NICCOLÒ da Lonigo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 78 (2013)

NICCOLO da Lonigo

Paolo Pellegrini

NICCOLÒ da Lonigo (Niccolò Leoniceno). – Nacque a Vicenza nel 1428 da Francesco e da Maddalena, figlia dell’umanista Antonio Loschi.

In una famiglia che contava almeno cinque fratelli e tre sorelle, è possibile che fosse avviato ai primi studi dal nonno materno. Frequentò poi le lezioni di Ognibene Bonisoli da Lonigo, che lo introdusse allo studio del greco, forse già privatamente dal 1436 al 1441, certo dopo il 1443 quando fu pubblico maestro nelle scuole vicentine (sciolto l’equivoco sul discepolato presso un certo Pelope, in realtà maestro di Galeno, non ha trovato conferma nemmeno il discepolato presso Pietro Roccabonella). Diciottenne passò all’Università di Padova, frequenza di cui non resta documentazione ufficiale. Una Vita di Niccolò, composta dal suo allievo ferrarese Antonio Musa Brasavola e trasmessa sia in estratti sette-ottocenteschi (Vicenza, Biblioteca civica, Gonzati, 5.4.3; 26.7.12), sia nella Biblioteca di padre Angiolgabriello di S. Maria (1782; Mugnai Carrara, 1979A, p. 169), riporta che si laureò a 25 anni, dunque nel 1453, e che dopo la laurea compì un viaggio in Inghilterra, visitando, al ritorno, anche l’Olanda. Rientrato in Italia, secondo Papadopoli (1726, pp. 297 s.) avrebbe insegnato a Padova nel triennio 1462-64. Passò quindi a Ferrara, dove i rotuli accademici lo registrano la prima volta nel 1467 (l’iscrizione sepolcrale composta dall’allievo Celio Calcagnini ne fa durare il magistero 60 anni). Nel 1472 e nel 1476 figura stipendiato come medico della corte estense, dove fu incaricato anche della traduzione di opere greche: il suo nome compare nel catalogo della biblioteca dei duchi nel 1472 per la traduzione di Diodoro Siculo e nel 1479 per quella di Arriano, cui vanno aggiunte le posteriori traduzioni di Appiano e dei frammenti di Polibio.

Volgarizzò direttamente dal greco sia Procopio (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Ambr. 272 inf.), sia la Storia romana di Cassio Dione, lavoro già avviato nel 1473 e concluso prima del 1488 (edito a Venezia, N. Zoppino, 1533). Più incerta l’attribuzione del volgarizzamento dei Dialoghi di Luciano (assegnatogli nella stampa di Zoppino del 1529 ma non nella princeps del medesimo, del 1525). La dipendenza del volgarizzamento non dal greco ma dalla traduzione latina tardo trecentesca di un certo Bertoldo e alcuni patenti fraintendimenti del testo hanno inficiato l’attribuzione a Niccolò, autorizzando il rinvio alla penna di Matteo Maria Boiardo (Fumagalli, 1985, p. 167; Corsaro, 1998, p. 726 e n. 9; più cauta Matarrese, 1998, p. 641 n. 60). Nel complesso i volgarizzamenti evidenziano il «tentativo di aderire scrupolosamente al dettato dell’originale» e restituiscono il profilo di Niccolò «esperto grecista nel dominio della sintassi» (Gualdo, 1990, p. 246).

Si allontanò raramente da Ferrara. Nel 1483 è citato nel testamento del fratello Antonio come «commorantem Bononiae ad lecturam philosophiae». Al 1492 risale un breve soggiorno fiorentino, durante il quale rivide il Poliziano (già incontrato a Ferrara l’anno precedente) e incontrò Lorenzo de’ Medici. Il viaggio di ritorno fino a Bologna fu compiuto in compagnia di Pico della Mirandola, che lo ricorda in una lettera allo stesso Niccolò del 20 luglio 1492. A Bologna tornò ancora nel 1508 per insegnarvi un anno con lo stipendio di 400 lire. Un ultimo viaggio a Venezia è collocato nel 1522 (con Niccolò ormai novantaduenne) da Pierio Valeriano, che ricorda una dotta conversazione tra Niccolò, lo zio Urbano Bolzanio e i gli eruditi Daniele Renier e Leonico Tomeo.

Nello Studio ferrarese fu incaricato dell’insegnamento prima di matematica, poi di filosofia morale e infine di medicina. I suoi interessi matematici si riflettono nelle reportationes dei corsi su Euclide di mano dall’allievo Pontico Virunio (Bologna, Biblioteca universitaria, Mss., B.3473; B.3474), non datati, ma forse della stessa epoca del ms. B.3475, che Virunio terminò di scrivere alla scuola di Niccolò nel 1488); ma va ricordato che nel luglio 1491 Niccolò scrisse a Giorgio Valla affinché procurasse una copia del suo Archimede (l’attuale Plut. 28.4 della Biblioteca Laurenziana di Firenze) per il Poliziano, e nel 1499 portò a termine la traduzione degli Armonici di Tolomeo richiestagli del vescovo di Padova Pietro Barozzi, il quale gli fornì anche i codici su cui fu condotta (è conservata nel manoscritto Vat. lat. 4570 della Biblioteca Apostolica Vaticana).

A Ferrara strinse legami di amicizia con Battista Guarini, col medico Lodovico Bonaccioli, con lo stesso Giorgio Valla. A corte, oltre ai duchi Alfonso I ed Ercole II, poté frequentare il medico Francesco Castello, Bonaventura Pistofilo, Alfonso Trotti. Aveva contatti frequenti con i maggiori umanisti del tempo: oltre al Poliziano e a Pico, Ermolao Barbaro, Aldo Manuzio, Erasmo da Rotterdam, che sostò a Ferrara nel 1509, giuntovi per visitare l’amico e allievo di Niccolò Richard Pace.

A partire dagli anni Novanta frutto di questi scambi culturali e in particolare del confronto con il Poliziano (che inviò a Niccolò i suoi Miscellanea), prese avvio la polemica intorno alla Naturalis historia di Plinio. Il primo passo fu l’opuscolo di Niccolò De Plinii et aliorum in medicina erroribus (Ferrara, L. Rossi - A. Grassi, 1492), dedicato al Poliziano e redatto in risposta al pesarese Pandolfo Collenuccio, medico e a quel tempo consigliere del duca Ercole II. La polemica, nata in verità contro le traduzioni dei filosofi greci compiute dagli arabi, aveva preso di mira alcuni evidenti errori commessi da Plinio nell’interpretazione delle fonti greche, specialmente nell’identificazione di alcune piante medicinali (in particolare Nat. hist., XXIV, 81-82 confonde cisthos, la rosa di rocca, con cissos, l’edera), e rinviava contestualmente alla ben più affidabile autorità in materia del greco Dioscoride. In questo modo però, nell’ottica del Poliziano, Niccolò si esponeva a «un metodo pericoloso dal punto di vista filologico, quello di misurare il testo con il metro della verità naturale» (Tateo, 1995, p. 372). Di tutt’altro tenore fu la Pliniana defensio adversus Nicolai Leoniceni accusationem di Pandolfo Collenuccio (Ferrara, A. Belfort, 1493), che rivalutava le osservazioni pliniane proprio alla luce della esperienza botanica del suo autore. La discussione sull’attendibilità di Plinio coinvolse fra gli altri anche Ermolao Barbaro che nelle sue Castigationes plinianae (Roma, E. Silber, 1492-93), lette da Collenuccio proprio durante la stesura della Defensio, si era schierato a difesa di Plinio e aveva compiuto «il massimo sforzo per contraddire» Niccolò (Castigationes, p. CXXVIII). Il dibattito proseguì negli anni successivi con tre interventi di Niccolò: nel 1493 una lettera di risposta a Barbaro, che nel frattempo era morto; nel 1504 una Epistola al medico lucchese Girolamo Menochio; nel 1507 un De Plinii et plurium aliorum medicorum erroribus novum opus, indirizzato al medico, pure lucchese, Francesco Totti. I tre opuscoli vennero pubblicati a Ferrara da Giovanni Mazzocchi solo nel 1509, in coda al De Plinii del 1492. Nell’ultimo intervento, il Novum opus, Niccolò ribatteva alle accuse mossegli nella sua recentissima edizione della Naturalis historia dal medico veronese Alessandro Benedetti, secondo cui egli aveva rilevato errori di Plinio laddove il testo avrebbe richiesto semplici interventi emendatori o una più perspicua lettura. In realtà, a fronte di una metodologia di impronta filologica, interessata puramente ai verba, Niccolò rivendicava ora la preminenza delle res, della verità delle cose: altro era lo scopo di Plinio, altro quello delle sue fonti greche, coincidente con l’obiettivo del medico, ossia la salute dei pazienti. Era, in ultima analisi, l’abbandono della tradizione retorica latina, per il ritorno alla scienza medica dei greci; un punto lucidamente colto da un altro umanista, Antonio de Ferraris (Galateo), in una lettera a Niccolò databile tra 1509 e 1512: la tradizione latina era eminentemente giuridica e più orientata all’impegno civile, la tradizione greca era più «propensa a privilegiare gli studi» e la scienza (Tateo, 1997, pp. 1769 s.); la diffidenza di Collenuccio verso la tradizione greca non era che una tarda manifestazione di questa eredità.

L’avvio della polemica pliniana precede di poco la collaborazione con Aldo Manuzio, per il quale Niccolò fece copiare alcuni manoscritti della propria biblioteca: per l’edizione degli Opera di Aristotele v’è la testimonianza resa da Aldo stesso nella Praefatio al secondo volume (Aldo Manuzio editore, I, 1965, p. 16), ma pare probabile che Niccolò abbia messo a disposizione anche la sua copia del De historia animalium, attuale Ambrosiano I.56 sup., trascritto da Andronico Callisto e modello per l’esemplare di tipografia dell’aldina. Per contro, nel 1501 Aldo dovette prestare a Niccolò il commento di Simplicio al De caelo, attuale ms. alpha.M.5.25 (Gr. 161) della Biblioteca Estense e universitaria di Modena. Un’altra serie di codici incrocia l’attività dell’Anonymus Harvardianus, copista impiegato presso l’atelier aldino nella preparazione di esemplari di tipografia, il cui nome è associato ad almeno tre manoscritti di proprietà di Niccolò: il Teofrasto Par. lat. 2069 della Bibliothèque Nationale di Parigi, copiato dall’Anonymus a Ferrara o forse anche a Venezia per Aldo; il Par. graec. 2048 (Alessandro d’Afrodisia, Problemata), apografo del Marciano gr. IV.58 a sua volta disceso dal Par. gr. 1893 di mano dell’Anonymus; il Par. graec. 2148 (Galeno, De usu partium), con note di possesso di Niccolò alle cc. 122 e 406, e postille dell’Anonymus, utilizzato più tardi (1525) per la princeps aldina di Galeno. All’ambiente aldino viene ricondotto anche il Par. graec. 2273 (Galeno, Ars medica), con postille che rinviano a Niccolò, copiato dal cosiddetto Anonymus 5, che trascrisse anche l’attuale Berna, Burgerbibliothek, Bern. 402, una delle fonti usate per l’edizione aldina di Teofrasto. Fu forse a parziale risarcimento di tale collaborazione che Manuzio, tra il 1497 e il 1498 diede alle stampe due opere di Niccolò (che non figurano nel catalogo di vendita aldino del 1503): il Libellus de epidemia quam Itali morbum gallicum Galli vero neapolitanum vocant e il De tiro seu vipera (Aldo Manuzio tipografo, 1994, schede 12 s.).

La stesura del De epidemia fu occasionata da una disputa tra medici intorno alla natura e all’origine della sifilide (esplosa al passaggio sulla penisola delle armate di Carlo VIII) cui Niccolò assistette a Ferrara nel 1496 e della quale avrebbe dovuto fornire un breve resoconto all’amico Giovanni Pico. Nel trattatello Niccolò, dopo aver liquidato ogni implicazione di carattere astrologico, spiega l’origine del morbo ricorrendo alla patologia umorale di matrice ippocratico-galenica e, pur escludendo l’ipotesi che si trattasse di una malattia del tutto nuova, si oppone alle identificazioni con affezioni già note che erano state proposte e di cui forniva una puntuale rassegna. Chiude l’opuscolo una dettagliata descrizione dei sintomi e del decorso del morbo. Quanto al metodo, Niccolò ribadisce la necessità di attingere direttamente alle fonti mediche greche, depurate «dalla barbarie dei commenti arabi e scolastici» (Mugnai Carrara, 1994, pp. 37, 39). L’intervento ebbe un’eco immediata sia in Italia, con la Disputatio de morbo gallico di Antonio Scanarolo (Bologna, [B. Ettore], 1498), sia in Germania con la Declaratio defensiva cuiusdam positionis de morbo gallico di Simon Pistoris (Lipsia, C. Chakelofen, post 3 gennaio 1500). Il dibattito sulla sifilide fu ripreso, fra gli altri, dagli allievi di Niccolò, Antonio Musa Brasavola e Giovanni Mainardi.

La proposta filologica leoniceniana di un ritorno diretto alle fonti della scienza greca si concretizzò presto in una notevole serie di traduzioni dei testi di Galeno: un impegno avviato da tempo, attraverso una prima divulgazione manoscritta (già nel 1490 il Poliziano si complimentava per la versione dei Commentarii di Galeno agli Aforismi di Ippocrate), ma approdato a stampa solo più tardi: l’Ars medicinalis nel 1508 a Venezia per i tipi di Giacomo Pincio; i Commentarii galeniani a Ippocrate nel 1509 a Ferrara, pubblicati da Giovanni Mazzocchi assieme con l’Ars parva; il De differentiis morborum, il De inaequali intemperatura, il De arte curativa ad Glauconem, il De crisibus nel 1514 a Parigi per Henri Estienne. Sta a sé il De differentiis febrium, comunemente assegnato a Niccolò (Durling, 1961, p. 251; Mugnai Carrara, 1979A, p. 201), ma che nella citata edizione del 1508 figura come opera di Lorenzo Laurenziano. A queste iniziative andrà affiancata l’edizione dei Therapeutica di Galeno, uscita a Venezia nel 1500 dalla tipografia dei greci Niccolò Vlastos e Zaccaria Calliergi: la stampa fu curata da Marco Musuro che si valse dei manoscritti prestatigli da Niccolò, con l’accordo che essi sarebbero senz’altro stati stampati (lettera di Musuro a Giovanni Gregoropulo in Firmin Didot, 1875, p. 519). L’interesse per Galeno stimolò, come corollario, una serie di riflessioni condensate soprattutto nel Detribus doctrinis ordinatis secundum Galeni sententiam (stampati con l’Ars parva nel 1508) e nella Praefatio communis in libros Galeni, dove Niccolò chiarì le proprie posizioni di carattere metodologico e volle rispondere alle polemiche sollevate dalle sue traduzioni.

Tra i punti più controversi v’era un passaggio del libro VIII dell’Historia animalium di Aristotele relativo agli effetti generati dal morso del cane rabbioso. Stando alla traduzione di Teodoro Gaza, tale morso risultava avere conseguenze solo sugli animali, restandone immune l’uomo, un dato in evidente contrasto con l’esperienza quotidiana. Niccolò spiega lo svarione di Gaza ipotizzando, alla base, una corruttela nel testo greco e proponendo l’emendazione πρὶν ἀνϑρώπου(«prima dell’uomo») in luogo di πλὴν ἀνϑρώπου («tranne l’uomo»), dal momento che l’esperienza confermava il manifestarsi della malattia nell’uomo più tardi che negli altri animali. La proposta era stata formulata già in un passaggio della Praefatio a Galeno, testo che aveva goduto di una circolazione manoscritta almeno a partire dal 1503 (come informa una lettera di Girolamo Menochio allo stesso Niccolò), ma la questione era stata dibattuta anche nel cenacolo veneziano di Aldo Manuzio: all’emendamento di Niccolò ostava l’assenza di attestazioni per la costruzione genitivale di πρίν. Nel 1509, nel III libro del De Plinii, Niccolò tornò a difendere l’emendamento opponendosi al criterio della consuetudo come unica bussola per gli usi linguistici degli antichi e osservando che la perdita di buona parte della letteratura classica greca avrebbe precluso la conoscenza di forme ritenute scorrette dai grammatici sulla base della documentazione sopravvissuta. Come ulteriore proposta esegetica, suggerì di emendare πρὶν ἀνϑρώπου in πρὶν ἄνϑρωπος, sottintendendo λυττῇ, o in alternativa πρὶν ἄνϑρωπον, sottintendendo λυττᾶν («prima che l’uomo impazzisca»), la subordinata infinitiva facendosi preferire per la vicinanza grafica tra -υ e -ν. La terza fase della riflessione sul passo si concretizzò nell’In suam ac Theodori Gazae defensionem contra adversarium libellus, un opuscolo steso probabilmente tra 1516 e 1518 e dedicato al cardinale Alessandro Farnese (tuttora inedito nel ms. VIII.C.27 della Biblioteca nazionale di Napoli). La Defensio costituì una risposta alle obiezioni mosse contro le sue congetture dal medico Niccolò Zocca, che aveva giustificato Aristotele distinguendo tra λύττα (rabbia), tipica degli animali, e μανία (pazzia), propria dell’uomo. Nella polemica si era inserito frattanto anche il grecista Scipione Carteromaco, che da un lato aveva rintracciato altre costruzioni genitivali di πρίν, dall’altro aveva dimostrato come nell’antichità λύττα e μανία fossero considerati sinonimi; infine aveva addotto un passo plutarcheo dal quale risultava che presso gli antichi la rabbia non era considerata affatto malattia letale per l’uomo, il che giustificava l’affermazione di Aristotele. Come nel caso di Plinio, la posizione di Niccolò rifletteva l’approccio tipico del medico-naturalista, pronto a emendare ope ingenii il testo quando confliggesse con la diretta osservazione dei fenomeni. La crux aristotelica fu nuovamente affrontata da Niccolò in un’altra opera, il De dipsade (1518), e trovò più tardi accoglimento negativo nel De contagione et contagiosis di Girolamo Fracastoro (1546) e nell’edizione dell’Historia animalium di Aristotele curata da Giulio Cesare Scaligero (1619).

Morì a Ferrara il 19 giugno 1524.

L’attività scientifica e didattica di Niccolò è stata giustamente posta a fondamento del cosiddetto umanesimo medico: «il primo inequivocabile passo verso una concezione indipendente della medicina e l’elaborazione di nuovi concetti epistemologici» (Mugnai Carrara, 1994, p. 21). Un approccio nuovo che non solo coinvolse i discepoli di Niccolò (su tutti Giovanni Mainardi e Giovanni Battista Dal Monte), ma trovò accoglimento anche nelle opere dei più prestigiosi medici dell’Europa di allora, quali Heinrich Ritze (Euricius Cordus), Leonardt Fuchs e Symphorien Champier.

La fama di Niccolò è legata anche alla sua biblioteca (340 volumi, un terzo dei quali in greco), il cui inventario, assente nel testamento, fu redatto dal nipote Vincenzo Leoniceno poco dopo la morte dello zio (si conserva nel ms. Gonzati 24.10.46 della Biblioteca civica di Vicenza). A discapito della volontà del testatore, gli eredi si affrettarono ad alienare i libri: parte fu venduta ai marchesi Costabili di Ferrara, parte fu donata al Collegio dei medici di Bologna e parte fu acquistata dal cardinale Nicolò Ridolfi. La sezione di Ridolfi pervenne da ultimo a Caterina de’ Medici per terminare nel fondo Regio della Bibliothèque Nationale di Parigi, dove attualmente si trova (identificazioni in Hoffmann, 1985, pp. 134-138; Id., 1986, pp. 701-708; Mugnai Carrara, 1991, p. 105 s.).

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