoria non corrispondeva alle aspirazioni del giovane che, dopo aver appreso l’arte della guerra dallo zio, appena aveva potuto aveva messo insieme un piccolo esercito mercenario per agire per conto proprio.

A lui si rivolsero verso la fine del 1428 i fiorentini, per i quali aveva già militato nel 1426 contro Milano, per chiederne i servizi contro la ribelle Volterra. Da Fucecchio, dove stanziava con le sue truppe, Niccolò accettò subito l’incarico. Dopo aver contribuito a domare la ribellione, nel 1429 cominciò a pensare a una sua signoria a Città di Castello, i cui abitanti erano stati sudditi di Braccio. I priori di Perugia, su espressa richiesta del governatore pontificio che si trovava nella città, gli mandarono ambasciatori, avvertendolo che molestare il Comune tifernate sarebbe stato come molestare lo stesso Comune perugino, essendo i due alleati e sudditi della Chiesa. Forse per rispetto verso la propria patria, quasi sicuramente perché non ancora in grado di gettarsi in una simile impresa, Niccolò cambiò oggetto delle sue intenzioni e, istigato dai fiorentini, iniziò a devastare il territorio di Lucca, signoria di Paolo Guinigi. Presto l’esito favorevole delle sue scorrerie indusse Firenze a partecipare apertamente alle operazioni. Le alterne vicende di questa guerra, in cui intervenne anche Filippo Maria Visconti, duca di Milano, che aveva ripreso la politica espansionistica verso l’Italia centrale già inaugurata alla fine del Trecento da Giangaleazzo Visconti e fin da allora aveva trovato il più grosso ostacolo in Firenze, consigliarono a un certo momento i fiorentini di porre al comando supremo dell’esercito Guidantonio da Montefeltro, duca di Urbino. Nel corso della guerra, Niccolò si distinse non solo per il valore, ma anche per l’accortezza e la capacità con cui affrontò l’esercito nemico capitanato da due altri famosi condottieri del tempo: Niccolò Piccinino e Francesco Sforza. Tuttavia, posposto al Montefeltro e affiancato ad altri capitani, nel giugno 1431 tornò a Montone, depredando i territori che attraversava e rinnovando inutilmente il suo tentativo contro Città di Castello.

Da una riformanza del Collegio dei priori di Perugia del luglio 1431 si apprende che essi mandarono a Niccolò un ambasciatore chiedendo di liberare subito un messo che il governatore della città tifernate aveva inviato con alcune lettere al tesoriere della Camera apostolica in Perugia e che il condottiero aveva fatto prigioniero durante la sua devastazione di Umbertide, località sottoposta al Comune perugino.

A farlo desistere dalla sua opera rovinosa intervenne papa Eugenio IV, succeduto a Martino V, il quale lo creò capitano della S. Chiesa per recuperare le terre del Patrimonio e gli concesse il vicariato di Montone. Niccolò si affrettò a darne notizia ai priori perugini, tramite una lettera nella quale comunicava di aver ricevuto la bolla pontificia con la nomina a capitano generale della S. Chiesa con 500 lance, 500 fanti e 20 balestrieri a cavallo ed esortandoli a gioire di questo fatto perché in tal modo avrebbe potuto essere utile oltre che a se stesso anche al Comune di Perugia.

Approfittando della congiuntura favorevole, chiese e ottenne dal papa il permesso di riportare in patria le ossa di Braccio, che giacevano in un luogo sconsacrato fuori delle mura di Roma. Per rendere i dovuti onori ai resti del grande capitano vennero stanziati dai priori perugini 1000 fiorini.

Durante la sua opera di riconquista tentò nuovamente di dirigersi contro Città di Castello, ma anche questa volta non riuscì perché fu inviato dal pontefice a domare una rivolta a Vetralla, territorio del Patrimonio, e a svolgere un’intensa attività bellica nell’Umbria meridionale, dove si erano accesi numerosi focolai di ribellione. Nel 1432 la riuscita delle operazioni fu premiata da Eugenio IV con la nomina di Niccolò a signore di Borgo S. Sepolcro, che subito s’affrettò a fortificare e dove mandò come suo luogotenente Ruggero d’Antognolla. La strada verso Città di Castello era aperta, ma avrebbe dovuto molto aspettare prima di potersene impadronire se non lo avesse favorito un evento inaspettato: le molestie rivolte dal podestà del Comune a una nobildonna tifernate di cui si era follemente invaghito provocarono la reazione violenta dei parenti alla quale si aggiunse quella del popolo, che cacciò i rappresentanti del duca di Urbino e alzò le insegne della Chiesa. Contemporaneamente a gran voce si invocò il nome di Niccolò della Stella e il 21 febbraio 1433 gli ambasciatori del Comune si recarono da lui per consegnargli la città. L’agognata Signoria era stata raggiunta, ma la cosa non piacque troppo a papa Eugenio contro il quale Niccolò aveva già maturato motivi di discordia per via di compensi pattuiti e non corrisposti.

In una lettera del 28 gennaio 1433 ai priori di Perugia, il condottiero montonese si lamentava di essere creditore nei confronti della Camera apostolica di circa 44.000 denari da distribuire ai suoi soldati, mentre egli doveva avere per proprio stipendio, fino ad agosto, 6640 ducati; dal pontefice aveva ottenuto solamente la promessa della rocca di Vetralla. Chiese pertanto il loro aiuto e consiglio in tale vertenza.

Tuttavia i dissidi tra Niccolò e il papa vennero ben presto sovrastati da eventi più grandi. Filippo Maria Visconti, che portava avanti la sua politica espansionistica nei territori sottoposti al potere della Chiesa e aveva incaricato Francesco Sforza di invaderli, invitò Niccolò a unirsi a lui nella lotta contro il papa. Questi, nello stesso periodo (1433), era venuto in contrasto con i cardinali riuniti in concilio a Basilea e Niccolò, col pretesto di essere stato eletto capitano generale dell’esercito del concilio, trovò la giustificazione del suo comportamento bellicoso nei confronti del pontefice. Si diresse quindi risolutamente verso Roma sottomettendo i castelli che man mano incontrava sul suo cammino. Visconti fece venire nello Stato della Chiesa anche Niccolò Piccinino per combattere lo Sforza che nel frattempo Eugenio IV era riuscito a far passare dalla sua parte concedendogli la Marca d’Ancona. Piccinino si alleò subito con il condottiero umbro per conquistare Roma che intanto si era ribellata al pontefice, costringendolo nel maggio del 1434 a fuggire e a riparare in Firenze. Approfittando anche del fatto che lo Sforza aveva chiesto una tregua perché malato, Niccolò marciò risolutamente verso Roma, mentre i romani gli inviavano il gonfalone della città per testimoniargli la loro volontà di eleggerlo capitano generale.

Successivamente tornò in Umbria e nel settembre 1434 visitò Assisi che già nell’agosto 1433 si era ribellata al dominio della Chiesa e gli si era data. Alla fine dell’ottobre 1434 sposò Novella, figlia del conte di Poppi.

Anche Perugia volle inviare il suo dono di nozze agli sposi, ma le casse del Comune erano vuote e la prima somma stanziata dai priori risultò irrisoria rispetto alla intenzione di onorare adeguatamente Niccolò. Così in una seduta successiva, i priori deliberarono di elevare la cifra a 500 fiorini da reperire a costo di chiederli a Firenze; per l’occasione imposero pure un prestito forzoso al contado.

I festeggiamenti e il riposo non durarono a lungo perché Niccolò dovette muovere contro Francesco Sforza che per ordine di papa Eugenio stazionava con le sue truppe nel territorio umbro, portando devastazioni e minacce. Il gioco delle alleanze, i disegni politici di coloro che assoldavano gli eserciti mercenari e l’insanabile rivalità tra bracceschi e sforzeschi ponevano ora l’uno contro l’altro i due capitani. Le scaramucce che si verificarono, ora di piccole dimensioni, ora più violente, furono pagate soprattutto dagli abitanti dei luoghi che vedevano le scorrerie dei due eserciti, feroci soprattutto nelle zone di confine con le Marche, dove gli Sforza avevano i loro possedimenti e i loro rifornimenti. Nel corso di uno scontro presso Montefalco Niccolò riuscì a prendere prigioniero Leone Sforza, fratello di Francesco.

Tuttavia il 23 agosto 1435 in un’ennesima battaglia presso Serravalle o Colfiorito (le fonti sono incerte), le truppe braccesche ebbero la peggio e lo stesso Niccolò, nel tentativo di fermare i suoi, cadde colpito mortalmente.

La tradizione vuole che egli, come aveva fatto in vita, così nel momento della morte cercasse di emulare Braccio. Non volle infatti rispondere alle parole di conforto che gli avversari gli rivolgevano, non volle nemmeno guardarli e dopo due ore spirò.

Con la sua morte i territori dei quali era diventato signore (Assisi, Montone, Città di Castello, Montefalco, Col di Mancio) tornarono sotto il dominio della Chiesa, tranne Montone ripresa dal duca di Urbino. A Perugia la sua scomparsa non portò alcuna conseguenza, se non il fatto che era sparito dalla scena politica e soprattutto militare un pericoloso e scomodo vicino, diventato famoso oltre che per il valore, per la crudeltà, talvolta gratuita, con cui portava avanti le sue azioni di guerra. Pur nel suo caratteristico spirito di autonomia rispetto alla politica della Chiesa, il Comune perugino era fondamentalmente un fedele suddito del pontefice, ma la presenza irrequieta, talvolta minacciosa, di Niccolò della Stella non aveva permesso di prendere una posizione decisa nei suoi confronti. Del resto Niccolò, pur manifestando a parole la sua devozione alla madrepatria, non era certamente tipo da perdere di vista i propri interessi e più volte i priori avevano dovuto inviargli oratori per pregarlo di non molestare più i territori sottoposti a Perugia o di rimandare in libertà gli ambasciatori che la città inviava al pontefice o ad altro Comune. Quando poi Niccolò giunse al culmine della sua potenza, le lettere che i priori gli inviavano risultano veri e propri rendiconti della situazione politica e militare dei territori sui quali essi o Fortebracci avevano delle mire. Dal canto suo, Niccolò, specialmente nei rapporti con Eugenio IV, cercò la mediazione dei perugini che gliela concessero, così come la concessero al duca di Urbino o allo Sforza nei rapporti con il condottiero montonese. Ciò non impedì ai priori di negare spesso gli aiuti, soprattutto alimentari, che Niccolò chiedeva, perché il pontefice li aveva proibiti, mentre altre volte le sue richieste vennero soddisfatte.

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