NICCOLÒ dell’Arca

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICCOLO dell'Arca

Paolo Parmiggiani

NICCOLÒ dell’Arca. – Di famiglia dalmata, verosimilmente nacque tra il 1435 e il 1440 e visse i suoi primi anni tra Dalmazia e Puglia. Dai documenti e dalle cronache è variamente attestato come «Nicolò d’Antonio de Puia», «Nicolaum Barrensem», «Nicolaus ex Dalmatie», «Nicolò Schiavo», «Nicolò de Raguxa» (in Gnudi, 1942, pp. 59-71).

Le fonti ne tramandano l’immagine come di uomo bizzarro, ostinato, di costumi rudi, mal disposto ad avere allievi: «Nullum discipulum facere voluit, neque aliquem docere. Fantasticus erat et barbarus moribus; adeo agrestis erat, ut omnes a se abiceret; necessariis plerumque indigebat; caput durum habens, consilio etiam amicorum non acquiescebat» (Borselli,Cronica…, ad annum 1494). Allo stesso tempo ne esaltano le prodigiose capacità scultoree: «fe’ mosche che pareano vive, e altri animaliti tute chose mirabele» (dalla Tuata [1494], 2005), «fece anco una gabbia con un augelletto dentro di grandezza quanto è una oncia di piede, et molti altri simili capricci» (in Ghirardacci [ante 1598], 1933, p. 285).

La mancanza di notizie per i primi due decenni di vita è alla base del difficile inquadramento dello stile scultoreo di Niccolò, che riassume diversi indirizzi dell’arte quattrocentesca: borgognone-partenopeo, emiliano-fiorentino, dalmata-veneto. Erroneamente ricondotto da Giorgio Vasari alla scuola di Jacopo della Quercia (Vasari [1550 e 1568]; Venturi, 1908), è stato spesso definito dalla critica artista di formazione borgognona, sulla base di un presunto soggiorno napoletano nei cantieri di Castel Nuovo, a stretto contatto con la figura di Guillermo Segrera (De Salas, 1967, p. 91) e di un francese, grazie al quale avrebbe potuto conoscere le opere di Claus Sluter (Venturi, 1908; Gnudi, 1942). È stato anche riconosciuto un influsso della scultura fiorentina, o attraverso le opere padovane di Donatello (Beck, 1965, pp. 337 s.) o per contatto con gli autori fiorentini attivi nella Bologna bentivolesca (Belli d’Elia, 1964). Appare fondato un periodo di apprendistato con l’architetto-scultore dalmata Giorgio di Matteo, detto Giorgio da Sebenico, che in Italia operò a Venezia e ad Ancona assimilando le componenti formali del Rinascimento veneto e centroitaliano che con evidenza si ritrovano nei lavori di Niccolò (Supino, 1910, pp. 131 s.; Gnudi, 1972, pp. 21-36).

Riconducibili alla primissima attività dello scultore, databile al 1460-61 a Bologna, in coincidenza con i lavori sovrintesi dagli impresari lombardi Albertino Rusconi da Mantova e Domenico d’Antonio da Milano (Grandi, 1984, pp. 49-57) che in quegli anni dirigevano le maestranze attive ai finestroni della basilica di S. Petronio, sono cinque formelle lapidee a rilievo apposte sul lato orientale della chiesa, detto del Pavaglione; l’attività di Niccolò nell’edificio per quel biennio è suggerita da un documento del 5 aprile 1462, attestante l’affitto pregresso di una bottega in S. Petronio (Beck, 1965; Grandi, 1984, pp. 54-57). Le formelle, tutte ascrivibili stilisticamente a Niccolò (sebbene di qualità incostante), raffigurano S. Caterina da Siena (VII finestrone), S. Domenico (VIII finestrone), una Sibilla (IX finestrone) e due Profeti (VII e IX finestrone).

Se dal 1462 Niccolò è documentato con certezza nella città emiliana (dove rimase per tutta la vita), il suo primo lavoro sicuro, firmato «Opus Nicolai de Apulia», è il celebre Compianto su Cristo morto, gruppo scultoreo di terracotta composto da sette statue (Cristo morto attorniato da Nicodemo, Salomè, la Madonna, S. Giovanni, Maria di Cleofa e Maria Maddalena), oggi situato in un ambiente alla sinistra della cappella Maggiore di S. Maria della Vita a Bologna. Niccolò lo eseguì in due botteghe presso la Fabbrica della basilica di S. Petronio: in quella che all’aprile 1462 risulta a lui locata già da qualche tempo, e in una seconda affittata a partire dal 1463 (Beck, 1965). Il gruppo gli fu saldato l’8 aprile 1463 (Agostini, 1985, pp. 275 s.). Nei documenti del 1464, riguardanti la concessione di indulgenza decretata da dieci cardinali per tutti i fedeli che nelle feste di Natale, Pasqua, Pentecoste e del beato Raniero avessero visitato e fatto offerte alla chiesa di S. Maria della Vita, il Compianto è detto «Commemoratio Sepulchri Dominici», ed è descritto «cum figuris et ymaginibus pulcherrimis» (in Fanti, 1989). Le offerte sarebbero dovute servire per il mantenimento della «macchina» del Compianto: «dalle suppellettili e dai sacrificali necessari alla celebrazione della messa, alla cera, ai lumi, ai fiori, fino alla pulizia ordinaria, alle eventuali riparazioni straordinarie e alle spese per l’officiatura» (ibid., pp. 59 s.). La collocazione originaria era «acanto la porta che va nelle Pescarie e lì stete sin all’anno MDLXXXVI nel qual anno fu remosso» (in Supino, 1910, p. 205). Dal 1586 il Compianto fu oggetto di vari spostamenti, difficilmente ricostruibili. La disposizione delle sette figure nel corso del tempo ha subito modifiche che la critica ha cercato di ricostruire (Agostini, 1985). La cromia originaria è andata perduta e quanto oggi rimane è il risultato delle travagliate vicende subite e delle operazioni di restauro effettuate nei secoli scorsi.

Il Cristo giace su un cataletto, col capo posato su un cuscino recante la firma dello scultore in lettere capitali romane. Sull’esile corpo risaltano le piaghe delle mani incrociate sul grembo, dei piedi e del costato. Nicodemo, genuflesso, in abbigliamento rinascimentale, esibisce gli strumenti della deposizione. Seguendo l’iconografia tradizionale, le figure femminili sono velate. La Madonna piange col corpo ripiegato e le mani giunte, Salomè contempla in lacrime la salma, la Maddalenae Maria di Cleofa si avventano sulla scena con atti concitati che muovono le vesti. S. Giovanni è atteggiato a un dolore contenuto, col gesto di ascendenza classica della mano sul viso.

Il Compianto è un’opera di primaria importanza per gli sviluppi del genere in Emilia-Romagna. Il dinamismo e la forza espressiva delle figure hanno strettamente dialogato con la scuola pittorica locale, soprattutto con quella ferrarese. Molto discussa è stata la cronologia dell’opera, soprattutto dopo la monografia dedicata allo scultore da Cesare Gnudi (1942), il quale avanzò l’ipotesi – oggi caduta – di datare il Compianto all’ultimo periodo di attività dello scultore, ossia a partire dalla metà degli anni Ottanta, facendolo in tal modo dipendere dalla cultura emiliana di matrice ferrarese di pittori come Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti o del plasticatore modenese Guido Mazzoni. Fondamentale nel ragionamento dello studioso, ma in ultimo poco probante, era il far discendere le figure più animate del Compianto dalle analoghe figure che i pittori ferraresi dipinsero nel polittico Griffoni in S. Petronio (1472-73) e nella cappella Garganelli nella chiesa di S. Pietro a Bologna (1477-90).

Tra 1463 e 1469, Niccolò tenne ancora bottega presso S. Petronio, dov’è documentato come maestro dedito alla lavorazione «de fighure de preda e de terra», senza alcuna specificazione di opere (Gnudi, 1972, pp. 44 s.). Il 6 marzo 1469 concesse un prestito di 7 ducati d’oro e 5 soldi a Matteo d’Andrea Leonzio di Rovegno d’Istria, versando la somma allo scultore Marsilio d’Antonio Frangipane, creditore di Matteo, il quale avrebbe dovuto sdebitarsi facendo il garzone per Niccolò; l’accordo non ebbe gli sviluppi concordati e Niccolò intentò causa per la restituzione del denaro (ibid., p. 59).

Nel 1469 gli fu commissionato l’altro suo lavoro più celebrato, il fastoso coperchio marmoreo dell’Arca di S. Domenico (il cui sarcofago è opera del 1264-67 di Nicola Pisano e aiuti) in S. Domenico a Bologna, opera da cui lo scultore derivò, già in vita, il proprio appellativo (in un documento del 14 agosto 1481, relativo al battesimo del figlio Cesare, lo scultore è detto «Magistri Nicolai de Arca»; in Gnudi, 1942, p. 63). Il 9 luglio 1469 i padri domenicani individuarono in Niccolò lo scultore adatto a realizzare l’opera e il 20 luglio dello stesso anno fu stipulata la convenzione per l’affidamento dell’incarico. Al contratto presero parte il governatore di Bologna Giovanni Battista Savelli, gli Anziani, i 16 Riformatori della città e lo scultore, che presentò alla commissione il modello preparatorio delle parti architettoniche e decorative. Oltre che pulire e restaurare le parti lavorate dalla bottega di Nicola Pisano, Niccolò prese l’impegno di scegliere personalmente il marmo a Carrara e di eseguire in due anni e mezzo il coperchio completo di 21 statue (i cui singoli modelli preparatori di creta dovevano essere approvati dal governatore e dagli ufficiali delegati), oltre a un gradino figurato con storie dalla vita di S. Domenico. Pur mantenendo le botteghe in S. Petronio fino al 1472-73, ricevette uno spazio per lavorare all’interno del convento di S. Domenico.

Il dettagliatissimo contratto di commissione così stabiliva: «promisit prefatus Magister Nicolaus prius facere et dictis offitialibus ostendere modellum terreum omnium figurarum […] in dicto laborerio facere et ponere figuras sive imagines viginti unam integras et de integro relevo, comprehendendo in dictis viginti una figuris figuras seu imagines duorum angelorum qui poni debent super infrascripto scabello marmoreo dicti laborerii» (Archivio di Stato di Bologna, Partiti, 1469, n. 153; in Gnudi, 1942, p. 60).

Il 16 gennaio 1470, in piena lavorazione dell’Arca, lo scultore rivolse una petizione agli Anziani per ottenere il condono, che gli fu accordato, delle tasse imposte dalla Società delle quattro Arti (di cui non era membro) per il tempo necessario alla conclusione dell’opera. La lavorazione del coperchio si protrasse più del previsto e il 16 luglio 1473, con un anno e mezzo di ritardo, fu posto in opera incompiuto. Il gruppo di 21 sculture e la predella furono portati a compimento solamente con l’intervento del giovane Michelangelo Buonarroti, di Alfonso Lombardi e di Girolamo Cortellini (il Cristo risorto previsto dal progetto è la sola figura a non essere mai stata realizzata). Oltre agli apparati strutturali e ornamentali del registro superiore, opera di Niccolò sono 16 delle 20 figure effettivamente realizzate: Dio Padre, due Putti reggi festoni, Quattro Evangelisti (S. Matteo, S. Luca, S. Marco, S. Giovanni), Cristo in pietà tra due angeli, S. Vitale, S. Agricola, S. Floriano, S. Domenico, S. Francesco e un Angelo portacandelabro (in Bonora, 1875, pp. 23 s., si ricorda l’esistenza di un modello preparatorio, oggi perduto, di detto angelo presso il Museo Bianconi di Bologna); a Michelangelo spettano un secondo Angelo portacandela e le figure di S. Procolo e S. Petronio (1494-95), a Lombardi la predella con le Storie di s. Domenico (1532), a Cortellini il S. Giovanni Battista (1539). Le figure di S. Procolo e di S. Giovanni Battista sostituirono le figure di S. Tommaso d’Aquino e di S. Vincenzo previste dal progetto iniziale. Secondo le fonti il S. Petronio non fu eseguito interamente da Michelangelo, essendo già stato avviato da Niccolò. Questa informazione ha fatto pensare che Niccolò avesse rimesso mano all’opera negli ultimi anni di vita (Gnudi, 1957).

L’impianto del coperchio è di tipo piramidale: la parte inferiore è costituita da una copertura a padiglione embricata, su cui è installato un podio reggente quattro ampie volute convergenti, al centro delle quali s’innesta un fusto ornato. Lo spazio embricato è scandito da otto nastri terminanti a mo’ di cartigli sui quali si reggono le otto figure di santi. Il podio è ornato con un fregio di cherubini vivacemente animati. Sul podio, alla base delle volute, si trova il gruppo del Cristo in Pietà tra due angeli. Alle estremità delle quattro volute sono inserite decorazioni a melagrana, che sostengono i Quattro evangelisti nel registro inferiore e due Putti reggifestone nel superiore. Addossati al profilo delle volute sono quattro coppie di delfini, orientati in direzioni opposte. Sul fusto riccamente modulato, Dio Padre si erge su una sfera. La struttura dell’arca appare ispirata a modelli veneziani (per esempio, l’arco Foscari di palazzo ducale a Venezia), come le figure dei Quattro evangelisti, rappresentati negli abiti orientali comuni nella Venezia del tempo e puntualmente raffigurati nei lavori degli artisti attivi in città, quali Giovanni Bellini e l’emiliano Marco Zoppo. La stessa figura di Cristo in pietà dell’arca pare riecheggiare analoghi modelli veneti (Belli d’Elia, 2004, p. 100). Gli apparati ornamentali e il trattamento delle superfici scolpite sono più improntati alla moda fiorentina della seconda metà del Quattrocento, messa a punto da scultori come Desiderio da Settignano (l’embricatura del coperchio e i piumaggi delle ali dell’Angelo portacandelabro di Niccolò ricordano rispettivamente il coperchio e le arpie del Monumento di Carlo Marsuppini in S. Croce a Firenze) e Antonio Rossellino (l’Angelo adorante di sinistra pare riproporre l’Angelo annunciante dell’Arca del Beato Marcolino della Pinacoteca civica di Forlì o quello più tardo dell’Arca di S. Savino nel duomo di Faenza). Le figure per il coperchio dell’arca mostrano strette analogie con le opere Giorgio da Sebenico, tanto da avvalorare la citata ipotesi che Niccolò abbia trascorso un periodo di apprendistato nei suoi cantieri. La critica ha proposto suggestivi confronti tra il Dio Padre dell’arca e quello al centro della volta del battistero del duomo di Sebenico, tra i Putti reggifestone e quelli avvinghiati al fusto che sostiene il fonte nel medesimo battistero; oppure tra la figura di S. Francesco e il S. Bonaventura del portale della chiesa di S. Francesco ad Ancona.

Lo stile dello scultore è pure riconoscibile in un frammento di Madonna col Bambino comparso sul mercato antiquario (Milano, galleria Rob Smeets), plausibilmente databile al 1465-70, tra il Compianto di S. Maria della Vita e il coperchio dell’Arca di S. Domenico (Petrucci, 2006).

Al 27 luglio 1474 sono documentati i lavori per un busto di terracotta di S. Domenico, destinato a essere posto sopra la porta della ‘Vestiaria’ del convento di S. Domenico. Il busto, che al 30 marzo 1475 risulta essere nella collocazione prevista, è identificabile con l’esemplare oggi al Museo di S. Domenico (Ferretti, 1989, pp. 102 s.; Lugli, 1990, pp. 82 s.). Nonostante la rilevante differenza di dimensioni, l’opera è iconograficamente apparentata con la figura marmorea di S. Domenico posta sull’arca (nel busto manca l’attributo del giglio): del tutto simile è l’espressione assorta data dall’inclinazione del capo, così come il volto segnato dalle rughe; le pieghe del cappuccio sono quasi identiche.

Il 25 ottobre 1474 Niccolò fu pagato 15 soldi per aver realizzato la barba di un Crocifisso in S. Petronio a Bologna (Gnudi, 1942, p. 62; Id., 1972, p. 45). Il 7 marzo 1475, acquistò una casa (finita di pagare il 6 marzo 1479) nella parrocchia di S. Maria della Baroncella, sposandosi di lì a poco con Margherita Boatieri, dalla quale ebbe i figli Cesare e Aurelia. Il 18 aprile 1478 vendette un podere a due abitanti di Argelato (Id., 1942, p. 63).

Nel 1478 lavorò alla Madonna col Bambino detta Madonna di Piazza, opera di terracotta datata e firmata «Nicolaus F.», posta sulla facciata di palazzo D’Accursio a Bologna (palazzo del Comune); per questo lavoro, il 24 dicembre 1478, fu pagato 15 lire.

L’opera reca evidente l’influsso dell’arte fiorentina, in particolare di matrice verrocchiesca, sia nella tipologia delle figure sia negli ornati del peduccio di sostegno (le palme baccellate all’incrocio delle volute richiamano quelle già utilizzate in cima all’arca, in corrispondenza del fusto ornato che sostiene la figura di Dio Padre). La misurata impostazione delle Madonne fiorentine appare qui trasformata in forme più dinamiche e mosse, addirittura disarticolate in corrispondenza del Bambino. Il modellato ampio e anamorfico delle figure è pensato per essere visto da «sotto in su», nel vasto spazio di piazza Maggiore.

In anni non lontani dalla Madonna di Piazza, Niccolò dovette realizzare l’Aquila di terracotta (anch’essa firmata «Nicolaus F.») posta sul portale d’ingresso della facciata di S. Giovanni in Monte a Bologna. Durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale l’opera subì gravi danni e in seguito fu restaurata (Silvestri Baffi, 1971, p. 72).

All’ambito dello scultore (forse da suo modello) sono attribuibili i Quattro genietti araldici provenienti dalla cancellata della cappella Rossi in S. Petronio e oggi nelle collezioni di palazzo Sanuti-Bevilacqua a Bologna (in S. Petronio gli originali sono stati sostituiti da copie). Databili intorno al 1480, sono stati spesso fraintesi come opera del fiesolano Francesco di Simone Ferrucci (Zucchini, 1932); pur di livello esecutivo inferiore a Niccolò, presentano affinità con le sue complesse e dinamiche figure (Filippini, 1934; Gnudi, 1942, pp. 73 s.) e, per la tipologia dei volti e delle ali, mostrano parentele evidenti con i cherubini dell’Arca di S. Domenico.

Il 6 ottobre 1484 Niccolò fece testamento, nominando erede universale il figlio Cesare e disponendo di restituire la dote alla moglie Margherita; inoltre stabilì di riservare la quarta parte dei suoi averi alla figlia Aurelia quando si fosse sposata. Nel caso in cui i suoi figli fossero rimasti senza prole, l’eredità sarebbe dovuta essere divisa tra i padri domenicani e i celestini (von Fabriczy, 1908, pp. 11-13). Il 24 novembre 1484, fu padrino di battesimo di Lucrezio, figlio di un miniatore ferrarese di nome Bartolomeo (probabilmente Bartolomeo del Tintore). Il 22 agosto 1489 ricevette da Ventura di Abraam Caravita un prestito di 30 lire (Gnudi, 1942, p. 64).

Tra le opere perdute e assegnate a Niccolò sono due rilievi in terracotta raffiguranti l’Adorazione dei magi e l’Annunciazione, ricevuti nel 1492 dal parroco della chiesa di S. Maria della Maddalena: «Nicolaus lapicida fecit et dedit mihi tabellam unam terrae coctae, in qua imago Virginis et tres reges. Item aliam imaginem Virginis cum Angelo ambae eiusdem quantitatis, de quibus amnibus ipse Nicolaus est satisfactus a me» (Codibò [1492], 1915). Di più sicura attribuzione è il Presepe «di terra cotta colorito di mezzo rilievo» attestato da Francesco Sansovino nella chiesa di S. Spirito a Venezia (Sansovino, 1581), per quanto noto, l’unica opera di Niccolò al di fuori dei confini bolognesi. Opera perduta, non attestata dalle fonti e attribuita a Niccolò (o al suo ambito) per via stilistica è il S. Bernardino di terracotta già nelle collezioni del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino e oggi documentato da più fotografie. Creduto di Sperandio Mantovano (Schottmüller, 1933), esso mostra evidenti somiglianze con la figura di S. Francesco posta sull’Arca di S. Domenico, soprattutto in corrispondenza delle pieghe del saio (in Gnudi, 1942, pp. 42 s., se ne rendono note altre due versioni, una in terracotta, già in collezione privata bolognese, l’altra in stucco, già a Vienna, collezione Figdor).

Tra il 4 agosto e il 1° ottobre 1493 ricevette pagamenti per un’altra figura di terracotta raffigurante S. Domenico, destinata alla cappella delle Reliquie (o cappella Bolognini) della chiesa di S. Domenico. L’opera è identificabile con l’esemplare della Fondazione Cavallini - Sgarbi di Ferrara (Sgarbi, 1985; Ferretti, 1989, pp. 102 s.; Lugli, 1990, pp. 82 s.; Galassi, 2006). Il 12 settembre 1493 estinse definitivamente il proprio debito con la Fabbriceria di S. Petronio per l’affitto delle botteghe che aveva tenuto fino al 1472-73 (Gnudi, 1972. p. 45).

All’ultimo quindicennio dell’attività dello scultore è da ricondurre il S. Giovanni Battista marmoreo (firmato «Nicolaus») custodito nella sala del Tesoro presso la sala del Capitolo dell’Escorial, più volte ricordato dalle fonti e lasciato da Niccolò in dote alla figlia Aurelia.

Citato dalle fonti contemporanee a Niccolò come «figuram ex marmore Sancti Johannis Baptiste» (Borselli, Cronica…, ad annum 1494), e nel Cinquecento venduta in Spagna per 700 ducati d’oro (dalla Tuata [1494], 2005), se ne persero le tracce fino al secolo scorso. Prima della riscoperta era attribuito allo scultore spagnolo Niccolò Vergara. Il S. Giovanni risulta all’Escorial dal 1586, anno in cui fu donato dal re Filippo II di Spagna (De Salas, 1967). L’opera è esemplare delle doti di Niccolò nella scultura del marmo, in specie per gli aspetti più minuti: la pelliccia del santo, l’agnello mistico, una lucertola e un serpente tra le rocce, attestano la sua grande abilità, tramandata dalle fonti, nel raffigurare gli animali. La scultura fu sicuramente molto cara a Niccolò, che la tenne con sé fino alla morte.

Morì a Bologna il 2 marzo 1494 e fu sepolto nella chiesa di S. Giovanni Battista dei Celestini.

Il contemporaneo Girolamo Borselli riferisce: «Nicolaus […] mortuus est et sepultus in ecclesia Celestinorum». Sulla sua tomba fu apposta un’iscrizione che riportava lo scultore alla gloria degli artisti dell’antichità: «Qui vitam saxis dabat, et spirantia signa / Celo formabat, proh dolor, hic situs est / Nunc te Praxiteles, Phidias, Policletus adorant / Mirantque tuas, o Nicolae, manus» (Cronica…, ad annum 1494).

Nel 1495 il figlio Cesare fu avviato al sacerdozio (von Fabriczy, 1908, p. 36). Il 29 novembre 1499, a seguito del matrimonio di Aurelia con Battista Paselli, fu nominato un tutore per Cesare, ancora minorenne, perché – secondo la volontà paterna – potesse assegnare (essendo erede universale) alla sorella la prevista quarta parte dell’eredità, corrispondente alla casa nella parrocchia della Baroncella, che Niccolò aveva acquistato nel 1475. A quel tempo il nome della famiglia rimase «dell’Arca». Il 20 luglio 1521 Margherita Boatieri fece testamento, lasciando ad Aurelia la somma di 500 lire e nominando eredi universali due nipoti. Cesare non compare nel testamento (Gnudi, 1942, p. 65).

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