NEUROSCIENZE

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

NEUROSCIENZE.

Giovanni Maria Flick

– Diritto penale. L’incontro del diritto penale con le neuroscienze: gli opposti estremismi. Cogito ergo sum o sum ergo cogito? Neuroscienze e libero arbitrio. Il contributo delle neuroscienze nell’accertamento della responsabilità e dell’imputabilità. Il contributo nell’indagine sulla memoria. Il contributo nel giudizio. Personalismo e pluralismo: le neuroscienze nel percorso dalla diversità all’eguaglianza attraverso la solidarietà. Bibliografia

Diritto penale. – L’incontro del diritto penale con leneuroscienze: gli opposti estremismi. – Le scoperte degli ultimi anni in ambito neuroscientifico e le loro possibili ricadute nel mondo del diritto sono ormai oggetto di interesse del giurista moderno. L’approccio degli studiosi del diritto al nuovo binomio neuroscience and law non è però univoco; non sono mancate posizioni estreme, da un totale rifiuto aprioristico a una cieca fiducia nelle nuove scienze.

Il primo approccio si fonda sostanzialmente sull’obiezione della non compatibilità della spiegazione biologica del comportamento umano con il principio del libero arbitrio e della responsabilità umana per scelta propria. In particolare, si teme che ridurre l’uomo a un sistema neuronale e biologico conduca a negare la sussistenza di una libera scelta a favore di un approccio deterministico. A questi timori, che riguardano il ‘perché il criminale agisce’, se ne aggiungono altri con riferimento al ruolo che le neuro-scienze possono avere in sede processuale, in particolare nell’accertamento dei fatti. Altra preoccupazione riguarda la cd. manipolazione diretta della mente, soprattutto in riferimento alla sua ‘accettabilità morale’. Si teme infatti che attraverso l’utilizzo degli strumenti neuroscientifici si possa ledere la privacy del cervello e ottenere il controllo della mente.

Condividere gli esiti delle ricerche neuroscientifiche significa inoltre, secondo quest’impostazione, dover scardinare una serie di convinzioni sull’essere umano cristallizzate ormai da secoli. Desta preoccupazione dover ammettere che la ragione (elemento fondante l’uomo, secondo il cogito cartesiano) sia fortemente influenzata dai sentimenti. In definitiva, l’ostacolo maggiore da superare per condividere l’impatto che le n. hanno (non solo) nel campo giuridico (e che più facilmente porta a una posizione di ‘rifiuto in blocco’) è il riconoscimento di un legame inscindibile tra mente e corpo; con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano psicologico, politico, sociale, culturale, giuridico e così via.

In particolare, una volta stabilito che il comportamento umano deriva da fattori sostanzialmente biologici, si teme che si possano ridurre la condotta antisociale a meri fenomeni patologici e i comportamenti prosociali, al contrario, al perfetto funzionamento del sistema neuronale. Tutto ciò renderebbe inutile o addirittura utopistica l’aspirazione alla immutabilità dei valori, fino a renderli concetti sostanzialmente vuoti.

Le preoccupazioni fin qui prospettate possono essere in gran parte superate a condizione di non dimenticare la presenza e l’importanza di alcuni caveat e punti critici che sembrano invece trascurati da quanti accolgono il nuovo apparato epistemologico con assoluto favore. Questi ultimi hanno evidenziato come l’esplorazione funzionale del cervello abbia consentito di comprendere, per la prima volta nella storia scientifica, le attività e i processi attraverso cui si svolge la vita cognitiva ed emotiva dell’uomo, consentendo il superamento della scissione dualistica mente-corpo per sposare invece una prospettiva integrata.

Tra i meriti delle n. andrebbe inoltre annoverata la capacità sia di comprendere e spiegare la teoria della ‘mente estesa’ (vale a dire, il rapporto fra la mente stessa e le rappresentazioni esterne, nonché fra le emozioni e le decisioni), sia di cogliere la reale dimensione dell’autodeterminazione e dei suoi condizionamenti. Tali studi avrebbero, in definitiva, un ruolo fondamentale nella conoscenza dell’uomo.

Si sottolineano, infine, le opportunità che le n. possono offrire – seppur ancora in progress – con riguardo alla comprensione dell’iter decisionale, in particolare alla formulazione dei giudizi (si pensi a quelli dei giudici) e più in generale del cd. giudizio morale.

Quanto al primo punto, gli scettici sostengono che l’utilizzo degli strumenti neuroscientifici in sede processuale porterebbe con sé un totale asservimento del processo decisionale alle prove scientifiche, annullando il ruolo degli altri mezzi di prova. L’unico giudice diverrebbe la prova scientifica. I sostenitori delle n. ritengono invece che i mezzi di prova neuroscientifici (si pensi, per es., alle tecniche di neuroimaging) non renderebbero inutili o desuete le conoscenze pregresse, ma offrirebbero riscontri probatori ad adiuvandum per il giudice, senza intaccare né le categorie concettuali né (purtroppo) la fatica del decidere.

Quanto al secondo punto, secondo alcuni studiosi, attraverso le n. si potrebbe ricostruire una ‘grammatica morale comune’, comprendendo il fondamento biologico del giudizio morale e riuscendo a risolvere i cd. dilemmi morali. Tale aspetto fornirebbe un rilevante aiuto per il diritto anche penale, in quanto permetterebbe di risolvere i dubbi – sociali prima e giuridici poi – che riguardano tutti i temi eticamente connotati.

Tuttavia, gli approcci sinora sintetizzati non possono essere totalmente condivisi; si deve piuttosto prediligere una posizione intermedia, priva di assunzioni dogmatiche e laica. È opportuno poi vagliare tale concezione alla luce degli ambiti in cui è più emblematica l’interazione fra n. e diritto, con riguardo alle tre figure fondamentali del processo penale: imputato, testimone e giudice. Quanto al primo, ci si deve soffermare sui profili della responsabilità, del libero arbitrio e dell’autodeterminazione; con riferimento al secondo si deve guardare agli strumenti probatori e di accertamento del fatto; in relazione all’ultimo, vengono in considerazione l’iter decisionale e il ruolo dell’empatia.

Cogito ergo sum o sum ergo cogito? – Preliminarmente è necessario ricordare che le n. hanno assegnato un nuovo e fondamentale ruolo all’emozione nell’agire umano. Le loro scoperte hanno una particolare rilevanza nel diritto penale proprio perché permettono di capire quanto le emozioni siano alla base di una serie di spinte, impulsi e intuizioni che fondano il comportamento umano. Esse dimostrano che ragione e sentimento hanno nelle condotte umane pari e massima importanza.

Per comprendere la rilevanza di tale apporto è necessario partire dalla funzione attribuita all’emozione dal codice penale del 1930 e più in generale dal diritto penale classico. È noto che in ambito penalistico il profilo emozionale umano è pressoché irrilevante. Tale impostazione è cristallizzata nell’art. 90 c.p., secondo cui «gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità».

Tale dato affonda le radici su un piano più probatorio che sostanziale, a causa della difficoltà di provare una situazione patologica, riconoscibile come infermità (concetto già oggetto di non pochi dubbi interpretativi), la quale sia dovuta all’ambito emotivo e in assenza di evidenze probatorie.

L’emotività e i sentimenti non sono del tutto irrilevanti in sede penalistica; basta ricordare l’attenuante della provocazione ex art. 62, nr. 1, c.p. (nell’ambito della quale rileva lo stato d’ira) o quella della suggestione della folla in tumulto prevista dal nr. 3 dello stesso articolo. Cionondimeno, la chiara espressione dell’art. 90 c.p. è volta a tenere separato il ruolo dell’emozione dall’imputabilità, cioè dalla capacità di intendere o volere.

Se questa è l’impostazione del penalista classico, il neuroscienziato, al contrario, riconosce alle emozioni una funzione determinante nel processo cognitivo e decisionale razionale. In esso l’emozione costituirebbe il percorso basso, rapido e inconscio, cui soltanto in un momento successivo sarebbe associato quello alto, lento e cosciente della ‘ragione’.

Le n. giungono alla conclusione che la ragione è meno ‘pura’ di quanto siamo portati a pensare. I sentimenti e le emozioni sono indispensabili affinché il soggetto agente riesca a prendere una decisione razionale; contribuiscono a essa perché nessuno sarebbe in grado di prendere una qualsiasi decisione, valutando soltanto razionalmente i pro e i contro nell’ambito di una scelta.

In altri termini, l’emozione fonda l’intuizione poiché produce conclusioni rapide e dirette, senza richiamare alla mente le migliaia di informazioni che potenzialmente servirebbero o sono presenti nella nostra memoria. Tale meccanismo è ben comprensibile in relazione alle situazioni definibili semplici, poiché fondate su sistemi emotivi consolidatisi nell’evoluzione; diventa più difficilmente accessibile in relazione alle situazioni complesse. La conoscenza intuitiva risulta infatti più ardua in relazione a fenomeni nuovi non consolidati; si pensi all’eutanasia passiva, in cui anche la comprensione ‘emotiva’ di concetti base come l’azione o l’omissione può essere problematica.

In breve. Il riconoscimento del ruolo delle emozioni e dei sentimenti, dovuto alle scoperte neuroscientifiche, si risolve nell’effettivo superamento del dualismo cartesiano tra corpo e mente. Da ciò la constatazione che il cervello e il resto del corpo umano sono un unico organismo non dissociabile, integrato da circuiti regolatori neurali e biochimici; quella che tale insieme complesso (non solo cervello o corpo) interagisce necessariamente con l’ambiente ester no; infine, la constatazione che i processi fisiologici in cui si concretizza la mente derivano da un’unione strutturale e funzionale fondata non soltanto sul cervello, ma altresì sull’ambiente anche nella sua dimensione sociale.

Tali riflessioni sono applicabili ai tre protagonisti del processo (imputato, testimone e giudice) e, in particolare, alla valutazione della responsabilità, all’accertamento del fatto e al giudizio.

Neuroscienze e libero arbitrio. – Il punto di partenza di un’analisi che tratti dei rapporti tra n. e diritto penale non può che riguardare l’imputato, la scelta di delinquere e conseguentemente il tema della responsabilità. In relazione all’autore della condotta delittuosa, uno dei nodi più problematici coincide, infatti, con la compatibilità tra il riconoscimento del fondamento biologico delle scelte e dell’agire umano da una parte e il libero arbitrio dall’altra. Si teme che, attraverso le n., le ragioni che spingono il soggetto a delinquere vengano classificate come difetti biologici neuronali. Il rischio consiste conseguentemente nel negare l’assunto illuministico alla base del libero arbitrio, propendendo per un determinismo di tipo forte.

In realtà, a ben vedere, le scoperte delle n. non si pongono in contrasto con il principio di libertà dell’uomo, ma anzi conducono a una migliore conoscenza dei suoi processi decisionali, di scelta e di controllabilità della condotta, oltre che a una verifica delle ipotesi in cui la responsabilità è attenuata. Ciò non vuol dire che le n. possano dimostrare ‘l’impossibilità di agire diversamente’ e quindi negare il libero arbitrio. L’analisi neuroscientifica, piuttosto, quand’anche suggerisse la prospettabilità di un determinismo biologico e i relativi meccanismi decisionali, potrebbe al più evidenziare le cause che escludono la responsabilità, come le forme patologiche neuronali.

Anche ad ammettere poi che le riflessioni neuroscientifiche (pur rilette come sopra) conducano ugualmente verso il determinismo, non manca chi considera quest’ultimo compatibile con il libero arbitrio (cd. tesi compatibilista) e sostiene che la libertà del volere umano sarebbe assolutamente conciliabile con il riconoscimento di una regola universale e causale, eccetto i casi in cui ovviamente si sia in presenza di una vera e propria coercizione fisica.

Queste considerazioni possono essere confermate dal fatto che, secondo le n. cognitive, la coscienza sarebbe spesso influenzata da una decisione la cui molla causale risiederebbe frequentemente nei meccanismi intrapersonali inconsci. In altre parole, non sarebbe la coscienza a prendere decisioni o ad avviare azioni. Queste ultime troverebbero la loro ragione nella cd. precoscienza; mentre la coscienza sarebbe destinata unicamente ad assumere la responsabilità delle azioni o delle decisioni, nella misura in cui ne mantiene il controllo, esercitando o meno il potere di veto.

In questa prospettiva la descrizione neuroscientifica dei meccanismi decisionali e volitivi appare compatibile con la definizione di libero arbitrio, inteso come capacità di acquisire potere causale sul mondo circostante e di influenzare l’uso di quel potere stesso. Una tale rilettura della volontà e del principio di libertà sembra del tutto coerente con l’impostazione presente nel codice Rocco. Ci si riferisce ad alcune norme cardine che regolano appunto il rapporto di causalità (art. 40 c.p.), specie nei casi omissivi e colposi (nella variante omissiva), dove il giudizio per l’accertamento è strettamente legato a quello di evitabilità, come potere di controllo.

Insomma, le n. non confutano gli assunti di base del pensiero penalistico moderno, né negano la sussistenza di un potere di autodeterminazione.

Il contributo delle neuroscienze nell’accertamento della responsabilità e dell’imputabilità. – Le scoperte delle n. forniscono altresì un aiuto rilevante nel rileggere i valori costituzionali, in particolare i principi contenuti negli artt. 25 e 27 della Costituzione.

Quanto alla prima norma, che sancisce il principio di legalità in materia penale, esse inducono in particolare a una rilettura e rivalutazione dei corollari della riserva di legge e della tassatività. Le scoperte delle n. – in un’ottica pienamente conforme a quanto già a suo tempo sostenuto dalla nota sentenza della Corte costituzionale 24 marzo 1988, nr. 364 – portano a demitizzare l’ideologizzato dogma della certezza del diritto (almeno nella sua vecchia accezione). In questo caso, come in molti altri, le n. non introducono nel discorso penalistico argomenti del tutto nuovi, ma avvalorano scientificamente ipotesi già prospettate. Si tratta infatti di un’operazione in corso già da molto tempo sia nell’ambito del dibattito dottrinale nazionale e straniero, sia in un’ottica giurisprudenziale soprattutto europea, ma ora anche italiana. Si pensi, per es., all’evoluzione del diritto vivente della Corte europea dei diritti dell’uomo che rinuncia al paradigma della certezza e della riserva di legge e affida alla prevedibilità delle decisioni giudiziarie il maximum di garanzia, anche in materia penale.

Anche l’art. 27 della Costituzione – che è fondamentale per la costruzione della responsabilità penale «personale» e perciò colpevole – può essere letto attraverso gli apporti delle neuroscienze, specie nel senso sostanzialmente psicologico della colpevolezza, seppure a livello di potenzialità. Il discorso riguarda in particolare la complessa tematica della colpa, soprattutto nella forma omissiva, per il rilievo che le neuroscienze possono avere sui temi del ‘controllo doveroso’ e soprattutto della ‘possibilità di impedire l’evento’. Proprio grazie agli esiti neuroscientifici sembrerebbe ormai indispensabile tenere conto di situazioni in cui vi siano anomalie psichiche e patologie anche della sfera emotiva, là dove si accerti appunto la colpevolezza in senso psicologico.

Sempre sul piano della responsabilità penale, gli studi neuroscientifici prestano un valido contributo all’accertamento della capacità di intendere e volere, aiutando il giudicante a decidere su eventuali attenuazioni della responsabilità. Essi aiutano a comprendere quando l’autocontrollo sia ostacolato o aggirato, ma soprattutto quando sia in qualche modo impedito o attenuato da anomalie neurologiche.

La possibilità che tali condizioni, una volta accertate, possano rientrare nell’ambito del giudizio di imputabilità è stata ammessa da una ormai celebre pronuncia della Cassazione (sezioni unite, 25 genn. 2005, nr. 9163, cd. sentenza Raso). Quest’ultima ha incluso i disturbi della personalità nel concetto di infermità mentale, tale da escludere o limitare la capacità di intendere o volere; ha affiancato le nevrosi e i disturbi affettivi alle psicopatie.

Pronunce più recenti hanno fatto ricorso diretto agli strumenti e alle scoperte messi a disposizione dalle n.: prima fra tutte una sentenza della Corte d’assise d’appello di Trieste (18 sett. 2009, nr. 5), che ha attribuito rilievo ai fattori genetici nel valutare la responsabilità del soggetto agente. Lungi però dal considerare questi ultimi come unico elemento per l’accertamento, quella pronuncia ne ha affermato la rilevanza e quindi la capacità di interferire sul comportamento umano al pari dei fattori ambientali, culturali e sociali.

Tali riflessioni in tema di imputabilità non devono tuttavia indurre a un’esaltazione acritica dei nuovi risultati; soprattutto non devono portare a confondere l’oggetto del-l’accertamento con il suo strumento. È noto infatti che la capacità di intendere e volere viene valutata attraverso un doppio giudizio: il primo è legato unicamente alla sussistenza di una causa di infermità; il secondo è connesso al rapporto tra tale infermità e la capacità di intendere e volere al momento del fatto.

Pertanto, dopo ogni diagnosi clinica – e quindi anche dopo gli esiti di indagine offerti dalle n. – occorre una valutazione psichiatrico-forense al fine di verificare l’effettiva incidenza della patologia funzionale sulla capacità di intendere e volere. Tali osservazioni valgono, come è ovvio, per ogni indagine scientifica (anche psicologica); ma la prova neuroscientifica presenta un grado di tecnicismo molto più elevato di quella tradizionale per origine, elaborazione e interpretazione.

Da ciò conseguono due problemi. Da una parte occorre dimostrare la sussistenza di un legame tra evidenza scientifica e atto criminale: è un legame essenziale per asserire l’affidabilità della prima come prova in sede processuale; ma è tanto più difficile da accertare, in quanto le anomalie della sfera emozionale e affettiva non provano con certezza una disfunzione della sfera volitiva. Dall’altra parte, anche superando tale ostacolo, resta da individuare il valore che può attribuirsi a un accertamento che avviene necessariamente ex post rispetto al momento del fatto.

Il contributo nell’indagine sulla memoria. – L’indagine sulla memoria costituisce un altro profilo significativo dell’incontro tra strumenti neuroscientifici e diritto penale, sia sostanziale sia processuale.

Anche su quest’aspetto le opinioni sono tutt’altro che pacifiche. Da una parte vi è infatti chi mostra un atteggiamento decisamente favorevole, intravedendo nell’uso delle n. la possibilità di soddisfare la ben nota aspirazione penalistica alla certezza. Dall’altra parte non manca chi mantiene un atteggiamento diffidente, temendo che il totale affidamento a una certezza scientifica possa poi limitare il momento interpretativo e, nel complesso, la funzione dell’organo giudicante, togliendo definitivamente al giudice il ruolo di peritus peritorum.

Per assumere anche in questo caso una posizione intermedia e laica tra i due estremi, occorre comprendere però come e perché le n. possano interessare il diritto penale nell’indagine sulla memoria. Gli studi neuroscientifici esplorano i meccanismi del cervello sulla cui base accertare l’imputabilità di un soggetto o l’eventuale presenza di cause di infermità, ma anche i processi che conducono alla percezione e alla conoscenza, attraverso una ricostruzione virtuale ed ex post. In definitiva, attraverso tali indagini è possibile verificare non soltanto la ‘capacità di intendere’, ma anche quella di percepire e conservare l’immagine.

Come è evidente, tale accertamento interessa il diritto penale sostanziale nella parte in cui esso si interroga rispetto al profilo volitivo sussistente al momento del compimento del fatto. Ricostruire lo stato di coscienza e volontà al momento dell’azione, permette(rebbe) di rispondere ai quesiti inerenti ad alcune implicazioni del dolo e soprattutto alla difficile distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente. Potremmo in definitiva accertare (con una scientifica certezza?) ex post quanto il soggetto abbia conosciuto, preveduto e voluto il fatto; o quanto questo potesse essere conoscibile e prevedibile al tempo degli accadimenti.

Da ciò deriva dunque la centralità del ruolo della memoria e quindi di quello delle n. nella sua valutazione. In particolare, gli strumenti neuroscientifici sono importanti per esplorare le ‘trappole della memoria’, costituite dalla cancellazione di ricordi magari traumatici o dall’inserimento di falsi ricordi, fino alla modulazione del significato emotivo di quelli presenti. Accade spesso, infatti, che i nostri ricordi non siano del tutto fedeli alla realtà perché nel tempo si sono aggiunti o sottratti diversi tasselli.

La consapevolezza sia della fallacia della memoria, sia delle distorsioni di essa, è in verità più antica delle scoperte delle n., tanto che – soprattutto nel mondo anglosassone – uno dei temi più dibattuti in sede processuale penale riguarda proprio l’attendibilità e la credibilità del testimone. Si inserisce in questa discussione il tentativo recente, soprattutto nella cronaca giudiziaria, di usare le tecniche neuroscientifiche per ‘controllare la memoria’. Gli strumenti creati dalle n. possono infatti far emergere la ‘memoria autobiografica’, riguardante singoli episodi; possono cioè – lungi dall’accertare il vero o il falso di quanto dichiarato – verificare se quanto sostenuto dal testimone coincida con un ricordo presente nel medesimo o se l’evento sia stato causa di stress. Si può valutare, in definitiva, la genuinità di un ricordo.

Il contributo nel giudizio. – Dopo aver analizzato i rapporti tra n., autodeterminazione e responsabilità (volgendo lo sguardo all’autore del fatto) e quelli tra tali scienze e l’accertamento e la ricostruzione del fatto (osservando soprattutto le indagini sulla memoria), viene infine in considerazione la relazione tra i risultati neuroscientifici e il giudizio.

Come premessa generale va detto che la solitudine del giudice ha spesso prodotto la tendenza a rifuggire da tale isolamento riparandosi nel mito della certezza e in quello della riserva di legge. Tale impostazione è andata però in crisi soprattutto da quando il ruolo dei parlamenti si è fortemente modificato perdendo di autorità; da quando la funzione di ‘creare’ o riconoscere i diritti fondamentali si è spostata in capo ai detentori del potere di giudicare in concreto.

Da una parte il giudice sembra essersi liberato dai dogmi illuministici (che, come noto, lo volevano mera bouche de la loi); dall’altra esso deve sempre più confrontarsi con saperi altri da quello giuridico, anche di matrice scientifica. Ciò avviene soprattutto nella valutazione della prova, che è sempre più di carattere tecnico. Quanto più la prova è scientifica, tanto più però occorre un controllo sulla sua affidabilità e sul rispetto delle regole processuali nella sua acquisizione. Sembra pertanto infondato il timore secondo cui, a causa dell’introduzione delle n. nel processo, il giudice verrebbe ‘espropriato’ del suo ruolo fondamentale e quest’ultimo verrebbe invece attribuito al perito.

Allo stesso tempo, è altrettanto vero che proprio la difficoltà di comprendere lo strumento e l’esito probatorio scientifico rende molto arduo il ruolo del giudice. Diventa pertanto essenziale concentrarsi sul rispetto delle procedure e del contraddittorio e rendere più stringente l’osservanza delle regole poste a tal fine, per mantenere un controllo sulla prova. Tale accertamento non deve essere concepito come una mera attività burocratica, giacché costituisce uno degli strumenti più importanti per assicurare il rispetto dei principi costituzionali in ambito processuale. Non a caso – come è noto – alcune regole in materia di assunzione della prova, tra cui il rispetto del contraddittorio fra le parti, rientrano tra i corollari del giusto processo e sono previste nel testo costituzionale.

Non bisogna pertanto rifiutare aprioristicamente l’uso delle n. nel processo penale; piuttosto occorre evitare i rischi che possono essere prodotti dal soggettivismo giudiziale, dettato dal coefficiente emozionale che può interferire nell’oggettività del giudizio. D’altra parte, proprio nel cercare di evitare tale soggettivismo si deve prestare attenzione a non negare del tutto il ruolo e la responsabilità del giudice, rifugiandosi nella ‘decisione delle regole’. Infatti, là dove si tenti una diminuzione del lato emozionale e soggettivo del giudice, si rischia di ricadere nella fede verso il mito della certezza o dell’astrattezza dei valori e delle regole, verso l’illusione illuministica del normativismo come garanzia.

In conclusione, i problemi ora prospettati, che interessano l’attuale dibattito in ambito penalistico, potrebbero trovare almeno in parte una soluzione proprio grazie alle neuroscienze. L’unico modo per arginare quei rischi potrebbe essere quello di favorire il passaggio dall’interpretazione del diritto a quella del fatto. Ciò sarebbe possibile superando il dualismo mente/corpo proprio nella sua proiezione diritto/fatto; accettando con umiltà il passaggio dal cogito ergo sum di cartesiana memoria al sum ergo cogito che nasce dalla consapevolezza attuale.

Personalismo e pluralismo: le neuroscienze nel percorso dalla diversità all’eguaglianza attraverso la solidarietà.– Proseguendo nell’analisi delle possibili implicazioni tra n. e diritto va evidenziato infine, in termini più generali, che l’approccio neuroscientifico consente di gettare nuova luce sui valori costituzionali di eguaglianza e diversità. Gli esseri umani sono infatti tutti uguali, ma anche e (fortunatamente) assai differenti. Proprio dalla diversità nascono il pluralismo, la libertà e la democrazia; essa però può divenire anche e facilmente uno strumento di sopraffazione.

Le n. possono in qualche modo aiutare a comprendere come sia possibile cercare di superare – attraverso il sentimento della solidarietà – il pericolo che la diversità si trasformi da valore fondamentale a strumento di pregiudizio. All’equilibrio fra i principi dell’uguaglianza e della diversità è infatti connesso il tentativo di valorizzare la concretezza e il fatto, per superare la rigidità e l’astrattezza della norma.

Il passaggio dalla regola generale e astratta (eguale per tutti) alla valutazione del caso concreto porta necessariamente con sé nella decisione una rivalutazione dei processi di empatia (o addirittura di compassione?), intesa come capacità di comprendere gli altri. L’empatia diventa in definitiva essenziale per superare l’irriducibilità ad unum dei valori di riferimento (si pensi ai complessi temi della bioetica e ai fatti eticamente connotati che rilevano nel diritto penale); per adattare il precetto astratto alla mutevolezza e alle varianti del caso concreto.

Ancora una volta possono venire in aiuto gli studi neuroscientifici, in quanto essi non indagano soltanto la mente del singolo soggetto, ma anche il rapporto tra l’individuo e ‘gli altri’. A tale proposito sono particolarmente rilevanti le scoperte sui cd. neuroni specchio, la cui attività ci permetterebbe di capire le azioni altrui ‘simulandole’, e di comprendere cosa provino gli altri. In particolare, la scoperta del sistema mirror ha dimostrato che l’essere umano non è solo, ma vive e agisce in una necessaria connessione reciproca con gli altri individui: in definitiva abbiamo un bisogno biologico degli altri e tale bisogno non può che essere un fondamento del sentimento umano di solidarietà.

Alla luce di quanto osservato, è possibile allora apprezzare le numerose potenzialità delle n., che divengono ancora più importanti in una società multiculturale come la nostra, che corre spesso il rischio di lacerarsi. Il valore aggiunto delle n. in tale contesto consente una comprensione e un approfondimento maggiori del meccanismo di conoscenza, di adattamento del precetto al caso concreto, di valutazione dell’empatia come idem sentire; consente, in sostanza, di cogliere meglio il nesso fra personalismo e pluralismo che è fondamentale per comprendere la nostra Costituzione.

Bibliografia: O. Di Giovine, Neuroscienze (diritto penale), in Enciclopedia del diritto, Annali, 7° vol., Milano 2014, ad vocem.

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