New York

Il Libro dell'Anno 2006

Claudio Angelini

New York

The city that never sleeps

La ville lumière del nostro tempo

di 29 aprile

Dopo circa tre anni di chiusura per lavori di ristrutturazione riapre a Manhattan la Pierpont Morgan Library. Il progetto è stato curato da Renzo Piano, che ha sistemato l’imponente raccolta di libri e documenti in un edificio sotterraneo di quattro piani, contenenti gli scaffali e un auditorium, e sopra terra ha previsto una ‘piazza’ chiusa da una parete di vetro e acciaio, di raccordo tra vecchie e nuove strutture. È un nuovo importante esempio del continuo rinnovarsi di New York.

Città della luce e della gioia

Con l’inaugurazione della Morgan Library, New York si è arricchita di una nuova istituzione culturale. O meglio l’ha ampliata, trasformata, avvicinata al presente e al futuro grazie all’opera dell’architetto italiano più famoso in America, Renzo Piano. Appena inaugurato, già l’edificio, nonostante la sostanziosa ristrutturazione che ne fa un’esplosione di luce in un museo polveroso, sembra appartenere alla storia dell’urbanistica metropolitana di Manhattan. Qui cambia tutto di giorno in giorno, di notte in notte, ma ogni cambiamento si adegua a una realtà esistente e a una realtà in perenne movimento. Nel novembre 2004 era stato inaugurato il nuovo MoMA (Museum of Modern Art). Anch’esso aveva aggiunto luce ai suoi spazi, si era aperto al paesaggio esterno. Però, secondo il commento del New York Times, i due progetti sono molto diversi. In quello di Yoshio Taniguchi (architetto del nuovo MoMA) ci sono astratti piani orizzontali che sembrano galleggiare. La Morgan Library è fatta invece di carne e ossa. Le sue superfici di acciaio non sono levigate per un fine astratto, le pesanti giunture che saldano le travi sono lasciate a vista. Piano ha creato, per il New York Times (di cui sta anche realizzando la nuova sede), una drammatica interazione tra i vasti spazi pubblici illuminati dalla luce naturale e gli ambienti a volta che fungono da gallerie e spazi di lettura. «Il risultato è che questo edificio non si ritrae dalla città ma ancora una volta ci fa innamorare di lei».

Siamo d’accordo con il New York Times e non soltanto per ragioni campanilistiche. Piano (come tanti altri architetti) sta cambiando New York ed altre città americane, senza violentarle. Rispetta il loro passato e le rende adeguate ai nuovi tempi. Costruisce o modifica edifici, interpretandone però rigorosamente la funzione primaria. Così ha riportato la Morgan agli intenti didattici e istruttivi voluti dai suoi proprietari nel 1924, quando questa imponente struttura diventò nello stesso tempo museo e biblioteca per professori. Ha aggiunto un auditorium, uno spazio espositivo e un negozio di oggetti artistici, dando maggiore spazio all’agorà di un cortile quasi rinascimentale. Con la risonanza perfetta dell’auditorium ha accresciuto l’eco dei suoi successi personali. Ma quel che più interessa, al di là del suo progetto, è il ringiovanimento di New York, il crescere, il respirare continuo della città, il suo adeguarsi all’impetuosa domanda di cultura dei giovani, contro un reliquiario che rende morta o immobile parte dell’Europa. New York, lentamente, è tornata a essere la città della luce e della gioia, dopo quell’11 settembre 2001 che la consacrò città del martirio. Questa nuova gioia ha un qualcosa di languido che prima non c’era. Non è più ostentazione, non è più ricerca frenetica di felicità. È dolcezza, forse è anche pentimento, comunque è educazione. Se ti pestano un piede o ti urtano per la strada ti chiedono subito scusa, se chiedi un’informazione non ti guardano più con indifferenza o addirittura con un senso di noia, ma cercano di soddisfarti nel modo più esauriente. Se il tuo inglese non è perfetto fanno uno sforzo per capirti. Se poi dichiari di essere italiano allora si illuminano di un sorriso pieno di complimenti.

Cultura italiana e metamorfosi degli italiani

Sì, nell’anno di grazia 2006, l’italianità (Renzo Piano a parte) è una componente pregiata della capitale del mondo. Se cammini per la Fifth Avenue ti senti a casa. Le scritte cubitali dei negozi italiani dominano quelle dei negozi francesi, un tempo padroni assoluti di Midtown, e di quelli americani, alcuni dei quali (come Brooks Brothers) sono poi di proprietà di nostri connazionali. Il made in Italy continua ad affascinare. A Manhattan e altrove, i ristoranti presi d’assalto al 67% sono italiani. È anche attraverso la gola che s’intrufola la cultura italiana, fino a esplodere nei musei, nelle gallerie private, nei teatri e nei cinema. Infatti la cultura di New York è in parte italiana. E anche la nostra lingua impercettibilmente si propaga in vari angoli della città. Ha superato nelle scuole superiori e nelle università americane prima il tedesco, poi il francese, piazzandosi al terzo posto dopo l’inglese e lo spagnolo, che a differenza dell’italiano sono lingue parlate correntemente. La nostra è considerata la lingua della cultura e della bellezza, quindi più alata e più desiderata, ma un po’ morta. E tuttavia vivida anche grazie all’opera lirica che qui ha milioni di fan.

Il New York Times dedicò qualche anno fa un articolo alla metamorfosi degli italiani d’America, sottolineando come all’immagine dei wanna be, degli arrampicatori-imbroglioncelli o addirittura dei gangster si fosse sovrapposta quella delle persone gentili, disponibili e colte. Lo sceneggiato The Sopranos, dedicato alle gesta spesso risibili di alcuni mafiosi d’origine italiana, ha tentato di ribaltare la posizione degli italoamericani, per condannarli alla gogna di un passato discusso, ma senza riuscirvi. In fondo, perfino la nostra mafia appare quasi umana. Qualcuno (alludo ad altri sceneggiati) ha cercato di far apparire la famiglia dei Medici, ovvero il nostro Rinascimento, come l’espressione di un metodo mercantile-mafioso, ma anche questo tentativo è miseramente fallito. L’Italia e il suo passato, si tratti del Rinascimento o di Roma, si sono sempre salvati, magari tra qualche chiacchiera. Perché, ripeto, la cultura di New York è anche italiana e la cultura italiana è considerata newyorkese. È, in fondo, il grande patrimonio di una capitale che cerca antenati e stemmi nobiliari nell’epoca fastosa dei Cesari e in quella più delicata di Lorenzo il Magnifico. E che cerca umanità nella nostra provincia. La trasmissione di maggiore successo della PBS (la televisione pubblica americana) è un lungo viaggio tra le meraviglie del paesaggio italiano.

Città della gioia culturale

A questo punto rivedrei leggermente il concetto di New York come città della gioia. Prima dell’11 settembre sembrava una megalopoli protesa verso ogni tipo di lusso consumistico ed edonistico, adesso questa sua gioia è piuttosto di timbro culturale. New York (secondo uno slogan del Municipio) è ‘la città che non dorme mai’, ma non tanto perché i suoi locali notturni (in realtà pochi) siano affollati di cittadini e turisti goduriosi, bensì per il suo amore per la lettura. Qualche rivista specializzata ha lanciato un lamento: gli americani leggono poco, solo il 50% di loro legge un romanzo al mese. Una percentuale che, in realtà, spaventa noi europei e in particolare noi italiani perché le nostre statistiche in tema di lettura sono ben più basse. E quando si passa alla poesia, crollano. Mentre qui ci sono bar dove si creano liriche e si vincono premi di qualche migliaio di dollari per avere improvvisato dei buoni versi su un tema indicato da un’ignota giuria. Che urla, che gioia e che poesia! Questi eventi poetici riportano davvero al Rinascimento e alle tenzoni medievali tra i cosiddetti ‘poeti a braccio’. Ma a New York c’è qualcosa di più, la ‘municipalizzazione’ della poesia e la consacrazione del più dolce dei mesi (aprile) a national poetry month. Il Dipartimento dell’Educazione di New York City, in collaborazione con l’ufficio del sindaco, il Dipartimento degli Affari culturali, la City University of New York (CUNY) e il New York Times, sponsorizza un premio poetico che è giunto alla quarta edizione. Per partecipare basta presentarsi il 28 aprile di fronte alla commissione con una poesia in tasca. Per vincere occorre, naturalmente, che sia bella. Se ogni luogo (anche la metropolitana, i parchi pubblici, i bar silenziosi come gli Starbucks) è una palestra di lettura, il tempio privilegiato per assaporare un libro è ovviamente la New York Public Library, che non è raccolta in un unico edificio, ma in un sistema quasi sterminato di sale e uffici: ben 85 biblioteche a Manhattan, nel Bronx e a Staten Island, tra cui una per ciechi e disabili fisici. Ognuna di esse è totalmente gratuita, anche quando, come quella nel Bronx, non offre soltanto libri, ma servizi, al punto da diventare una vera e propria agenzia di collocamento. È amichevole e serena questa biblioteca immersa nel quartiere più turbolento della città, ha legni chiari, impiegati e inservienti gentili, che dispensano anche corsi di computer ai ragazzi e alle ragazze (sono per lo più di colore) che cercano lavoro. Austera e solenne è invece la più famosa delle sedi della Public Library, quella al 455 della Fifth Avenue, nel centro di Manhattan. Fu ultimata nel 1970. Si articola in cinque piani dove trovi tutti i testi che vuoi in tema di letteratura, storia, filosofia, sociologia, arte, religione, diritto, ma anche salute e cibo. Clicchi sul computer, indichi i libri che desideri e te li danno, se insisti te li prestano perché tu possa terminarne la lettura a casa. Se ti bastano poche pagine, te le fotocopiano. Tutto, a parte le fotocopie, sempre rigorosamente free, ovvero gratis, come gratis lavorano molti giovani e anziani che sono la vera forza-lavoro delle istituzioni culturali di New York. I volontari sono ovunque, nelle biblioteche, nei musei, nei teatri. Si divertono a svolgere un servizio che è prezioso, sono mediamente più colti dei dipendenti veri e non intenteranno mai cause di lavoro. Non solo perché non avrebbero alcuna possibilità di vincerle, ma soprattutto perché considerano la loro opera una missione culturale. E sono legati quasi passionalmente alla loro istituzione. Ma a New York ci sono anche tante librerie private dove si può leggere e scrivere. Negli ultimi vent’anni è fiorita una catena più o meno sterminata che si chiama Barnes & Noble e vende non solo libri, ma anche riviste, quaderni, blocknotes, occhiali, soprammobili ecc. Qualcuno dice che gli unici optionals sono proprio i libri, ma lo dice per invidia: queste librerie sono un affare smisurato. A crearle è stato un italiano, un po’ timido e sulle sue, che non si mostra quasi mai in pubblico, Leonard Riggio.

New York è un museo vivente che contiene ogni tipo di cultura, anche quella ‘stradaiola’, che sembra spontanea e incontenibile, ma in realtà è indirizzata e governata dalle autorità cittadine. I suonatori di sax, i rumoristi geniali che fanno emettere gemiti a tubi, secchi e lavandini, i cantanti pop che incontri in metropolitana sono stati scelti da una commissione, dopo un regolare provino. E, soprattutto se si contendono un metro quadrato di Times Square o della Fifth Avenue, devono essere bravi. I veri musei sono un’infinità e tutti, quasi sempre, gremiti di folla. È così importante l’istituzione museale per gli americani che non può essere del tutto abbandonata ai privati, ma deve godere dell’aiuto pubblico. È una tradizione nata nel 1869, a favore del Museo di Storia naturale. I parlamentari di New York autorizzarono organizzazioni private non-profit ad avvalersi di spazi e locali di proprietà del Comune. Il modello con il passare degli anni si è evoluto ed è cresciuto. Di analoghi sostegni hanno goduto il Metropolitan Museum, il New York Botanical Garden e, a Brooklyn, il Museo d’Arti e Scienze e l’Accademia di Musica. Ormai le organizzazioni non-profit che si occupano di cultura e meritano la partnership pubblica sono 550. Nel 2005 la City ha dato loro 1.800.000 dollari, spiccioli, si dirà, di fronte al patrimonio ingente di donazioni dei privati. Ma il Dipartimento degli Affari culturali di New York nel 2006 dovrebbe spendere a loro favore 131 milioni di dollari, in modo che possano costruire o ristrutturare istituzioni culturali. E per i prossimi quattro anni il capitolo di spesa previsto ammonta a 803 milioni di dollari. Le più importanti istituzioni culturali di New York legate a organizzazioni non-profit sono: 92 Street Y, American Museum of Natural History, Brooklyn Academy of Music, Brooklyn Botanic Garden, Brooklyn Children’s Museum, Brooklyn Museum, Carnegie Hall, City Center, Film Forum, Frick Collection, Solomon R. Guggenheim Museum, Historic House Trust, Lincoln Center Theater, Metropolitan Museum of Art, Metropolitan Opera, Museum of Arts and Design, Museum of Modern Art, National Museum of the American Indian-Smithsonian Institution, New York Botanical Garden, New York City Ballet, New York City Opera, New York Hall of Science, P.S. 1 Contemporary Art Center, Public Theater, Queens Botanical Garden, Statue of Liberty National Monument, Tribeca Film Institute, Whitney Museum of American Art, Wildlife Conservation Society-Bronx Zoo, Wildlife Conservation Society-New York Aquarium, Young Audiences New York.

Queste istituzioni culturali sono visitate ogni anno da circa 26 milioni di persone (53% dell’affluenza totale in luoghi pubblici), più del doppio dei teatri di Broadway (24%) e degli stadi sportivi (23%). E questo dato, riferito al 2004, non tiene conto del MoMA, che ha riaperto il 20 novembre 2004, dopo avere chiuso la sua sede centrale nel maggio del 2002 per una massiccia ristrutturazione, costata 850 milioni di dollari. Secondo dati ufficiosi, il Museo d’arte moderna di New York in un anno e mezzo ha già avuto più di due milioni di visitatori. Sono cifre che dimostrano come il popolo americano sia infinitamente più colto di quanto una parte dell’Europa si ostina a credere. Fanno quasi tenerezza le file interminabili dei visitatori dei musei. Un rito che sembra eccitare il pubblico, prima della contemplazione delle mostre temporanee e delle collezioni permanenti. Queste si arricchiscono ogni anno di nuovi capolavori. Il Metropolitan da qualche mese sfoggia un piccolo Duccio di Boninsegna, davvero bello. Prezzo dichiarato dell’operazione 45 milioni di dollari. Ma l’istituzione non-profit e i suoi soci non hanno battuto ciglio. Nei musei e nei teatri sei colpito dalla folla che li riempie, così paziente da avere fatto la fila per lunghi minuti o lunghissime ore. La ‘fila’ è parte integrante della cultura americana. Se superi, magari inavvertitamente, qualcuno, questo qualcuno ti può anche sparare. Ma se qualcuno per errore ti scavalca, di solito ti chiede scusa, fino a prostrarsi fino a terra. Tra gli spettatori che osservi nella sala ci sono tanti studenti e molti disabili. Che poi verranno portati in un ristorante a discutere di quello che hanno visto e sentito. I disabili di New York sono meno svantaggiati di quelli che vivono nel resto del mondo. Perché questa capitale considerata ‘feroce’ li rispetta, anzi li ama.

Un imprevedibile welfare

C’è anche un museo dell’acqua nell’enorme spazio museale di New York. Nei suoi quadri c’è il liquido che circonda Manhattan, acqua stagnante, acqua dura, leggera, acqua come simbolo di pace, acqua amniotica di un ventre materno. New York è anche madre, anche welfare, imprevedibile welfare. Molti europei si sorprendono nell’apprendere che lo Stato di New York è tra i più evoluti nel concedere benefits ai poveri. Se un homeless, ovvero un barbone, sta male, il tribunale, attraverso il Dipartimento della Salute, dispone che sia ricoverato in un ospedale per ricchi e se lì non c’è posto anche in un albergo a cinque stelle, dove potrà dormire ed essere curato gratis. C’è anche una Charity per i jazzisti malati e vecchi. La Jazz Foundation dedica loro una serata alla settimana perché abbiano di che vivere. E recentemente c’è stata anche una serata a favore degli artisti palestinesi poveri. New York è grande. Anche nell’elargizione dei preservativi: 100.000 al mese (gratis).

I poveri, se hanno le carte in regola e non sono clandestini, non debbono temere. Teme semmai la classe media, la middle class che spende cifre spaventose (rispetto ai suoi guadagni) per mantenere i figli, farli studiare, espandere la famiglia nei sacrari del potere di Wall Street o del business. Anche se con il sistema delle borse di studio possono essere rimborsati tra i 5000 e i 20.000 dollari. Niente male per la middle class: a New York una famiglia-tipo guadagna 56.556 dollari l’anno. Una famiglia-tipo di Manhattan è comunque più ricca di una famiglia degli altri quattro borouhgs della città. In quest’isola considerata dolce e salutare, la cui area è di 59,5 km2, il salario settimanale medio è di 1913 dollari, più del doppio rispetto alle altre 3140 contee dell’impero. Wall Street e il settore finanziario pagano davvero bene: 5680 dollari la settimana. Seguono l’industria dell’informazione (2150 dollari) e quella del business (1799 dollari).

Norme di comportamento

Ci sono, naturalmente, alcune regole-comandamenti che i newyorkesi debbono osservare, come rispettare la polizia, altrimenti sono guai e proiettili; non alzare la voce in un locale pubblico, pena una rissa; non dire alla propria segretaria che ha un bel vestito, per evitare una causa per sexual harassment; infine accettare le telecamere. Questo non vale soltanto per i giornalisti televisivi. Vale per tutti. Manhattan e gli altri quartieri di New York sono stati invasi e circondati da centinaia di migliaia di telecamere nascoste. Qualcuno ha protestato, ma senza successo. Il crimine, grazie a queste telecamere, è sceso di un altro 37%. E a chi dice: «Non muoverti, c’è un occhio che ti guarda», c’è chi risponde: «Meglio un’occhiata che una pugnalata». Del resto qui, la cosiddetta ‘privacy’ non funziona, non è un bene da tutelare quando può scontrarsi con la sicurezza degli altri. Chi compra o affitta una casa in una qualunque parte di New York o del New Jersey ha il diritto di sapere se nei dintorni c’è un pedofilo. E la polizia ha il dovere di comunicarglielo. Sul diritto alla ‘privacy’ di un depravato (anche se redento) prevale quello alla sicurezza di un bambino. Non vorrei sembrare troppo filonewyorkese. Nei miei servizi giornalistici ho raccontato che un tal Diallo, clandestino africano, fu crivellato di colpi dalla polizia, perché non aveva capito (lui che non parlava inglese) l’ordine di alzare le mani. E ho scritto e detto che quegli splendidi college dove ragazzi e ragazze studiano in totale armonia con i loro professori, secondo una logica arcadica che non è proprio quella di casa nostra, talora sono teatri di conflitti a fuoco. L’America è violenza, però non è soltanto violenza. È dolcezza, ma non è soltanto dolcezza. New York è una via di mezzo tra il meglio del bene e il peggio del male, ma non è l’ipocrisia di buona parte dell’Europa. Comunque è vincente: ha sconfitto il razzismo, ha sconfitto il nazismo, forse sconfiggerà il terrorismo. Ma riuscirà mai a sconfiggere l’isolazionismo che nasce dall’esuberanza del proprio potere? Secondo me, New York ci sta provando proprio grazie alla cultura europea e, in primo luogo (torno al concetto di partenza) grazie a quella italiana. Per questo, poi, non ci si deve vergognare di essere europei. Perché New York è la città europea più vasta del pianeta.

Città plurietnica

Infinito il numero delle etnie di New York. Prima si guardavano in cagnesco e si aggredivano. Adesso si rispettano e non si toccano. È un miracolo ottenuto a colpi di legge, una ragnatela di leggi che hanno creato una consuetudine. Anche a favore dei clandestini, come dimostrano le ultime proteste di piazza a loro sostegno. Emigranti al bando? L’America legalitaria e perbenista non è d’accordo sulla discriminazione dei lavoratori senza visto. E forse soltanto alcuni politici senza vista possono pensare di mandare via questa pacifica forza-lavoro che consente all’ingranaggio dell’impero di andare avanti e all’America di continuare a essere il grande sogno degli emigranti. L’11 settembre sembra avere tappato gli occhi di una parte del Parlamento americano e della Casa Bianca sul fenomeno dei cosiddetti ‘alieni’ che hanno reso grande questo paese. A Roma si dice che per essere un romano vero devi esserlo da sette generazioni. In America puoi essere un americano vero anche da mezza generazione, o addirittura da pochi anni della tua vita. Senza che tu te ne debba vergognare. E tanti lavoratori hanno realizzato questo sogno dopo avere messo piede negli Stati Uniti come clandestini. La chiusura di certi parlamentari americani nei loro confronti è più mentale che politica. Temono davvero un nuovo attentato terroristico. E da parte di chi? Di un gruppo di messicani che tengono in piedi l’industria della ristorazione? O di un gruppo di europei che aiutano l’industria della cultura e della tecnologia? America, cara America, New York, cara New York, cercate di connettere. Che la Statua della Libertà continui a essere anche il simbolo della grande terra dell’emigrazione. Sembra che nel 2038 la prima lingua parlata, da queste parti, sarà lo spagnolo, per via delle immigrazioni ispano-americane. Niente di male, anche se sogno che la prima lingua studiata sia l’italiano. Passeggio per il Central Park a mezzanotte. Incredibile ma vero: un gruppo di persone, tra cui un homeless che forse è di nobile lignaggio, recita l’Inferno di Dante. L’altra sera sono stato nella cattedrale di Saint John the Divine. C’è un angolo della poesia. Anche là si leggeva l’Inferno, e qualcuno lo paragonava all’11 settembre. Qualcuno aggiungeva che il divino poeta è ancora più grande di Shakespeare.

Gli abitanti di New York, secondo il censimento del 2004, sono 8.104.079, un po’ di più rispetto al 2000 (8.008.278) e molti di più rispetto al 1990 (7.322.564); 6.068.009 sono tra i 18 e i 64 anni, 937.857 hanno superato i 65. Nel 2000 gli uomini erano 3.794.204, 4.214.074 le donne. I bianchi erano 3.576.385, gli ispanoamericani 2.160.554, i neri 2.129.762, quasi 800.000 gli asiatici, 41.289 i pellerossa, ben 393.959 coloro che hanno nel loro sangue più di una razza, due, tre, quattro. È il futuro che esplode nella città che lo rappresenta da più di un secolo. Bianchi, neri, gialli si condenseranno in esseri-sintesi di ogni etnia, bandiere del DNA del progresso, contro l’idiozia del razzismo. L’America è un laboratorio naturale di futurologia. Peccato che mentre creava il mese della poesia abbia messo al bando i poeti, proprio dal Village, proprio da Soho, dove fiorì la cultura di New York all’inizio del Novecento. Tanto che questa parte allora un po’ sordida della città si chiamò Bohemia. E fu così bohémienne da offrire appartamenti a prezzi bassissimi ad artisti e poeti. Il real estate, ovvero il mercato immobiliare, non concede più sconti. I poeti sono fuggiti verso Harlem e Brooklyn, ma adesso non ne possono più neppure di Staten Island. Chissà dove finiranno.

Perché a New York

Io me la godo New York, come direttore dell’Istituto italiano di cultura. E apprezzo il suo amore per il mio paese. La conosco da quasi dieci anni questa città misteriosa, enorme ma piccola, tanto da fare tenerezza. Ti mette paura con i suoi grattacieli, ma la sua Midtown è molto meno vasta del centro storico di Roma. È solo più alta e rumorosa. È un cantiere eterno come doveva essere Roma ai tempi dell’impero. Sempre e ovunque lavori, per le strade, sotto le strade, nei grattacieli, giorno e notte. Decibel in fermento. Tu non dormi, ma sui marciapiedi i veri indiani metropolitani, quegli scettici e silenziosi contestatori di tutto che sono gli homeless, riposano tranquilli. Il rumore per loro è la musica della città.

Ho studiato New York finché sono stato corrispondente della RAI, dal 1997 al 2004. Ho avuto anche la ventura di fare quello che qualcuno potrebbe definire lo scoop del secolo o del millennio, uno scoop che non ricorderò mai con piacere: fui il primo giornalista italiano a dare notizia dell’incendio delle Twin Towers. Stavo bevendo un caffè prima di andare alla RAI, quando la mia segretaria mi telefonò e mi disse: «Sono dalle parti delle Twin Towers e una delle torri sta bruciando». Allora accesi la televisione e guardai la CNN, che si era subito collegata con la storia. Chiesi subito la linea per un’edizione straordinaria del telegiornale. Mi fu risposto che non si poteva fare una straordinaria per ogni incendio di un grattacielo. Risposi: «Questo non è un incendio normale». E fui facile profeta. Il mio telefonino squillò mentre passeggiavo nervosamente per la strada di fronte alla vecchia sede RAI (che era a Midtown): «Ma come, non sei ancora in postazione?» Cominciai una telecronaca senza notizie vere, finché le notizie giunsero, purtroppo. E rividi più volte, nelle telecronache e negli incubi, l’evolversi dei fatti: il primo aereo contro la prima torre, il secondo aereo contro la seconda, il terzo… o meglio le macerie del Pentagono… il quarto o meglio i suoi resti fumanti in Pennsylvania. Era successo qualcosa di terrificante. Due mesi dopo riuscii a prendermi un po’ di riposo: avevo lavorato giorno e notte per TG1, TG2, TG3, per il Giornale Radio. Quando salii su un aereo dell’Alitalia, guardai mia moglie e mio figlio, e scoppiai stupidamente in lacrime. Mi ero reso conto che avevo assistito al fatto più sconvolgente della mia vita.

Non certo per stanchezza ma per curiosità, partecipai dopo un paio d’anni a un concorso per diventare direttore dell’Istituto italiano di cultura. Forse la parola concorso è eccessiva, diciamo pure a un’intervista all’americana. Parlai alla Farnesina e tornai a New York, dove seppi che ero stato prescelto. Conoscevo già la città e le sue istituzioni culturali. Indubbiamente ero avvantaggiato. Al Guggenheim sponsorizzai subito una mostra su Boccioni e all’Istituto detti vita a una ‘settimana futurista’, con musica futurista, teatro futurista e addirittura aperitivi e cena futuristi. Non dimentichiamo che Depero disegnò la bottiglia del Campari. Poi abbiamo dato il nostro sostegno alla mostra di Modigliani al Jewish Museum e a quella sul Rinascimento di Filippo Lippi, Piero della Francesca e Fra’ Carnevale al Metropolitan Museum.

Abbiamo dato grande spazio alla promozione del cinema italiano. Ho invitato Bernardo Bertolucci a presentare The dreamers, Marco Bellocchio a ricordare tutta la sua produzione cinematografica, Vittorio De Seta, che qui è molto amato, a ripresentare Banditi ad Orgosolo ed alcuni documentari. E poi tanta letteratura. Siamo in totale sintonia e collaborazione con il Pen, il Tribeca film Festival, il MoMA e ogni istituzione culturale di Manhattan e dintorni. Perché è piu importante organizzare un evento assieme agli americani che ghettizzarlo nel pur splendido palazzetto di Park Avenue, sede dell’Istituto. Anche nel 2006 l’Istituto italiano di cultura si è mosso in sintonia con le più importanti istituzioni culturali della città. Spesso organizziamo eventi che, dopo la presentazione ufficiale nella nostra sede, smistiamo altrove. È il caso dell’anteprima mondiale di alcuni sceneggiati di RAI Fiction. Ne abbiamo presentato uno, I colori della gioventù sulla vita di Umberto Boccioni e sul Futurismo, a Park Avenue e nei giorni successivi ne abbiamo presentati altri due alla New York University presso la Casa Zerilli Marimò e alla CUNY.

Gremite in ogni occasione le sale. Particolarmente intensa è la collaborazione con la Casa Zerilli Marimò che ha condiviso con noi la bella mostra dell’astrattista Achille Perilli. L’Istituto ha così aggiunto un’altra retrospettiva alle rassegne già messe in cantiere dopo l’inaugurazione della sua nuova Galleria. Il grand-opening è avvenuto con Emilio Vedova, poi c’è stata una mostra di Mimmo Rotella. Dopo l’affascinante esposizione di Antonello da Messina al Metropolitan Museum, realizzata con l’aiuto dell’Istituto, si annunciano nuove manifestazioni cui l’Istituto darà un pieno apporto: quella di Raffaello (sempre al Metropolitan) e quella di Lucio Fontana al Guggenheim Museum. Un’altra mostra ‘affratellerà’ il nostro Istituto, la Casa Zerilli e il Lincoln Center: quella dedicata a Beni Montresor, delicato personaggio del mondo della musica e delle fiabe. Ma anche manifestazioni apparentemente minori hanno suscitato interesse e ottenuto successo nella capitale del mondo. Abbiamo portato, in occasione dell’evento di Antonello da Messina, alcuni ‘pupari’ siciliani che hanno messo in scena il Boiardo. In locali d’essai abbiamo fatto vedere il famoso film muto Assunta Spina con la mitica Francesca Bertini. In altri luoghi underground abbiamo fatto conoscere le lettere d’amore di Gabriele D’Annunzio a Eleonora Duse. Sempre tutto esaurito. Non certo secondaria è stata la presenza a New York di Umbria Jazz, guidata in modo effervescente dal suo testimonial Renzo Arbore. I musicisti italiani hanno dimostrato che il jazz fa parte del nostro DNA. New York è una città amabile, quando ci guarda rannuvolata o serena. Ha bisogno di noi, del nostro accento italiano, di una cultura che è come un’endovena piena di proteine. E noi abbiamo bisogno della sua luce che dà nuova luce alla nostra cultura. L’Italia è anche New York, la ville lumière del nostro tempo. Ricordiamocene con orgoglio.

Lo sviluppo storico e urbanistico

New York sorge allo sbocco del fiume Hudson nell’Oceano Atlantico, in parte sopra la terraferma, ma specialmente sopra le isole che chiudono la Upper Bay: Manhattan e Staten Island in primo luogo, e poi la sezione occidentale di Long Island. Entro i confini amministrativi (boroughs di Bronx, Brooklyn, Manhattan, Queens e Staten Island) la città copre 829 km2 e conta oltre 8 milioni di abitanti. Dimensioni ben più grandiose ha l’area metropolitana (17.900 km2 con quasi 22 milioni di abitanti), che interessa non solo lo Stato di New York, ma anche quelli di New Jersey e Connecticut, includendo altre città, come Yonkers, Mount Vernon, New Rochelle, Jersey City, Bayonne, Richmond, Elizabeth, Newark e Peterson. Dei cinque boroughs, ciascuno dei quali amministrativamente costituisce una contea e comprende diversi quartieri (neighborhoods), quello centrale è Manhattan, cuore dell’attività commerciale, finanziaria e culturale degli Stati Uniti e centro decisionale politico ed economico di livello mondiale.

Il primo europeo a entrare nella baia di New York fu nel 1524 Giovanni da Verrazzano durante la sua spedizione nell’America settentrionale per conto di Francesco I di Francia. L’entroterra fu esplorato nel 1609 dal capitano inglese Henry Hudson, che risalì il fiume che porta il suo nome, inviato dalla Compagnia olandese delle Indie orientali alla ricerca di un passaggio a Nord-Ovest per l’Asia. La fortuna di New York fu dovuta in origine proprio alla posizione sull’Hudson, la cui valle rappresentò la miglior via di penetrazione verso la regione dei laghi. Lo sfruttamento del territorio fu concesso nel 1621 dagli Stati Generali delle Province unite dei Paesi Bassi alla neocostituita Compagnia olandese delle Indie occidentali.

Nel 1626 il suo emissario Peter Minnewit acquistò dagli Indiani Algonchini l’isola di Manhattan, allora rivestita da una fitta foresta, pagandola con coltelli, perle e bottoni per un valore di 60 fiorini. Nella parte meridionale vi fece costruire il forte Amsterdam, intorno al quale sorse, disordinatamente, un centro commerciale, chiamato Nieuw Amsterdam, che si popolò di protestanti profughi da ogni parte dell’Europa e della Nuova Inghilterra. L’ultimo governatore olandese fu il dispotico Peter Stuyvesant, che favorì lo sviluppo commerciale dell’insediamento, proteggendolo dalle ostilità degli Indiani. Ma le leggi particolarmente severe da lui imposte gli alienarono il favore dei coloni, che lo costrinsero alla resa quando la flotta inglese si presentò davanti alla città. Nel 1664 questa passò dunque, insieme all’intero territorio della Nuova Olanda, sotto il controllo inglese, assumendo il nome attuale in onore del duca di York, fratello del re Carlo II. Gli Olandesi la riconquistarono nel 1673, per cederla definitivamente l’anno successivo. Sotto il dominio britannico la città prosperò soprattutto grazie ai commerci con l’Inghilterra e all’affermarsi di attività industriali, come la carpenteria navale e la macinatura del grano. Preannuncio della futura vivacità culturale furono nel 1725 la fondazione del primo quotidiano, la New York Gazette, nel 1732 l’inaugurazione del primo teatro, nel 1754 la fondazione del King’s college, nucleo originario dell’odierna Columbia University. Nel 1734 l’assoluzione di John Peter Zengler, posto sotto processo per diffamazione per aver attaccato in un libello il governatore della città, è considerata la prima affermazione del principio della libertà di stampa negli Stati Uniti. Il tracciato irregolare di Lower Manhattan, i nomi delle strade al di sotto di Houston Street e di zone come Harlem, Chelsea, Gramercy, Murrey Hill restano la testimonianza del periodo olandese e inglese, insieme a pochi edifici del 18° secolo (Fraunces Tavern, St. Paul’s Chapel, Morris-Jumel Mansion).

Occupata dalle truppe di Sua maestà nel 1776, New York rimase in mano inglese per tutta la durata della Guerra d’indipendenza, fino al 1783. Dal marzo 1789 fino all’agosto 1790 fu la capitale degli Stati Uniti e fu qui, nella Federal Hall, che venne eletto presidente George Washington (1789). Nel 1784 fu fondata la Bank of New York, nel 1787 fu la volta della prima società di assicurazioni e il 1792 fu l’anno della nascita della Borsa di New York. Da quel momento la crescita della città fu inarrestabile. Dall’estrema punta di Manhattan si estese oltrepassando i limiti settentrionali che via via si era posti, inglobando villaggi (Greenwich, Nieuw Haarlem), tenute, fattorie, industrie, in una continua metamorfosi del territorio. Lo sviluppo divenne vertiginoso quando fu aperta tra i laghi e l’oceano una comunicazione fluviale continua (Erie Canal, 1825), si crearono le prime ferrovie (1851, linea New York-Albany) e il porto di New York si affermò come punto di maggior traffico tra America ed Europa. La popolazione si moltiplicò (49.401 ab. nel 1790; 696.115 nel 1850; 1.911.698 nel 1880) anche per l’afflusso di emigranti europei, soprattutto irlandesi, tedeschi, slavi, italiani. Parallelamente all’importanza economica e demografica della città, aumentava anche la sua influenza politica nel paese, con la maggioranza del quale, peraltro, entrò spesso in conflitto, come accadde durante la Guerra civile (1862-65), allorché fu teatro di sommosse contro la coscrizione e tentò addirittura di erigersi in repubblica autonoma: furono gli immigrati irlandesi a dare il via ai cosiddetti ‘disordini per la leva’, per protesta contro il provvedimento che consentiva ai ricchi di evitare di prestare servizio nell’esercito pagando 300 dollari e per astio contro la popolazione nera, che ritenevano responsabile della guerra e loro diretta antagonista sul mercato del lavoro. Nel 19° secolo la città assunse il suo aspetto di metropoli moderna. Il piano per Manhattan del 1807-1811 definì il sistema a scacchiera (grid) con 12 avenues in direzione Nord-Sud e 155 streets da Est a Ovest. Nel 1858 Frederick Law Olmstead e Calvert Vaux presentarono il piano per il Greensward (Central Park): 400 ettari circa, acquistati dalla città e trasformati in un significativo esempio di architettura del paesaggio. Gli edifici pubblici e di culto e le dimore delle famiglie più in vista di New York rispecchiavano modi europei, dal classicismo francese della City Hall (1802-11) al neogreco dell’United States Custom House (1834-42; ora Federal Hall National Memorial) o di Washington Square, al gotico della St. Patrick’s Cathedral (1888). Tipiche dell’architettura del 19° secolo sono le case in brownstone, la pietra bruna del Connecticut, e le costruzioni in ghisa originariamente destinate a magazzini e a piccole fabbriche che abbinano a una tecnica costruttiva moderna un’ornamentazione e dettagli rinascimentali, neoclassici, liberty (per esempio gli edifici in Greene St., dal 1973 SoHo cast-iron historic district). Tra il 1874 e il 1898 i confini di New York City furono notevolmente ampliati, prima con l’aggiunta del Bronx (parte nel 1874 e parte nel 1895) e poi con quella degli altri tre distretti (1898), che portò alla costituzione della ‘Grande New York’. Dal 1883 Brooklyn era unita a Manhattan dal primo dei caratteristici ponti sospesi di New York, il Brooklyn Bridge (John A. e Washigton Roebling). Dal 1886 all’entrata del porto si ergeva la Statua della Libertà, dono dei francesi al popolo americano. Non distante, sull’isolotto chiamato in origine Gibbet Island e poi Ellis Island, fu inaugurata nel 1894 la stazione di smistamento per gli immigranti, gestita dal governo federale che, a seguito del massiccio afflusso proveniente essenzialmente dall’Europa meridionale e orientale, aveva deciso di assumere il controllo del flusso migratorio. Gli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi anni del Novecento furono per New York, come per il resto degli Stati Uniti, un periodo di intensa crescita economica, una gilded age, per chiamarla con il titolo di un celebre romanzo di Mark Twain. Fu anche un’epoca di fortissima sperequazione sociale, con enormi ricchezze nelle mani di un esiguo numero di potenti famiglie e una gran massa di poveri, afflitti da sottonutrizione ed epidemie. Ricchissimi industriali e imprenditori, come il magnate dell’acciaio Andrew Carnegie, quello del carbone Henry Clay Frick, il finanziere Cornelius Vanderbilt, fecero a gara nel farsi erigere abitazioni sfarzose in stile francese o veneziano lungo la Fifth Avenue o Broadway e nel patrocinare le arti. Nel 1880 fu inaugurata la grandiosa sede del Metropolitan Museum, fondato nel 1870 da un gruppo di artisti e di filantropi allo scopo di dotare la città di una collezione in grado di rivaleggiare con le maggiori europee. Nel 1883 aprì la Metropolitan Opera House, per gli spettacoli lirici, nel 1891 la Carnegie Hall, prima grande sala da concerti. Nel 1902 il banchiere Pierpont Morgan, uno dei maggiori collezionisti del suo tempo, si fece costruire dallo studio McKim, Mead and White la sontuosa sede della sua biblioteca, che suo figlio vent’anni dopo avrebbe convertito in istituzione pubblica. Non minore imponenza caratterizzava la New York Public Library (1897-1911, Carrère & Hastings). Dal punto di vista delle infrastrutture, una vera rivoluzione per la vita della città rappresentò, il 28 ottobre 1904, l’inaugurazione della prima metropolitana, tra la City Hall e la West 145th St. Nel giro di pochi anni tutti i quartieri cittadini vennero collegati con ferrovie sotterranee. La popolazione continuava a crescere, sfiorando nel 1900 i 3,5 milioni di abitanti. Il 70% delle industrie americane aveva sede a New York, per il porto passavano i due terzi delle merci importate nel paese. L’esiguità dello spazio a disposizione nel centro di Manhattan favorì l’edilizia a sviluppo verticale. Nel 1902 David Burnham costruì il Fuller (poi Flatiron) Building, di 21 piani, con scheletro in acciaio, prototipo dei grattacieli. Questa nuova tipologia, presto regolamentata (New York City building zoning resolution, 1916), rese peculiare lo skyline newyorkese con le svariate forme degli stili storici e dell’art déco. A lungo il primato di edificio più alto restò al Woolworth Building, a Lower Manhattan, quartier generale della catena di grandi magazzini che aveva rivoluzionato il commercio al dettaglio. Nel 1913 i Vanderbilt inaugurarono il Grand Central Terminal, immensa stazione ferroviaria in stile Beaux-Arts nel cuore di Manhattan.

Dopo i ‘ruggenti’ anni Venti – epoca d’oro dei teatri di Broadway e dei locali di musica jazz a Harlem – il crollo della Borsa di venerdì 29 ottobre 1929 aprì la grande depressione, che colpì duramente la città. Il tasso di disoccupazione raggiunse il 50%, i baraccati si accamparono a Central Park, bande di gangsters imperversavano per assicurarsi il controllo del contrabbando di alcolici. Ma New York seppe riprendersi, anche grazie alla buona amministrazione di un sindaco di origine italiana, Fiorello La Guardia, che in carica per tre mandati consecutivi varò un vasto programma di assistenza sociale. L’attività edilizia conobbe una fase di stallo ma alcuni edifici, iniziati prima del ‘venerdì nero’ furono comunque portati a termine. Nel 1930 William Chrysler mirò a costruire il grattacielo più alto del mondo e per superare la vicina sede della Bank of Manhattan fece sovrastare il palazzo di 77 piani destinato a ospitare la sede della sua casa automobilistica da una guglia di acciaio. Ma il primato resistette solo pochi mesi: nel 1931 il Chrysler fu infatti superato dall’Empire State Building, alto 381 m, con 102 piani, fatto costruire da John Jacob Raskob, vicepresidente della General Motors. Tra il 1931 e il 1940 fu realizzato il Rockefeller Center, primo grande complesso a riunire luoghi di lavoro e di divertimento, impianti commerciali e di ristorazione: per realizzare i 14 edifici originari (altri cinque furono aggiunti dal 1947 al 1973) furono abbattuti 228 stabili. Dal 1931 Manhattan era collegata con il New Jersey dal George Washington Bridge, progettato da Othmar H. Amman, che avrebbe firmato anche, nel 1964, il Verrazano-Narrows Bridge tra Staten Island e Brooklyn. Nel 1939, un anno prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, New York ospitò la World Fair, significativamente intitolata Il mondo di domani, in cui vennero presentate tecnologie all’avanguardia: televisione, robot, pannelli a microonde. Fu visitata da 45 milioni di persone.

Dal conflitto New York emerse come incontestata capitale economica e finanziaria del mondo. Il suo ruolo politico fu riconosciuto quando fu scelta come sede del quartier generale delle Nazioni Unite: la somma di 8,5 milioni di dollari per l’acquisto dell’area sull’East River su cui fu eretto nel 1952 il Palazzo di Vetro fu donata da John D. Rockefeller. La progettazione fu affidata a una commissione internazionale coordinata da Wallace K. Harrison e della quale fecero parte fra gli altri Le Corbusier, Oscar Niemeyer, Sven Markelius. Negli anni Cinquanta e Sessanta i più noti architetti americani ed europei lasciarono il loro segno a Manhattan: il SOM (Skidmore, Owings & Merrill) progettò la Lever House (1952), Ludwig Mies van der Rohe il Seagram Building (1956), Frank Lloyd Wright il Solomon R. Guggenheim Museum (1959), Walter Gropius il PanAm Building (1963). Contemporaneamente New York, con l’affermarsi dell’Espressionismo astratto, aveva superato Parigi come centro mondiale dell’arte. Nel 1959 il presidente Eisenhower inaugurò il Lincoln Center for the Performing Arts, realizzato nel West Side, la zona a ovest del Central Park fino ad allora coperta da bassifondi, per ospitare la Metropolitan Opera House, la New York Philharmonic, il New York State Theater.

Negli stessi anni Cinquanta e Sessanta si verificò un sostanziale mutamento della compagine abitativa: l’allestimento di funzionali arterie di grande traffico e di un’efficiente rete di trasporti rese facilmente accessibili la fascia periurbana e le cittadine limitrofe e la middle class bianca iniziò a trasferirsi in massa, anche per sfuggire al ‘degrado’ di alcuni quartieri urbani dove si erano andate insediando comunità afroamericane e portoricane. Così, mentre al centro rimanevano le famiglie bianche con i redditi più elevati, intere zone, soprattutto del Bronx, di Queens, di Brooklyn vennero a essere abitate prevalentemente da popolazione di colore e poiché la disoccupazione, i bassi redditi e gli impieghi meno qualificati riguardavano soprattutto questa, in questi quartieri si determinarono drammatiche forme di emarginazione e di disagio sociale, che originarono a più riprese disordini razziali e sfociarono a volte in vere e proprie rivolte, come avvenne a Harlem, il quartiere dei neri per eccellenza, nel 1964. Al trasferimento di una parte degli abitanti seguì quello di molte delle attività economiche e di servizi, favorito dalle innovazioni tecnologiche nel campo delle telecomunicazioni e in generale da uno spostamento verso la West Coast dell’asse culturale del paese. La crisi fu pesante e negli anni Settanta New York rischiò la bancarotta, scongiurata soltanto grazie a un massiccio prestito federale. Il quadro mutò di nuovo durante gli anni Ottanta, grazie al rilancio economico, trainato dalle attività finanziarie di Wall Street. Furono quegli gli anni degli eccessi stravaganti, delle rapide fortune accumulate dagli yuppies (young urban professionals), dell’impennata del valore dei beni immobiliari, delle forme post-modern degli edifici (AT&T Building di Philip Johnson,1982; Trump Tower di Der Scutt, 1983; World Financial Center di Cesar Pelli, 1982-88, quest’ultimo inserito nel programma di rivalutazione dell’estrema punta di Manhattan, lungo l’Hudson). L’amministrazione del sindaco Ed Koch, eletto per la prima volta nel 1978, riuscì a riportare al pareggio il bilancio della città.

Altro grande sindaco fu negli anni Novanta Rudolph Giuliani, in carica dal 1993 al 2001. L’incremento della prosperità economica grazie ai successi della new economy, la vittoriosa lotta alla criminalità, la ripresa demografica, legata non solo all’ulteriore arrivo di immigrati (per lo più ispanoamericani e asiatici) ma anche al rientro di frange dei ceti medi, hanno reso gli anni Novanta uno tra i periodi più floridi dell’intera storia di New York, caratterizzato da un irripetibile coacervo di attività economiche, culturali, scientifiche, dello spettacolo.

Una drammatica inversione di tendenza è sembrata profilarsi con l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, quando due aerei di linea, dirottati da gruppi di fondamentalisti islamici, si sono abbattuti nel giro di poche decine di minuti l’uno dall’altro sulle Twin Towers del World Trade Center, che, realizzate fra il 1972 e il 1973 su progetto di M. Yamasaki ed E. Roth & Sons, erano, con i loro 110 piani, le più alte della città e ospitavano gli uffici di 450 compagnie. Il crollo delle Torri ha causato quasi 3000 vittime e ha lacerato il clima di fiducia nella propria inviolabilità di cui la città, e l’intera nazione, si facevano vanto. La reazione tuttavia è stata energica, sia nelle operazioni di soccorso, organizzate con grande efficienza da Giuliani, sia nei piani prontamente varati per lo sgombero delle macerie e la ricostruzione dell’area di Lower Manhattan sconvolta dall’attentato, ribattezzata ground zero, la stessa denminazione usata per le città di Hiroshima e Nagasaki distrutte dalla bomba atomica nel 1945. Già nel luglio 2002 sono stati presentati i progetti per il nuovo assetto, che prevede fra l’altro un grattacielo chiamato Freedom Tower, alto 1776 piedi, oltre a un museo e a un parco intitolati alla memoria delle vittime.

In altra zona della città, all’angolo di Central Park, davanti a Columbus Circle, le due torri del Time Warner Center, di David Childs di SOM, completate nel 2004 e che ospitano uffici, alberghi, ristoranti e negozi, sono divenute il simbolo della New York che non si è arresa. Lo stesso significato ha assunto la riapertura del MoMA, il Museo di arte moderna più famoso del mondo, fondato nel 1929, installato nella sua sede definitiva sulla 53a strada nel 1939, ampliato con l’aggiunta di una nuova ala negli anni Ottanta e sottoposto a una radicale ristrutturazione dal 2002 al 2004. Fra gli altri edifici da poco costruiti spicca il Condé Nast Building di Times Square, grattacielo ‘verde’, dotato di turbine a gas a bassissimo impatto nonché di sistemi di rivestimento e di isolamento che lo rendono in grado di abbattere sensibilmente i consumi energetici per il riscaldamento e il condizionamento e di essere totalmente autonomo per l’illuminazione notturna. Rappresenta un’ennesima variazione nel multiforme panorama architettonico di New York, al cui continuo rinnovamento stanno lavorando ora alcuni dei nomi più noti a livello mondiale, come Santiago Calatrava, Frank Gehry, Renzo Piano.

La città multietnica

Meta fin dal suo nascere di un incessante flusso di immigrati, New York è la città cosmopolita per eccellenza, un melting pot di razze e culture, come è stata definita riprendendo il titolo di una fortunata commedia di Israel Zangwill, che ambientò la vicenda di Romeo e Giulietta nel Lower East Side. L’11,5% della popolazione è costituito da afroamericani, il 9,8% da portoricani, l’8,7% da italiani, il 5,3% da irlandesi, il 5,1% da dominicani, il 4,5% da cinesi, il 2,1% da indiani, l’1,8% da filippini e l’1,6% da coreani. Quasi la metà dei residenti nel Bronx e un terzo di quelli di Manhattan sono ispanici, quasi un quinto di quelli di Queens è di origine asiatica. Nel complesso si calcola che il 36% degli abitanti sia nato all’estero e che le origini della popolazione possano essere rintracciate in più di 180 paesi. Nelle scuole si parlano più di 120 lingue. Un altro dato significativo è quello contenuto in un rapporto dell’Independent Press Association, che ha elencato 192 testate giornalistiche edite a New York in 36 lingue diverse e facenti capo a 52 gruppi etnici.

Poiché le varie comunità nazionali hanno conservato una propria specificità, favorita dalla tendenza degli immigrati della stessa provenienza a vivere negli stessi quartieri, all’interno della città esistono tante isole etniche, ognuna caratterizzata da sue tradizioni che ripetono più o meno fedelmente quelle dei paesi d’origine. Così per undici giorni ogni settembre a Little Italy, nella parte meridionale di Manhattan, ha luogo la festa popolare dedicata a San Gennaro, punto di riferimento della comunità italoamericana. Il periodo di più intensa immigrazione dall’Italia, soprattutto meridionale, risale ai primi due decenni del Novecento. Poiché con il tempo gli italiani si sono per lo più trasferiti in altri sobborghi cittadini, nel Bronx lungo Arthur Avenue, a East Harlem, a Brooklyn, in particolare nella zona di Bensonhurst, e a Staten Island, la Little Italy di Manhattan si limita ormai a un paio di strade. Al suo posto si è estesa Chinatown, che ha una popolazione stimata sui 150.000 abitanti, enormemente cresciuta a partire dalla metà del 20° secolo. Un altro quartiere cinese, e asiatico in genere, ancora più grande è nel Queens, a Flushing.

La sfilata lungo la Fifth Avenue del 17 marzo in onore di s. Patrizio è l’appuntamento tradizionale della comunità irlandese, una di quelle che vantano le radici più antiche, essendosi formata in gran parte alla metà dell’Ottocento, dopo la grande carestia che colpì l’Irlanda dal 1846 al 1848. Furono gli irlandesi a costruire la più antica cattedrale cattolica di New York, anch’essa dedicata a san Patrizio. Agli inizi del 20° secolo abitavano prevalentemente a Chelsea, vicino alle banchine portuali sul fiume Hudson, poi molti si sono trasferiti a Queens.

Kleindeutschland, situata in un’area oggi di moda, Alphabet City nell’East Village, costituì alla metà dell’Ottocento la prima enclave urbana di lingua non inglese. Alla fine del secolo i tedeschi si spostarono nell’Upper East Side, nel quartiere di Yorkville, che ancora oggi rappresenta il maggior centro di diffusione dalla cultura germanico-americana.

Migliaia di persone partecipano dal 1958 all’annuale Puerto Rican Day Parade, festa della comunità portoricana che ha il suo quartiere nella parte orientale di Harlem, chiamata appunto Spanish Harlem o El Barrio. I portoricani, che sono affluiti in massa soprattutto dopo l’inclusione di Porto Rico nel Commonwealth degli Stati Uniti nel 1952, costituiscono la componente più numerosa della popolazione ispanica di New York. Nell’ambito della foltissima comunità ebraica (New York è stata a lungo la città con il più alto numero di israeliti al mondo, superata soltanto alla fine del 2005 dall’area metropolitana di Tel Aviv) la parte più coesa è rappresentata dagli ultraortodossi hassidim, che hanno il loro centro a Williamsburg, Crown Heights e Borough Park a Brooklyn. La gran parte di questo gruppo, come in generale degli ebrei americani askenaziti e sefarditi, proviene dall’Europa dell’Est e dalla Russia, da cui si allontanò dopo la grande persecuzione antisemita di fine Ottocento.

CATEGORIE