Neuroteologia

Dizionario di Medicina (2010)

neuroteologia

Alberto Melloni

La riflessione sulla teologia, sulla mente e le sue funzioni è originaria e comune a tutte le grandi tradizioni religiose: il cervello come luogo nel quale agiscono sensi spirituali ha una lunga storia che, attraverso la sisicoteologia, di età newtoniana, arriva a quella che in età recente, con un calco dalla letteratura di fantascienza, viene sovente definita neuroteologia. Questa disciplina indaga, con strumenti sempre più raffinati, le specializzazioni del cervello: si è infatti scoperta la funzione di alcune aree del cervello durante momenti di quiete estatica, identificati con l’esperienza religiosa per motivi storico-teologici ben evidenti. Alcuni studi hanno dimostrato una relazione fra disturbi come alcune forme epilettiche e ‘sensazioni’ di tipo religioso (riprodotte in alcuni soggetti attraverso esperimenti oggi più criticati di un tempo). Da questi dati frammentari sono state ricavate due apologetiche simmetriche: alcuni scienziati hanno creduto di poter ricavare una decostruzione dell’intera esperienza religiosa; per altro verso, una teologia apologetica ha classicamente sostenuto che proprio questi dati mostrano una inclinazione innata del sentimento religioso, legandosi con ciò anche alla psicologia del profondo e alla ricerca sulla filosofia della mente. [➔ coscienza e autocoscienza; epilessia; mente, filosofia della; sensazione e percezione]

Il rapporto fra atto di fede religiosa e razionalità è materia indagata dalle teologie sulla base dei propri metodi di lavoro. Il passo della Genesi ebraica sulla creazione dell’uomo «ad immagine e nella somiglianza di Dio» ha spesso spinto l’ermeneutica biblica alla ricerca del contenuto – la dignità, la razionalità, la mente, la coscienza, ecc. – di quella relazione profonda fra creatura e creatore. In modo diverso, anche le tradizioni spirituali d’Oriente hanno sviluppato una loro interpretazione del rapporto fra mente e illuminazione interiore: sia attraverso una vera e propria fisiologia teologica (il terzo occhio), sia attraverso la pratica del controllo del cervello attraverso la mente. Nella tradizione cristiana l’antropologia delle lettere di Paolo prima e l’uso del termine logos nel prologo dell’evangelo di Giovanni poi (inizio 2° sec. d. C.) aprono le dottrine della grande chiesa a un rapporto impensabile con il platonismo, fino a farne la chiave della cristologia e dunque dell’antropologia. La dottrina patristica dei ‘sensi’ spirituali presente fin da Origene (che li contrapponeva però ai sensi materiali) è valorizzata nella tradizione cattolico-romana degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola fino al ritorno in senso diverso nei teologi del Novecento, come Karl Rahner e Urs von Balthasar tra i più recenti. Dal canto suo un tratto consistente dell’apologetica coranica consiste proprio nella rivendicazione di una maggiore razionalità dell’ultima rivelazione di Dio al profeta Muhammad, chiamato a restaurare quella via diretta che le altre rivelazioni avevano corrotto, via diretta alla quale la filosofia aristotelica, da qui rientrata anche nella tradizione cristiana, si offre come organo di interpretazione del reale.

Rapporto tra teologia, filosofia e scienza

Questo immenso patrimonio di scritture, di letture, di dottrine genera una risonanza infinita di concetti e preconcetti che agiscono a molti livelli e sono potenziati, piuttosto che diminuiti, dal ‘bagno’ nella filosofia greca e nelle sue riletture storiche: a qualunque livello, e ogni qual volta si pronunciano i termini chiave – mente, anima, cervello, persona –, si finisce sempre per riscontrare l’esistenza di debiti o allergie verso quel patrimonio. In presenza, dunque, di progressi scientifici importanti come quelli collegati alla ricerca sul cervello nel 20° secolo, non bisogna illudersi che il rapporto fra teologia, filosofia e scienza – con tutte le varianti che le possono collegare – si riduca a un mero conflitto fra autorità ecclesiastica e libertà di ricerca. C’è infatti, dalla metà del 19° sec. in poi, una capacità delle teologie cristiane d’impossessarsi della ‘certezza’ scientifica per costruire su quel dato una propria apologetica che trasla le proprie convinzioni dall’ambito della rivelazione all’ambito del ‘naturale’. Viceversa non va sottovalutato il fatto che, come si discuterà più avanti, sulla stessa ricerca scientifica più avanzata pesano ‘figure’ di carattere teologico che talora spingono l’esperimento in direzioni che con quelle vogliono esplicitamente polemizzare o che da quelle sono influenzate. Neuroteologia? Questo patrimonio di questioni agirà infatti sulla ricerca scientifica con modalità che richiamano da vicino la parabola e il destino della fisico-teologia di età newtoniana. Più ancora che il rapporto fra psicoanalisi e teologia, è il rapporto fra neurologia, teorie della religione e teologia in senso proprio che nel 20° sec. darà vita a esperimenti interessanti, almeno per mostrare le aporie di due apologetiche simmetriche. È il romanzo di fantascienza ‘ottimistica’ di Aldous Huxley Island a dare un nome ambiguo e fortunato – neuroteologia – alla capacità di studiare o indurre comportamenti di appagamento interiore attraverso stimolazioni del cervello. Huxley, che in quegli anni sperimenta su di sé gli effetti di nuovi stupefacenti, stilizza un dilemma che in fondo già la formula marxiana della ‘religione come oppio’ aveva intuito. Gli effetti di una esperienza religiosa – e specialmente gli effetti appaganti, ma in prospettiva anche quelli tranquillanti, ansiosi o nevrotizzanti – da dove possono discendere, se non dal cervello? Ciò che nelle tradizioni religiose e nelle filosofie antiche discende dall’anima, dove può abitare se non nella mente?

Da dove la quiete? Già per René Descartes la ghiandola pineale, in quanto unica parte del cervello senza un suo doppio, era la sede dell’anima, cioè del registro di tutti gli influssi animali e del controllo di tutte le passioni: spiegazione che polemizzava con le facoltà ‘occulte’ postulate dalla scolastica e che già Benedetto Spinoza criticava sostenendo che, nulla sapendo dei ‘movimenti’ effettivi di quest’organo, si finiva per attribuirgli qualità ancora più occulte di quelle di cui si deprecava l’evocazione. L’indagine novecentesca non inizia certo da questa discussione, ma individua alcuni punti che rimarranno decisivi: la ricerca di un punto del cervello interessato al fatto religioso, la possibilità di indagarlo, la dimostrazione del suo funzionamento e infine, non per tutti, la convinzione di poter e dover ricavare da questi dati conclusioni sull’oggetto stesso della fede. E si impianta su un postulato che ne determinerà il percorso: l’identificazione di uno stato di particolare appagamento, di una sensazione pacificata come espressione ultima del sentimento religioso, derivata dalla mistica e riversata nelle espressioni confessionali (pietismo, quietismo, revivalism) fra Seicento e Ottocento. Non è una scelta del tutto arbitraria: sia l’agiografia sia la letteratura sono piene di casi nei quali la sospensione del turbamento della coscienza, propria dell’imminenza dell’attacco epilettico, sono caricate di un significato mistico. Se ne trovano evidenze nella tradizione mistica controriformista, ma anche in Ellen White, fondatrice degli avventisti, che soffre sin da piccola di epilessia; o anche, nel mondo ortodosso, nella descrizione dell’istante che precede l’attacco epilettico come un vertice di benessere irrinunciabilmente paradisiaco che si trova ne L’idiota di Fëdor Dostoevskij. Coloro che agli inizi del 20° sec. si interessano al nesso fra esperienza religiosa e studi sul cervello nel clima del positivismo, assumono l’identificazione fra fede religiosa e pacificazione dei sensi. Raccogliendo le sue conferenze a Edimburgo nel volume Variety of religious experiences, William James, lo psicologo di Harvard, affronta fin dall’inizio il nesso Religion and neurology. Il suo approccio è apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Tuttavia, nel suo lavoro James conserva la netta separazione fra salute mentale e valore del ‘prodotto’ religioso. Fra il 1909 e il 1925, James H. Leuba pubblica i suoi libri sull’origine della religione, e da ultimo The psychology of religious mysticism: rigido naturalista, come si diceva nel contesto americano di allora, Leuba trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione della fisiologia della mente, nella quale le stesse sensazioni possono essere ottenute grazie a sostanze stupefacenti.

Epilessia ed esperienza mistica

Queste teorie e altre similari diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, conservando però l’idea che la sensazione sia la semantica del religioso. Wilder Penfield negli anni Cinquanta del 20° secolo inizia i suoi studi sulla corteccia cerebrale e scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici e la sensazione di trovarsi davanti a una esperienza cosmica. Questo tipo di ricerca non ha ancora un nome finché, con un calco da Huxley, verrà definita sulla nuova rivista Zygon: Journal of religion and science, come neuroteologia. Negli anni successivi sarà soprattutto il nesso fra l’epilessia del lobo temporale (TLE) e la quiete mistica a essere esplorato, partendo sempre dal postulato che la religione è uno stato di benessere. Suscitano curiosità, per es., gli scritti di Kenneth Dewhurst e A.W. Beard (1970) che pubblicano i loro studi su conversioni seguiti alle crisi epilettiche, mentre Stephen G. Waxman e Norman Geschwind dimostrano (1975) la base neurologica dell’interictal religiosity nei pazienti con TLE. Nello stesso anno il Journal of neurology, neurosurgery and psychiatry pubblica i casi di sei pazienti con TLE che associano una ipergrafia a sentimenti di patologico scrupolo religioso studiati successivamente da Michael R. Trimble. Ma lo studio più interessante di questo filone è quello di Karen Armstrong (2006) sul caso di una religiosa che, curata l’epilessia, perde la fede e la vocazione, mentre per il caso opposto si potrebbe citare una folla di visionari, e anche Ernesto De Martino, il cui interesse per lo studio delle religioni nasce dopo una diagnosi di epilessia. Nello studio dei tarantolati, De Martino si avvale della consulenza di un neuropsichiatra (prima Giovanni Jervis e poi anche Bruno Callieri) per studiare i dispositivi religiosi come un capitolo del lavoro storico dell’umanità volto ad affermare un senso contro la ‘crisi della presenza’ (che nella psicopatologia non ha invece alcun possibile recupero). Altre vie rimangono in questi anni più ai margini, come l’esperimento di John C. Lilly che dimostra come ‘sentire’ Dio attraverso l’LSD.

Un perché neuropsicologico della religione

È negli anni Ottanta, grazie a James B. Ashbrook e ai suoi studi pubblicati su Zygon, che si consolida il termine n. per indicare quelle ricerche che si occupano del nesso fra cervello e stati indicati come religiosi (è il caso del celebre l’Io e il suo cervello, di Karl R. Popper e John C. Eccles, 1984). E il termine entrerà per la prima volta in un titolo con Laurence O. McKinney che pubblica nel 1994 Neurotheology: virtual religion in the 21st century. Sostenuto dal gruppo di Zygon, McKinney è consapevole di causare un ‘fedemoto’ (un faithquake): vuole spiegare perché il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, sia così tipicamente umano e universale. La risposta scientifica è per lui semplice: lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo vuoto crea quella domanda sul ‘da dove veniamo’ alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere. Sulla stessa linea si muove Matthew Alper, in The “God” part of the brain: A scientific interpretation of human spirituality and God (1996): per lui la religione è il prodotto della evoluzione del cervello, lì trova la sua spiegazione e da lì si deve partire per ridimensionare il peso della credenza. È un approccio ‘definitivo’ che però può funzionare anche nella direzione opposta, come dimostrerà la corrente che legge l’evoluzione come ‘prova’ dell’intelligent design della nuova apologetica postdarwiniana. Oppure può portare a conclusioni del tutto diverse, raggiunte da un teologo autorevole come Eugen Drewermann: proprio l’acquisizione dei dati psicoanalitici in sede di analisi dell’esperienza religiosa – sia essa quella dell’osservanza o della vocazione – libera l’esperienza di fede da costrizioni nevrotizzanti e porta alla luce un nucleo dell’atto di fede talmente forte che permette, come fa per es. l’ermeneutica ebraica di Emmanuel Lévinas, di smascherare attraverso la stessa Torah ciò che il processo analitico cerca nel piccolo del set terapeutico.

Il casco di Dio

Gli esperimenti (1983) fatti dal medico canadese Michael Persinger – che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e che viene contestato da manifestazioni dei gruppi del fondamentalismo protestante, o evangelicali, inferociti – usano invece un approccio scientifico diverso: egli inventa e testa un casco capace di produrre disturbi magnetici durante i quali il lobo temporale farebbe ‘esperienza’ di un Dio finalmente smascherato come effetto elettrico. La coeva dimostrazione che l’iperattivazione limbica in pazienti con TLE causa ossessioni religiose spinge a nuove ricerche: nel 1999 Graham Beaumont e collaboratori pubblicano una casistica sul nesso fra lesioni del lobo temporale destro e manifestazioni di iper-religiosità.  Altre zone del cervello, però, vengono indagate: Vilayanur S. Ramachandran sostiene, per es., che è l’area di Broca (la stessa che governa il linguaggio) quella nella quale si attiva l’esperienza religiosa.  Alla Università di San Diego, nel 1998, viene individuato un punto della corteccia frontale che si attiva negli stati mistici che corrisponde alla tradizione del ‘terzo occhio’ (ajina chakra) nella fisiologia mistica dello yoga. Con ciò il tentativo scientifico di ridurre la fede a neurologia e della fede di ridurre la neurologia a scienza della materia tornano al punto di partenza.

Due apologetiche

Il complesso di queste indagini, però, ha fornito all’apologetica religiosa materiali pronti per un uso opposto. Infatti la fisiologizzazione del sentimento religioso s’incontra alla perfezione con lo sforzo di una tradizione apologetica intransigente, che vede proprio in queste dimensioni l’impronta della mano di Dio nella natura umana e permette di rileggere in senso opposto le indagini su cervello ed esperienza religiosa. Non solo dal punto di vista dell’apologetica cattolica, nella quale s’impegna ancora Drewermann, ma anche da altri orizzonti religiosi. James H. Austin pubblica (1999) infatti, Zen and the brain: toward an understanding of meditation and consciousness, che dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: la scelta del buddhismo giapponese come unità di misura facilita il compito di Austin e sdrammatizza la portata ideologica di talune ricerche precedenti, che si proponevano di demistificare l’estasi cristiana finendo in vicoli ciechi polemici, stigmatizzati da Alasdair Coles in un articolo di sintesi, pubblicato sulla rivista Brain nel 2008. È invece capofila di una nuova stagione di ‘dimostrazioni’ neurologiche dell’insipienza della religione la ricerca di Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e, dal 2001, anche di Vince Rause. Prima con il volume The mystical mind prendono posizione come se non ci fosse altro da fare che prendere atto del fatto che l’esperienza religiosa ‘avviene’ nel cervello e se mai (come fa Anne Runehov, Sacred or neural) da lì partire con una teologia ad hoc. Poi, in Why God won’t go away. Brain science and the biology of belief (2001), con la biologia della credenza, propongono la loro metateologia o megateologia: l’esperimento al centro dello studio riguarda il monitoraggio SPECT del cervello durante la meditazione. La scoperta dei centri attivati dalla meditazione dimostra un’attività della corteccia prefrontale, per cui lo stato di meditazione spirituale è assimilato neurologicamente a una iperquiescenza. Da qui Newberg e D’Aquili ricavano la tesi che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale», e che dunque ciò che si chiama usualmente religiosità è una funzione o capacità del cervello che il sarcasmo di Spinoza avrebbe senz’altro definito una «qualità occulta». Quella funzione – ne sarebbe stato felice James – è però benefica se, come sostiene Esther M. Sternberg, nel suo The balance within. The science connecting health and emotions (2001), il nesso fra cervello e sistema immunitario spiega perché da una ricerca di Harold König emerga una minore incidenza di malattie nella popolazione religiosa.

Neuroumiltà

È unanimemente riconosciuto che il 7 maggio 2001 segna per la n. una data importante non sul piano scientifico, ma su quello non meno rilevante della comunicazione con l’opinione pubblica. L’uscita su Newsweek del servizio di Sharon Begley, Brain on religion: mystic visions or brain circuits at work? suscita dispute definitivamente politiche. Da qui in poi anche gli esperimenti e la critica agli esperimenti diventano un’altra cosa: la God machine di Persinger viene indossata da un ateo a tutta prova come Richard Dawkins, che però non ha estasi alcuna, gettando un’ombra su un esperimento di cui erano oggetto troppo incantati allievi. Le critiche al casco del medico canadese che, dimostrano gli scienziati, attiva l’amigdala e l’ippocampo, proseguono. Andrew Newberg, insieme a Mark R. Waldmann, pubblica nel 2006 un fortunatissimo testo di carattere divulgativo (Why we believe what we believe. Uncovering our biological need for meaning, spirituality, and truth), nel quale riprende gli esperimenti sull’intensificazione delle attività del lobo frontale sinistro e del linguaggio nei momenti di preghiera, e nel 2009 arriva a dire (in How God changes your brain. Breakthrough findings from a leading neuroscientist) che così si dimostra che ≪Dio e una metafora del senso ultimo≫. Parte da alcuni dati diversi il lavoro (2004) di Trimble e Anthony Freeman dell’Institute of Neurology di Londra, pubblicato sul Journal of neurology, neurosurgery and psychiatry: prima dimostrano in pazienti con TLE un nesso fra psicosi e delirio mistico, poi un nesso ulteriore fra atrofia dell’ippocampo e iperreligiosità; nel 2007 proprio Trimble (in The soul in the brain: the cerebral basis of language, art and belief) propone l’ipotesi che la religione sia la manifestazione della ‘tirannia’ dell’emisfero sinistro sulla spiritualità artistica dell’emisfero destro. Ma questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa viene anche messo in discussione in anni più recenti da altre ipotesi, come quella di Howard Gardner su un religious module e di Bruce L. Miller (2003) sull’anatomia del sé derivate dagli studi su pazienti diventati creativi dopo che la demenza ha distrutto i lobi frontotemporali. Una più raffinata indagine neurologica, insomma, dimostra di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa. Ma così facendo la discussione neuroteologica diventa un frammento della discussione della filosofia della mente sulla libertà. Fra gli anni Settanta e Ottanta lo psicologo Donald MacCrimmon MacKay, che aveva sostenuto la irriducibilità a meccanismo del cervello umano, ironizzava pesantemente sul nothing-buttery, cioè sul tentativo di usare psicologia e neurologia per ridurre qualcosa ‘a null’altro che’ – foss’anche di ridurre Dio a neuroni. Meriterebbero una critica parallela a questa, invece, i non pochi tentativi apologetici di usare sia la neurologia sia la filosofia della mente nel tentativo di rinvenire strutture antropologiche utili al reimpianto di discorsi sul sacro. In modo assai meno grossolano, ma non di meno legato al ritorno a una fisico-teologia apologetica, lavora il teologo Drewermann: per lui la ricerca neurologica rimette in discussione una dottrina dell’anima che aveva accumulato in questo oggetto della filosofia funzioni e valori che non sono indispensabili alla relazione del credente con Dio. Il tema, ampiamente sviluppato in tutta la teologia della scienza (da Alister E. McGrath a John Haught), è al centro di alcune conferenze di Wentzel van Huyssten (riportate in Alone in the world? Human uniqueness in science and theology, 2006) che tornano all’idea dell’imago Dei come modo di descrivere una attitudine specificamente umana, di cui proprio la n. sarebbe la riprova, capace di comprendere l’amore di Dio, la sua grazia e di benedirlo: se c’è un neurone ‘sacro’ (secondo la definizione data da John Bowker, in The sacred neuron, 2005), trovarlo significa semplicemente dimostrare che neurologia e teologia si tangono in modo positivo solo se ciascuna è perfettamente aderente al proprio metodo e al proprio campo. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.

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Ernesto de martino