Nazionalsocialismo

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Nazionalsocialismo

Wolfgang Schieder

(XXIV, p. 466)

L'argomento, trattato nel XXIV vol. (1934) dell'Enciclopedia Italiana e nella voce germania: Storia, dell'App. I (p. 655) a firma di Carlo Antoni, è stato ripreso nel dopoguerra nella voce germania: Storia, in App. II (i, p. 1035). Per valutare le differenze tra n. tedesco e fascismo italiano, oltre alla voce fascismo nel XIV vol. (p. 847) scritta da G. Gentile (segnata da asterisco redazionale), B. Mussolini e G. Volpe, si rinvia ai contributi che compaiono nelle prime tre Appendici (I, p. 571; II, i, p. 904; III, i, p. 593) e, soprattutto, alla voce in App. V (ii, p. 196) dedicata a La questione del fascismo. Nella stessa App. si veda anche la voce totalitarismo (V, v, p. 530). Per la posizione dell'Enciclopedia in periodo fascista sulle tematiche razziali, si rinvia alla voce razza: Razze umane, del 1935 (XXVIII, p. 911), distante dalle teorie tedesche, e alla voce ripresa nel 1938 (App. I, p. 962), che recepisce le disposizioni delle leggi razziali italiane. Per completare il quadro degli argomenti che possono arricchire l'analisi del n., compaiono in questa Appendice i contributi genocidio e novecento.  *

Problemi generali della storiografia sul nazionalsocialismo

di Wolfgang Schieder

Nell'ambito della storia contemporanea il n. è certamente uno dei campi di studio più approfonditi. La Bibliographie zum Nazionalsozialismus, apparsa nel 1995 a cura di Michael Ruck, annovera oltre 20.000 titoli. Al contempo, però, le cause, la nascita, lo sviluppo, la caduta e le conseguenze del n. rimangono oggetto di accese controversie. Potrebbe stupire che sull'argomento dal 1945 non esista un filone apologetico di ricerca degno di seria considerazione. L'insieme della storiografia sul n. si colloca sotto il segno della condanna morale, tanto che a qualsiasi forma di 'storicizzazione' corrisponde subito l'accusa di voler giustificare o quanto meno minimizzare il n., poiché alla storia del Terzo Reich è indissolubilmente legato il crimine mostruoso dell'assassinio degli Ebrei europei. Ma ciò non significa che riesca più convincente la storiografia in cui la condanna morale del n. assume i toni più aspri. Anche in questo caso limite la ricerca storica deve sforzarsi di pervenire a spiegazioni fondate sulle fonti, controllabili in base a criteri scientifici. Anzi, il consenso morale quasi unanime costringe a maggior ragione alla distanza critica. Meno sorprendente appare che gli studi storici sul n., in particolare tedeschi, siano stati a lungo e ampiamente condizionati dalla politica. Ciò è da ricondurre indubbiamente alla divisione della Germania in due Stati di orientamento ideologico e politico opposto.

Nell'ideologia dello Stato marxista-leninista della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) 'l'antifascismo' aveva la funzione di fondamento di identità. Attraverso tale concetto si collegava la 'lotta di classe' contro lo Stato tedesco occidentale borghese al conflitto storico tra il comunismo e il n. inteso come 'fascismo'. La ricerca storica sul n. nella DDR era perciò espressamente finalizzata a legittimare storicamente questo 'antifascismo' ideologico. Per converso, la storiografia nella Germania occidentale tendeva a dimostrare che il regime nazionalsocialista, in quanto dittatura totalitaria, aveva in larga misura la stessa natura del sistema comunista dell'Unione Sovietica. Insomma, se gli storici marxisti-leninisti della DDR sostenevano una corrispondenza del n. con la democrazia occidentale, gli storici liberaldemocratici della Repubblica Federale di Germania (BRD) avvicinavano il n. al comunismo. Non c'è dubbio che il lavoro degli storici sia stato in tal modo strumentalizzato nell'ambito del confronto politico mondiale della 'guerra fredda'. La storiografia tedesco-orientale non si è svincolata dall'ideologia della lotta di classe nemmeno nella fase della distensione tra Est e Ovest. Ancora negli anni Ottanta eminenti storici della DDR, quali per esempio Dietrich Eichholtz, Kurt Gossweiler e Kurt Pätzold, hanno rinforzato l'orientamento 'antifascista' nei loro lavori, allontanandosi in tal modo dalla storiografia occidentale che era nel frattempo progredita e si era molto differenziata. La storiografia tedesco-orientale ebbe perciò scarso impatto scientifico nel contesto internazionale.

Dopo la fine della guerra fredda, la storiografia tedesco-occidentale non era più improntata al contrasto con quella tedesco-orientale, bensì esclusivamente alle controversie storiografiche suscitate dalla trasformazione dei valori nella BRD. Colpisce il fatto che i sovvertimenti politici interni e i mutamenti delle tematiche nell'ambito della ricerca sul n. si siano in parte reciprocamente condizionati. Dall'avvicendarsi di forze diverse al governo del paese non dipendevano solo cambiamenti decisivi della storiografia, ma ogni nuovo orientamento politico nella Repubblica Federale di Germania non avveniva senza un esplicito richiamo al Terzo Reich. In corrispondenza con lo sviluppo politico la storiografia tedesco-occidentale sul n. ha attraversato tre fasi chiaramente distinte. Una prima fase, scientificamente contrassegnata dal pensiero storico in un senso ancora affatto tradizionale, corrispondeva all'era politicamente conservatrice (1949-63/66) di Konrad Adenauer. All'epoca della coalizione social-liberale (1966/69-82) guidata da Willy Brandt e Helmut Schmidt, negli studi tedeschi si verificò un fondamentale mutamento paradigmatico verso una metodologia di ricerca più fortemente improntata alla storia sociale. Infine, di recente, nel periodo del governo di Helmut Kohl (1982-98), nuovamente conservatore, in seno alla cosiddetta controversia storiografica (Historikerstreit) si è invocato, anche se da principio invano, un nuovo orientamento storiografico riguardo al n., che sfociasse in un recupero dell'approccio storico-politico. Tuttavia, la riunificazione tedesca ha posto la ricerca storica sul n. di fronte a una sfida completamente nuova.

Nel complesso, dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, nel corso delle tre fasi della storiografia, è durato ininterrottamente uno scontro per imporre tre diversi modelli esplicativi del nazionalsocialismo. Concepiti tutti in origine già all'epoca del Terzo Reich, tra il 1933 e il 1945 o persino prima, essi acquisirono una piena pregnanza scientifica solo dopo il crollo del regime nazionalsocialista. Secondo una prima interpretazione il n. è esclusivamente il prodotto di una via particolare tedesca nella recente storia europea. La particolarità si può individuare nel fatto che la Germania era una verspätete Nation, una "nazione in ritardo" (H. Plessner), che i Tedeschi a causa di una carenza di tradizioni liberali avevano un "carattere autoritario" (Th.W. Adorno), ovvero che in Germania esisteva un "antisemitismo di annientamento" (D.J. Goldhagen). Il n. è sempre visto quale risultato finale della sola storia tedesca e pertanto come un fenomeno unico. Un secondo modello esplicativo considera il n. come una dittatura totalitaria. Alla base di questa interpretazione sta il modello del totalitarismo, che dall'analisi comparata dei regimi nazionalsocialista e staliniano deduce una tipologia astratta fondata su caratteri comuni a entrambi i regimi. Le idee della teoria del totalitarismo hanno il loro fondamento nella democrazia liberale, per la quale il n. e lo stalinismo, benché tra di loro antagonisti, rappresentano in egual misura una minaccia. Sulla comparazione poggia anche il terzo modello esplicativo, secondo il quale il n. è una variante del fascismo. Qui il fascismo è considerato volta a volta lo stadio finale ineludibile del dominio borghese-capitalistico (secondo la definizione comunista), l'autonomizzazione 'bonapartistica' dell'esecutivo (A. Thalheimer) o la rivolta del ceto medio inferiore (S.M. Lipset). Comunque sia, gli storici che interpretano il n. come un regime fascista incentrano l'attenzione sul suo carattere di movimento sociale, mentre i sostenitori della teoria del totalitarismo si interessano esclusivamente al sistema di potere. In ambedue i casi si pone la domanda se il n. possa ancora essere considerato un fenomeno storicamente unico, dato che accanto a esso sono esistiti altri regimi fascisti o totalitari.

Il nazionalsocialismo come prodotto di una via particolare tedesca

Nel 1945 gli storici tedeschi erano di fronte a una sfida del tutto nuova. Con la sconfitta della Germania nazionalsocialista i Tedeschi non solo avevano perduto una guerra, ma si trovarono a essere ritenuti responsabili di crimini di Stato di proporzioni inimmaginabili. Alcuni storici americani spiegavano tali crimini con una mancata evoluzione politica della Germania da Lutero a Hitler (McGovern 1941), di cui l'ascesa e la caduta del Terzo Reich (Shirer 1960) erano stati solo lo sbocco inevitabile. I due maggiori storici tedeschi dell'immediato dopoguerra, Friedrich Meinecke e Gerhard Ritter, che avevano invece preso nettamente le distanze dal Terzo Reich, vedevano con tali ipotesi minacciata l'intera tradizione dello Stato nazionale tedesco. Nel 1946, Meinecke tentò pertanto di presentare il Terzo Reich come 'la catastrofe tedesca', provocata soltanto dal n. con il suo 'demoniaco' Führer Hitler. E nel 1948, Ritter ritenne che il n. non fosse stato "un fenomeno tipicamente tedesco", ma avesse origine nella crisi della democrazia europea nel 20° secolo. Ambedue non inserirono il n. nella continuità della storia tedesca, ma lo interpretarono come una rottura della tradizione storica. Ne conseguì una forte rivalutazione dell'opposizione a Hitler, di quell'"altra Germania" (U. von Hassell), cui anche la politica tedesca durante il periodo Adenauer si voleva riallacciare, al di là del nazionalsocialismo. Con la crisi della BRD dopo la costruzione del muro di Berlino (1961) questa forma di superamento del passato fu però messa radicalmente in discussione. Nel suo libro apparso nel 1961 sulla presa del potere mondiale della Germania nella guerra del 1914-18, lo storico Fritz Fischer mostrò che non solo Hitler, ma già il governo imperiale sotto Guglielmo ii aveva attuato una politica di espansione imperialistica. In tal modo veniva riproposto il tema della continuità della politica tedesca nel 20° secolo, che gli storici conservatori avevano fino allora negato con veemenza. Ciò produsse nella BRD una prima grande controversia storiografica, nella quale a metà degli anni Sessanta si imposero chiaramente coloro che affermavano l'esistenza di una continuità storica tra la Germania imperiale e quella nazionalsocialista. La nascita del n. fu letta soprattutto da Hans-Ulrich Wehler e Jürgen Kocka come il risultato di una via particolare rispetto allo sviluppo dell'Europa occidentale, che la società tedesca aveva imboccato sin dalla fondazione del Reich nel 1871. L'argomento centrale di questa interpretazione del n. consiste nell'attribuire la mancata modernizzazione della Germania alla sopravvivenza di strutture sociali autoritarie di natura preindustriale e precapitalistica. La Germania, paese in cui non vi era stata una compiuta rivoluzione industriale, non avrebbe potuto contrapporre nulla all'attacco di forze politiche di orientamento autoritario. In questa luce il n. appare quale frutto della resistenza di élites nazional-conservatrici contro il processo di trasformazione che dal 1919 aveva registrato un'accelerazione. Per avvalorare quest'interpretazione l'analisi doveva incentrarsi sulla società tedesca dell'Impero e della Repubblica di Weimar piuttosto che sulla politica tedesca dal 1919. I sostenitori della tesi della via particolare adottarono un approccio nuovo anche dal punto di vista metodologico, sostituendo alle indagini di storiografia politica quelle di storiografia sociale. Il libro di Ralph Dahrendorf su società e democrazia in Germania (1963) e il lavoro di David Schoenbaum sulla 'rivoluzione bruna' (1968) aprirono la via all'interpretazione storico-sociale del nazionalsocialismo.

Questo nuovo orientamento corrispondeva perfettamente allo spirito di riformismo sociale dell'era socialdemocratica dei governi di Brandt e di Schmidt, animati dal desiderio che la società tedesca si contrapponesse alle sue tradizioni negative. Le analisi delle deficienze della società tedesca del passato più recente sembravano preparare il terreno a una politica sociale che guardasse al futuro. Ciò implicava egualmente l'espressa accettazione del passato nazionalsocialista con tutte le sue conseguenze, fino all'Olocausto, quale parte integrante della storia tedesca.

Nella Germania divisa, la memoria autocritica doveva dare alla Repubblica Federale un'identità politica, che la proteggesse da una ricaduta in un nazionalismo estremo. In tale contesto, nel 1985 Martin Broszat auspicò una "storicizzazione del nazionalsocialismo". Questo concetto, per altro ambiguo, conteneva ben tre implicazioni. In primo luogo, si doveva porre definitivamente fine all'estromissione dell'epoca hitleriana dalla storia. In secondo luogo, grazie a esso, si sarebbe potuto affrontare lo studio del n. con gli stessi strumenti metodologici applicati ad altre epoche storiche. In terzo luogo, la storicizzazione doveva far emergere la compromissione di tutti gli strati sociali con il n., ma anche la presa di distanza e la resistenza incontrati dal regime dittatoriale, più chiaramente di quanto non avesse fatto fino allora un'indagine storiografica concentrata esclusivamente su singoli gruppi politici e personalità di dirigenti o addirittura sulla sola figura di Hitler. In questo senso 'storicizzare' il n. significava non interpretarlo più come corpo estraneo al di fuori della propria storia, ma considerarlo un'epoca storica 'reale'.

Era inevitabile che questo tentativo di smitizzare il n. incontrasse forti riserve. Soprattutto lo storico israeliano Saul Friedländer controbatté con energia, nel 1987, le affermazioni di Broszat, pur riconoscendo esplicitamente che questi non intendeva relativizzare lo spaventoso bilancio del nazionalsocialismo. A suo avviso "la questione del carattere specifico e del luogo storico della politica di sterminio del Terzo Reich" mal si conciliava con la 'normalità' del regime nazionalsocialista. Già Hannah Arendt aveva parlato della "banalità del male", per cui è affatto pensabile una società 'normale' che sotto una dittatura commetta crimini eccezionali. Maggior peso ha l'obiezione di Friedländer, che il concetto di 'storicizzazione' è troppo ambiguo per poter fungere da categoria analitica della storiografia. Troppo facilmente il concetto potrebbe essere strumentalizzato per cancellare la dimensione morale dei crimini nazionalsocialisti. Friedländer rimanda in proposito a uno scritto di Andreas Hillgruber del 1986, in cui una profonda immedesimazione con i soldati tedeschi impegnati sul fronte orientale porta l'autore a una storicizzazione del tutto acritica del nazionalsocialismo. Discolpare i Tedeschi dal passato nazionalsocialista non rappresentava un'aspirazione esplicita di Hillgruber, benché egli fosse accusato di minimizzare il fenomeno.

Anche Hillgruber appartiene infatti a quegli storici che intorno al 1982, nel periodo in cui si avviava l'era politica di Kohl, deploravano la preponderanza dell'indirizzo sociale nella storiografia sul n., mentre si dimenticava in misura crescente che la memoria autocritica del n. poteva essere un fattore stabilizzante per la società della BRD. Molti storici ritenevano perfino pericoloso a lungo termine considerare tutta la storia tedesca come determinata dal ricordo del n., e in questo si trovavano in perfetta sintonia con il governo politico del paese. Durante il suo primo viaggio ufficiale in Israele in qualità di cancelliere federale, Kohl si riteneva liberato dalla responsabilità storica del passato del Terzo Reich, per la "fortuna di essere nato tardi". E nel 1987 il capo della CSU bavarese, Franz-Joseph Strauss, si diceva stanco del fatto "che i Tedeschi stiano per sempre seduti sul banco degli accusati come i cattivi della storia mondiale".

Tra gli storici esplicitamente revisionisti, Michael Stürmer prese le distanze in modo particolare dalla concentrazione esclusiva degli studi sul Terzo Reich. A suo avviso in tal modo si impediva nella Repubblica Federale il formarsi di un solido sentimento di identità di tutti i cittadini e ciò era politicamente pericoloso, perché nel paese diviso non si sarebbe creata alcuna comunione nazionale. Il "patriottismo della costituzione" - proclamato prima da Dolf Sternberger e poi soprattutto da Jürgen Habermas -, che alla presunta società postnazionale della Repubblica Federale avrebbe dovuto dare un orientamento di valori comune fondato sul Grundgesetz del 1949, per Stürmer non era sufficiente. Egli riteneva che lo Stato parziale tedesco-occidentale avesse bisogno di una legittimazione storica, e che questa si potesse derivare solo dall'epoca precedente il nazionalsocialismo. Ma ciò comportava pure - del resto in armonia con l'intenzione di Stürmer - una relativizzazione del passato nazionalsocialista. Tuttavia, nessuno dei protagonisti della seconda controversia storiografica si spinse tanto lontano quanto lo storico e filosofo berlinese Ernst Nolte.

A metà degli anni Ottanta questo outsider degli studi storici propose, con il libro sulla guerra civile europea dal 1917 al 1945 (1987), una spiegazione solo apparentemente scientifica del n., che veniva abilmente incontro a un bisogno latente di molti Tedeschi di essere sgravati dalla responsabilità del nazionalsocialismo. Nell'opera, Nolte sostiene in primo luogo che l'assassinio degli Ebrei per ordine dello Stato sotto il Terzo Reich è stato certo un fenomeno "singolare" nell'esecuzione, ma non unico nella storia. Esso si inserirebbe invece in una serie di genocidi contemporanei, da quelli staliniani a quelli perpetrati da Pol Pot in Cambogia e da Idi Amin in Uganda. In secondo luogo, per Nolte lo sterminio degli Ebrei europei a opera del n. non solo è paragonabile ma è anche causalmente connesso all'uccisione di massa dei kulaki ordinata da Stalin. Nella sua terminologia l'"assassinio razzista" del n. sarebbe una "risposta all'assassinio di classe" del bolscevismo. Hitler diventa quindi in Nolte addirittura il "borghese europeo", che nella "guerra civile europea" ha salvato il continente dalla minaccia bolscevica. La controffensiva hitleriana con lo sterminio degli Ebrei avrebbe quindi portato solo a una certa iperreazione. L'antibolscevismo, non l'antisemitismo sarebbe però l'"elemento originario" nel pensiero di Hitler.

Anche se Nolte ottenne qualche consenso nell'opinione pubblica tedesca, le sue tesi incontrarono il rifiuto unanime degli studiosi. Hans Mommsen, Eberhard Jäckel e altri storici hanno potuto provare con facilità che le ipotesi storiche di Nolte sono scientificamente insostenibili. Non l'antibolscevismo, bensì l'antisemitismo - questo rimane un punto fermo - fu il motore ideologico primario del nazionalsocialismo. Con ciò viene a cadere la teoria secondo cui la campagna di annientamento condotta da Hitler contro gli Ebrei europei sarebbe una risposta al crimine staliniano. In generale, attualmente le tesi di Nolte non sono ritenute degne di seria considerazione.

Al dibattito sul n. circoscritto esclusivamente alla Germania appartiene infine anche l'analisi del problema della resistenza, che ha attraversato fasi analoghe a quelle della storiografia generale sul nazionalsocialismo.

Fino alla fine degli anni Sessanta, lo studio della resistenza antinazista in Germania si era limitato al fine morale di dimostrare l'esistenza dell'"altra Germania". Determinante in questo senso era stata l'opera, apparsa prima in inglese, dello storico tedesco emigrato Hans Rothfels, sull'opposizione tedesca a Hitler (1948). La resistenza civile e militare, che condusse il 20 luglio 1944 all'attentato contro Hitler, era interpretata dall'autore come una lotta, esclusivamente individuale, per un ordinamento liberal-democratico. Gli studi biografici successivi di Ritter su Carl Goerdeler (1954) o di Eberhard Zeller sull'attentatore Claus Schenk von Stauffenberg (1994) consolidarono l'immagine di una resistenza democratica delle élites tedesche contro il totalitarismo nazionalsocialista. Lo storico Peter Hoffmann, attivo in Canada, traccia il bilancio di questa prima fase della ricerca sulla resistenza contro il n. in un ampio studio sull'argomento (1979). Indubbiamente a ragione, Hoffmann sottolinea in particolare la risolutezza dei protagonisti del complotto del 20 luglio, decisi a mettere in gioco la vita, anche quando il fallimento della loro azione già si delineava. Emblematica in questo senso suona la dichiarazione del generale di Stato Maggiore implicato nel complotto, Henning von Tresckow: "L'attentato deve riuscire, coûte que coûte. E se per caso non dovesse riuscire, ciononostante a Berlino bisogna agire. Perché non si tratta più di scopi pratici, bensì del fatto che il movimento di resistenza tedesco ha osato trarre il dado di fronte al mondo e di fronte alla storia. E, a paragone di questo, tutto il resto perde importanza".

Fintantoché rimaneva valido il modello totalitario, l'assunto che la resistenza del 20 luglio mirasse a restaurare la democrazia in Germania poteva senz'altro essere mantenuto. Ma la discussione apertasi su questo punto all'inizio degli anni Sessanta ebbe ripercussioni anche sulla valutazione della resistenza. Hans Mommsen e Hermann Graml, nell'opera dedicata alla resistenza contro Hitler (1966), misero in discussione per la prima volta sia le idee socio-politiche sia le concezioni di politica estera della resistenza tedesca. Mommsen poté dimostrare che i congiurati nazional-conservatori del 20 luglio erano animati non da idee democratiche e pluralistiche, ma piuttosto oligarchiche e autoritarie. All'epoca della Repubblica di Weimar per la maggior parte essi erano vicini alla cosiddetta Rivoluzione conservatrice. Nutrivano forti riserve nei confronti della democrazia dei partiti, di cui il regime a partito unico che caratterizzava il n. pareva loro una conseguenza. Per il futuro progettavano - secondo quanto andavano discutendo innanzi tutto i membri del cosiddetto Circolo di Kreisau (Kreisauer Kreis) - un ordinamento sociale cetuale-corporativo. Graml dimostrò che i resistenti nazional-conservatori intorno a Ludwig Beck, Carl Goerdeler e Ulrich von Hassell avevano in larga parte obiettivi di politica estera revisionisti, che si distinguevano da quelli nazionalsocialisti solo per il metodo, e che per questo motivo, al pari delle élites tedesche, quando Hitler era andato al potere i nazional-conservatori lo avevano sostenuto più o meno senza riserve. Ciò non vuol dire che alla resistenza nazional-conservatrice contro Hitler si debba disconoscere il suo significato storico. In una dittatura terroristica, quale si presentava il regime hitleriano, poteva avere una prospettiva di successo solo una resistenza che si formasse a partire dallo stesso sistema. Che persino questa resistenza fallisse il 20 luglio 1944 dimostra quanto esigue fossero per i Tedeschi le possibilità di liberarsi da quella dittatura, cui nel 1933 si erano consegnati fin troppo di buon grado. Anche se alcuni dei loro obiettivi politici erano discutibili, rimane fuor di dubbio il valore storico dell'azione dei congiurati del 20 luglio, di essersi distaccati nonostante tutto dal n. e di aver lottato per la sua eliminazione. E tanto più che tra i membri delle élites tedesche essi costituivano solo una piccola minoranza.

A causa del momento tardivo dell'attentato contro Hitler, peraltro, si è rimproverato a posteriori ai congiurati di aver agito per salvare se stessi solo quando la fine del n. era ormai prevedibile. Così si giudicò già da parte alleata, così per esempio ritenne W. Churchill, e pertanto tutti i tentativi di contatto con l'estero della resistenza tedesca rimasero vani. In realtà la congiura contro Hitler (H.C. Deutsch 1968) ebbe inizio già negli anni 1938-39, quando la marcia verso la catastrofe non era assolutamente prevedibile. Anche la serie degli attentati falliti cominciò in un periodo in cui la guerra non sembrava ancora persa per i nazisti. La storiografia ha comunque dedicato molta attenzione alla questione se la resistenza delle élites sia stata una "resistenza senza popolo" (Kershaw 1986). La congiura del 20 luglio fu condotta quasi esclusivamente da alti funzionari e ufficiali dell'esercito di estrazione nobiliare. I pochi sindacalisti e teologi coinvolti non rappresentavano le istituzioni di appartenenza. Diverso è però il caso dell'"opposizione popolare nello Stato poliziesco" (Vollmer 1957) in sé, soprattutto se si tiene conto che la resistenza contro il n. in Germania - a differenza di quanto avveniva in tutti gli altri paesi occupati dai nazisti - si dirigeva contro il proprio governo e il proprio popolo. Una "lotta per la libertà del popolo tedesco" era fatalmente sempre legata al tradimento della patria e all'alto tradimento, con tutte le conseguenze che ciò comportava. Come si può evincere, tra i vari studi, dall'opera di Richard Löwenthal e Patrick zur Mühlen sulla resistenza e il rifiuto in Germania (1982), solo negli anni 1933-39 furono rinchiusi in campi di concentramento circa 150.000 comunisti e socialdemocratici, mentre altri 40.000 emigrarono. Durante la guerra vennero pronunciate non meno di 15.000 condanne a morte per motivi politici. Il terrore nazionalsocialista colpì, oltre gli operai, soprattutto cristiani cattolici ed evangelici, nonché altri dissidenti per motivi religiosi, quali i Testimoni di Geova. Benché la maggior parte dei Tedeschi rimanesse fedele al n. fino agli ultimi momenti, l'antinazismo nel periodo della guerra - come oggi si sa - era purtuttavia sorprendentemente diffuso. In un progetto di ricerca avviato da Broszat ed Elke Fröhlich per il Münchener Institut für Zeitgeschichte sulla resistenza e la persecuzione in Baviera nell'epoca nazionalsocialista, il comportamento deviante di larghe parti della popolazione è stato per la prima volta indagato sistematicamente. Il risultato è una tipologia di 'disobbedienza civile' a vari livelli, definita, sia pure in modo non del tutto felice, come "resistenza". Questa 'resistenza' (Resistenz) è distinta dalla 'opposizione' (Widerstand) vera e propria. Comprende, nella definizione di Broszat, "rifiuto sociale", "dissenso", "nonconformismo" ed "emigrazione interna". La ricerca di tracce di tali forme di comportamento alternativo ha portato in Germania a un'ondata di studi storici sulla vita quotidiana, volti a ricostruire la "resistenza dal basso". Per lo più si trattava però di casi singoli, senza alcun collegamento l'uno con l'altro. Tuttavia, nell'ultimo anno della guerra, allorché le città tedesche erano sempre più distrutte dai bombardamenti, il rigido ordine dello Stato poliziesco nazionalsocialista si disgregò progressivamente. Bande di giovani come gli Edelweisspiraten poterono persino darsi una rudimentale organizzazione. Quanto più procedeva l'esplorazione di questa resistenza dal basso, tanto più però la resistenza attiva contro il n. appariva ridursi a un "fenomeno puramente marginale", come a ragione ha sottolineato Claudio Natoli (La Resistenza tedesca, 1989). La storiografia ha quasi del tutto abbandonato questo concetto di resistenza, per tornare a concentrarsi oggi sull'opposizione delle élites, che osteggiarono il n. con piena consapevolezza del loro rischio personale. Al contempo si può sottolineare come dato acquisito che l'opposizione socialdemocratica e comunista ebbe grande importanza soprattutto nei primi anni del regime nazionalsocialista. Infine, è ormai generalmente riconosciuto che il Comitato nazionale per la Germania libera, promosso da Stalin nei campi di prigionia sovietici, fu un elemento della resistenza contro il nazionalsocialismo.

Il nazionalsocialismo come regime totalitario. - La teoria del totalitarismo risale agli inizi del regime fascista in Italia. Già nel 1923, riaffermando la loro posizione liberaldemocratica, i primi antagonisti di Mussolini misero sullo stesso piano il fascismo e il bolscevismo. F.S. Nitti affermò nel 1925 che alla base del regime fascista e di quello bolscevico nell'Unione Sovietica stava "il rinnegamento degli stessi principi di libertà e di ordine". Tale interpretazione fu successivamente accolta dalla teoria politica, come, per es., da G.H. Sabine (1934) nella voce State della Encyclopedia of the Social Sciences. È interessante, tuttavia, rilevare che fino al 1945 erano per lo più definite dittature totalitarie solo l'Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Ciò derivava dal fatto che sia Mussolini sia Hitler propugnavano uno Stato totalitario. Solo dopo la sconfitta del n., l'emergente conflitto politico tra le democrazie occidentali e l'Unione Sovietica provocò su questo punto un mutamento della coscienza politica. Nella cosiddetta dottrina Truman la nascente guerra fredda con l'Unione Sovietica staliniana era considerata dalla politica statunitense come una lotta tra una forma di vita liberale e una totalitaria. Ciò fece sì che la scienza politica designasse poi come totalitari solo il regime nazionalsocialista di Hitler e quello comunista di Stalin, negando quindi il carattere totalitario della dittatura fascista in Italia (Arendt 1951). In seguito a tali prese di posizione e fino ai giorni nostri, la teoria del totalitarismo non ha avuto praticamente più alcuna funzione nello spiegare il fascismo italiano, se si escludono singoli autori come Domenico Fisichella (1976) ed Emilio Gentile (1995). Per converso, essa ha dominato il campo degli studi sul n. a partire dagli anni Cinquanta. Fondamentali furono soprattutto i libri di Hannah Arendt, Jacob Talmon e Carl Joachim Friedrich.

Arendt, nell'opera The origins of totalitarianism (1951), rivolse l'attenzione soprattutto agli aspetti ideologici del regime totalitario in Germania e in Unione Sovietica, definendo sia l'ideologia nazionalsocialista sia quella comunista come un conglomerato di idee, politicamente manipolabili a piacimento. Particolare attenzione è dedicata anche all'uso sistematico del terrore, volto non solo a sottomettere la popolazione, bensì a isolare ogni singolo individuo e a consegnarlo impotente alla macchina del potere del sistema. Nel suo studio sulle origini della democrazia totalitaria (1952), Talmon opera una distinzione più netta fra totalitarismo di destra e di sinistra, facendo risalire la storia spirituale di quest'ultimo a Rousseau e ai giacobini. Ma l'interpretazione del n. come totalitarismo finì con l'imporsi veramente con l'opera di Carl Joachim Friedrich e Zbigniew Brzezinski, Totalitarian dictatorship and autocracy (1956). Friedrich sviluppa una teoria della consustanzialità del regime totalitario in Germania e in Unione Sovietica, sulla base di una sindrome costituita da alcuni elementi comuni. Secondo l'autore, sia la Germania nazionalsocialista sia la Russia comunista sono caratterizzate da un'ideologia ufficiale, da un partito politico unico, da una polizia segreta terroristica, da un monopolio delle armi e da un'economia dirigista. Questa teoria del potere totalitario è stata peraltro criticata non solo per la sua sistematica imperfetta in singoli punti (per es. la questione dell'economia centralizzata), bensì soprattutto per la sua staticità antistorica. Nondimeno, essa ha stimolato gli studiosi a convertire empiricamente la teoria del totalitarismo in ricerca storica.

In questo ambito sono oggi considerati classici gli studi di Karl-Dietrich Bracher sulla dissoluzione della Repubblica di Weimar (1955), sulla presa nazionalsocialista del potere (1960) e sulla dittatura tedesca (1969). Bracher interpreta il Terzo Reich essenzialmente come regime totalitario, in quanto Hitler sarebbe riuscito a imporre la sua volontà personale di Führer quale unica e suprema istanza decisionale in un sistema politico-istituzionale che si stava disgregando. Egli parte dal presupposto che nel n. tutte le decisioni politiche fondamentali erano prese dal solo Hitler. E spiega la contrapposizione di gruppi di potere nazionalsocialisti in rivalità tra di loro - una realtà che egli non nega assolutamente - come un sistema prodotto scientemente da Hitler. Le confuse strutture di potere del Terzo Reich sarebbero state volutamente create da Hitler, per rendersi indispensabile e poter governare secondo il principio del divide et impera. "L'antagonismo delle funzioni del potere" nel n. si sarebbe "risolto nella posizione chiave onnipotente del Führer". A questo proposito Gerhard Schulz aveva coniato, già nel 1961, il concetto di "policrazia totalitaria". Proprio la disgregazione dello Stato unitario tedesco in numerosi centri di potere reciprocamente concorrenti avrebbe reso Hitler indispensabile nello Stato nazionalsocialista. Attraverso il "potenziamento incessante della sua posizione di potere quale 'Führer'" egli avrebbe conseguito un'autorità assoluta nel nazionalsocialismo. Da questa interpretazione all'affermazione che il n. per sua propria natura fosse in realtà hitlerismo (Hildebrand 1977) il passo era breve. Si ammetteva così che il carattere totalitario del regime nazionalsocialista era determinato non da fattori sociali o strutturali, bensì da fattori esclusivamente personali. Insomma, il n. non sarebbe stato legato a strutture sociali o istituzioni politiche, ma alla sola persona di Hitler. A questo corrispondeva il tentativo di trarre dagli scritti altamente contraddittori di Hitler, unitari solo nel loro nocciolo di radicale antisemitismo, e in particolare dal Mein Kampf e dal Zweites Buch, una Weltanschauung compiuta del Führer. In questo senso, nel 1969, Eberhard Jäckel sostenne espressamente la tesi che il regime nazista era un'autocrazia, poiché le decisioni politiche fondamentali erano prese da uno solo, in questo caso da Hitler. Per Jäckel era perciò sufficiente dimostrare che Hitler aveva un programma, cui era rimasto fedele, con qualche modifica, sino alla fine. Tale programma sarebbe stato a fondamento sia dell'esercizio del potere all'interno del paese sia dell'espansione imperialistica hitleriana.

Anche una serie di biografie di Hitler si basa sulla riduzione del totalitarismo nazionalsocialista alla persona del Führer. Joachim Fest (1973) tentò di far risalire il programma politico hitleriano a un'estetica politica, che il dittatore avrebbe derivato dalla fascinazione su di lui da sempre esercitata da Richard Wagner. Il teste principale di Fest in questa ricostruzione era l'architetto di Hitler, Albert Speer, il quale, con l'interpretazione estetizzante contenuta nelle sue memorie (1969), voleva, in verità, soltanto attenuare la sua responsabilità politica di efficiente ministro degli armamenti. Ancor più discutibili sono le osservazioni su Hitler di Sebastian Haffner (1978), in cui la realtà storica del Terzo Reich viene ricondotta esclusivamente a successi ed errori di Hitler, senza ulteriore valutazione. Il culmine dell'hitlero-centrismo si è infine raggiunto con quelle biografie che si avvalgono di metodi psico-storici. Robert Waite (1977) e Rudolf Binion (1978), per esempio, spiegano la politica di Hitler puramente come conseguenza di traumi della prima pubertà, di un rapporto nevrotico con la madre o di una incapacità di relazione sessuale. Solo Ian Kershaw è riuscito recentemente a legare biografia personale e analisi storico-strutturale, aprendo una nuova prospettiva agli studi, con la prima parte (dal 1889 al 1936) - pubblicata nel 1998 - della sua biografia di Hitler prevista in due volumi.

Nella ricerca storica concreta l'onnipotenza totalitaria di Hitler emerge nel modo più chiaro nel campo della politica estera. Non per caso sostenitori di rilievo di un'interpretazione hitlero-centrica del n. si trovano proprio tra gli storici che si occupano della politica internazionale del regime. Nel suo libro sulla strategia hitleriana nel corso della Seconda guerra mondiale (1965), Andreas Hillgruber delinea essenzialmente l'immagine di Hitler che agisce in base a disposizioni programmatiche.

Per questo autore, l'aggressione nei confronti dell'Unione Sovietica nell'estate del 1941 scaturiva da un programma di lunga data, fondato sulla biologia razziale, secondo il quale il popolo tedesco doveva trovare in Oriente nuovo 'spazio vitale' e contemporaneamente fondare il suo futuro dominio imperialistico. Hillgruber parla di un "piano graduale" in virtù del quale Hitler voleva, passo dopo passo, addirittura conseguire il "dominio del mondo". Questa dilatazione degli obiettivi di Hitler è peraltro contestata da altri storici, che pur concordano con Hillgruber sul fatto che almeno la politica estera del dittatore era fondata su un chiaro programma. Anche se lo schematismo del suo modello esplicativo è poco convincente, Hillgruber ha saputo però indubbiamente dimostrare che la guerra condotta in Unione Sovietica come "guerra ideologica" risaliva in effetti solo alla decisione strategica di Hitler. Anche Klaus Hildebrand ribadiva con insistenza, nel 1971, che il "fattore Hitler" era stato sin dall'inizio determinante nella politica estera nazionalsocialista, fondata sull'ideologia razziale. Ma a differenza di Hillgruber egli non misconosce "l'improvvisazione del dittatore e l'alto grado della sua flessibilità tattica", pur insistendo sul fatto che le "forze motrici essenziali e gli obiettivi centrali della politica estera di Hitler" erano già fissati ben prima della presa del potere nel 1933.

Benché studiasse in modo esauriente - contrariamente a Hildebrand - i protagonisti del Terzo Reich (tra gli altri K. von Neurath e J. von Ribbentrop, H. Göring, J. Goebbels, A. Rosenberg), anche Hans-Adolf Jacobsen, nel suo libro Nazionalsozialistische Aussenpolitik (1968), attribuiva un grande peso al ruolo determinante di Hitler nelle decisioni di politica estera. Questa era sì improntata a una certa "asistematicità" e a una disordinata competizione di una molteplicità di organi diversi, ma tutti gli attori della politica estera agivano pur sempre nella convinzione di corrispondere alle intenzioni di Hitler. Ciò vale per la politica inglese solo apparentemente autonoma di Ribbentrop, di cui W. Michalka (1980) ha dimostrato il preciso legame con l'Ostpolitik fondata nell'ideologia razziale di Hitler. Anche la politica estera di Göring, motivata prioritariamente da considerazioni economiche, che lo portò a trascinare un esitante Hitler all'annessione dell'Austria nel 1938, si atteneva, come hanno provato Alfred Kube (1986) e Richard Overy (1984), alle indicazioni politiche di Hitler. Allo stesso modo lo storico americano Gerhard Weinberg, nel suo fondamentale saggio del 1980, non lascia dubbi sul fatto che la politica estera tedesca fosse diretta da Hitler. Nonostante le rivalità interne nell'ambito della 'cricca di regime' e la scarsa coordinazione delle decisioni, Hitler aveva l'ultima parola in tutte le questioni determinanti di politica estera. Secondo questo gruppo di studiosi era quindi esclusivamente il dittatore che definiva la politica estera nazionalsocialista. Sull'onnipotenza di un unico Führer si fonda per loro il carattere totalitario del Terzo Reich. Tale interpretazione, che deduce il carattere dell'intero regime dalla politica estera nazionalsocialista, è stata contestata da diversi punti di vista, in maniera significativa soprattutto da quegli storici che non hanno studiato solo la politica estera, ma la politica nazionalsocialista nel suo complesso. La critica più nota si deve a M. Broszat (1969), che contesta risolutamente la tesi secondo cui la politica estera hitleriana si fondava su un qualche piano. Egli fa riferimento all'atteggiamento affatto incerto e vago tenuto da Hitler nei confronti della Polonia fino al 1939, che invece avrebbe dovuto essere di importanza cruciale alla luce di una presunta politica finalizzata al conseguimento dello 'spazio vitale' all'Est.

Secondo Broszat, il progetto di conquista dello 'spazio vitale' a Oriente, formulato solo confusamente da Hitler, non avrebbe avuto alcuna rilevanza politica fino all'inizio della guerra. Anche l'affermazione di Hitler secondo cui il recupero di Danzica non era il suo obiettivo per il Reich tedesco, perché ciò che gli premeva era "la conquista di un nuovo spazio vitale all'Est", non può essere considerata l'indicazione di un chiaro progetto di politica estera. Il concetto di spazio vitale avrebbe avuto "in larga parte la funzione di una metafora ideologica, di un simbolo mirato a legittimare una sempre nuova attività di politica estera". Solo con la conquista della Polonia e l'invasione dell'Unione Sovietica l'obiettivo finale propriamente utopico del conseguimento di spazio vitale a Est avrebbe acquisito per Hitler un significato reale, mettendo in moto una dinamica politica che nemmeno lui a quel punto era in grado di controllare. Analogamente, anche T. Mason sostenne nel 1977 che la politica estera di Hitler fino al 1939 era confusa, disordinata e priva di obiettivi chiari. Prendendo l'avvio dal lavoro di Broszat egli ravvisava in primo luogo, nella politica estera nazionalsocialista che portò alla guerra, un tentativo di deviare verso l'esterno la progressiva dinamica interna del regime. La politica estera nazionalsocialista quindi, a suo avviso, non era che una variante radicale dell'imperialismo sociale, destinata a sfociare nell'autodistruzione, come già era accaduto nella Germania imperiale prima del 1914.

Ancora oggi queste due opposte interpretazioni della politica estera del n. continuano a confrontarsi, ampiamente inconciliabili. Tuttavia si è anche tentato di ricollegarle. In uno studio empirico sulla politica nazionalsocialista nella guerra civile spagnola dal 1936 al 1939 si è potuto dimostrare che la decisione dell'intervento tedesco nella guerra civile non fu né un "prodotto arbitrario di decisioni casuali" né "l'esito calcolato di una pianificazione a lungo termine", ma una singolare mescolanza delle due cose (Der spanische Bürgerkrieg, 1976). Il 'programma' di Hitler nel campo della politica estera avrebbe perciò due aspetti: da un lato egli avrebbe avuto obiettivi ideologici globali, cui si atteneva dogmaticamente; dall'altro, avrebbe perseguito obiettivi immediati, per realizzare i quali reagiva con la massima adattabilità, lasciando anche mano libera ad altri. La politica estera di Hitler si presenterebbe dunque come "una mescolanza spesso contraddittoria di rigidità dogmatica negli obiettivi di fondo e di una estrema flessibilità nelle scelte concrete". Quest'ambivalenza, tuttavia, contraddistingue la politica estera nazionalsocialista solo fino al 1939. Con il procedere della Seconda guerra mondiale diminuì sempre più la capacità di calcolo razionale di Hitler, cosicché sopravvissero gli obiettivi globali dogmatici. In ogni caso il dibattito sulla politica estera nazionalsocialista si lasciava alle spalle l'alternativa "calcolo o dogma" (Hildebrand 1971), per acquisire una chiara prospettiva di sviluppo storico: da una politica sostanzialmente improvvisata e definita caso per caso negli anni 1933-39 a una politica estera improntata a un crescente dogmatismo negli anni 1939-45.

Il modello interpretativo totalitario fu messo molto più severamente in discussione per quanto riguarda la costituzione interna del Terzo Reich. Già Ernst Fraenkel (1941) e Franz Neumann (1942), emigrati all'estero, avevano messo in dubbio la struttura totalitaria del potere hitleriano e parlato di un antagonismo (Fraenkel) tra Stato normativo (Normenstaat) e Stato discrezionale (Massnahmenstaat), ovvero tra Stato e Partito (Neumann). Secondo la loro interpretazione lo Stato costituzionale tradizionale venne progressivamente distrutto da provvedimenti arbitrari, e responsabile di questo attivismo incontrollato era il partito nazionalsocialista. Il risultato della politica nazionalsocialista era "il caos, il dominio dell'illegalità e dell'anarchia" (Neumann). Mentre Fraenkel era ancora propenso a considerare Hitler come beneficiario di questo sistema di potere autodistruttivo, Neumann riteneva che lo stesso dittatore di fronte alle decisioni politiche importanti attuasse solo compromessi, raggiunti in precedenza tra i quattro gruppi di potere del Terzo Reich (NSDAP, burocrazia, forze armate, economia monopolistica). Per Neumann, quindi, il n. non rappresentava un sistema monocratico nel senso della teoria del totalitarismo, bensì una struttura di potere multipolare.

A questa interpretazione del n. si riallacciarono quegli storici che, convinti dei limiti del potere hitleriano (per es. Peterson 1969), respingevano il paradigma totalitaristico. In luogo del 'programma' di Hitler ponevano la 'struttura' sociale e politico-costituzionale del Terzo Reich, per spiegarne la dinamica radicale nella politica interna ed estera (in particolare anche nei confronti degli Ebrei europei). Ciò significava anche non far discendere il n. solo dalle intenzioni programmatiche di Hitler, bensì determinare il ruolo funzionale del Führer all'interno di un sistema di potere policratico. Pertanto, per contrapporli ai programmologi (Der spanische Bürgerkrieg, 1976), concentrati sul programma di Hitler, questi storici sono stati denominati strutturalisti. Mason (1981) ha invece fatto una distinzione tra intenzionalisti e strutturalisti, in base alle diverse impostazioni metodologiche delle due scuole. I primi riconducono la storia del Terzo Reich alle intenzioni ideologiche di Hitler, gli altri partono dal presupposto che il Terzo Reich era un sistema di potere pluridimensionale ('policratico'), in cui Hitler aveva un ruolo significativo, ma non l'unico decisivo. Fino a oggi sono stati Broszat (1969) e, sulla sua scia, Norbert Frei (1987) a tradurre nel modo più convincente il criterio interpretativo strutturalistico in un quadro completo del nazionalsocialismo.

Broszat considera Hitler non come il Führer superiore a tutti gli altri detentori del potere, ma soltanto come una "figura di integrazione", per quanto "indispensabile", che di volta in volta cedeva alla pressione politica più forte, senza però dirigere autonomamente la politica nazionalsocialista. Nei primi anni del regime egli funse in tal modo da mediatore tra le élites tradizionali di estrazione nazional-conservatrice e il movimento di massa radicale nazionalsocialista, poi, eliminate le prime, solo tra gruppi di potere nazionalsocialisti, come l'organizzazione del piano quadriennale di Göring, le SS e la Gestapo di H. Himmler, l'apparato di partito di M. Bormann, e la burocrazia ministeriale del ministro degli Interni W. Frick. La lotta di impronta socialdarwinistica avrebbe sviluppato una dinamica propria, in seno alla quale Hitler avrebbe avuto solo una "funzione simbolica".

Mommsen ha ulteriormente estremizzato queste tesi in una lunga serie di scritti, giungendo persino a parlare di un "dittatore debole sotto diversi rispetti" (1971). Con questa formulazione consapevolmente estrema lo storico intendeva mettere in luce come la politica del n. - compresa la politica di guerra e di sterminio durante il secondo conflitto mondiale - possa essere spiegata non con la volontà di dominio del dittatore, ma solo con l'autonomia del sistema di potere policratico, strutturalmente fondato su una radicalizzazione permanente del processo politico. Mommsen ha coniato a questo riguardo anche il concetto di "radicalizzazione cumulativa". Questa prospettiva gli ha permesso di focalizzare nuovamente la ricerca sulle élites di potere del regime, ivi compresi i raggruppamenti tradizionali di burocrazia, grande industria e, in particolare, delle forze armate, il cui contributo alla nascita e alla radicalizzazione del n. si viene a delineare con evidenza assai maggiore che nella prospettiva incentrata sulla figura di Hitler, propria della teoria del totalitarismo.

L'interpretazione strutturalista del n. non elimina, ovviamente, la figura di Hitler, ma lo considera più che altro 'propagandista' e 'incitatore' di un sistema che si andava progressivamente radicalizzando. Frattanto nella storiografia si affermava sempre più l'idea che "la volontà del Führer" nel ramificatissimo sistema amministrativo del Terzo Reich "non possedeva una forza di penetrazione senza limiti" (Rebentisch 1989). Hitler lasciava mano libera ai suoi accoliti, fintantoché non toccavano la sua posizione di Führer supremo del regime. Nel prendere decisioni in modo estemporaneo e impulsivo, Hitler dava spesso ordini che non erano nemmeno eseguibili. Nondimeno, si assicurava la sua superiore posizione di forza, creando una rete di legami fondati sulla lealtà personale, in cui le connotazioni carismatiche erano chiaramente più importanti di quelle burocratiche. A differenza di quanto sostengono coloro che incentrano le loro analisi sulla figura di Hitler, questa forma di potere carismatico si fondava non su un 'programma' razionale di Hitler, bensì su una risolutezza istintiva, di cui erano espressione i cosiddetti ordini del Führer, impartiti per lo più oralmente. Hitler, insomma, non avrebbe determinato da solo la via distruttiva del n., ma senza il suo ruolo di Führer assurto a "mito di Hitler" (Kershaw 1980) non si può comprendere lo sviluppo interno del Terzo Reich.

Anche la questione centrale dello sterminio degli Ebrei, che oggi si discute per lo più sotto l'ambigua denominazione di olocausto, è interpretata dalla storiografia sempre più in termini strutturalisti. Secondo l'impostazione personalistica un tempo dominante, Hitler avrebbe avuto sin dall'inizio l'idea di annientare fisicamente tutti gli Ebrei. La cosiddetta soluzione finale era quindi considerata la diretta esecuzione del programma di Hitler. La "guerra contro gli Ebrei" era collegata per lo più con l'esperienza personale di Hitler nel primo conflitto mondiale, in cui si era fatto ampio uso dei gas (Dawidowicz 1975). Vi sarebbe un collegamento diretto tra l'antisemitismo hitleriano dei tempi di Linz e le prime fucilazioni di massa di Ebrei tedeschi cittadini del Reich nel forte ix a Kowno, il 25 e il 29 novembre 1941 (Fleming 1982). Altri studiosi più prudenti parlavano di un percorso tortuoso verso Auschwitz (per es. Schleunes 1970). Si è accertato che nel 1933 non esisteva alcun piano globale sul modo, sul contenuto, sulle dimensioni della persecuzione ebraica, e che l'uccisione di massa e lo sterminio con ogni probabilità non furono perseguiti a priori quale "obiettivo politico" (Adam 1972). In effetti si è potuto frattanto stabilire che la politica ebraica nazionalsocialista ebbe uno "sviluppo graduale" (Bauer 1978), che non era destinato affatto sin dall'inizio a sfociare nell'omicidio organizzato di massa.

Le cosiddette leggi di Norimberga del 1935 ponevano gli Ebrei tedeschi, e dal 1938 anche quelli austriaci, sotto un regime di segregazione razziale. Dopo il grande pogrom del 9 novembre 1938 l'emigrazione degli Ebrei divenne dapprima il fine programmatico. Quando, nel 1939, con la vittoria sulla Polonia i nazionalsocialisti si ritrovarono di colpo con tre milioni di Ebrei polacchi in loro potere, riconobbero la necessità di "una soluzione finale territoriale", secondo quanto ebbe ad affermare il ministro degli esteri Ribbentrop nel giugno 1940.

Come hanno di recente sostenuto Götz Aly e Susanne Heim (1991), la soluzione finale territoriale era certamente da ricollegarsi, quanto meno in parte, a giganteschi piani di colonizzazione dei nazionalsocialisti nell'Europa orientale. Pure essi credevano - del tutto indipendentemente da ciò - di poter risolvere la 'questione ebraica' con la creazione di una riserva nel Madagascar (Jansen 1997). Per quanto irrealistico potesse essere un tale proposito nella situazione data, è assodato che in seno al gruppo dirigente nazionalsocialista fino agli inizi dell'anno 1941 non si progettava affatto il genocidio di tutti gli Ebrei europei.

Le opinioni degli storici sono tuttora discordi per quanto riguarda i tempi e le modalità con cui si arrivò alla decisione della "soluzione finale del problema ebraico" attraverso l'omicidio. Broszat e Mommsen hanno coerentemente applicato anche all'Olocausto la loro interpretazione strutturalista del nazionalsocialismo (Der Mord an den Juden, 1985). Sulla base del carattere discontinuo della politica ebraica nazionalsocialista fino al 1939, concludono che anche la vera e propria deliberazione del genocidio fu improvvisata. Mommsen esclude persino che da Hitler partisse un "ordine centrale", con il quale sarebbe stata innescata la macchina omicida. Hitler sarebbe sì il motore ideologico e soprattutto propagandistico di questo processo, ma non avrebbe mai dato un ordine in questo senso. Anche Broszat sostiene che non vi fu un ordine di Hitler per lo sterminio degli Ebrei, che si sarebbe invece sviluppato da sé, a partire da numerose azioni isolate, nel corso di un processo di accelerata radicalizzazione negli anni 1941-42. Il motivo scatenante andrebbe individuato nel fatto che il regime, con la ghettizzazione forzata di milioni di Ebrei orientali, si era infilato "in un vicolo cieco", dal quale alla fine non ci sarebbe più stata "via d'uscita". A favore di questa interpretazione che vede una "radicalizzazione cumulativa" della politica antisemita nazionalsocialista (Mommsen) depone l'assenza di ogni traccia di un ordine scritto e persino di un ordine orale chiaro di Hitler per lo sterminio degli Ebrei. È parimenti dimostrato che nell'autunno 1941 i gruppi operativi (Einsatzgruppen) delle SS cominciarono in modo assolutamente scoordinato lo sterminio di massa di Ebrei russi, dopo che la cosiddetta soluzione territoriale della questione ebraica si era rivelata illusoria in seguito alla fase di stallo che si andava allora delineando per l'avanzata militare in Unione Sovietica (Longerich 1989). La "mescolanza di disorientamento, contraddizioni e improvvisazione" (Kershaw 1993) nei primi mesi successivi all'aggressione hitleriana dell'URSS ebbe però senza dubbio termine nel settembre del 1941. Già prima della famigerata Conferenza di Wannsee (20 genn. 1942), la persecuzione degli Ebrei aveva certamente imboccato la via del genocidio sistematico.

Come ha affermato in particolare P. Burrin (1989), tutto indica che Hitler, nel settembre 1941 (ma non prima), aveva accolto le proposte di Göring, Himmler e R. Heydrich di procedere a una "soluzione globale della questione ebraica nelle zone di influenza tedesche nell'Europa orientale" (così Göring a Heydrich il 31 luglio 1941). Fu la guerra a mettere insperatamente nelle mani di Hitler milioni di Ebrei europei. La sua idea, fino allora ancora utopica, dell'"annientamento della comunità ebraica mondiale" divenne improvvisamente una possibilità reale. Quando i suoi accoliti gli proposero il progetto nell'autunno 1941, egli lo attuò nel modo più terribile.

Non sussiste dubbio nella storiografia contemporanea che l'assassinio di milioni di Ebrei europei, per i quali il campo di sterminio di Auschwitz è diventato il simbolo, ha storicamente screditato per sempre il nazionalsocialismo. Solo outsiders neonazisti, ideologicamente accecati, negano oggi lo sterminio degli Ebrei perpetrato dal nazionalsocialismo (la cosiddetta menzogna di Auschwitz). La memoria di questo genocidio finora unico nella storia impedisce, tuttavia, una vera ripresa e diffusione di movimenti neonazisti in Europa.

Il nazionalsocialismo come fascismo totalitario. - Nell'interpretazione del n. come 'fascismo' esso è inteso quale variante tedesca di un fascismo universale, di cui il movimento fascista e il regime di Mussolini in Italia costituirono il modello storico. Come l'interpretazione totalitaristica del n., anche questa si fonda sulla comparazione. Qui, però, non si tratta di mettere a fronte sistemi di potere politicamente e socialmente antagonisti, bensì movimenti politici chiaramente affini dal punto di vista ideologico e sistemi dittatoriali di struttura analoga. Su questa base si è sviluppata una ricerca comparata sul fascismo, cui si devono oggi impulsi decisivi per la comprensione storica del nazionalsocialismo. La tesi che il n. si possa interpretare come una forma particolare di fascismo è ormai prevalentemente accettata dagli storici, benché non manchino i moniti sul senso e l'utilità di un concetto di fascismo di dimensioni sovranazionali (Hildebrand 1979). Ma da lungo tempo, ormai, nella storiografia non si discute più se il concetto di fascismo sia applicabile al caso tedesco, bensì solo in che modo lo sia. Tentativi precedenti - si vedano, per esempio, Z. Sternhell (1989) e P. Milza (1985) - di utilizzare il concetto di fascismo solo a condizione di escludere il n., ovvero di riconoscere solo un "fascismo mediterraneo" (Mediterranean fascism, 1970), si possono oggi considerare falliti. Ed è parimenti superata la tesi proposta da De Felice nella sua Intervista sul fascismo (1975), secondo cui "nei singoli fascismi le peculiarità nazionali furono decisive". La maggior parte degli elementi strutturali ritenuti essenziali da De Felice solo per il fascismo italiano (per es. la natura di compromesso politico che assunse il regime all'atto della presa del potere, o l'alto grado di consenso di cui esso godeva tra la popolazione) vanno infatti visti come costitutivi anche del nazionalsocialismo. Importante rimane tuttavia l'osservazione di De Felice che il fascismo italiano non si è collocato nella dimensione distruttiva dell'olocausto, sebbene attualmente si consideri in termini molto più critici di un tempo il problema della collaborazione prestata dai fascisti soprattutto nel periodo della RSI alla persecuzione nazista degli Ebrei.

Ciò non vuol dire che tutte le interpretazioni del n. fondate sulla teoria del fascismo siano convincenti in ugual misura. Si riscontra un largo spettro di orientamenti storiografici, alquanto discordi, che spesso adottano solo in apparenza un approccio comparativo. Per lungo tempo, inoltre, il concetto di fascismo è stato monopolizzato dall'interpretazione dogmatica marxista, come la presentava l'Internazionale comunista. Questa aveva un impianto unilateralmente economicista e impediva di valutare il fascismo nella sua complessità storica.

In seno all'Internazionale comunista si era discusso già nel 1922-23 il problema di inquadrare il giovane fascismo in Italia nella teoria marxista del capitalismo. Su questo punto si impose un'interpretazione che vedeva il fascismo da un lato come una variante reazionaria del morente ordinamento sociale capitalistico, ma proprio per questo, d'altro canto, lo intendeva solo come strumento politico del cosiddetto capitale finanziario. L'Internazionale comunista sviluppò quindi una prospettiva genuinamente comparatistica per la comprensione del n., la quale, a differenza della teoria del totalitarismo, non si accontentava di una comparazione dei sistemi, ma partiva dalla crisi storica della società borghese dopo la Prima guerra mondiale. Tale lettura relativizzava però subito questo risultato, perché non concedeva al 'fascismo' alcuna esistenza politica propria, ma lo concepiva erroneamente in termini puramente funzionalistici, come una forma di dominio dittatoriale per conto del capitale monopolistico.

Al di fuori dell'Internazionale comunista, negli anni Trenta, numerosi altri teorici marxisti, come per es. A. Thalheimer (1930), riconobbero tuttavia che nei regimi di Mussolini e di Hitler la posizione dell'esecutivo politico rispetto al potere economico non poteva essere considerata unilateralmente come un rapporto di dipendenza. Anch'essi restavano fedeli però alla convinzione marxista di fondo che non può "parlare del fascismo" chi "tace del capitalismo" (Horkheimer 1939), benché prendessero atto della tendenza di Mussolini e di Hitler a rendersi indipendenti dalla plutocrazia (Guérin 1936). La formulazione più chiara di questo concetto si deve all'austriaco Otto Bauer (1936), secondo il quale il fascismo si è autonomizzato a tal punto dai capitalisti che questi sono costretti a trasformarlo in signore assoluto di tutto il popolo e quindi anche di se stessi. A queste conclusioni si riallacciarono, dopo la Seconda guerra mondiale, anche i teorici del fascismo marxisti estranei ai partiti comunisti, tra i quali il più influente fu il sociologo marxista Nicos Poulantzas (1970), che si avvalse espressamente della teoria delle classi di Antonio Gramsci. Per Poulantzas il fascismo in Italia e in Germania era un tipo di "Stato di emergenza capitalistico". A differenza di quanto avviene in altri sistemi borghesi-capitalistici, lo Stato fascista godrebbe di una "relativa autonomia" nei confronti del "grande capitale monopolistico". Poulantzas, tuttavia, riteneva erroneamente che il capitale monopolistico avesse concesso solo temporaneamente tale autonomia allo Stato fascista, per poi riaffermare la propria supremazia. In linea con il suo pensiero, anche Reinhart Kühnl (1971) parlava, da un punto di vista neomarxista, di una parziale autonomizzazione del potere politico nei confronti della grande borghesia socialmente dominante, pur considerandolo sempre ancorato all'interesse generale capitalista. In tal modo rimasero entrambi indietro rispetto all'interpretazione, pur essa marxista, dell'inglese Mason, da loro violentemente criticato, che nel 1966 sosteneva senza riserve un'autonomizzazione dell'apparato statale nazionalsocialista e parlava perciò di un "primato della politica" sulla grande economia. Mason riteneva peraltro che si trattasse di un'alterazione strutturale specificamente nazionalsocialista della società capitalista, abbandonando così in realtà il terreno dell'interpretazione marxista del fascismo.

In definitiva tutto il dibattito marxista sul rapporto tra 'politica' ed 'economia' nel Terzo Reich è rimasto sterile, poiché l'interpretazione del n. come fascismo non si riduce a questo antagonismo. Comunque si voglia vedere la relazione che lega politica ed economia, tale prospettiva non è sufficiente per comprendere la struttura fascista di fondo del n., che è assai più complessa. Rimane comunque indiscutibile che solo la sfida posta dalle diverse teorie marxiste del fascismo ha portato anche la storiografia non marxista a interrogarsi sul legame tra n. ed economia.

Chi interpreta il n. come dittatura totalitaria parte dal presupposto che l'economia era subordinata alla politica. Ancora Hildebrand (1979) parla perciò per quegli anni dell'economia al servizio della politica. Come hanno dimostrato Reinhard Neebe (1981) e Henry A. Turner (1985), in Germania la grande industria era molto lontana dal n. prima del 1933. Oggi sappiamo però che dopo il 1933 assunse rapidamente un atteggiamento positivo verso i nazionalsocialisti, poiché il riarmo accelerato da essi voluto le offrì grandi opportunità di produzione. Non per questo si ebbe una sua totale subordinazione alla politica nazionalsocialista. Anche l'introduzione del cosiddetto piano quadriennale nel 1936 non portò al controllo pianificato della grande economia a opera della direzione politica del Terzo Reich. I nazionalsocialisti e i dirigenti della grande industria rimasero - come G. Mollin (1988), P. Hayes (1987) e A. Barkai (1988) hanno dimostrato - in un rapporto di reciproca dipendenza.

Lo stesso vale per la politica antisemita del n., che non fu promossa dai grandi gruppi industriali, ma che li indusse a partecipare in grande stile all'annessione forzata del capitale ebraico (la cosiddetta arianizzazione). Lo sterminio degli Ebrei di per sé non ha nulla a che vedere con un calcolo economico razionale, purtuttavia quasi tutti i gruppi industriali tedeschi parteciparono, per iniziativa propria, allo sfruttamento spietato dei forzati Ebrei nei grandi campi di concentramento del Terzo Reich, largamente equivalente a uno "sterminio attraverso il lavoro". In generale, il trattamento razzista dei 'lavoratori stranieri' nel Terzo Reich fu una realtà quotidianamente praticata e ampiamente sperimentata in Germania durante la guerra (Herbert 1985). Analogamente, nell'ultima fase della guerra, molti dirigenti dell'economia, in previsione dell'ordinamento post-bellico, poterono distaccarsi dalla guida politica del Terzo Reich, e quindi rifiutare la loro comune responsabilità (Herbst 1982).

Un forte impulso all'inquadramento comparatistico del n. in un contesto globale fascista è venuto soprattutto dalla teoria sociologica della modernizzazione. Questa teoria del mutamento sociale, tutt'altro che unitaria, partiva dai processi di trasformazione prodotti dalla società industriale di massa, spesso associata a una fede nel progresso, secondo cui il processo di industrializzazione nel suo insieme condurrebbe inevitabilmente all'emancipazione sociale e alla costituzione democratica. Il fascismo appariva in questa luce come ultimo tentativo di arrestare il processo di modernizzazione. Così B. Moore (1967) considerava il fascismo un caso particolare di dittatura controrivoluzionaria e lo riconduceva alla resistenza di élites latifondiste, sopravvalutando peraltro - proprio nel caso del n. - la loro influenza. Anche il sociologo A.F.K. Organski (1968) spiegava il fascismo come un sistema politico volto al rifiuto del processo di modernizzazione. Sosteneva che i sistemi fascisti erano nati più facilmente in quegli Stati che si trovavano nel mezzo del processo di modernizzazione. Qui le élites dei settori non moderni avrebbero ancora avuto la forza di costringere le élites moderne, in determinate situazioni di crisi, a un compromesso politico "che chiamiamo fascismo". La teoria del fascismo di Organski era discutibile, perché lasciava semplicemente fuori il caso tedesco. A ragione Turner (1972) ha insistito sul fatto che la teoria della modernizzazione è applicabile al fascismo solo qualora sia il fascismo italiano sia il n. tedesco vengano interpretati come "manifestazioni dell'antimodernismo utopistico".

Nel dibattito sulla 'modernità' del n. svoltosi in ambito tedesco è rimasto in ombra tale aspetto. Già Ralf Dahrendorf (1963) si interessava solo di capire se il n. avesse prodotto una rottura con la tradizione, spingendo in tal modo la Germania verso la modernità. Egli giunse alla conclusione, a lungo rimasta indiscussa, che il n., in contrasto con le sue intenzioni retrive, avesse finito per essere 'moderno' senza volerlo, distruggendo molte istituzioni tradizionali. Turner si spinse ancora più in là e affermò che per costruire la loro macchina da guerra i nazionalsocialisti si trovarono costretti ad adottare misure modernizzatrici, ma solo per perseguire "i loro obiettivi profondamente antimoderni". Altri hanno contraddetto questa tesi. H. Volkmann e H. Matzerath (1977) hanno parlato di una "pseudomodernizzazione" del n., poiché esso non sarebbe stato assolutamente in condizione di delineare un chiaro programma industriale ed economico per il futuro a causa dei suoi valori affatto reazionari. Nondimeno, R. Zitelmann (1987) e altri hanno tentato, in base a dichiarazioni sparse di Hitler - prescindendo dalla sua ideologia razzista e antisemita - di dedurre un sistema social-rivoluzionario coerente: il n. avrebbe rappresentato "la faccia totalitaria dei tempi moderni". Questo tentativo di attribuire al n. la volontà di una consapevole trasformazione sociale non è stato del tutto accettato dalla storiografia. Acutamente Mommsen (1990) ha controbattuto che si sarebbe trattato puramente di una "modernizzazione simulata".

Il dibattito sul potenziale modernizzatore del n. risente di una certa unilateralità delle posizioni: ora gli sono attribuite esclusivamente intenzioni social-riformistiche, ora gli sono assolutamente negate. In realtà, la politica sociale del n. era improntata a una mescolanza contraddittoria di un'ideologia chiaramente retrograda e di un utilizzo razionale delle risorse industriali della Germania. L'idea che si sia trattato di un "modernismo reazionario" (Herf 1984) coglie al meglio questo stato di cose. Se non si fa derivare il carattere fascista del n. né esclusivamente dalle dipendenze economiche della politica né soltanto dai condizionamenti sociali della realtà tedesca, si pone il problema dei modi con cui altrimenti riscontrare un "minimo comune denominatore fascista" ( Payne 1980) nel n. e in altri movimenti e dittature antidemocratici del 20° secolo. Anche se in Italia solo pochi studiosi, quali Enzo Collotti (1989) e Alessandro Roveri (1985), aderiscono a questa linea interpretativa, la storiografia internazionale è ampiamente concorde sul fatto che il concetto di fascismo è applicabile, oltreché al caso italiano, quanto meno anche a quello tedesco. Movimenti fascisti si ebbero negli anni tra le due guerre in tutti i paesi europei a eccezione dell'Unione Sovietica. Ma solo in Italia (28 ott. 1922) e in Germania (30 genn. 1933) si giunse a una presa del potere da parte di questi movimenti e alla formazione di "dittature fondate sull'autorità carismatica di un Führer" (Bach 1990). A prescindere dalle riserve di alcuni storici, si può oggi affermare che tra il fascismo italiano e il n. tedesco "gli elementi strutturali comuni sono maggiori delle innegabili differenze" (Thamer, Wippermann 1977). L'interpretazione del n. come fascismo si riduce pertanto ormai alla questione della corrispondenza tra fascismo e nazionalsocialismo.

La storiografia sul n. fondata sulla comparazione con il fascismo italiano prende due direzioni: una teorico-deduttiva che, analogamente alla teoria del fascismo di stampo marxista, cerca in modo sistematico un concetto generale del fascismo, per poi stabilire elementi comuni e differenze tra Italia e Germania. Il secondo orientamento segue un approccio storico-genetico, intendendo il fascismo italiano come il modello originario, al quale si sarebbe ispirato il n. (come pure altri movimenti fascisti europei). Nel primo caso si cerca un nuovo tipo ideale di fascismo generico (Griffin 1991), nel secondo si parte da un "tipo storico reale del fascismo" (Schieder 1996), costituito dal fascismo italiano.

Il primo orientamento è rappresentato innanzi tutto dallo storico Ernst Nolte, che nel suo libro Der Faschismus in seiner Epoche (1963) ha dato allo studio comparato del fascismo un accento particolare. Questo libro, come pure un'opera successiva dello stesso autore sulla crisi del sistema liberale e i movimenti fascisti (Die Krise des liberalen Systems und die faschistischen Bewegungen, 1968), è frutto di un'interpretazione storica puramente speculativa, fortemente influenzata dalla filosofia antistorica di Martin Heidegger. Il fascismo in senso generale rappresenta per Nolte un "fenomeno transpolitico". Pertanto egli non ritiene affatto necessario analizzarlo nella sua complessa forma storica, ma si limita all'interpretazione dell'ideologia di Mussolini e di Hitler. Il modello di base fascista sarebbe "da dedursi esclusivamente dagli scritti e dai discorsi di Mussolini e di Hitler". Non stupisce che questo approccio di Nolte abbia avuto scarsa influenza sulla storiografia. Sotto il profilo del metodo le sue ricostruzioni storiche avevano un certo valore solo in quanto egli affrontò per primo seriamente la comparazione sistematica e, nell'enucleare i tratti comuni fascisti, non dimenticò di sottolineare le specifiche differenze tra fascismo italiano e nazionalsocialismo. Mentre intese il fascismo italiano come "fascismo normale", Nolte definì il n. un "fascismo radicale". Sulla scia di questa traccia teorica ha lavorato, per es., Hans-Ulrich Thamer nella sua importante ricostruzione della storia tedesca dal 1933 al 1945, apparsa nel 1980. Anziché di fascismo radicale sarebbe meglio parlare di "fascismo totalitario", in modo da cogliere il collegamento tra l'interpretazione del n. fondata sulla teoria del fascismo e quella fondata sulla teoria del totalitarismo. Una volta ricollegate, le interpretazioni del n. come totalitarismo e come fascismo non sono in ultima analisi in contraddizione. Il n. in tal modo è caratterizzato come un regime totalitario, fascista nelle sue origini. In studi comparati collettanei si ricercano, in questo spirito, "non solo le identità, ma anche i contrasti" tra il fascismo italiano e il n. (Faschismus und Faschismen, 1998). E ancora nel confronto tra Fascist Italy and Nazi Germany l'oggetto è appunto Comparisons and Contrasts (1996). Oggi si tenta dunque di definire i tratti comuni fascisti del fascismo italiano e del n., non meno della singolarità storica del n., legata soprattutto ai suoi crimini di massa.

La seconda tendenza storiografica non muove da un concetto generale di fascismo, bensì dal fatto che il fascismo italiano costituisce, a partire dalla marcia su Roma, il modello storico della via hitleriana verso il potere. Italia docet (Moeller van den Bruck 1922) fu fino al 1933 la parola d'ordine di Hitler per il movimento nazionalsocialista. Klaus-Peter Hoepke (1968), Jens Petersen (1973) e Renzo De Felice (1975) hanno indagato a fondo il significato esemplare che ebbe l'"esperimento fascista" (Schieder 1996) per il n., benché manchi ancora una ricostruzione complessiva.

Il ruolo di modello che il fascismo italiano ebbe per il n. può essere dimostrato a vari livelli. Innanzi tutto, Hitler dal 1925 guardò all'Italia sia dal punto di vista ideologico sia da quello organizzativo. Anche se si è tentato di ricostruire un'ideologia del fascismo (Gregor 1969), essa non fu un sistema chiuso così come la Weltanschauung di Hitler (Jäckel 1969), non fu un consapevole "progetto di dominio". L'unica costante ideologica nel n. fu un 'antisemitismo mirato all'annientamento', fondato sulla biologia della razza. Questo lo distinse sin dall'inizio dal modello italiano, anche se il fascismo nel 1938 sviluppò un 'antisemitismo mirato alla segregazione' degli Ebrei e degli Africani. Sul piano organizzativo la NSDAP - come hanno dimostrato D. Orlow (1969-73), P. Diehl-Thiele (1969), W. Horn (1972), R. Bessel (1984), Th. Childers (1986) e P. Longerich (1989) - era un partito gerarchico incentrato sulla figura del Führer, diviso secondo il modello fascista in un'ala politica e in un'ala militare (SA). Con le SS, tuttavia, Hitler si dotò di una formazione di partito terroristica, che non ebbe riscontri in Italia; e proprio il corpo delle SS diede al fascismo tedesco un carattere totalitario che il fascismo originario italiano non acquistò. La natura fascista della NSDAP emerge ancor più evidente, quando ci si chiede chi fossero i fascisti (Who were the Fascists?, 1980). Analogamente a quanto avvenne per il PNF, sappiamo che anche nel caso della NSDAP, sia i membri (fino al 1933) sia gli elettori del partito non provenivano dalla piccola borghesia, ma da tutti gli strati sociali. Se si analizza il fascismo come movimento sociale (Schieder 1976), il PNF e la NSDAP si corrispondono quasi perfettamente.

Michael Kater (1983) ha dimostrato che la NSDAP sin dall'origine non era soltanto un partito piccolo-borghese, ma anche un partito contadino. Dal 1930 i suoi membri cominciarono a provenire in misura crescente dal ceto medio superiore di formazione accademica, nonché, seppur in modo più limitato, dal mondo operaio. Come il suo modello italiano anche la NSDAP era un movimento collettivo, che reclutava i suoi membri in tutti gli strati della società. Lo stesso vale, fino al 1933, anche per l'elettorato della NSDAP. Come ha dimostrato J.W. Falter, che nel 1991 ha studiato in modo esauriente "gli elettori di Hitler", applicando la metodologia della statistica sociale, il partito nazionalsocialista aveva il carattere di un partito di protesta, con un elettorato altamente fluttuante. Il suo successo politico fu dovuto alla capacità di legare a sé un numero sempre maggiore di elettori indecisi e di giovani alla prima esperienza di voto, divenendo così nel 1932 il partito più forte del Reichstag. Per converso, la ricerca storica non ha potuto confermare la tesi frequentemente avanzata che fino al 1933 i nazionalsocialisti fossero votati prevalentemente dalle donne. Come Falter (1991) ha dimostrato in modo convincente, di fatto non c'erano in seno all'elettorato differenze in base al sesso. Anche per quanto riguarda l'atteggiamento di uomini e donne verso il regime nazionalsocialista non si riscontrano diversità sostanziali. Tuttavia, sulla scia del libro di Claudia Koonz, Mothers in the Fatherland (1987), si è innescato un acceso dibattito scientifico su questa problematica storica del comportamento dei due sessi. La Koonz sostenne che nel Terzo Reich le donne, ritirandosi nella sfera privata, avrebbero creato per gli uomini quel vuoto emotivo, senza il quale essi non sarebbero potuti diventare criminali politici. Secondo Gisela Bock si trattava di un'accusa generica priva di riscontro nella realtà storica. Rimandando a Schmuhl (1987) e al proprio lavoro sulla sterilizzazione forzata in epoca nazionalsocialista (1986), ella insistette a ragione sul fatto che molte donne furono in primo luogo vittime del regime. Questa polemica rimane aperta. Va riconosciuto comunque che essa ha fortemente stimolato l'indagine sulla condizione femminile nel Terzo Reich. La storia dei rapporti tra i sessi sotto il regime nazista è quindi oggi uno dei campi di ricerca più vivaci e variegati.

Infine, è fuor di dubbio che Hitler, dopo il fallimento del putsch di Monaco del 9 novembre 1923, si orientò verso quella duplice strategia grazie alla quale Mussolini era giunto al potere con la 'marcia su Roma' del 28 ottobre 1922. Questa era "stata la lezione del 1923: il potere non si poteva conquistare senza o contro i vecchi poteri, ma solo con essi" (Thamer 1980). Hitler intraprese pertanto la strada della legalità, senza tuttavia arginare la violenza sovversiva del modello nazionalsocialista. E ciò lo portò al governo nel 1933 con una coalizione di potere formata dal movimento di massa nazionalsocialista e dalle élites nazionaliste-conservatrici. A differenza di Mussolini, Hitler riuscì tuttavia a liberarsi dei suoi alleati nel giro di un anno, con un processo di progressiva 'normalizzazione', e, cominciando dall'usurpazione della presidenza del Reich (2 agosto 1934), riuscì a instaurare una dittatura personale. Il regime originariamente fascista di Hitler assunse, a partire da allora, un carattere totalitario che il fascismo italiano non ebbe. La trasformazione del regime, da fascista a dittatoriale-totalitario, fu il presupposto per lo scoppio della Seconda guerra mondiale e per lo sterminio di massa sistematico degli Ebrei d'Europa a opera del nazionalsocialismo. Il fascismo italiano in questo caso non costituì un esempio, così come non lo fu per le misure di sterilizzazione di massa e di eutanasia. Anche se nelle origini il n. fu simile al fascismo, esso superò decisamente il suo modello storico.

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