CAPPONI, Niccolò

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 19 (1976)

CAPPONI, Niccolò

Michael Mallett

Nacque il 10 sett. 1472 da Piero di Gino e Nicolosa di Luigi Guicciardini. Discendeva quindi da due delle famiglie più importanti e tradizionalmente influenti della politica fiorentina del sec. XV.

Ricevette un'educazione umanistica e fu probabilmente compagno di studi di Piero Crinito e Michele Verino sotto la guida di ser Paolo Sasso da Ronciglione. Egli era però anche crede degli importanti interessi commerciali del ramo della famiglia Capponi cui apparteneva e fu mandato, nel 1493 o 1494, a Lione a impratichirsi presso il banco dello zio Neri Capponi. Nell'aprile del 1494 accompagnò il padre, inviato da Firenze come oratore alla corte di Francia, per tentare di allontanare la minaccia dell'invasione francese. Così, in giovane età, il C. fece la sua prima esperienza diplomatica. Rimase a Lione fino al 1496, quando, in seguito alla morte del padre, tornò a Firenze per occuparsi degli affari di famiglia e prendersi cura della madre. In effetti lasciò presto la direzione degli interessi commerciali dei Capponi al fratello minore Giuliano, e solo la compagnia di arte della seta della famiglia rimase intestata al suo nome. Subito dopo il ritorno a Firenze sposò Alessandra di Filippo Strozzi. I legami di parentela dovevano assumere un'immensa importanza per la carriera dei Capponi. Filippo Strozzi il Giovane era suo cognato e ciò significava anche un legame con i Medici attraverso la moglie di Filippo, Clarice; il C. era anche cognato di Francesco Vettori e cugino per parte di madre di Francesco Guicciardini, tutte persone che gli assicurarono un aiuto fondamentale nel 1527.

Nel 1499 il C. fece parte di un'ambasceria a Venezia diretta da Giovambattista Ridolfi che aveva lo scopo di persuadere la Serenissima a non aiutare ulteriormente Pisa. Nel novembre dell'anno 1502 ricoprì la carica di priore ed appoggiò Piero Soderini, da poco eletto gonfaloniere a vita. Nonostante i suoi legami con i Medici continuò ad appoggiare il Soderini ed a servire Firenze fino al 1512. Nel 1507 fu scelto per accompagnare il cardinale di Santa Croce, legato pontificio in Germania, attraverso il territorio fiorentino. Alla fine di questo steiso anno fu mandato a Cascina come commissario di guerra incaricato di sovrintendere all'assedio di Pisa.

Il modo di condurre le ultime fasi della guerra fu aspramente criticato dal Guicciardini e molte delle sue critiche devono ricadere sul C., commissario per gli ultimi diciotto mesi. Il Guicciardini accusò i commissari soprattutto di essere stati incapaci di prevenire le contromosse dei Pisani in risposta alle loro manovre. Così quando il C. convinse Firenze ad adottare la politica della terra bruciata, non provvide contemporaneamente a stringere il cerchio intorno aPisa. Ciò accadde in un secondo tempo, e gradualmente, cosicché i Pisani riuscirono per mesi a trovare varchi nel blocco. La critica appare quindi fondata, anche se si deve ricordare che il C., come tutti i commissari fiorentini, incontrava grosse difficoltà nell'ottenere da Firenze i mezzi di cui aveva bisogno. È anche vero che spesso Niccolò Machiavelli, segretario dei Nove della milizia, passò sopra all'autorità del Capponi. Questi non era comunque dello stesso stampo del padre e la presa di Pisa richiese senz'altro più tempo del necessario. Finalmente nell'aprile del 1509 Pisa si arrese ed il 9 dello stesso mese il C. entrò trionfalmente nella città, proprio come il suo antenato aveva fatto nel 1406.

Il C. ricoprì ancora una volta la carica di commissario generale a Cortona nel 1511, anno in cui fu anche inviato da Firenze come oratore al fallito concilio di Pisa, Nel 1512 si recò come oratore presso Gastone di Foix e fu presente alla battaglia di Ravenna. Con la caduta del Soderini ed il ritorno dei Medici il C. si ritirò nell'ombra. Sostenitore fino all'ultimo del Soderini, egli appariva naturalmente alquanto sospetto al nuovo regime, ma sembra comunque che si sia tenuto deliberatamente lontano dai Medici negli anni immediatamente successivi al 1512. Ricoprì in quel periodo alcune cariche minori: nel 1513 fu uno degli ufficiali della Carne e nel 1515 console della Zecca ed incaricato con altri funzionari della restaurazione dell'università di Pisa. Nel 1516 fu operaio del duomo e nel 1519 ufficiale del Monte. Quest'ultima carica significò il suo ritorno ad una posizione di responsabilità e non fu probabilmente un caso che ciò avvenisse proprio quando il cardinale Giulio de' Medici, il futuro pontefice Clemente VII, prese la direzione della politica medicea a Firenze. Il C. si era in un certo senso riconciliato con Lorenzo de' Medici nel 1514, quando quest'ultimo lo aiutò a combinare il matrimonio di sua figlia con il ricco Buonacorso Pitti. Ma il C. ed i suoi amici, particolarmente il Vettori, riponevano in Giulio la speranza di una forma più illuminata di governo mediceo.

Nel 1522 entrò a far parte del Consiglio dei settanta e partecipò all'ambasceria inviata a congratularsi con Adriano VI per la sua elezione a papa. L'anno seguente fece parte dei due principali organi esecutivi, gli Otto di pratica ed i Dodici procuratori. Nel maggio 1524 si recò a Pistoia per sedare i disordini nati dalle discordie tra le famiglie Cancellieri e Panciatichi. Nel luglio 1526 il suo ritorno alla politica culminò con il conseguimento della carica di gonfaloniere di giustizia.

Tuttavia a questo punto il C., che non era mai stato un convinto fautore dei Medici, cominciò, insieme con molti dei principali politici fiorentini, ad essere sempre più deluso dal governo del card. Passerini e dei bastardi medicei. Nel 1527 mentre l'esercito imperiale muoveva verso il sud e Clemente VII richiedeva a Firenze aiuti finanziari sempre crescenti, il C. sostenne l'opportunità di rompere i legami con Roma, anche a costo di dovere cacciare di nuovo i Medici. Denunciò l'usanza di discutere a palazzo Medici gli affari di governo e richiese che del pericolo incombente si parlasse nel luogo giusto, cioè nel palazzo della Signoria. Quindi la rottura tra i Medici, da una parte, e il C. ed i suoi amici, dall'altra, era già nell'aria, quando il 26 apr. 1527 la vicinanza minacciosa dell'esercito imperiale provocò lo scoppio del famoso "tumulto di venerdì". Lo spunto agli avvenimenti di quella giornata fu fornito dalla temporanea assenza dalla città del Passerini, di cui alcuni giovani approfittarono per dare il via alla rivolta. Ma fu solo per l'influenza del C. (che ordinò alle guardie di palazzo di non aprireil fuoco sulla folla) e di altri ottimati delusi che il tumulto rasentò un successo insperato: la Signoria, infatti, votò all'unanimtà l'esilio dei Medici, ma nell'eccitazione del momento nessuno pensò di impedire al Passerini e alle sue truppe di rientrare in città e circondare il palazzo della Signoria. I rivoltosi non poterono far altro che arrendersi sia pure alla condizione di non essereperseguiti. Il regime mediceo ottenne comunque una tregua. Il C. fu tra i primi a recarsi a palazzo Medici per scusarsi: gli eventi della giornata avevano dimostrato l'estrema debolezza del governo mediceo e probabilmente gli sembrò più opportuno accettare una temporanea umiliazione piuttosto di fuggire rinunciando a future occasioni.

Il sacco di Roma e la virtuale prigionia di Clemente VII offrirono a Firenze la successiva occasione di liberarsi dai Medici. Questa volta il C. e i suoi amici riuscirono a controllare gli avvenimenti con maggiore accortezza. Le pressioni sempre crescenti della Signoria e dei principali cittadini, accompagnate da turbolente dimostrazioni popolari, costrinsero il Passerini ad abbandonare il governo. L'arrivo di Filippo Strozzi, che entrò in città dopo una breve sosta alla villa del C. a Legnaia, rafforzò la posizione dei capi fiorentini. Il 17 maggio il cardinale e i suoi pupilli medicei lasciarono la città ed i Fiorentini si dedicarono alla riforma della costituzione.

Il C., che aveva già avuto una considerevole influenza sugli avvenimenti, venne allora ancor più alla ribalta. Si fece portavoce della proposta degli ottimati di introdurre solo piccoli cambiamenti nella costituzione, allo scopo di assicurare agli stessi ottimati uno stabile controllo sul governo. Il Consiglio Maggiore doveva essere ristabilito solo dopo un intervallo di un mese e nel frattempo venti accoppiatori ed un consiglio di centoventi persone sarebbero stati scelti dalla Signoria in carica. Il C. fu uno degli accoppiatori e fu generalmente considerato il portavoce del nuovo regime. Fu lui che dovette fronteggiare il clamore suscitato da queste pur moderate misure negli ambienti della classe dominante, e fu quindi lui che annunciò la decisione della Signoria di convocare l'attesissima riunione del Consiglio Maggiore.

Comunque il C. fu eletto il 31 maggio primo gonfaloniere di giustizia della nuova Repubblica per un anno. Ottenne questo successo non solo per il suo passato e per la stima di cui godeva, ma anche perché occupava una posizione di centro nel quadro politico fiorentino in un momento in cui le estreme erano deboli. La sua candidatura era accettabile per molti sostenitori dei Medici a causa dei rapporti che l'avevano a lungo unito a quella famiglia, e pure buona parte del partito popolare lo considerava una persona moderata e ragionevole, e sinceramente repubblicano. Egli possedeva anche quelle personali qualità di pietà e di ascetismo che lo rendevano gradito ai Piagnoni, i quali dovevano dare all'ultima Repubblica per molti aspetti le caratteristiche di una rinascita savonaroliana.

Certamente la rinascita dell'entusiasmo religioso e del fervore patriottico del periodo savonaroliano era un modo di creare una certa unità all'interno di Firenze, e queste considerazioni politiche spinsero probabilmente il C. ad accettare alcuni degli aspetti più stravaganti del programma piagnone, come l'inasprimento delle leggi suntuarie e sull'empietà, le nuove restrizioni antiebraiche, la serie di processioni, culminanti nel febbraio del 1528 con la ripetizione della spettacolare cerimonia savonaroliana della proclamazione di Cristo re di Firenze. Il C. era un uomo pio, ma non un fanatico: però il regime da lui guidato contava anche sull'adesione dei settori più fanatici dello schieramento savonaroliano. Un altro elemento preoccupante di fanatismo era costituito anche dalla diffusa determinazione alla vendetta nei confronti dei Medici e dei loro seguaci. Il C., pacificatore per tendenza ed un tempo collaboratore dei Medici, non favorì questa persecuzione e nel complesso evitò aperte rappresaglie. Tuttavia dovette accettare la logica che imponeva i maggiori carichi fiscali ai fautori del passato regime, e così i sostenitori dei Medici si videro sempre più vessati da tasse opprimenti. Il C. era sottoposto anche alle pressioni non meno insistenti degli estremisti Arrabbiati, che volevano il suo governo più apertoalle esigenze popolari. Il C., come suo padre, era un convinto sostenitore del governo degli ottimati, gli "uomini da bene" che soli possedevano esperienza e abilità per salvaguardare gli autentici interessi di Firenze. Fu lui ad incoraggiare Donato Giannotti a comporre il suo Discorso sopra il fermare il governo di Firenze, che sosteneva la necessità di modellare la costituzione fiorentina sull'esempio di quella dell'aristocratica Venezia. Nonostante le sue formali dichiarazioni di rispetto per il Consiglio Maggiore e l'opportunità di più ampie consultazioni, cercò in effetti di ricondurre la parte più importante dell'azione di governo nell'ambito di pratiche attentamente scelte con la collaborazione di fidati consiglieri. Questi metodi suscitarono l'opposizione ed aumentarono la forza del partito popolare, che in più di un'occasione condannò aspramente la sua linea di condotta.

Ma le pressioni interne erano ben poca cosa rispetto ai problemi posti dalla situazione internazionale. Firenze era ormai coinvolta in avvenimenti del tutto fuori del suo controllo ed il C. merita di essere ricordato soprattutto per i suoi tentativi di mantenere a galla in queste acque tempestose la barca della Repubblica.

La situazione ereditata era estremamente incerta. Clemente VII e i Medici non avevano per il momento la possibilità di agire, ma il vittorioso esercito imperiale poteva rimettersi in marcia ogni istante per il nord. Firenze faceva ancora parte della lega di Cognac e da essa poteva ancora aspettarsi qualche aiuto, sebbene la città potesse difficilmente permettersi un contributo finanziario in favore della lega. Il C. anche prima della rivolta considerava l'alleanza col papa e la Francia sempre più pericolosa per Firenze e manteneva contatti con gli Imperiali. Adesso continuò ad esplorare questa possibilità nella convinzione pienamente giustificata che gli Imperiali avrebbero finito per trionfare. Fin dall'inizio inoltre egli si era convinto che l'eclissi del papa sarebbe stata temporanea e che sarebbe stato sciocco per Firenze allontanarsi da lui più del necessario. A proposito di entrambe le questioni la maggioranza dei Fiorentini era contro il C. sulla base della fede tradizionale, incoraggiata dalla rinascita savonaroliana, nell'alleanza contro la Francia, nonché di un nuovo risentimento antimediceo.

Mentre ancora nell'estate del 1527 era lecito il dubbio su questi principi di politica estera, due avvenimenti susseguitisi nel giro di un anno ne confermarono, pienamente l'esattezza. In dicembre Clemente VII, sottrattosi alla prigionia imperiale, riprese la sua libertà d'azione e nella tarda estate del 1528 l'esercito francese fu costretto a capitolare ad Aversa. La libertà del papa avrebbe comportato iniziative immediate per la restaurazione medicea a Firenze, con l'aiuto di qualsiasi grande potenza disposta a concederlo. Allo stato dei fatti questa potenza poteva essere solo l'Impero, come fu confermato dal crollo della lega nel 1528.Il C. fece del suo meglio per seguire la linea di politica estera che considerava giusta per la salvezza della città: intrattenne buoni rapporti sia col papa sia con l'imperatore, tentò di assicurarsi la protezione imperiale al più basso prezzo possibile, cercò di persuadere il papa ad accontentarsi della riammissione dei Medici a Firenze come normali cittadini. Ma egli era più capace di valutare la portata della situazione che non di convincere gli altri della validità delle sue opinioni.

Tuttavia il 10 giugno 1528riuscì a farsi rieleggere gonfaloniere per un altro anno. I moderati avevano ancora la maggioranza nonostante la crescente forza degli Arrabbiati, i quali acquistavano tanto più credito quanto più il C. ricorreva a pratiche segrete per portare avanti la sua politica. Nonostante precise ingiunzioni del Consiglio Maggiore egli continuò a lavorare in favore di una limitata riconciliazione col papa poiché vedeva i pericoli della sempre più stretta alleanza tra imperatore e pontefice. La sua posizione divenne però sempre più precaria sotto gli attacchi dell'opposizione. Nel febbraio del 1529tentò di dimettersi, convinto che non c'era praticamente più nulla da fare, ma le sue dimissioni furono respinte. A mano a mano che il riavvicinamento tra papa ed imperatore diveniva evidente, i suoi sforzi per evitare alla città il destino che l'attendeva si facevano più disperati. Il 15 apr. 1529 Iacopo Gherardi, uno dei suoi più aspri oppositori nella Signoria, intercettò una lettera inviata al gonfaloniere da Giachinotto Serragli che risiedeva presso la corte pontificia. Da essa risultavano evidenti i continui tentativi del C. di raggiungere un'intesa col papa. Lo scalpore fu immediato: il C., chiamato davanti al Consiglio degli ottanta, fu deposto e quindi portato di fronte ad un tribunale speciale sotto l'accusa di tradimento. Ma a questo punto gli elementi moderati cominciarono a riorganizzarsi ed il suo patriottismo risultò fin troppo evidente nel discorso che egli fece a sua discolpa. Fu assolto da ogni imputazione, ma gli fu imposto di non uscire dal territorio della Repubblica fiorentina per cinque anni e di pagare una cauzione di 30.000 fiorini.

I molti amici rimasti ancora al C. in città, felici per la sua assoluzione, lo accompagnarono a casa in trionfo. Tuttavia appariva chiaro che egli avrebbe passato nell'ombra il resto della vita, cosa che probabilmente non gli sarebbe dispiaciuta dopo le frustranti umiliazioni degli ultimi mesi. Ma la conclusione dell'accordo di Barcellona tra Carlo V e Clemente VII nel giugno 1529 e l'imminente arrivo dell'imperatore in Italia costrinsero i successori del C. ad accettare la politica che egli aveva tentato di seguire durante il suo gonfalonierato. Fu quindi deciso di inviare un'ambasceria a Carlo V a Genova e per dirigerla la scelta cadde ovviamente sul Capponi. Purtuttavia le istruzioni affidategli andavano poco oltre il benvenuto da porgere all'imperatore: Firenze ancora si rifiutava di trattare ufficialmente con il pontefice. Così al C. venne ancora impedito di perseguire l'obiettivo che riteneva necessario: completa sottommissione all'imperatore ed almeno un compromesso con il papa. L'ambasceria giunse a Genova il 23 agosto, dieci giorni dopo l'arrivo di Carlo V, che s'irritò per il ritardo dei Fiorentini. Li fece attendere a lungo e quindi si rifiutò di riceverli, a meno che non fossero disposti a trattare anche col papa. Il C. e gli altri inviati seguirono l'imperatore fino a Modena senza concludere nulla. L'alternativa ad una totale resa a Clemente VII era un assedio di Firenze in piena regola da parte dell'esercito imperiale. L'ambasceria si sciolse e il C., stanco e deluso, riprese la via di Firenze. Non riuscì ad andare oltre Castelnuovo di Garfagnana dove morì il 18 ott. 1529.

Il C. fu politico colto e non privo di acume ed esperienza. Sinceramente repubblicano, fu deciso nella sua opposizione agli sviluppi deleteri della signoria medicea. Gli mancava però un'effettiva capacità di iniziativa; non era un grande oratore e sebbene largamente rispettato non fu mai capace di trascinare il popolo. Da Alessandra Strozzi (morta il 26 genn. 1550) ebbe otto figli, tra i quali si distinsero Piero e lo scrittore Filippo.

Fonti e Bibl.: G. Cambi, Istorie fiorentine, in Delizie degli eruditi toscani, XXI(1785), pp. 189, 225, 232, 296; XXII (1786), pp. 53, 216, 259, 311, 318, 322, 325, 328 ss.; B. Segni, Vita di N. C., in Storie fiorentine, III, Milano 1805; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, Firenze 1838-41, I, pp. 370 s.; II, pp. 118-175; I. Pitti, Istoria fiorentina, a cura di F. L. Polidori, in Archivio storico italiano, I(1842), pp. 135-188; F. de' Nerli, Commentari dei fatti occorsi dentro la città di Firenze dall'anno 1215 al 1537, Trieste 1859, ad Indicem; Négociations diplom. de la France avec la Toscane, a cura di G. Canestrini - A. Desjardins Paris 1859-61 ad Ind.; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1902, XLV, col. 205; XLVIII, col. 115; XLIX, col.504; L, coll. 197, 206, 228; LI, col. 294; LII, col.476; N. Machiavelli, Lettere familiari, a cura di E. Alvisi, Firenze 1883, p. 177; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di C. Panigada, Bari 1930, III, p. 214; V, pp. 150, 252 ss.; Id., Storie fiorentine, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931, pp. 165, 308, 314, 333, 339 s.; B. Varchi, Storia fiorentina, Firenze 1937, I, pp. 122-538 passim; S.Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze 1641-47, III, pp. 306-411; G. Capponi, Storia della Rep. di Firenze, Firenze 1875, II, pp. 292, 385-411; F. T. Perrens, Histoire de Florence depuis la domin. des Médicis jusqu'à la chute de la Rèpublique, Paris 1889-90, II, p. 489; III, pp. 123-226; P. Villari, Machiavelli ei suoi tempi, Milano 1895, II, p. 97; III, p. 361; A. Rossi, F. Guicciardini e il governo fiorentino dal 1527 al 1540, Bologna 1896, I, pp. 98-136; G. Sanesi, La vita di N. C. attribuita a B. Segni, Pistoia 1896, passim; Id., La politica del gonfaloniere N. C. desunta da quattro sue lettere ined., in Arch. stor. ital., s.5, XXI (1898), pp. 142-152; M. Lupo Gentile, Sulla paternità della "Vita di N. C.", in Giornale storico della letteratura ital., XLIV(1904), pp. 126-136; A. Anzilotti, La crisi costituz. della Repubblica fiorentina, Firenze 1912, pp. 73-75; R. Ridolfi, Vita di F. Guicciardini, Roma 1960, ad Indicem; R. Goldthwaite, Private Wealth in Renaissance Florence, Princeton, N. J. 1968, pp. 213 ss.; R. Albertini, Firenze dalla repubblica al Principato, Torino 1970, ad Indicem, ma particol. pp. 104-114; F. W. Kent, Ottimati Families in Florentine Politics and Society (1427-1530), università di Londra, tesi di laurea, anno accad. 1971, pp. 534-36; R. D. Jones, Francesco Vettori, Florentine citizen and Medici servant, London 1972, ad Indicem.

CATEGORIE
TAG

Luigi guicciardini

Fiorentina