NAVE

Enciclopedia Italiana (1934)

NAVE

Ugo NEBBIA
George MONTANDON
Plinio FRACCARO
Mario GLEIJESES
Leonardo FEA
Pietro Enrico BRUNELLI – Guido ZANOBINI
Arrigo CAVAGLIERI
Carlo Maurizio BELLI

(lat. navis; fr. navire; sp. nave; ted. Schiff; ingl. ship).

Sommario. - Storia: Egitto antico (p. 341); Siria, Fenicia, Assiria e Babilonia (p. 341); Civiltà cretese-micenea (p. 341); Grecia e Roma (p. 342); Medioevo ed età moderna sino al sec. XIX (p. 343); Dal sec. XIX ai giorni nostri (p. 357). - Architettura navale: Definizioni e generalità (p. 389); Geometria dei galleggianti (p. 391); Statica dei galleggianti (p. 394); Statica delle navi (p. 396); Resistenza al moto delle navi (p. 401); Propulsione delle navi (p. 405); Oscillazioni delle navi (p. 408). - Costruzione navale (p. 414). - Apparati motori (p. 416). - Etnologia (p. 427). - Diritto: Diritto privato (p. 432); Diritto amministrativo (p. 432); Diritto internazionale (p. 433). - Medicina e igiene navale (p. 434).

Storia.

Egitto antico. - Sulle coste del Mediterraneo, la navigazione marittima risale almeno all'età neolitica più antica, come è dimostrato dall'occupazione di isole lontane dalle coste e dalla diffusione dei manufatti. La varietà delle imbarcazioni primitive, che pure hanno comuni alcuni elementi essenziali, è grandissima e dipende dal materiale che i costruttori avevano a loro disposizione, dall'uso al quale l'imbarcazione era destinata e anche dalla tradizione e dal gusto locale. Ciò si vede bene nell'Egitto, paese che non produce buon legname da costruzione. Il materiale usato dapprima in Egitto per fabbricare le barche, destinate alla navigazione fluviale, fu il papiro. I fusti di questa pianta venivano strettamente legati a fasci, con cui si metteva assieme una grossa stuoia della forma voluta, che veniva poi curvata e legata alle estremità. Sì otteneva così uno scafo basso, piegato a mezzaluna, con le estremità fortemente rialzate, tenuto assieme da frequenti legature; anche per queste il materiale era fornito dal papiro (fig. 1, n. 1). Battelli di questo genere sono usati ancora in Egitto, e gli Egiziani antichi continuarono sempre a servirsi dell'espressione originaria "legare una barca", anche quando costruivano ormai navi di legno. Dagli alberi del paese, l'acacia e il sicomoro, si potevano ricavare solo corte tavole, che gli Egiziani connettevano saldamente con chiodi di legno (fig. 1, n. 2); le barche così costruite non avevano né chiglia né costole, e per avere un certo grado di solidità dovevano essere perciò molto pesanti. Per assicurare la coesione, grosse funi venivano legate tutt'intorno alla nave poco sotto il bordo (fig. 1, n. 3). Le navi di legno egiziane conservarono le linee delle primitive barche di papiro; persino le legature di queste divennero nelle navi lignee motivi decorativi. Perciò caratteristica della nave egiziana era lo scarso pescaggio: lo scafo di solito non è immerso per più del 40% della sua lunghezza. Ciò era opportuno per la navigazione sul Nilo, nel quale i banchi di melma sono frequenti. Per aumentare la portata, lo scafo era tenuto molto largo, spesso un terzo della sua lunghezza. La vela, ancora rara nelle rappresentazioni di navi dell'età predinastica, si diffonde in seguito. L'unico albero risultava di due pali che, distanziati alla base, si andavano accostando verso la cima ed erano tenuti assieme da traverse. La vela era quadrangolare. I remi nell'epoca più antica non venivano appoggiati al bordo. Per la direzione, si usavano dei remi più grossi applicati sul fianco, o sui fianchi, della nave, presso la poppa. Barche e navi erano di solito scoperte, ma portavano cabine per le persone o per le merci di riguardo (fig. 1, n. 4).

Gli Egiziani adattarono presto le loro navi fluviali alle esigenze della navigazione marittima, che è documentata già per le prime dinastie; le più antiche figurazioni giunte a noi di navi destinate al mare sono della Vª dinastia (navi del faraone Sahure). Le linee essenziali sono sempre le stesse, ma la sagoma dello scafo è meno curvata e le estremità sono meno elevate. Mancano sempre chiglia e coste; e per ottenere maggiore solidità, alle corde legate intorno al bordo s'aggiunge un cavo teso fra prua e poppa (fig. 1, n. 5). L'albero veniva calato nello scafo quando la vela non era issata. I remi venivano appoggiati al bordo in apposite scalmiere e i rematori vogavano di solito stando in piedi. Nelle navi del Nuovo Impero, a noi note specialmente dalle rappresentazioni della flotta della regina Hatšpśówe a Deir el-Baḥrī, grosse traverse, che sporgono fuori sui fianchi dello scafo, dànno maggior solidità alla costruzione ed è perciò scomparso il legamento dello scafo. La vela, spesso più larga che alta, è tesa fra due lunghi pennoni (fig. 1, n. 6). Compare il timone lungo fisso, che si faceva rotare sul suo asse. L'ancora era invece sconosciuta.

Le navi costruite con cedri del Libano erano costose e perciò si costruivano solo per i faraoni e gli dei. Le imbarcazioni di lusso e quelle sacre venivano riccamente decorate negli scafi, nei remi, nel timone e nelle vele. A un certo momento, si notano nelle navi egiziane le influenze della tecnica di altri popoli; per es., il bordo viene munito di alti parapetti a protezione delle ciurme, il pennone inferiore viene soppresso e la vela si imbroglia e si serra al pennone superiore perché non sia d'impaccio durante il combattimento, sull'albero si pone una coffa per arcieri.

Siria, Fenicia, Assiria e Babilonia. - I navigatori della costa siriaca imitarono dapprima la forma delle navi degli Egiziani, e le prime rappresentazioni di navi fenicie sono su monumenti egiziani del Nuovo Impero (fig. 1, n. 9). Ma i Fenici, avendo a disposizione gli alti tronchi delle loro foreste, possono adottare presto le chiglie e le costole. Inoltre essi alzano il bordo delle loro navi, spesso con una fascia a graticolato. Venuti a contatto con altri popoli del Mediterraneo, essi ne derivarono motivi costruttivi per le loro navi. Mancano rappresentazioni originali delle più antiche navi fenicie; ma i re assiri, babilonesi e persiani ricorrevano ai Fenici per la costruzione di navi, e perciò possiamo considerare opera in genere di costruttori fenici le navi raffigurate sui rilievi assiri (figura 2, n. 1). Importanti sono le navi da guerra con sperone e due ordini di remi, con gli scudi dei guerrieri disposti lungo l'alto bordo (fig. 2, n. 2). Navi commerciali fenicie appaiono anche su vasi greci; sono alte e rotondeggianti, donde il termine γαῦλος, con il quale i Greci le indicavano, che è di origine semitica. La navigazione fluviale sul Tigri e sull'Eufrate è, naturalmente, antichissima, ma i popoli della Babilonia non svilupparono una navigazione marittima. Il più noto tipo delle loro imbarcazioni fluviali è la barca rotonda, già descritta da Erodoto, e ancor oggi usata col nome di quffah (fig. 2, n. 3).

Civiltà cretese-micenea. - Sulle rive dell'Egeo, la navigazione fu sino dalle origini marittima; i boschi di alto fusto scendevano sino alle rive del mare e perciò la struttura delle navi è ab origine assolutamente diversa da quella delle imbarcazioni fluviali egiziane. La nave egea è costruita con chiglia e robuste costole, sulle quali si stende il fasciame (fig. 4); è quindi più solida, elastica e leggiera della nave di legno egiziana. Abbiamo rappresentazioni e modelli votivi di navi egee che risalgono al neolitico cicladico (fig. 3). La struttura appare chiara anche nelle rappresentazioni più primitive. La chiglia non è curvata e su una delle due estremità è piantata ad angolo quasi retto una robusta ruota molto alta; l'altra estremità è invece bassa e la chiglia sporge in fuori a sperone. Si discute quale sia in queste barche la prora; ma pare la parte bassa, per la presenza dello sperone. Certo il tipo della nave con la prora bassa e speronata e la poppa alta continuò nel Mediterraneo per tutta l'antichità.

Abbiamo molte rappresentazioni, purtroppo sommarie, di navi cretesi dell'età minoica. Alcune barche hanno l'alta ruota di poppa largamente curvata e terminante in una protome equina (fig. 5); il loro profilo si avvicina alquanto a quello delle barche egizie. In altre imbarcazioni si nota una cabina nel centro, oppure una specie di castello a prua e di cassero a poppa. Sembrano destinate al traffico le navi a sagoma più o meno lunata, fornite di albero tenuto da sartie o di albero e remi; navi da guerra altre munite di sperone (fig. 6). Le figure più antiche hanno due timoni, che si riducono poi ad uno più robusto, munito di barra.

Grecia e Roma. - Le navi greche discendono dalle navi minoiche, attraverso l'età micenea, come si vede da una figurazione su un vaso di Pilo del tardo miceneo (fig. 8). Le più antiche navi greche sono descritte da Omero e rappresentate sui vasi del cosiddetto stile geometrico. Le navi greche omeriche sono destinate specialmente a trasportare i guerrieri nelle loro spedizioni contro le coste nemiche, non a combattere; non hanno perciò sperone. Esse sono costruite con una tecnica perfezionata, ereditata dai Minoici; gli esperti costruttori di navi lasciano un nome, come Fereclo che fabbricò le navi di Paride (Il., V, v. 59). Essi piantavano una linea di sostegni (δρύοχοι) sui quali posavano la chiglia diritta (τρόπις); sulla chiglia si fissavano le due ruote di prua e di poppa, molto alte, così che la nave è detta "dalle dritte corna" (ὀρϑόκραιρος), e le costole robuste. L'ultima zona del fasciame era rinforzata lungo il bordo, e traverse da un bordo all'altro accrescevano la solidità della nave. Questa è scoperta, ma con cassero e castello a poppa e a prua. L'albero, unico, è innestato nella chiglia, e tenuto da sartie e da due delle traverse più robuste: la vela è quadrata. La nave è all'esterno calafata e verniciata con pece nera (perciò le "nere navi") o con rosso minio. Essa è mossa dalla vela e dai remi, che sono di solito 50 (πεντηκόντορος, sott. ναῦς); la sua lunghezza doveva perciò essere di 30-35 metri. Per la direzione, serviva un solo timone, sul fianco, presso la poppa.

Le navi greche arcaiche raffigurate su bronzi, piastrelle, e soprattutto su vasi di stile geometrico o del Dipylon (sec. IX-VIII), sono in genere navi da guerra. I rozzi disegni sono spesso difficili a interpretarsi, ma le sagome delle navi sono evidenti (fig. 9). Sono navi lunghe, di poco pescaggio: la chiglia, leggermente ricurva, termina con uno sperone, sopra il quale è piantata, quasi perpendicolare, la ruota di prua. La ruota di poppa invece si alza molto con una larga curva. Hanno cassero e castello; i banchi dei rematori vanno da un bordo all'altro; i remi poggiano sul bordo fissati a scalmi uncinati. Un albero porta la vela quadrangolare. Sopra le teste dei rematori si stende spesso un ponte, sorretto da prolungamenti delle costole, e su di esso stanno i guerrieri per il combattimento, come nelle navi dei rilievi assiri (figura 10). Lo spazio fra il bordo e il ponte è alle volte protetto da graticci per riparare i rematori, che altre volte si coprono con gli scudi bilobati.

Poiché la guerra navale andava acquistando sempre maggiore sviluppo e importanza, i Greci cercarono di perfezionare la nave come strumento di lotta, accrescendone la velocità e la manovrabilità. Per ottenere ciò era necessario aumentare il numero dei rematori a bordo; ma gia la nave omerica aveva raggiunto quel tanto di lunghezza (30-35 m.), oltre la quale non si poteva andare senza compromettere la solidità di una nave di legno, e per di più senza ponte continuo. Si pensò allora di disporre i remiganti in due e poi in tre ordini sovrapposti, e si giunse così alla diere (διήρης, biremis) e alla triere (τριήρης, triremis), che rimasero poi sempre i tipi della nave da guerra dal secolo VI a. C. sino all'introduzione delle navi a vapore. Dai monumenti parrebbe che le navi a due ordini di remi dei rilievi assiri siano più antiche delle greche, e che quindi l'idea delle poliere risalga ai Fenici; ma la cosa non è del tutto sicura, perché l'età di un monumento non è senz'altro l'età dell'invenzione della cosa che esso rappresenta. In ogni caso, i Greci arrecarono alle poliere perfezionamenti essenziali. Disgraziatamente noi non abbiamo una descrizione antica sistematica della triere e gli accenni dispersi delle fonti letterarie e le figure, in genere sommarie, dei monumenti (le une e le altre di età diversissime e certo spesso non del tutto esatte) non sono sufficienti per darci un'idea precisa della loro struttura. Perciò gl'infiniti e discordi tentativi moderni di ricostruire una triere antica.

Il principio tuttavia è questo. Su alcune navi greche arcaiche si vedono i remi, invece che poggiati sul bordo, uscire da scalmi a sportello praticati nel fasciame alzato a protezione dei rematori; sopra questa fila di rematori, che mantennero il nome originario di ζυγῖται (ζυγόν è il banco dei rematori), si collocò un'altra fila di rematori: i nuovi banchi si dissero ϑρᾶνοι e ϑρανῖται i rematori della nuova fila. Un ulteriore e capitale perfezionamento fu l'aggiunta di una terza fila di rematori sotto gli zigiti, detto dei ϑαλαμῖται. Ma come i rematori delle tre file fossero disposti, in quale rapporto di lunghezza stessero fra loro i remi delle varie file e come essi uscissero dai fianchi della nave, è oggetto d'ipotesi e di discussioni (fig. 11). L'opinione più probabile sembra quella che colloca i rematori sullo stesso piano verticale, ma ciascun uomo della prima e terza fila seduto un po' più avanti o un po' più indietro dell'uomo corrispondente della fila degli zigiti; mentre gli scalmi venivano a trovarsi sempre più verso l'esterno andando dalla fila inferiore alla superiore, in modo da mantenere in tutte e tre le file la stessa proporzione fra la parte del remo che usciva dallo scalmo e la parte che rimaneva dentro bordo.

Naturalmente dovevano esistere varî tipi di triere, che davano soluzioni più o meno diverse ai varî problemi costruttivi. Le triere ateniesi del sec. V avevano la fila più bassa degli scalmi per i remi appena a 50 cm. circa dal pelo d'acqua, il bordo a circa m. 1,40. Guarnizioni di cuoio a borsa, inchiodate intorno agli scalmi e sui remi, impedivano all'acqua di entrare. Il ponte di protezione delle navi arcaiche, che si era dapprima abolito nelle triere, fu poi ristabilito; e da questo ponte, che si trovava ad essere alquanto sporgente, venivano calati ripari per i rematori.

La triere era una nave a remi e che sui remi contava quasi esclusivamente per l'azione tattica: lo dimostra la composizione dell'equipaggio, che comprendeva 3 0 4 marinai, una decina di opliti (al tempo della guerra del Peloponneso), da 10 a 20 ufficiali e sottufficiali, e circa 170 rematori. Ma se si presentava l'opportunità di risparmiare i rematori, specialmente nelle lunghe navigazioni, la triere adoperava anche la vela. Ma è significativo che, nell'imminenza della battaglia, si lasciavano spesso le vele a terra. Le triere ateniesi avevano un albero maestro e un albero minore verso la prora. La lunghezza delle triere era di 35-38 m., la larghezza massima da 5,60 a 5,80 m., e non dovevano pescare molto più di 1 m. Erano quindi navi molto lunghe, ciò che era, sotto certi aspetti, una debolezza; perciò si legavano, in caso di bisogno, con corde (ὑποζώματα). La prora, con lo sperone di bronzo, era molto più bassa della poppa alta e ricurva, che terminava nel caratteristico ἄϕλαστον (lat. aplustrum, fig. 12; v. aplustre). Il peso di una triere armata, con le ciurme, fu calcolato a circa 50 tonn., l'acqua spostata a circa 90 tonn.; quindi per avere sufficiente pescaggio e stabilità, si dovevano imbarcare circa 50 tonn. di zavorra. Da tutto l'insieme, s'intende che erano navi da mare tranquillo; e infatti, se minacciava tempesta, si cercava di raggiungere la terra. Le tempeste distrussero molte più navi antiche, che non le battaglie. Anche per l'approvvigionamento, le triere erano molto legate alla terra; perciò si navigava, quand'era possibile, vicino alla costa e la maggior parte delle battaglie navali antiche si combatterono presso le spiagge.

La velocità di una triere antica raggiunse in certi casi 5 nodi e più (nodo = 1852 m.) all'ora, ma di solito era minore; in un giorno si potevano fare anche 50 nodi lasciando per un certo numero di ore riposare l'equipaggio. Per manovrare bene una triere si richiedevano equipaggi sistematicamente addestrati.

Queste navi, piuttosto delicate, quando non erano in armamento venivano ritirate all'asciutto con tutte le suppellettili (v. arsenale); dovevano essere tenute con cura e spesso ripulite alla carena. La costruzione poteva essere rapida. Si sa di navi che presero il mare 30 giorni dopo abbattuto il legname (Cesare contro Marsiglia) ed esempî di navi costruite, in caso di urgenza, in uno spazio da 45 a 60 giorni sono abbastanza frequenti; ma di solito si usava legname stagionato e si costruiva con calma e con molta cura. Lo dimostra il fatto che, nei documenti, al nome proprio delle triere ateniesi è aggiunto quello del costruttore. La loro vita era invece piuttosto breve. Avevano ciascuna il loro nome, scolpito o dipinto verso la prua: le greche sempre femminile, le romane spesso anche maschile.

La triere fu la nave da guerra antica più armonica e più adatta alla tattica navale basata sulla manovra: perciò fu sempre in uso presso i Greci e poi presso i Romani. Ma già dal sec. IV a. C., si cercò di accrescere il numero degli ordini dei remi, per poter avere navi più grandi e stabili. La tattica tornò così alla lotta bordo a bordo e s'installarono sulle grosse navi anche pesanti artiglierie. Si costruirono così tetrere (quadriremi), pentere (quinqueremi) e infine si giunse sino a poliere di 20 ordini. Non sappiamo però come fosse sistemato il remaggio di queste grosse unità. Le grandi flotte da guerra romane (come le cartaginesi) erano composte specialmente di quadriremi e quinqueremi. Di quinqueremi, costruite su modelli cartaginesi, constava essenzialmente la prima flotta romana, allestita durante la prima guerra punica, mentre, sulla fine della guerra, sempre per influsso tecnico del nemico, la forza navale di Roma si basava su un tipo di quadriremi. Ad eccezione dei famosi corvi, ponti mobili d'assalto, che tanto contribuirono alla vittoria romana di Milazzo, non si conoscono altre particolarità tecniche che differenziassero la nave da guerra romana dal tipo greco-cartaginese. Le grandi navi da battaglia durarono fino all'epoca delle guerre civili; durante l'impero, assicurato a Roma il dominio del mare, furono sostituite da naviglio soprattutto leggiero (guardacoste, liburniche, ecc.).

Quanto alle ciurme e ai reparti militari imbarcati, è da osservare che le navi romane, in generale, ebbero una percentuale di soldati assai più alta di quelle greche (una quinquereme aveva a bordo, nella prima punica, 120 uomini di fanteria di marina e 300 marinai e remiganti: una triere, 80-90 soldati).

La nave commerciale greca, che compare sui vasi dal sec. VII, è più simile alla nave da trasporto fenicia, che alla nave da guerra greca. Era alta di bordo, aveva prora e poppa molto rialzate e una larghezza di 1/3 o 1/4 della lunghezza. Ne esistevano molte varietà, e con lo svilupparsi del commercio si costruirono sempre più grandi. Andavano esclusivamente a vela, e avevano albero fisso, alto, e un sartiame spesso complicato. Di solito avevano un albero minore, inclinato in avanti, verso la prua; i trealberi furono invece rari, anche nell'età più tarda. Le navi più grosse si tiravano dietro una barca per comunicare con la spiaggia; le altre erano di solito dotate di scale. L'ancora è ricordata sino dal sec. VI a. C. (v. anche barca; marina: Marina da guerra; Marina mercantile).

Le uniche reliquie archeologiche di navi antiche, tranne alcuni elementi in bronzo di carattere prevalentemente decorativo, sono rappresentate dalle navi di Nemi (v.), per quanto, essendo destinate a un piccolo lago e a scopi diversi da quelli delle navi da guerra e da trasporto, la loro struttura si debba ritenere differente, da quella di queste ultime.

Medioevo ed età moderna sino al secolo XIX. - Le caratteristiche navali dalla caduta dell'impero romano sono, in un primo periodo, in logica relazione con la sopravvivenza della grande tradizione classica, la quale, come s'è visto, aveva portato anche l'architettura marinara a uno sviluppo rispondente all'alto grado di civiltà raggiunto in ogni campo. Superato poi il periodo più grave del decadimento di tale civiltà, periodo che ha indubbî riflessi anche nel campo navale, gradatamente si manifestano i risultati delle successive esperienze e reciproche influenze che caratterizzano l'arte nautica dei varî popoli che s'affacciano nella storia a partire dal Medioevo.

Una pura distinzione cronologica è tuttavia contrastata dal fatto, ancor meglio confermato nel Medioevo, dell'esistenza di due tipi del tutto distinti d'organismi navali, i quali s'affermano e sviluppano in modo affatto indipendente, anche se tra essi fu più volte tentata qualche conciliazione: tipi differenti per funzione, tradizione, caratteristiche tecniche ed estetiche, che occorre perciò trattare in modo separato. L'uno è quello della nave propriamente detta, cioè del naviglio a solo motore velico, alto di bordo, in un primo tempo prevalentemente da carico o da commercio; l'altro è quello della nave, genericamente definita come galea o galera, a libero motore umano, cioè a remi, anche se assai spesso munita pure di vele, bassa di bordo e agile di manovra, di preferenza usata per il combattimento. È necessario perciò trattare in modo distinto la marineria a remi e quella a vela, incominciando dalla prima, anche perché più eminentemente mediterranea: cioè in più diretto contatto con la tradizione classica, di cui può in certo modo dirsi la continuatrice.

La marineria a remi. - Le navi a remi si perpetuano secondo la tradizione delle marine classiche specialmente attraverso l'impero di Bisanzio, dove poi le ritrovarono e svilupparono le nostre repubbliche marinare. Certi principî d'arte navale conservatisi sul Bosforo, e diffusi e perfezionati attraverso la marineria musulmana, contribuiscono infatti a costituire i caratteri salienti della più tipica nave mediterranea che è la galera, la quale per molto tempo costituì il nerbo principale delle flotte veneziane, genovesi, pisane, amalfitane, ecc.

Come la triere e la trireme rappresentano, in certo modo, l'antica marineria remica, così quella bizantina sembra rappresentata dal dromone: evidentemente derivato da un tipo classico, di cui possiamo farci un'idea approssimativa, poiché, pur mancandoci sicure testimonianze grafiche, abbiamo sufficienti dati in qualche testo, come nelle Istituzioni militari di Leone il Filosofo, il quale attese in modo particolare a confermare la potenza dell'impero bizantino anche attraverso la rinascita d'una flotta armata. Il dromone era un tipo di nave lunga, di carattere prevalentemente militare, a remi, dai rapporti tra lunghezza e larghezza assai prossimi a quelli dei tipi affini dei Greci e dei Romani. Visto però che l'equipaggio era di non oltre un centinaio di uomini, essa è da ritenersi assai più leggiera e di minore portata delle triremi classiche, poiché, essendo armata con 25 remi per lato, non sembra potesse avere più d'un solo uomo per remo. Il tipo medio delle navi di tale categoria è perciò da credersi lungo una quarantina di metri, largo sette nel punto centrale, alto cinque dalla chiglia ai castelli. Questi erano piuttosto leggieri, non facevano parte dello scafo della nave, ed erano più atti a dominare il nemico con il lancio delle saette e del temuto fuoco greco, che a resistere all'attacco. I dromoni portavano di solito un unico albero; in un primo periodo a vela quadra, secondo la tradizione classica. Non è escluso però che fino dai primi tempi dell'era cristiana si conoscesse la vela triangolare o latina; così detta, secondo L. Fincati, per derivazione dal termine "alla trina" con cui si distingueva dalla vela quadrata, detta "alla quadra", che è la più frequente negli esempî classici; ma che nel Medioevo, tanto nelle galere quanto nei navigli a vela, era più che altro adoperata, spesso sotto la denominazione di trevo, solo in caso di tempesta. La definizione di dromone, genericamente usata per qualsiasi tipo di nave armata del periodo bizantino, può comprendere pure altri affini navigli a remi. Tali il panfilo, polireme affine al dromone, ma di minore portata, pure d'uso di guerra (nome conservatosi, anche in seguito, poiché si ritrova ancora negli statuti genovesi del secolo XIV-XV, assegnato però ad un naviglio mercantile, e in seguito anche usato per designare genericamente un naviglio da diporto), la chelandia, tipo affine non perfettamente definito; nonché, infine, la galea (o galera) la quale, già nominata nel sec. IX, non tarderà a diventare, a sua volta, il termine generico per designare quel più caratteristico naviglio a remi che, derivato dalla tradizione classica, doveva durare, specie nel Mediterraneo, fino alla soglia del sec. XIX.

Prima di definire lo sviluppo e le caratteristiche della galea, conviene tener presente un altro tipo navale, pure prevalentemente a remi, particolare d'un popolo nordico affacciatosi alla storia prima del Mille, di cui è dato avere qualche testimonianza concreta, in grazia all'uso scandinavo di seppellire i capi entro uno scafo. Gli scavi di Gokstad e di Oseberg, ad esempio, hanno infatti rimesso alla luce quanto basta per definire le caratteristiche singolari dei celebri drakars, o dragoni, e snekars, o serpenti - probabilmente a motivo dei simboli che recavano alle estremità - con i quali il popolo guerriero dei Vichingi, delle cui gesta, incursioni e piraterie, pur tra qualche leggenda, sono piene le storie specie dei secoli VIII e IX, seppe compiere navigazioni e imprese arditissime. Lo scafo di Gokstad rivela una lunghezza di m. 30,80; quello di Oseberg, notevole anche per le sue decorazioni intagliate, m. 21,50 (fig. 15). Tali caratteristiche si fondano sulla linea elegantemente slanciata dello scafo, leggiero e sottilissimo nell'ossatura e nel fasciame a strisce, collegato da fibre vegetali, assai basso e svasato al centro, elevantesi con una curva arditissima alle due estremità del tutto simili tra loro; tanto da mostrare come, non essendovi differenza fra prua e poppa, la nave potesse anche marciare indifferentemente in un senso come nell'altro; confermando in certo modo una singolarità che aveva colpito Tacito, il quale ci descrive le imbarcazioni dei Suiones, antenati dei Danesi (Germania, XLIV). Queste tipiche navi con cui si vuole che gli Scandinavi, oltre a spingersi molto al sud, abbiano affrontato perfino l'Oceano Atlantico, erano senza coperta, o, al massimo, munite per difesa dì un ponteggio mobile, attrezzate con un solo albero a vela quadra, agilissime però sotto l'impulso dei remi, con un equipaggio d'una quarantina d'uomini, cintate lungo il bordo da una serie di scudi rotondi, che richiamano in certo modo l'impavesata difensiva e ornamentale delle nostre galee: manifestazioni singolari, insomma, dell'esperienza d'una razza ardita di marinai guerrieri, che dovettero avere riflesso pure in qualche tipo maggiore, per carico e per commercio, conservatosi nella marineria nordica: tipo che più tardi dovette pure influire, sia sulla marineria oceanica, sia su quella stessa del Mediterraneo.

La galea mediterranea, per quanto abbia qualche variante nel suo sviluppo e nei suoi impieghi presso i diversi popoli marinari, vale a dire, qualche derivato diretto, come la galea grossa o da mercanzia, la galea sottile o sensile, la fusta, la saettia, il brigantino, la fregata, ecc., a cui sì accennerà più avanti, si può dire che fino dalla sua comparsa, cioè intorno al sec. X, abbia assunto caratteristiche distinte, su cui poco sostanzialmente potevano influire tanto i successivi perfezionamenti dell'architettura navale, quanto le nuove e diverse esigenze di guerra o di commercio dei diversi popoli che se ne servirono. Tali caratteristiche pemmettono di definirla come uno snello galleggiante, d'una lunghezza che s'aggirava attorno ai m. 40, senza mai superare i m. 50; largo m. 5-6; basso sull'acqua e di minimo pescaggio, a sostegno della parte essenziale della galea, la quale era costituita da un grosso telaio rettangolare - posticcio o apposticcio - sporgente dal bordo e retto da robusti mensoloni o baccalari. Questo telaio comprendeva l'insieme dei banchi di voga, in genere da 25 a un massimo di 30 per lato, separati da una passerella per il comando e la manovra, detta la corsia, la quale andava da prua a poppa. Sui baccalari o mensoloni poggiava la parte longitudinale del posticcio, costituita da due grosse travi, dette correnti, su cui s'impostava il remeggio della galea; formando, al tempo stesso, quella specie di balconata difensiva, sia per i vogatori, sia per la libera azione dei combattenti, dove si schierava l'impavesata degli scudi. Le parti trasversali del telaio racchiudente i banchi di voga si dicevano gioghi: a quello di prua s'appoggiava la rembata, specie di bastione o di rinforzo per gli armati e per l'attacco; a quello di poppa, la spalliera, la quale separava e difendeva la parte più nobile, più saliente e più vistosamente decorata della galera: cioè la camera di poppa per alloggio e comando, sormontata dal tendale. Dalla prua sporgeva il rostro, basso e acuminato, che i Veneziani poi, anche sull'esempio orientale, usarono volgere all'insù, perché meglio rispondesse al proprio scopo, che era quello di urtare e fracassare l'apposticcio dei rematori e l'impavesata dei difensori della galera avversaria. I banchi di voga erano quasi sempre allo scoperto, e solo in caso di maltempo protetti da un tendale. Con vento propizio, la galera issava l'ampia vela latina sulla lunghissima antenna dell'unico albero che ebbe fino al '400; velatura che poi suddivise in due o tre alberi, sempre a vela latina, la quale solo eccezionalmente, sotto vento impetuoso, veniva ridotta a piccola vela quadra. Sulle galere mediterranee il timone unico, detto "alla navarresca", girante come uno sportello sugli agugliotti a filo della ruota di poppa, fu adottato solo nel '400. Precedentemente le galere, come vedremo anche trattando delle navi, usarono dirigersi con i timoni a pala, fissati ai lati della poppa.

Tranne qualche raffinamento tecnico nella struttura dello scafo, dipendente dal progredire dell'arte navale, i rapporti fra le varie parti della galea non subirono varianti di grande entità durante la lunghissima sua vita. Una maggiore robustezza fu tuttavia imposta dall'uso delle artiglierie, specialmente quando al mangano di prora fu sostituito il grosso cannone di corsia, il quale, al pari dei due o quattro pezzi minori che lo fiancheggiavano, era fisso e si puntava solo con la manovra della galea: cioè, col palamento dei remi e col timone; mentre, in pari tempo, si rinforzarono le difese per gli armati e per la ciurma, sia nei grossi scudi difensivi del bastione di prua o della rembata, come pure in quelli dell'impavesata.

Una riforma più sostanziale, tanto nell'impiego della galera, quanto nel suo rendimento sia in guerra, sia in pace, fu quella per la quale il motore umano, essenziale di tal genere di naviglio, non fu più in prevalenza costituito da liberi remiganti, i quali davano l'opera propria per un sentimento d'onore e per una causa comune, bensì da una ciurma di disperati, incatenati seminudi al banco, costretti sotto la sferza dell'aguzzino ad arrancare anche contro i proprî fratelli, i quali diedero una così triste rinomanza alla bella nave, disonorando per sempre il nome di galeotto: ciurma composta dai forzati, cioè dai condannati comuni; dagli schiavi, presi ai nemici, e quasi sempre tra i prigionieri d'altra religione, e dai liberi, detti per scherno "buonevoglie", rifiuto sociale che, per non essere capace d'altro, si vendeva. Simile riforma, dettata, anche per ritorsione, dal triste esempio della marineria musulmana, distinse per molto tempo nelle marine italiane le galere libere da quelle forzate: anche a Venezia, la quale fu la più restia ad adottarla, divenne generale nel '500.

A questa riforma di carattere civile e morale si unì, in certo modo, quella del sistema del remeggio, che ebbe pure un radicale mutamento nella prima metà del '500. Fino a tale epoca il problema della disposizione dei banchi di voga e della distribuzione del palamento rispetto ai vogatori, era stato risolto col sistema detto "a terzarolo": cioè, ogni remo era impugnato da un solo vogatore e manovrato sopra scalmi contigui, da due o tre uomini seduti sopra un medesimo banco. Col '500 fu sostituito definitivamente col sistema detto "a scaloccio", dove il remo, assai più lungo e pesante, subiva lo sforzo di tre a cinque galeotti - eccezionalmente anche sette - sopra un medesimo banco, disposto però obliquamente rispetto all'asse della galea: sforzo che si compieva alzandosi in un primo tempo in piedi verso il banco antistante, per ricadere poi sul proprio; e che poteva durare, senza cambiar turno, per oltre una trentina di miglia; imprimendo alla nave, nelle condizioni più favorevoli, una velocita oraria di cinque o sei nodi (una decina di chilometri). Data la libertà e rapidità della manovra e dell'impiego, la galea costituì fino al '500 il nerbo principale delle flotte italiane. L'ulteriore sviluppo della marineria a vela, conseguente alle imprese oceaniche e agli svolgimenti tecnici, a cui si accennerà oltre, non tardò però a dare ulteriore fortuna, sia in pace sia in guerra, ai tipi di velieri armati: come ai galeoni, alle caracche, e, più tardi, ai varî tipi di vascelli; così che non a torto fu detto esser stata la battaglia di Lepanto l'ultima grande impresa marinara in cui le galee ebbero la prevalenza. Esse si mantennero tuttavia, specie nelle marinerie mediterranee, come navi leggiere, sia per uso di guerra, sia per commercio fino al '700 inoltrato. Nella marina francese il Corpo Reale delle Galere durò fino al '700; in Russia un corpo analogo si protrasse anche maggiormente; nelle marine italiane, sino quasi all'apparire della navigazione a vapore.

Come fu detto, la galea è l'esempio più tipico della nave polireme: le derivazioni o sottospecie di essa non offrono perciò varianti spiccate nelle caratteristiche principali. La più notevole può sembrare la galea grossa o da mercanzia, usata per carico o per commercio, più capace per stivaggio e per alloggio, e, naturalmente, più tarda e pesante, la quale costituì per secoli il nerbo essenziale del commercio mediterraneo: aitrezzata a due o tre alberi, con apposticci meno sporgenti, senza rembate difensive e con qualche soprastruttura. Da essa ebbe prubabilmente origine quell'ulteriore perfezionamento, adottato dai Veneziani per uso di guerra, che fu la galeazza, la quale prese forme concrete e definitive - presto imitate pure dalle altre flotte - intorno alla metà del '500, quasi a conclusione delle ricerche e delle innovazioni escogitate per mettere le galee in condizioni di meglio contrastare al sempre maggiore predominio delle navi a vela: tipo di polireme comparso come uno dei maggiori ritrovati dell'arte del navigare, o, meglio, del combattere in mare, poiché, più ampio e solido, tendeva a raggruppare in sé l'agilità delle galee alla saldezza del naviglio a vela, di cui richiamava alquanto le forme, tanto a prua, quanto a poppa, la quale era alta, tondeggiante e ben emergente, quasi come nelle navi - di quel tipo, cioè, detto "alla bastarda" - suddivisa come in due spicchi, tra i quali s'allogava il timone. I remiganti erano tutti sotto coperta, la quale era così più libera per la manovra delle vele, mentre le artiglierie erano assai meglio disposte, anche in batteria sui fianchi. L'esordio fortunato delle galeazze si vuole infatti riconoscere nella giornata di Lepanto: quando, cioè, le sei galeazze veneziane comandate dal Duodo, procedendo in linea di fronte davanti alla schiera serrata delle galee cristiane, rotto l'ordine dell'armata turca coi loro poderosi pezzi di corsia, completarono la sorpresa guerresca col tiro effettuato dalle batterie dei fianchi.

La galea bastarda non risulta sia stata se non una sottospecie della galeazza, a cui corrisponde per la maggiore portata rispetto alle galee e per la forma della poppa. La fusta era un agile tipo di polireme minore, d'origine barbaresca, imitata specialmente dai Veneziani, priva di coperta e bassa di bordo, con minimo pescaggio, scafo molto affinato, con da 18 a 22 banchi per lato, a due remi per banco, cioè mossa da 72 a 88 remi, che le davano un'andatura velocissima; con apposticcio limitato, e un solo albero a vela latina. Non molto dissimili, ma di proporzioni sempre minori, erano la galeotta, il brigantino, la corvetta e la fregata. La saettia, come la galea sottile, legni più da combattimento, non sembrano differenziarsi dal tipo generico della galea, se non per qualche diverso rapporto di proporzione e per il numero dei banchi di voga e dei remiganti; usando però, alla loro volta, un solo albero a vela latina, che si smontava in combattimento. Di tale tipo era pertanto la stessa galeotta, essa pure dai 16 ai 20 banchi di voga per banda, che i Barbareschi spinsero talvolta fino a 25, con un solo vogatore per remo, cioè spinta da 32 a 50 remi: bastimento assai leggiero di costruzione, di forme stellate, cioè assai rastremato a prua ed a poppa, senza rembate o castelli. Risulta però che, seguendo l'evoluzione del materiale nautico, l'antica galeotta, sullo scorcio del '600, si mutò in bastimento a vele quadre, per uso di commercio più che di guerra.

Il brigantino era, a sua volta, un piccolo e svelto bastimento a remi e a vela, di minimo pescaggio, adoperato come legno da corsa, e, in origine, di 8 a 12 banchi per parte, e un solo vogatore per banco; cioè, da 16 a 24 remi, sussidiati all'occorrenza da due vele latine. Le sue dimensioni però man mano aumentarono, e, con esse, il numero dei remi. Il nome di brigantino poi, nome assai diffuso nel Mediterraneo e anche nell'Atlantico, dato il largo impiego di tal genere di naviglio, è rimasto, come si sa, tuttora nella marineria a vela, riferendosi però a uno scafo di portata variante dalle 200 alle 500 tonnellate, con due alberi a vele quadre. Odierni rappresentanti invece dell'antico brigantino, per le proporzioni e per la forma caratteristica della ruota o dritto di poppa, sembrano certe imbarcazioni da pesca catalane, dove si ritrova anche l'antica velatura propria del brigantino e della fregata.

La fregata, infine, fu il più piccolo tra i legni usati dall'antica nostra marineria a remi: privo di coperta, con 8 0 10 banchi a un vogatore per banco, guernito all'occorrenza d'un solo albero a vela latina. La prua, assai curva, non aveva però lo sperone come il brigantino; mentre la poppa era pure molto più bassa e meno saliente. In origine la fregata era, più che altro, l'imbarcazione della galera ammiraglia, dalla quale anzi veniva tratta a rimorchio, mentre il brigantino navigava con i proprî mezzi. Con tutto ciò, questo minore tra i diversi legni a remi, quando fu abbandonato tale sistema di propulsione, poteva mantenere il proprio nome, aumentando gradatamente le dimensioni e passando nella marineria velica, come bastimento d'alto bordo, a tre alberi a vele quadre, armato da una sessantina di pezzi d'artiglieria; tanto da essere infine classificato al secondo posto, subito dopo il vascello, tra i legni da guerra ottocenteschi: mentre la corvetta, essa pure in origine agile tipo di polireme sottile, poco dissimile dalla fregata, ma di proporzioni alquanto maggiori, dando alla sua volta, più tardi, il proprio nome a un naviglio a vela, veniva classificata al terzo posto.

Il galeone, per ultimo, sebbene menzionato fin dall'epoca delle crociate, e da supporsi in origine altro tipo di polireme di maggiore portata, è un nome che finì con l'essere proprio di uno dei più importanti navigli a vela cinquecenteschi che vedremo più oltre, nel quale si cercò, con qualche fortuna, di fondere le doti speciali della galera con quelle della nave, allo scopo di agevolarne l'impiego sottovela e di farne un valido elemento, sia per il commercio sia per il combattimento in mare aperto.

La marineria a vela. - La nave propriamente detta, cioè quella a vela, presenta nel suo sviluppo distinzioni assai più definite. I rapporti con la tradizione classica sembrano gradatamente perdersi, sia per la prevalenza, in un primo tempo, della marineria a remi, sia perché non tardarono, anche nei mari italiani, a farsi sentire le influenze del naviglio nordico, segnatamente normanno. La marineria bizantina, poi quella musulmana, evidentemente svolsero e perfezionarono per loro conto qualche tipo velico di carattere mediterraneo, quale. ad esempio, l'acazia (fig. 27): tipo navale lungo e basso di scafo, attrezzato con due o tre alberi con coffe o gabbie, prima a vela quadra, poi a vela latina; la tarida, veliero di minore portata, ma più maneggevole e atto al piccolo commercio; l'usciere, così detto a motivo degli usci o sportelli che si aprivano per il carico, cavalli e macchine da guerra, a poppa; la quale era costituita con tre ruote o dritti; il bucio o buzo, il quale sembra pure fosse nave da carico d'ampio stivaggio, e per altri tipi del genere, che non è facile definire. Qualche raffinamento e sviluppo nell'architettura navale fu senza dubbio conseguente alle grandi imprese delle crociate, che reclamarono navigli di maggiore portata, con tutti gli altri espedienti necessarî per quel fortunoso periodo in cui il marinaro dovette completare l'opera del crociato; questi non avrebbe certo potuto raggiungere e mantenersi nei porti di Soria senza l'aiuto delle repubbliche marinare, che appunto meglio allora impararono a rispondere a tutto quanto reclamavano le grandi imprese di Terrasanta.

I dati per conoscere in modo concreto i diversi tipi navali dell'epoca sono piuttosto limitati, anche se non mancano testimonianze documentarie, che confermano anzitutto il sensibile sviluppo di proporzioni fino da allora raggiunto da certi grandi velieri da carico. Questi sembrano essere stati piuttosto bassi e allungati di scafo e grevi di struttura; risaltati nella linea da grosse cordonate longitudinali, non certo di carattere ornamentale, ma vero rinforzo al robusto fasciame; dove si conferma come la tecnica del collegamento delle varie parti, frutto ancor più d'esperienza che di calcolo, metteva come primo fondamento la solidità, anche a costo di produrre moli grevi e massicce, limitatamente atte a una facile e rapida andatura. Come mostrano, tra l'altro, certi musaici veneziani, restava sensibile la curva accentuata della ruota di prua, terminante con un fastigio a palmetta, di evidente derivazione bizantina. I castelli di prua e di poppa erano piuttosto bassi, cioè non torreggianti come si vedrà in seguito, e di carattere piuttosto mobile; vale a dire, indipendenti dall'ossatura della nave. L'attrezzatura era a due o tre alberi con coffa e vela latina; d'un tipo, cioè, di facile e rapida manovra, poi perfezionato tanto dalle marinerie musulmane quanto da quelle nordiche, e che ebbe in seguito magnifico sviluppo anche nei mari italiani con l'agile veliero detto sciabecco, che poté durare fino ai primi dell'Ottocento.

Uno dei caratteri distintivi dell'antica marineria, fino circa il sec. XII-XIII nei popoli nordici, e il XIV-XV in quelli mediterranei, è deteminato dall'uso del duplice timone laterale, al quale erano connesse determinate caratteristiche nella forma e nell'attrezzatura delle navi stesse; vale a dire, dal sistema di quei classici governali a pala che fiancheggiavano la poppa, prima che venisse adottato il timone unico al filo della ruota posteriore. Riforma questa d'alta importanza, additata ancora da Marco Polo come una delle singolarità delle navi del Cataio, sebbene ai suoi tempi già nota alla marineria nordica, come provano certi sigilli e certe sculture dei secoli XII e XIII di Bretagna, delle Fiandre e di Cornovaglia.

Una delle riforme più sensibili del naviglio a vela, anche nei mari italiani, fu determinata poi dall'introduzione della cocca (fig. 31). Lo stesso Giovanni Villani narra infatti nella sua Cronaca come, attorno al 1304, alcuni pirati di Baiona in Guascogna passassero lo stretto di Gibilterra con le loro cocche, corseggiando e danneggiando assai nel Mediterraneo; così che da allora i Genovesi, i Veneziani e i Catalani appresero alla loro volta a navigare con tal genere di velieri, lasciando in disparte quelli grossi, meno sicuri e assai più costosi "e questo fu nelle nostre marine grande mutazione di naviglio". Notizia che conferma, tra l'altro, il logico principio d'ogni popolo navigatore di seguire quanto suggerisce l'altrui esperienza, oltre alla propria; utile anche a caratterizzare quelle che dovevano essere le doti spiccate di quel tipico naviglio rotondo, definito come cocca; da ritenersi non ignoto nei mari italiani, attraverso gl'Inglesi e i Frisoni, fino dal tempo delle crociate; ma solo gradatamente assimilato dai costruttori italiani, come quello che riassumeva migliori qualità marine: vale a dire, resistenza e facilità di manovra. Lo scafo era più capace e arrotondato, nonché più elegante di linea, di quello dei velieri preesistenti, uso le taride: più alto di bordo e più vistosamente incastellato alle due estremità, con quelle due tipiche soprastrutture, che il '500 porterà fino all'estremo; le quali rispondevano tanto alla parte soprastante la prua, adatta per manovra, e, più ancora, per l'attacco da vicino, quasi slanciata sui flutti come ponte per abbordare l'avversario; quanto a quella più eccelsa della poppa, detta cassero, con nome derivato dall'arabo, adibita ad alloggìo nelle sue parti inferiori, luogo nobile di comando e di governo, ed estremo lembo di difesa in caso di attacco. Un tempo ambedue le estremità erano merlate a guisa di fortilizio, quasi macchine guerresche, ma indipendenti dallo scafo, in seguito furono intimamente congiunte ad esso, tanto a prua quanto a poppa: in quest'ultima s'accentuarono, naturalmente, le ornamentazioni della nave.

Alla conoscenza e all'impiego della cocca si riannoda in certo modo quella capitale conquista che, intorno al Quattrocento, si vuole abbia compiuto l'arte del navigare, o, meglio, del veleggiare: quella, cioè, di procedere anche stringendo vento contrario. Ci riferiamo a quel complesso di manovre per le quali la nave può procedere facendo un angolo acuto con la direzione del vento, inclinandosi sotto lo sforzo della velatura, orientata nel senso della marcia, e avanzandosi in favore di vento di circa 50 gradi dal punto dell'orizzonte donde questo viene, data la maggiore resistenza opposta lateralmente dalla carena, per poi virare di bordo e procedere analogamente nell'altro senso, in grazia del timone e d'un successivo orientamento delle vele; e così via di seguito. Tale conquista, che risolveva uno dei più grandi problemi dell'arte del veleggiare, è da ritenersi perciò collegata a quell'evoluzione dello scafo e dell'attrezzatura che si venne concretando col successivo sviluppo di quel più sicuro organismo marino, che fu la cocca. Troviamo infatti questo tipico naviglio presentare col '400 elementi che non tarderanno a diventare fondamentali di tutti gli ulteriori sviluppi della marineria velica: elementi di alberatura e di struttura, che, mentre dànno una fisionomia più marina alla nave, corrispondono a quella positiva evoluzione dell'arte marinara, la quale si trovava in relazione con l'ardore sempre più vivo che spingeva i naviganti ad affrontare l'oceano, per culminare infine con la scoperta del Nuovo Mondo.

Col '400 i rapporti dello scafo meglio si stabiliscono secondo quella formula catalana, comune pure nei cantieri italiani, detta del tres dos y as: vale a dire, l'altezza dello scafo deve equivalere a metà della larghezza, e questa a un terzo della lunghezza. Lo scafo, più arrotondato e meglio avviato alle due estremità, sembra rivelare una più progredita ossatura e un migliore raffinamento della parte immersa; anche se ciò pare contraddetto da quelle singolari fasciature che spesso si rivelano all'esterno di esso.

Tali fasciature erano certo ben poco propizie alla navigazione, e assumevano l'aspetto di una rete formata dai grossi costoloni verticali e dalle cinture, o bottassi, orizzontali, a sostegno e rinforzo, affinché lo scafo, non ancora bene equilibrato e collegato in ogni parte, non si sfasciasse sotto il peso degli alberi, dei castelli e del sartiame. È pure caratteristica fino a tutto il '400, insieme con un minore risalto dei castelli di prua e di poppa, la forma di questa, dove le tavole del fasciame si curvano secondo il tipo del naviglio detto rotondo, per salire verso quell'elemento precipuo della poppa stessa che si dice dragante: cioè, verso quella parte che sostiene e raggruppa orizzontalmente l'ossatura dello scafo; mentre vedremo col '500 ben diversamente svilupparsi questa parte della nave. L'attrezzatura è già a tre alberi: il primo, quello di trinchetto, bene inclinato sul castello di prua; quello mediano, di maestra, alto e grosso, a vastissima vela quadrata, che riassume per molto tempo la parte essenziale del sistema velico; il terzo, quello di mezzana, a vela triangolare, piantato sul cassero o castello di poppa. Gradatamente la distribuzione delle vele si migliorerà, aggiungendosi, a quelle del trinchetto e della maestra, le vele quadrate superiori, dette di gabbia, perché soprastanti la gabbia o coffa, che quasi sempre portavano tali alberi. Meglio allora si definirà il bompresso sulla prua, destinato fin circa al '700 a reggere soltanto una o due vele quadrate, dette di civada e di controcivada: solo più tardi sostituite con quelle di fiocco.

Sarà poi abbastanza frequente nel tardo Quattrocento e nel primo Cinquecento, nelle grosse cocche o nei velieri affini, il quarto albero di contromezzana, il quale era pure a vela triangolare, ritto all'estremità della poppa.

Tali caratteristiche si riferiscono genericamente alla nave quattrocentesca, ma meglio si definiranno in quella cinquecentesca. Esse riguardano tuttavia anche quel tipo navale proprio della flottiglia colombiana, che è la caravella. Questa non è che un derivato o una variante oceanica, probabilmente d'origine catalana, ancora della cocca quattrocentesca, destinata, come si sa, a divenire la più grande, anzi la più gloriosa delle memorie navali italiane, e, come tale, ripetutamente studiata e anche ricostruita in ogni parte sui dati offerti dalle varie testimonianze del periodo. Tali dati portano, con lievi varianti, a un tipo di veliero attrezzato a tre alberi, con la maestra e trinchetto a vele quadre e gabbie, con la mezzana latina e la civada al bompresso. Stando ai calcoli offerti da E. A. D'Albertis, uno tra i più attenti studiosi del tipo navale colombiano, la lunghezza della Santa Maria (fig. 33), la caravella maggiore della flottiglia colombiana, era m. 26 in alto; circa m. 20 alla chiglia; la larghezza di m. 8 e l'altezza, esclusi i castelli, poco più di m. 4; così da avere una portata di circa 200 tonnellate: proporzioni alquanto ridotte nelle altre due caravelle della prima flottiglia colombiana, la Pinta e la Niña (fig. 34); quest'ultima, sembra, a sole vele latine.

Il Cinquecento, come si disse, sviluppa questa già così sensibile evoluzione della nave velica, in relazione alle cresciute esigenze d'una vera marineria oceanica. Vediamo così affermarsi le caratteristiche di quel tipico naviglio cinquecentesco che fu il galeone; nave essenzialmente a vela, anche se qualche tentativo venne fatto d'accentuarne il rendimento coi remi; la quale conservò tale nome specie per il fatto che, nello scafo di essa, si cercarono d'adattare per la vela le caratteristiche più utili di quello della galea. È evidente difatti la forma più snella e affinata, non più rispondente ai consueti rapporti della nave quattrocentesca, né come essa tozza e greve per il principio di subordinare l'agilità alla solidità. Il castello di prua non sopravanza più sui flutti, ma si ritira in certo modo al posto della rembata delle galee; mentre, come in queste, la linea della prua è bene caratterizzata dalla sporgenza dello sperone sottostante al bompresso. Il castello di poppa meglio si determina e si sviluppa, prolungandosi fino quasi alla metà della nave, per divenire poi sempre più torreggiante. In pari tempo, si definisce la caratteristica cinquecentesca della poppa a forma piana o a specchio, dove le tavole del fasciame, piegandosi longitudinalmente al piano della nave, determinano una superficie liscia fino circa alla linea di galleggiamento, favorendo l'assottigliarsi dell'opera viva dello scafo e dando ad esso un più organico aspetto. Resta evidente lo squilibrio fra la parte immersa e quella superiore alla linea d' acqua, accentuato dall'altezza dell'alberatura. Sempre meglio va però risaltando una più razionale distribuzione delle vele nei tre alberi, mentre le caratteristiche guerresche del galeone si definiscono, specie sui fianchi, dove s'aprono gli sportelli per i cannoni schierati in batteria. Contemporaneamente spicca al massimo grado anche il contributo dell'arte, la quale, con intagli, sculture e dorature, non mancherà di avere larghissimo campo d'applicazione, soprattutto nei torreggianti castelli di poppa ornati con sfarzo talora mirabolante. Grazie al progredire dell'arte navale. le proporzioni dei velieri possono già raggiungere moli che colpiscono. Tali quelle del celebre S. Anna dei Cavalieri di Malta, a sei ponti, oltre l'altissimo cassero che raggiungeva i 25 m. sul livello del mare, d'un 3000 tonnellate circa di stazza, secondo i calcoli odierni, con 300 marinai e 400 armati, fortissimo nerbo d'artiglierie da ogni parte, e perfino una cintura di lastre di piombo alla linea di galleggiamento; il celebre Sovereign inglese del 1495, con 110 cannoni e 31 petriere; lo Charente, costruito sotto il regno di Carlo VIII, armato, in tutte le direzioni, da ben 200 bocche da fuoco, e alto quasi 25 m.; il non meno celebre Henry-grâce-à-Dieu, col quale Enrico VIII veniva nel 1520 da Dover a Boulogne-sur-mer, scintillante d'ornati, dorature e insegne, con immense vele di drappo dorato e arabescato, come ci vien rappresentato nelle pitture di Hampton Court, con 184 cannoni d'ogni calibro; come, infine, per tacere di altri, il non meno celebre Grimalda genovese, che poteva caricare ben 2300 tonnellate di frumento, o il massiccio Mongarbina della marineria turca, con ben 5 ponti, armato di 100 pezzi, con un migliaio d'uomini a bordo. In genere questi maggiori tipi di velieri rispondevano a quello meglio definito come caracca: nome probabilmente d'origine portoghese, riferentesi a una poderosa nave di piene forme cinquecentesche, piuttosto affinata sotto la linea d'acqua, assai panciuta al galleggiamento, e man mano restringentesi verso la coperta e verso i torreggianti castelli di prua e di poppa, dove paiono spinte fino all'eccesso le proporzioni di cotali soprastrutture, così contrastanti, anche in apparenza, a qualsiasi sicuro organismo navale. Altri tipi di velieri dell'epoca sembrano varianti di limitato interesse sostanziale rispetto a quelli sopra indicati, buoni per uso di guerra o di commercio, ed essi pure confermanti le varie conquiste stabilitesi tra lo scorcio del Quattrocento e il principio del Cinquecento, nell'architettura navale. Tali le grosse barze usate dai veneziani, le maone turchesche, le marsiliane o marciliane, le orche, le flute nordiche e simili; in genere rispondenti, a loro volta, a varî tipi di velieri a tre alberi, con cui si vede come il galeone s'adattò ai diversi usi, cioè alle diverse esigenze marinare o alle varie tradizioni costruttive.

Un ulteriore e quasi definitivo sviluppo si avrà soltanto nella prima metà del '600, attraverso quell'evidente espressione d'una più esatta scienza delle costruzioni navali, stabilitasi col vascello. In esso la forma, l'alberatura e l'attrezzatura rivelano gradatamente l'intervento di criterî ben più positivi: cioè quei principî tecnici sempre più sicuri, che si sostituivano all'empirismo con cui s'era fino allora sviluppata, con regole e osservazioni alquanto rudimentali, l'arte delle costruzioni marinare. Si ricorda, fra i prototipi di questo così evidente sviluppo della scienza navale, il famoso Couronne, vascello francese di circa 2000 tonnellate, costruito nel 1638 dal Morieu; e, meglio ancora, il non meno celebre Sovereign of the seas, ideato da Phineas Pett nel 1637, il primo dei vascelli inglesi a tre ponti: vale a dire, il prototipo inglese di quella larga riforma tecnica navale, sulla quale ogni altra marineria cercò poi d'intonarsi. Da allora difatti i varî tipi della marineria velica tendono a unificarsi attorno al vascello, il quale non tarderà a rivelarsi l'elemento essenziale d'ogni flotta, con varianti relativamente minime rispetto ai varî popoli che l'adottarono nelle loro marine da guerra.

La definizione di esso contempla perciò, genericamente, quei velieri armati di maggior mole, per la massima parte attrezzati a tre alberi perpendicolari, ampie vele quadrate alla maestra e al trinchetto, oltre a quelle già sviluppate superiori di gabbia e controgabbia; civada e controcivada ai pennoni del bompresso, dove non tarderà a piantarsi quel piccolo albero di trinchettino a vele quadre, caratteristico dei vascelli fino alla metà del secolo XVIII; vela latina triangolare all'albero di mezzana, che solo nella seconda metà del '700 diventerà vela aurica; con spesso, sopra, una vela quadra superiore di contromezzana. Uno sviluppo, insomma, e una distribuzione sempre più razionale, che prelude a quell'organico e più frazionato sistema velico, a cui tanto il Settecento quanto l'Ottocento poco in fondo avranno da aggiungere, ampliandone solo la superficie e agevolandone la manovra. Gli scafi mostrano un diverso rapporto di proporzioni: in genere, per i tipi maggiori, si arriva ad un massimo di circa m. 70 di lunghezza fra le due estremità superiori, e m. 55 alla linea di galleggiamento, con circa m. 15 di larghezza massima per 6 d'altezza e poco meno di pescaggio. Col migliore avviamento dello scafo a poppa e a prua, si affinano le parti immerse, e scompaiono, insieme con ogni ingombrante elemento esterno di rinforzo, certe grevi forme panciute alla linea d'acqua. La fisionomia dello scafo appare meglio determinata dalle varie coperte interne, cioè dai varî ponti armati sovrapposti, o batterie, lungo i fianchi. Si uniformano i calibri dei cannoni di queste secondo una più razionale distribuzione, mantenendo logicamente in basso i pezzi più pesanti, e distribuendoli a sportelli alternati per le grevi e tonanti bordate. I castelli non sono più soprastrutture macchinose, ma, gradatamente assimilati allo scafo, sempre meno risaltano nella linea complessiva di esso. Tende anzitutto a ridursi quello di prua, la quale, per conseguenza, fin dal principio del '600 si vede abbassarsi, né più sopravanzare sui flutti. La prua pare così chiudersi e solo caratterizzare la propria forma facendo spuntare, sotto il bompresso, un largo sperone o puntale, che arieggia quello delle galee. Questo sperone gradatamente tende a diminuire, come a rientrare, definendo la forma elegante e arcuata d'una specie di struttura sinuosa a leggiera balconata aperta, detta anche serpa, sotto la quale si vede profilare la linea ben rilevata del tagliamare. Questo, congiungendosi allo sperone nella parte superiore, cioè alla parte più decorata di esso, dove spiccano i simboli in genere figurati della polena, viene così a costituire il profilo tipico della parte anteriore dei velieri del '600 e '700: profilo che sarà di poco modificato quando tali elementi della serpa e della polena, meglio unificandosi con lo scafo, si fonderanno, fino a costituire una linea unica col tagliamare. La poppa tende invece più a lungo a conservare il risalto, già così sensibile nei galeoni del '500: risalto evidente, sia nella vistosità delle strutture e soprastrutture dei castelli, sia nella sovrabbondante decorazione di essi. Vi contribuirono, in un primo tempo, i rilievi simbolici decoranti le ampie specchiature della parte posteriore della poppa, nonché gli ornati degli spigoli, delle mensole, gallerie, balconate, ecc., che la caratterizzano: poi tutto quel cemplesso architettonico e ornamentale della poppa stessa, formato da un insieme di elementi che, pur essendo d'apparenza alquanto estranea ad ogni organica schiettezza di struttura navale, va senza dubbio considerato come uno dei vanti dei vascelli dell'epoca.

Questa parte seguì naturalmente l'evoluzione del gusto, portando fino all'estremo i proprî aggetti, ripiani, trabeazioni, gallerie, decorazioni e sculture, nei periodi più spinti del barocco, riflettendo, nelle caratteristiche dello stile, il fasto dei singoli popoli marinari: fasto che aveva particolare risalto anche nei grandi fanali di poppa, specie in quelli triplici dei vascelli, come delle galee di supremo comando. Il '700 condurrà, invece, sia ad un graduale abbassamento dei castelli, sia a semplificazionì più organiche e più adatte agli scafi. Esso riduce infatti le sporgenze degli ornati e dei ballatoi, nonché le balconate, spesso vetrate, dei cosiddetti giardinetti, collocati verso gli angoli della poppa in rispondenza agli alloggi di maggiore riguardo, e limita le sculture e gl'intagli, avvicinandosi a una migliore intonazione col carattere marinaro dello scafo, fino a determinare gli ornati della poppa solo con una serie di finestrate e balconi a varî piani sovrapposti, rivelandone così la forma più organicamente. Forma che l'Ottocento ridurrà ad una massima sobrietà, non priva d'una tipica eleganza architettonica, di fisionomia più decisamente marinara. A tale periodo corrisponde pure la definitiva trasformazione della poppa stessa. Questa fin dallo scorcio del '700 delimita infatti il proprio specchio alla parte superiore, e definisce così, al di sotto, quelle forme tondeggianti e rientranti, dove meglio si alloga e manovra il timone, con quel tipo oramai moderno, che l'Ottocento fisserà del tutto nelle forme che anche attualmente hanno i velieri di maggiore portata, e che conservano perfino in maggioranza gli stessi piroscafi. La linea dello scafo del vascello, in un primo periodo, conserva l'andamento arcuato dei galeoni e delle caracche, e, come in essi, i bordi tendono a rientrare, restringendosi verso i ponti e i castelli. Gradatamente però si vede risaltare, anche dall'esterno, il perfezionamento della struttura del vascello.

Sparisce ogni elemento di rinforzo, si raffinano le parti immerse, e la fisionomia marinara della nave si determina in modo sempre più convincente con le linee che stabiliscono orizzontalmente e perpendicolarmente la più organica e razionale distribuzione dell'ossatura interna e dei varî ponti. L'alberatura e la velatura si sviluppano e perfezionano in proporzione, sia con la suddivisione dei tre alberi in varie parti, sia col conseguente miglior frazionamento e con una più organica distribuzione del sistema velico, che mostra infatti d'avere con la fine del '700 raggiunto il massimo suo rendimento.

In tale periodo vediamo meglio concretarsi pure quei diversi perfezionamenti, anche d'installazione interna per uso sia di guerra, sia di commercio, i quali fanno del vascello quell'organismo oramai sviluppato sotto ogni aspetto, tecnico e marinaro, che doveva finire per cedere il campo solo di fronte alle ulteriori conquiste della propulsione a vapore e delle costruzioni in ferro.

A un così sensibile progresso dell'arte navale contribuiscono, naturalmente, i diversi popoli marinari che, spinti da nuovi bisogni e favoriti da ulteriori fortune, potevano con i mezzi più adatti sviluppare e raffinare quello strumento sicuro di dominio sull'oceano stabilitosi oramai col vascello. Conviene infatti tener presente come, a partire dal '500, per meglio definirsi nel '600, al predominio e all'esperienza secolare della marineria mediterranea, e alla stessa marina oceanica degli Spagnoli e dei Portoghesi, rapidamente sviluppatasi ma anche rapidamente declinata, man mano potevano sostituirsi quelle degl'Inglesi, Olandesi, Francesi, e, più tardi, in parte, degli stessi popoli baltici: vale a dire tutto quanto le altre potenze marinare gradatamente sviluppavano nel campo navale per procedere alla conquista d'un mondo sempre più vasto, e per ampliare con ulteriori mezzi le loro nuove fortune di padroni delle grandi vie di comunicazioni marittime e dei nuovi continenti. L'architettura navale italiana, superato un non lungo, ma pericoloso periodo di stasi, specie per quanto riguarda la costruzione di velieri d'alto bordo, non tardava tuttavia a risollevarsi, per stimolo, anzi sull'esempio di quanto l'Inghilterra e l'Olanda andavano concretando su basi oramai scientifiche per la definitiva prevalenza della vela come mezzo d'alto mare. Vediamo infatti come man mano si adattano ai bisogni italiani i diversi tipi di vascello colà sviluppatisi; così che non tarda a riaffermarsi, nel campo stesso della nuova tecnica, il contributo dei cantieri italiani. Anche se alla potenza marittima delle vecchie repubbliche marinare, come quelle di Genova e di Venezia, non era dato affermarsi con certe flotte poderose di carattere permanente, uso quelle che il Richelieu poteva, ad esempio, concepire ancora nel 1630 per la Francia, e che poco dopo il Colbert stabiliva in modo definitivo, o con quanto già poteva concretare, per lo sviluppo commerciale e politico della propria potenza in Oriente, la Compagnia delle Indie, non tardiamo a vedere come, tra il sec. XVII e il XVIII, torni a risorgere l'attività dei nostri cantieri pure nella costruzione dei vascelli. Attività che, specie a Venezia, non mancava di dar frutti tali da bilanciare la stessa tipica prevalenza italiana di popolo mediterraneo in tutto quanto, per tradizione e per spirito di conservazione, riguardava invece la marineria a remi; la quale, come si disse, tardava assai di più che altrove ad essere del tutto abbandonata. Per tale motivo, mentre, dalla metà circa del '700, la costruzione dei grandi vascelli di linea poteva avere, anche in Italia, singolare sviluppo e perfezionamenti tali da competere con quanto altrove si faceva, non si mancò di perfezionare altri generi di scafo sottile, essi pure di tradizione mediterranea e derivati da quelli a remi. Tali, ad esempio, lo sciabecco ed il pinco: tipi di agili velieri dei nostri mari, attrezzati alla latina (tolto il cosiddetto sciabecco mistico, che portava anche una vela quadra), dove erano stati ingegnosamente adattati, per il carico, e anche, talvolta, per uso di guerra - specie per resistere alle incursioni dei barbareschi che seguitavano a infestare i nostri mari con tipi consimili di naviglio sottile - i migliori elementi dello scafo delle galee, alle quali per linea si accostano assai. Per tutto il resto, i nostri cantieri potevano rispondere alle diverse esigenze della marineria velica, la quale si unificava particolarmente nei varî ordini di vascelli, fregate, corvette, brigantini, ecc., che, tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, fissarono nelle diverse flotte le loro definitive caratteristiche di struttura, portata, proporzioni, attrezzatura, armamento, equipaggio e simili.

Soppresso oramai ogni risalto di castelli, limitata al massimo la decorazione della poppa e gli stessi simboli della polena, assimilato quasi per intero il puntale della prua, vediamo la linea dello scafo divenire in tale periodo quasi del tutto orizzontale e spoglia, definendosi più che altro per la spiccata caratteristica dei varî ordini di ponti, o batterie, sovrapposti, evidenti nella colorazione a scacchiera bianca e nera, o bruna - la cosiddetta colorazione alla Nelson - degli altissimi bordi dei vascelli, con cui si determinava, col numero dei pezzi, l'importanza militare, cioè il rango di essi e degli altri tipi in sottordine. La velatura sviluppava il proprio rendimento con un più complesso sistema di fiocchi, velacci, ecc.; si allargava con gli scopamare; sopprimeva definitivamente la vela latina alla mezzana per sostituirla con la vela aurica, cosi da poter già verso la fine del '700 raggiungere, nei tipi maggiori, la superficie di 3000 mq. Lo spostamento dei vascelli di primo rango tocca allora quasi le 5000 tonnellate; la lunghezza, alla linea d'immersione, i m. 63 per m. 17 di larghezza, e l'armamento, in 3 ponti, il numero complessivo di 120 pezzi. Da tale primo ordine di vascelli, equipaggiati con circa un migliaio d'uomini, si passava, nelle marinerie maggiori, ad altri due o tre ranghi, con relative suddivisioni; poi a quello delle fregate e delle corvette, fino all'agile tipo di brick da guerra, con una ventina di cannoni e un centinaio di uomini. Le qualità nautiche e manovriere, assai sviluppatesi nel periodo napoleonico anche per l'impulso vigoroso della predominante marineria inglese, potevano avere nel primo '800 quello svolgimento concreto, evidente anche dal lato estetico nel pieno equilibrio tra le forme dritte e rase delle moli solenni degli scafi, nella perfetta armonia di sviluppo delle immense alberature e velature, nonché nella perfetta regolarità delle manovre. Questo, tanto nei tipi da guerra quanto in quelli commerciali, che sempre più si affermavano, pur mantenendo, per un certo periodo, caratteristiche esterne consimili. Tali caratteristiche dovevano poi svolgersi in modo tra loro indipendente, in base a quegli ulteriori criterî tecnici e nautici, che, sia per uso militare, sia per servizî di pace, determinavano gradatamente, in modo del tutto diverso, quei nuovi organismi navali, dipendenti dai successivi raffinamenti imposti dall'impiego di altri materiali e dai diversi mezzi di propulsione meccanica, proprî del sec. XIX.

Dal sec. XIX ai giorni nostri. - Il naviglio sul finire del secolo XVIII. - Il periodo dal 1800 ai nostri giorni ha veduto la somma perfezione del naviglio velico, seguita immediatamente dalla sua più profonda trasformazione, come se, esaurita l'evoluzione della vela un nuovo e più complesso organismo avesse dovuto sostituirla.

Le caratteristiche fondamentali del naviglio all'inizio del secolo XIX erano il frutto di una tradizione più volte secolare, che, utilizzando l'eredità tecnica dell'impero romano, di Occidente e di Oriente, vivificata dall'ardimento dei popoli scandinavi, e dalla genialità dei marinai italiani, iberici, baschi, ecc., si era concretata sul finire del Cinquecento e all'inizio del Seicento in un tipo classico militare, il "vascello", e in un tipo classico mercantile, la "nave". Quello - il vascello - prendeva dai grandi velieri mercantili mediterranei e atlantici dei secoli precedenti, caracche e galeoni, la grande capacità di carico necessaria per portare le artiglierie, fattore caratteristico della nuova era e determinante per la fine delle galee. Questa - la nave - costituiva l'ultima evoluzione dei precedenti bastimenti da trasporto (sempre prevalentemente a vela), intesa verso il perfezionamento delle sue qualità nautiche e veliere, frutto dell'esperienza oceanica. Tanto grande fu l'utilizzazione della tecnica preesistente, che in pochi anni il vascello giunse alla sua forma definitiva: sicché tra il Sovereign of the seas del Pett, metà del '600, e l'ultimo vascello inglese di due secoli dopo, le differenze sono secondarie (v. fig. 37).

Anche le differenze nell'essenza organica strutturale tra le galeazze veneziane di Vettor Fausto (1529) e le geniali creazioni olandesi di uno o due secoli dopo non erano considerevoli, tanto l'arte della costruzione navale già nelle galee del Quattrocento era giunta ad alta perfezione: basti pensare che neppure con le costruzioni in metallo si è giunti a scafi relativamente più lunghi e più sottili e che nessun vascello raggiunse mai la loro perfezione intrinseca. L'impiego di ben stagionati legnami, diversi a seconda delle strutture e del servizio del bastimento, e l'unione ingegnosa dei varî elementi, dava efficace legamento longitudinale (principale difficoltà nella costruzione in legno); un certo sapiente giuoco tra le parti sfruttava al massimo il materiale in mare ondoso; la curvatura dello scafo fin sullo scalo compensava l'inevitabile inarcamento in mare; l'esatta lavorazione di ogni particolare faceva di tale scafo un capolavoro di ebanisteria, quasi fosse di bronzo anziché di legno.

Nella costruzione secentesca si erano naturalmente seguiti concetti analoghi, ma più grossolani, dove la robustezza era ottenuta piuttosto con l'ammassamento di materiale che non con il suo razionale impiego. Forse solo l'esperienza tragica di alcune spedizioni militari di quel tempo condusse gradualmente, prima in Olanda e poi in Inghilterra, ad un perfezionamento della tecnica, ritorno alla qualità quattrocentesca. Il che si realizzò prima in maniera empirica sperimentale nei cantieri olandesi - dove confluivano, è stato detto, l'esperienza mediterranea e quella scandinava, - poi, verso la fine del Seicento, in maniera razionale nei cantieri spagnoli, inglesi e soprattutto francesi. In Francia sorse e si affermò un'importante scuola di architettura navale (P. Bouguer, L. Eulero, J. C. Borda, C. Bossut, ecc.), che, con la collaborazione pure di stranieri (F. E. Chapman, svedese; G. Juan, spagnolo, ecc.), gettò le fondamenta della scienza navale moderna, e fece raggiungere al naviglio velico l'apice della sua evoluzione.

Insieme con la tecnica degli scafi, il periodo moderno aveva ereditato dal Quattrocento il rinnovamento della propulsione velica, effetto della navigazione alturiera, tendente alla migliore manovrabilità della nave e alla maggiore utilizzazione del vento, raggiunte con il frazionamento delle vele, con la loro razionale disposizione lungo l'asse del bastimento, e con la modificazione della loro forma. Era già maturata la grande trasfomiazione della velatura con l'introduzione delle rande, che permettevano di "stringere meglio il vento", di navigare cioè "di bolina", a quattro quarte (con il vento a 45° dalla prora), mentre le vele quadre non potevano stringerlo più di sette quarte e mezzo e le latine di sei. Era pure iniziata la suddivisione della superficie velica di ogni albero in un conveniente numero di parti, manovrabili indipendentemente l'una dall'altra, in modo da poterne variare la superficie in rapporto alla forza del vento: già le caravelle di Colombo erano state da lui sapientemente attrezzate così, forse in base all'esperienza dei grandi navigatori genovesi dei secoli precedenti.

Nel periodo della fioritura dei vascelli, dal sec. XVII al XIX, la vela latina si modifica nella randa, e i vascelli, primi forse quelli olandesi, assumono la velatura classica della "nave" propriamente detta: cioè vele latine ed auriche agli estremi, fiocchi a prora e rande a poppa; e vele quadre al centro, maestra e trinchetto. I sistemi estremi intesi specialmente a "dirigere" il galleggiante, il sistema centrale a "sfruttare" il vento. Velature analoghe si erano venute stabilizzando per unità minori: tutte a vele latine sugli sciabecchi e sulle feluche mediterranee, tutte a vele auriche (salvo i fiocchi a prora) sulle golette e sui cutter nordici; tutte a vele quadre, salvo i fiocchi, sui brigantini. Le velature immense (in mq. circa il 60% del dislocamento in tonnellate), costituivano un sistema meraviglioso di equilibrio e di resistenza alle violente raffiche, grazie a un'insuperata armonia fra i suoi elementi costitutivi (tele delle vele, canapa dei cavi, legno degli alberi).

Tre bastimenti sono caratteristici del tempo: il vascello, nave militare di alto bordo, fondamento della capacità bellica di ogni flotta; l'East Indiaman, nave mezzo militare e mezzo mercantile, armata dalla Compagnia delle Indie, che deteneva il monopolio del commercio di quelle colonie; la nave a tre alberi da trasporto, più piccola del vascello, che veleggiava in tutti gli oceani, specialmente dai porti inglesi e americani.

I vascelli più grandi erano costruiti in Spagna, allora sede di notevole attività marinara e scientifica (la Santissima Trinidad aveva 140 cannoni); i più comuni, con buone qualità nautiche e strutturali, venivano dai cantieri d'Inghilterra e soprattutto di Francia. Le dimensioni principali per vascelli a tre ponti (110 a 90 cannoni) e a due ponti (74 cannoni) erano variabili da 60 a 54 m. di lunghezza, da 16,40 a 14 m. di larghezza, da 7,80 a 6,50 di immersione, con dislocamenti da 4500 a 3000 tonn. circa. L'altezza di costruzione, in genere calcolata al ponte della batteria più bassa, era eguale all'immersione più circa 30 cm., e l'altezza totale da metri 14,50 a 15,50.

La grande altezza rispetto alla lunghezza favoriva la robustezza dello scafo e la sicurezza della navigazione, mentre la grande larghezza in relazione alla lunghezza (circa un quarto) consentiva notevoli qualità manovriere, armonicamente con l'ampia velatura. Infatti stupirono gl'Inglesi quando, dopo la battaglia di San Vincenzo, videro i grandissimi vascelli spagnoli manovrare brillantemente in acque strette. La struttura trasversale degli scafi robustissima, con le ossature molto ravvicinate, presentava notevole resistenza alla offesa delle artiglierie (i proiettili sferici avevano un diametro maggiore della maglia), e tale difesa si aveva senza speciali provvedimenti, in tutte le unità, dalle più grandi alle più piccole. Le artiglierie corte, ad anima liscia, lancianti proiettili sferici perforanti o una specie di mitraglia (carronate), erano assai numerose, e distribuite nei varî ponti in modo diverso: per es., un vascello da 110 aveva 30 pezzi da 36 libbre (ossia con proiettile pesante 36 libbre) nel primo ponte, 32 da 24 libbre nel secondo, 32 da 12 nel terzo, e 16 da 8 sul castello. L'equipaggio saliva anche a più di mille persone, necessarie per la complicata manovra dell'immensa velatura.

Gl'East Indiaman erano velieri di dimensioni un po' maggiori delle fregate militari (fino a 50 m. di lunghezza), con armamento di artiglieria analogo a quello delle corvette (16 a 20 pezzi di calibro da 4 a 8 libbre), il che permetteva di combattere contro i concorrenti e di conservare una discreta capacità di carico. La costruzione degli scafi era pure analoga a quella delle fregate, solo un po' più leggiera, per avere maggiore disponibilità di carico; l'attrezzatura era in genere quella "a nave".

Le navi propriamente dette, destinate al commercio, pur avendo sempre qualche pezzo di artiglieria per difendersi da pirati e corsari, erano vere e proprie costruzioni mercantili, nelle quali cioè tutto era subordinato alla capacità di carico: di forme piene, pur conservando le necessarie qualità nautiche per le grandi navigazioni alturiere, avevano dimensioni generalmente più piccole di quelle ricordate per i vascelli. Le forme della carena permettevano di raggiungere solo velocità moderate (in media circa sei nodi): il tragitto, per es., dalla Nuova Inghilterra all'Australia, via Capo di Buona Speranza, durava più di sei mesi. La velatura aveva le stesse caratteristiche di quella delle fregate, salvo un leggiero ineguale distanziamento degli alberi poppieri, per dare maggiore sviluppo agli accessi alla stiva ed ai corridoi. Aggiungiamo per incidenza che le manovre (correnti e dormienti) erano di canapa; non erano comparse le catene, neppure per le ancore (sebbene Cesare le avesse trovate in Gallia e ne fossero munite le galeazze venete). Eppure l'abilità e l'esperienza consentivano di mantenere in piena efficienza tutto l'immenso castello dell'alberatura, nelle condizioni di tempo più sfavorevoli, nonostante la sensibilità del materiale (canapa e legno) agli agenti atmosferici. Le grandi unità mercantili erano eccezionali: il traffico era generalmente compiuto con unità a due alberi (golette e brigantini in oceano, pinchi e sciabecchi in Mediterraneo), perché le merci trasportate erano prevalentemente quelle preziose e di poco volume. Il sistema di propulsione e il fasciame della carena (legname o qualche volta lamiere di rame) rendevano l'autonomia praticamente indefinita e quasi inutile l'immissione delle navi in bacino: il carenamento si faceva con il semplice abbattimento della nave. Le condizioni igieniche a bordo erano generalmente deplorevoli e la mortalità altissima: un miglioramento si era avuto con la ventilazione artificiale delle sentine (S. Hales, 1753).

Questo era il naviglio al termine della guerra per l'indipendenza d'America, cardine della storia navale per la comparsa e il subito sviluppo della marina stellata, e al principio delle guerre della rivoluzione francese, innovatrici della situazione marittima mondiale, con la formazione definitiva del nuovo impero coloniale britannico, il tramonto delle potenze navali e coloniali francese, scandinava e olandese, ed i rivolgimenti economici conseguenti o contemporanei, dal blocco continentale alla cessazione del monopolio della Compagnia delle Indie.

Nello stesso tempo si stava preparando in potenza quella trasformazione radicale che doveva rivoluzionare tutta la tecnica navale, proprio mentre la marina velica dava i suoi ultimi e forse più splendidi sprazzi di luce.

Il naviglio mercantile a vela dal 1800 ad oggi. - Le guerre europee, che imperversarono quasi ininterrottamente dal 1790 al 1815, e la contemporanea guerra anglo-americana, alzarono dappertutto barriere alla navigazione, dando vasto campo alla marina di contrabbando e di corsa.

La limitazione del traffico obbligò a dedicarlo alle merci indispensabili e più preziose, con unità veloci per sfuggire alle fregate avversarie, soprattutto americane: si sviluppò allora la tendenza verso unità mercantili leggiere e veloci, anziché pesanti e capaci.

Durante tutto il periodo napoleonico questa tendenza predominò non solo in Europa, dove, per es. in Italia, Genova e Venezia misero in mare numerose unità velocissime (sciabecchi e pinchi), che diedero molto filo da torcere alle armate inglesi, a lato delle quali le squadre sarde e siciliane tenevano onorevolmente alte le bandiere tradizionali; ma ancor più in America, dove nacque un'energica concorrenza presto vittoriosa ai cantieri britannici, impegnati a tenere in efficienza le loro flotte militari, che corsero gli oceani per circa venticinque anni.

Risultato di quest'attività straordinaria fu il perfezionamento dei tipi di navi esistenti, e la creazione di tipi nuovi, tra cui celebri i clippers. Si fecero scafi più lunghi, e forse più robusti, con la introduzione di elementi longitudinali disposti diagonalmente, dalla chiglia alla coperta, sia nel piano diametrale centrale (F. E. Chapman, J. Sané, ecc.), sia nel controfasciame interno (R. Seppings), sia infine aggiungendo qualche rinforzo metallico (latte). Si fecero così carene più fine, curando meglio l'avviamento delle linee d'acqua, sopprimendo ogni parte cilindrica nella zona centrale della nave, affinando le parti estreme, specialmente le prodiere (clippers), mentre la diffusione della foderatura in rame conservava gli scafi più puliti e quindi più veloci. Nello stesso tempo si aumentò la superficie velica e se ne rese più facile la manovra suddividendola ulteriormente, specie in alto (velacci, velaccini, controvelacci, ecc.) con pennoni volanti; evitando così di prendere i terzaruoli dei velacci, una delle più pericolose manovre. Gli scafi più fini, le velature maggiori e più maneggevoli, le maggiori velocità, furono elementi preziosi anche quando, cessate le ostilità, si ebbe un celere sviluppo di traffici in tutti i mari.

Allora il Mediterraneo vide fiorire la marina napoletana e quella ligure-sarda in nuovi tipi di navi, costruiti nei nostri cantieri, i quali, ravvivati dall'impulso napoleonico, prendevano dalle marine oceaniche insegnamenti utili, passando dai tradizionali sciabecchi, pinchi e polacche, ai brigantini, golette, brigantini-golette, golette a palo, navi-golette, ecc., più adatti alle navigazioni oceaniche. Dopo il 1815 i bastimenti italiani cominciarono a riprendere il posto naturale che spettava loro in Mediterraneo, e appena la battaglia di Navarino e la presa di Algeri ebbero liberato il Mediterraneo dalla pirateria greca e barbaresca, si lanciarono rapidamente nel settentrione d'Europa, nell'America Meridionale (dalla Liguria e Trieste) e Settentrionale (dalla Sicilia e da Napoli), nelle Indie Orientali, ecc. Per queste navigazioni vennero di preferenza adoperati la nave-goletta e il brigantino-goletta, di 250 a 800 tonn., ma s'impiegarono arditamente unità anche più piccole. Nel 1844 una goletta di 88 tonn., la Speranza, faceva il corriere fra l'Italia e Bahia, nel 1838 il brigantino-goletta Elisa di Palermo (250 tonn. circa) raggiungeva Sumatra. A quest'epoca era già attivo il traffico di merci e di emigranti con le due Americhe e dopo il 1848 il tonnellaggio del naviglio e il movimento nei porti italiani salirono rapidamente, facilitati dai provvedimenti liberisti inglesi.

Dopo l'unità della patria, seguendo l'esempio delle marine oceaniche, i velieri italiani, armati con personale ardito e sperimentato, raggiunsero presto un degno posto in tutti i mari. A centinaia ne scesero annualmente in mare, con ritmo crescente: 150 grandi velieri erano varati nel 1869; 120 nel 1870; e più di 100 ancora nel 1875, per il traffico del grano e del guano dall'America Meridionale; delle spezie, del riso e della iuta dalle Indie Orientali; degli emigranti per le due Americhe. Né il traffico si limitava a quello nazionale, ma si allargava a quelli fra gli altri paesi, dalle Americhe all'Australia, dalle Indie all'Europa settentrionale. Il velocissimo sciabecco Santo Stefano delle guerre napoleoniche, il pinco San Francesco del 1810, il brigantino Arlecchino del 1828, la goletta Cavallo Marino e la nave Sebastiano Gattorno del 1840, il Ganges del 1851, il Fides del 1857; il Cosmos del 1865 (stazza 1716, portata 2800), il Mariquita del 1866, ecc., possono rappresentare lo sviluppo dei nostri velieri in legno: ancora nel 1881 l'Italia ne contava ben 700.000 tonn., forse con danno della flotta a vapore.

I costruttori americani, dopo la guerra contro l'Inghilterra, si erano dedicati allo sviluppo dei velieri celeri, analoghi ai precedenti "violatori del blocco", e che per la forma acuta della prora presero il nome già menzionato di clippers. Con essi si organizzò non solo il traffico delle merci preziose (tè, spezie, ecc.), ma anche quello transatlantico dei passeggeri (Black Ball Line", 1816), in concorrenza ai servizî postali (packets) già esistenti. Dapprima furono bastimenti di piccole dimensioni, attrezzati a brigantini e a golette, e poi unità a tre alberi, attrezzate a nave, eleganti nella linea, veloci nell'andatura. Il periodo più bello dei clippers corre dal 1832 al 1869, e tocca l'apice durante la guerra dell'oppio in Cina. Ma se ne costruirono ancora fin verso il 1870-75, ossia fino a che la loro velocità restò superiore a quella dei piroscafi, e la rotta naturale per l'Asia fu attorno al Capo di Buona Speranza.

Si considera come il primo clipper l'Ann Mc Kimm, di 493 tonn. (Baltimora, 1832). I migliori vennero costruiti dopo il 1840 da J. Griffiths e da Donald Mac Kay: del primo si ricorda il veloce Rainbow del 1843 per il traffico della Cina, e del secondo il grande Great Republic del 1853 per il traffico dell'Australia. Sono di questo periodo una traversata del Rainbow da Canton a New York in soli 88 giorni, e la celebre corsa del clipper americano Dreadnought (1400 tonn.) da New York a Liverpool in soli 13 giorni e 8 ore (1859). In questo tempo un clipper americano di Mac Kay, il James Baines, pretende di avere percorso in 24 ore ben 420 miglia (velocità media 17,5 nodi), e il Lightning (2000 tonn.) dello stesso costruttore ne registra ben 436 (velocità media 18,1 nodi). Erano certo eccezioni, perché generalmente dall'Europa all'America occorrevano 36 giorni e viceversa 24 giorni; però ancora nel 1872, nell'Atlantico del nord, il blue ribbon dei piroscafi era conquistato alla velocità di soli 15 nodi.

Ben presto altri paesi seguirono l'esempio nordamericano, specie per il commercio del tè, approfittando del fatto che il migliore tonnellaggio americano era attirato dal traffico dei cercatori d'oro della California (1850): sono notevoli i clippers costruiti ad Aberdeen (Scozia), più piccoli degli americani (il primo, Scottish Maid, era una goletta di 150 tonn.), poi seguiti da unità più grandi, ma sotto le 1000 tonn., attrezzate a nave. I tipi inglesi erano straordinariamente fini, il che li rendeva più celeri nel cammino con vento leggiero, ma forse meno atti a tenere il mare grosso.

Vivacissime gare si disputavano tra i veloci velieri sulle rotte della Cina e dell'Australia (la corsa del tè e quella della lana) e spingevano a perfezionarli continuamente. Dapprima erano stati vincitori gli Americani, ma dopo il 1856 prevalsero gl'Inglesi: celebre la gara del 1866, nella quale i concorrenti, partiti insieme da Canton, giunsero quasi contemporaneamente a Londra dopo circa 80 giorni.

Le costruzioni in legno di questo periodo sono tra le più belle che siano mai state fatte: i particolari della struttura e della velatura restarono in massima quelli dianzi indicati, ma nell'eleganza della forma e nella finezza della lavorazione non ci si è mai più avvicinati di tanto alla perfezione delle galee del '500. Però la concorrenza del vapore cominciava a farsi sentire (celebre la crisi del 1858, quando sui cantieri americani non c'era neppure una nave in costruzione): prima sulle rotte più brevi, e poi a mano a mano su quelle piu lunghe e meno favorite dalla costanza dei venti. Così i clippers perdettero prima il traffico nordatlantico (1860); poi, dopo l'apertura del canale di Suez (1869), quello con l'India e l'Estremo Oriente; infine quello dell'Australia.

A questo punto, anche nella costruzione dei velieri cominciava a maturare la sostituzione del ferro al legno, già iniziata sporadicamente fin dal 1835: il maggiore ostacolo alla sua diffusione era costituito dalla prevenzione che il ferro in acqua marina si conservasse meno bene del legno, determinando una forte perdita di velocità. Questo difetto, che non si dimostrò grave all'atto pratico, consigliò tuttavia una soluzione intermedia e quindi transitoria, cioè gli scafi "compositi". Il bastimento veniva formato da una intelaiatura metallica (chiglia, ossature, paramezzali, imbagliature), opportunamente rinforzata con trincarini e correnti in corrispondenza dei ponti, nel fondo, nei ginocchi, ecc.; sopra di essa si stendeva il fasciame di legno, esterno e dei ponti, a uno o più strati. Su questi bastimenti si modificò anche l'attrezzatura, con l'adozione dei primi cavi metallici (ferro) e degli alberi in lamiera di ferro, sistema che presentò qualche inconveniente per la novità del materiale e per la eterogeneità del complesso. I grandi velieri compositi furono costruiti specialmente in Inghilterra; fra i più veloci del loro tempo si ricordano: il Sir Lancelot (H. Steele, 1865), il Thermopylae (1868; Weymouth); passaggio dall'Inghilterra a Melbourne in soli 60 giorni); il Cutty Sark (J. Willis, 1869), ancor oggi conservato a Falmouth; ecc.

La costruzione di velieri completamente metallici divenne generale nel decennio 1865-75, dopo l'adozione del ferro sui vapori, quasi insieme con l'adozione dell'alberatura e della manovra dormiente in metallo: costituendo così un tutto armonico e solido, adatto alle grandi portate, perché non si avevano più limitazioni di grandezza, e pure alle alte velocità, perché il ferro permetteva una carena di forma più fina. Si credeva che la costruzione metallica avesse minore elasticità di quella in legno, ma questa, utile sui velieri di legno con alberatura in legno e manovre in canapa, diventava superflua con la rigidezza degli scafi e dell'attrezzatura metallici. Sono di questo periodo i tentativi per rendere meccanica la manovra delle vele, allo scopo di accrescerne la facilità e ridurre il personale, ma i complessi sistemi proposti non furono fortunati. Invece si perfezionarono i mezzi per la conservazione della superficie della carena metallica, sia con nuove pitture sottomarine anticorrosive e antivegetative, sia con la foderatura della carena con uno strato di legno coperto di rame o zinco, sistemazione, però, complessa e costosa, che non ebbe grande seguito, e venne abbandonata perfino dalle marine militari. Si ritenne in generale che gli scafi di ferro non potessero utilizzare i venti leggieri come quelli di legno.

Ma per i grandi velieri era cessata la ricerca delle forti velocità, essendo ormai insufficienti a lottare con i vapori: si trattava di avere bastimenti robusti e capaci, anche se lenti, perché il traffico per essi si restringeva sempre più alle merci ingombranti e povere.

L'applicazione del ferro agli scafi dei velieri si ebbe prima in Inghilterra e poi dopo il 1860 altrove, seguita ben presto dall'applicazione dell'acciaio. In Italia, date le condizioni della nostra metallurgia e l'abbondanza del legname, l'importante innovazione fu seguita con ritardo: solo attorno al 1880 si fecero i primi tentativi (nave-goletta Annetta, del Cravero, 180 tonn.), passando direttamente dal legno all'acciaio, e solo nel 1889 cominciarono costruzioni più importanti: navi tipo F. Ciampa dell'"Ansaldo" (m. 73,10 × 11,95 × 6,98, portata 2500 tonn.); navi a palo tipo Accame del Muggiano (2100 tonn.); brigantini a palo tipo Avanti Savoia, pure dell'"Ansaldo" (1380 tonn.); navi S. Fanny e Australia dell'Odero (m. 73,95 × 11,50 × 6,45, portata 2000 tonn. circa), ecc.: velieri celebri per la loro tenuta al mare e per la loro velocità. La costruzione di velieri di acciaio continuò in Italia fino al principio del XX secolo, anche per effetto di speciali provvedimenti legislativi, quando si vararono le grandi navi a palo tipo Principessa Mafalda di Odero, F. Garelli, e quelle tipo Regina Elena e Italia di Riva Trigoso, G. Tappani (1903, 3109 tonn. di stazza, 4500 di portata). Con esse la costruzione velica italiana raggiunse la sua perfezione: eleganza nelle forme dello scafo, armonia nelle linee dell'alberatura, robustezza e leggerezza nelle strutture. Ma la guerra mondiale diede il colpo di grazia al naviglio velico d'altura italiano: si perdettero 424 unità per oltre centomila tonn.; e oggi esso è limitato in massima al servizio di cabotaggio.

La costruzione dei grandi velieri di ferro, dopo il primo e più tempestivo impulso in Inghilterra (1860-1880), passò altrove, in America, in Norvegia, ecc. Nel 1870-80 erano caratteristici i velieri di 2000 a 4000 tonn., come il celebre Melbourne inglese (3500 tonn. di dislocamento, superficie velica 1953 mq.), destinato ai traffici di Australia e capace di coprire 385 miglia in 24 ore (velocità media 15,5 nodi). Ma la tendenza verso le grandi dimensioni si affermò nel successivo ventennio in Germania, dove vennero costruiti velieri fino alla portata utile di 8000 tonn. (Preussen, 1904, J. C. Tecklenborg, m. 121,92 × 16,40 × 9,90, disl. 11.580, stazza lorda 5080), con un'attrezzatura a cinque alberi, tutti con vele quadre, la cui manovra veniva fatta con apparecchi meccanici. Questo esempio fu seguito anche dagli Americani, con bastimenti attrezzati però con vele auriche (che richiedono meno personale): golette a cinque e più alberi. Ma il veliero più grande del mondo resta forse il France (Bordeaux, 1911; m. 127,65 × 17,06 × 7,67, stazza lorda 5632, portata utile 7300 tonn.), con attrezzatura di nave a palo a cinque alberi.

Sembrava dapprima che la vela potesse compiere la funzione di ausiliaria del vapore, ma anche questa venne a poco a poco a mancare a causa della riduzione dei consumi di combustibile dei vapori, e oggi la vela è praticamente scomparsa dai traffici di alto mare ed è ridotta a circa 1,3 milioni sopra un totale di 67,9 milioni di tonnellate.

Meritano cenno i varî tentativi di fusione delle caratteristiche dei velieri e dei vapori, ottenute dotando i bastimenti a vela di apparati motori ausiliarî, destinati a funzionare con calma di vento. Ma le caratteristiche che fanno un buon veliero non sono sempre quelle di un buon piroscafo, mentre l'apparato motore e il carbone costituiscono un grave peso morto da trasportare e un incomodo ingombro per le stive. Quindi l'idea non è praticamente applicabile con successo se non in rotte e per carichi particolari. Fino dal 1853 si era costituita in Inghilterra una grande società ("General Screw Steamship Co.") per il traffico lontano (India, Sud-Africa, Australia), mediante magnifici velieri muniti di macchine ausiliarie: ma il tentativo in breve fallì, né venne mai più ripreso su così vasta scala. Soltanto nel XX secolo l'idea risorse quando il motore endotermico, meno ingombrante e di assai minor consumo della macchina a vapore, divenne pratico. Anche in Italia alcuni velieri - per es. goletta a palo Aosta da 400 tonn. (Cornigliano, 1913), - furono muniti di motore ausiliario. Lo stesso France, per un certo tempo, ebbe un motore ausiliario da circa 1000 HP, sistemato nell'estrema stiva poppiera. Oggi il concetto è adottato quasi esclusivamente sulle unità pescherecce.

Accanto ai grandi velieri continuarono e continuano a svilupparsi le unità minori - specie in legno - per il traffico limitato di piccolo e di grande cabotaggio, con tipi che nella costruzione dello scafo e nell'attrezzatura riproducono quasi esattamente le corrispondenti unità del secolo XIX: brigantini, golette, brigantini-golette, brigantini a palo, ecc. Per traffici più ristretti, nel Mediterraneo, si trovano ancora piccole unità con attrezzatura latina: tartana, bovo, navicello, ecc., che scendono poi fino alle unità pescherecce (v. pesca).

Dopo la guerra, per il progredire dell'aerodinamica, si sono proposte e studiate forme speciali di velature nell'intento di trovare forme di maggior rendimento e meglio adatte alla manovra meccanica (profili ad ala di aeroplano, vele rigide, ecc.): nessuna di queste proposte ha dato pratici risultati. Soltanto un concetto radicalmente diverso dai precedenti, fondato sul principio di H. G. Magnus - per il quale un cilindro rotante attorno al suo asse e mobile normalmente allo stesso, in una corrente fluida, risente un'azione trasversale dipendente dai varî elementi del moto suo e della corrente fluida - concetto studiato per la propulsione navale in Germania da A. Flettner e in Italia da R. Bianchi, ebbe pratica, anche se effimera, attuazione dal Flettner stesso, nelle "rotonavi", le quali sono munite di alcune torri verticali cilindriche, rotanti attorno al loro asse per mezzo di un motore meccanico. Regolando la velocità di rotazione, in relazione a quella del vento, è possibile avere una forza agente longitudinalmente nel senso del moto della nave, ossia una forza propulsatrice. Il sistema venne primamente applicato al veliero Buckau, poi a una piccola unità - Barbara -, espressamente costruita nel 1926 su questo principio, ma non ha dato buoni risultati.

Il naviglio militare a vela dal 1800 al suo tramonto. - Le guerre napoleoniche e quella anglo-americana avevano mostrato la superiorità dei metodi francesi e americani, e la necessità di seguire vie meno empiriche, pur tenendo debito conto dell'esperienza. Concetti fondamentali, neppure discussi, erano allora che il migliore materiale degli scafi fosse il legno e il più adatto mezzo propulsivo, il vento. Si perfezionarono i primi con l'estensione delle strutture a diagonale, con l'irrobustimento dei fondi a ordinate piene, con i tralicci centrali, con la soppressione del "pozzo" per le imbarcazioni, in modo da ottenere nell'insieme una struttura più rigida, più continua e più duratura, sebbene i vascelli avessero già una vita efficace di molti decennî (il Victory di Nelson aveva oltre quarant'anni a Trafalgar). S'introdussero forme di poppa rotonda o ellittica invece delle quadre, per migliorare l'utilizzazione delle artiglierie in ritirata; si modificò la prora (forse ancora influenzata da quella delle galeazze) alzandola sul mare e portando il fasciame esterno fino alla coperta; si cercò di migliorare la velatura e l'attrezzatura con un rapporto ancor più favorevole della superficie della velatura, con l'introduzione graduale dei cavi metallici e delle catene di ferro. I vascelli e le fregate continuarono a portare l'attrezzatura a nave, senza aumento di numero di alberi: si ebbe solamente la soppressione definitiva della vela di civadiera posta sotto il bompresso.

Ricerche furono dirette pure a migliorare le forme delle carene, per ottenere velocità maggiori, senza accrescere eccessivamente la superficie velica, con lo studio sperimentale metodico di varie forme di carena al vero e qualche volta con modelli. Si ricorda la bella fregata a vela inglese Newcastle, che compì il tragitto da New York a Falmouth in soli undici giorni, poco più della maggioranza dei piroscafi dei nostri tempi.

Tuttavia questi sani criterî non diedero tutti gli effetti desiderati, perché lo sfruttamento della vela e del legno era giunto all'estremo: l'ingrandimento non era più possibile senza danno e già i vascelli della prima metà dell'Ottocento erano criticati come meno manovrieri e meno marini dei capolavori dell'epoca napoleonica. Infatti le dimensioni dei grandi vascelli a tre ponti francesi e inglesi, alla metà del secolo, alla vigilia cioè della loro fine, erano: lungh. 64 m.; largh. m. 17,40; immersione m. 8,23; altezza al 1° ponte m. 7,36; disloc. tonn. 5486; superficie velica mq. 3500; cannoni 104, obici 16, carronate 16; equipaggio 1300 uomini (Valmy, francese, 1847). Molti ritenevano preferibili unità più "maneggevoli", ossia le grandi fregate, di cui si avevano bei campioni negli Stati Uniti e anche in Europa, per es. nella marina napoletana, come il Monarca, varato a Castellammare di Stabia intorno al 1850; forse l'ultima grande unità militare a vela costruita in Italia.

Ma verso il 1850, dopo il favorevole risultato dell'applicazione del vapore al naviglio minore, soprattutto dopo l'introduzione dell'elica, che permetteva di non disturbare la sistemazione delle armi, i vascelli cominciarono a ricevere, oltre alla propulsione velica, una propulsione ausiliaria a vapore. Una delle prime, se non la prima, di queste applicazioni si ebbe sul Napoléon di 92 cannoni di S. Dupuy de Lôme (1847, tonn. 5050; lung. 71,23 m.; HP nom. 960; velocità 13,8; velatura mq. 2852), il quale riuscì a risolvere brillantemente il compromesso del buon veliero con il veloce vapore. Quest'esempio fu poi seguito, più o meno felicemente, in molte altre costruzioni tra il '50 e il '60, sia sopra navi nuove sia sopra vascelli già costruiti e radicalmente modificati.

Possiamo ricordare come nella prima metà del sec. XIX la costruzione di unità belliche in Italia si fosse conservata abbastanza attiva: così la fregata Le Muiron, costruita a Venezia, che portò Napoleone dall'Egitto in Europa; la fregata Galatea, varata a Genova nel 1812; il San Michele, il Beroldo, il Commercio di Genova di F. Sivori, varati a Genova dopo il 1815; la fregata Cerere di G. Bausan, la Regina e il Monarca della marina napoletana, ecc. I cantieri di Genova, di Castellammare, di Venezia, di Trieste erano ottimi, come dovevano presto dimostrare passando facilmente dalla costruzione in legno a quella metallica. Insieme si preparava un notevole movimento scientifico, con la scuola navale sarda a Genova (F. Mattei), con la scuola veneta a Padova (S. Stratico), con la scuola napoletana (G. De Luca ed E. Masdea).

Sembrava che il vascello possedesse ancora le sue qualità belliche, quando, alla metà del secolo, si ebbe quasi imprevista la dimostrazione del suo superamento, per opera delle nuove armi che si erano preparate nelcinquantennio. Infatti a cominciare dalle guerre napoleoniche, nell'armamento bellico si stava sviluppando un profondo rinnovamento, quasi come nel lontano Quattrocento, dapprima con modificazioni solo organiche, poi con perfezionamenti degli affusti, dei cannoni, infine - fattori sconvolgenti - con un nuovo tipo di munizioni: le granate di H. J. Paixhans, e con un nuovo tipo di cannone: le artiglierie rigate di G. Cavalli. Le prime, all'antica azione di semplice perforazione, sostituivano un'azione complessa di scoppio e d'incendio, fatale agli scafi di legno fino allora quasi impervî alla scarsa azione perforante dei proiettili sferici. Le seconde, aumentando l'esattezza del tiro, consentivano azioni a grandi distanze, mutando le idee tattiche fino allora dominanti.

Contro le nuove armi occorreva una difesa speciale, diversa da quella data fino allora quasi automaticamente, nelle navi di legno, dal loro sistema normale di costruzione. Il Paixhans stesso aveva proposto la difesa adatta, la corazza metallica, da applicarsi sopra le normali strutture degli scafi in legno, idea importantissima, anche se forse non completamente originale (già l'ammiraglio A. Emo aveva impiegato una speciale protezione per le sue navi contro le artiglierie dei barbareschi). Ma gli ostacoli da superare nell'introduzione della corazzatura delle navi furono molti: psicologici ed economici gli uni, per convincere i "competenti" della potenza della nuova forma di attacco e quindi della necessità di fare qualunque sacrificio per difendersene; tecnici gli altri, per riuscire a produrre piastre e lamiere di ferro (l'acciaio ancora non era in discussione), capaci di reggere all'urto dei nuovi proiettili; architettonici gli ultimi, per assicurare alla nave, così corazzata, tanto diversa da quella tradizionale, le qualità nautiche e manovriere necessarie.

Di qui le varie proposte, tra cui quelle di S. Dupuy de Lame in Francia e di R. L. Stevens in America; la lunga serie di esperimenti, con corazze e con strutture speciali, cominciate verso il 1830 in Francia e in Inghilterra; le interminabili discussioni. Una commissione ufficiale inglese (Chads) ancora nel 1850 sconsigliava l'adozione del ferro. Si deve alla tragica esperienza di Sinope (30 novembre 1853), nella quale una squadra russa in breve ora distrusse la flotta turca, di navi di legno, con l'impiego di granate, e alla impotenza dei vascelli anglo-francesi a Sebastopoli, se la corazzatura venne applicata ad alcune navi francesi per decisione di Napoleone III e per opera del Dupuy de Lôme.

Nel 1854 la marina francese costruì infatti alcune batterie galleggianti in legno (Lave, ecc.), con le murate coperte di piastre di ferro di 11 cm. di grossezza, le quali parteciparono così efficacemente alla espugnazione di Kinburn, da indurre la stessa marina a costruire il primo vascello in legno, corazzato, Gloire (1857-59), sui piani del Dupuy de Lame. La struttura della Gloire era quella normalmente impiegata per scafi di legno, perché ritenuta la più solida: ma doveva essere una soluzione transitoria. Infatti il vascello corazzato fu imitato altrove, però in Inghilterra con scafo in ferro anziché in legno. Fu questa un'evoluzione naturale, perché, cessata l'illusione di una maggiore resistenza intrinseca della struttura in legno, la costruzione in ferro, già sperimentata largamente e adottata con successo nella marina mercantile, s'imponeva anche nella marina militare, come la più sicura contro gl'incendî e gli scoppî, e come la più robusta intrinsecamente.

Siamo al 1860: il vascello di legno e a vela è ormai al tramonto, tuttavia il naviglio militare conta ancora altri numerosi tipi di navi in legno e a vela: le fregate (da considerare piu che altro vascelli in miniatura, tanto che alcuni vascelli venivano rasati al secondo ponte e diventavano ottime fregate); le corvette, prima attrezzate a brigantino e poi a nave, ed altre unità minori. Nella marina sarda merita ricordo il brigantino Daino, per la sua bella condotta nel 1848. Ma anche qui, anzi più qui che nei vascelli, il ferro negli scafi e il vapore nella propulsione si erano già affermati largamente, sia perché l'alea delle innovazioni era meno grave e meno sentito il bisogno della protezione contro l'offesa avversaria, sia perché i due nuovi elementi, come si vedrà appresso, potevano essere meglio armonizzati.

Il naviglio mercantile a vapore con scafo in legno e poi in ferro. - 1° periodo: dall'inizio al "Great Eastern" (1857) e all'apertura del Canale di Suez (1869). - Alla fine del sec. XVIII la macchina a vapore, per opera di J. Watt e dei suoi collaboratori, era giunta al suo perfezionamento pratico (doppio effetto, parallelogramma, condensatore, ecc.), in modo che maturava la sua utilizzazione nei vari mezzi di trasporto, specialmente nelle navi, e tanto più in quanto il problema di sostituire alla propulsione a remi un sistema diverso, ad azione "continua", a reazione, a ruote e certo anche ad elica, era stato prospettato da Leonardo da Vinci (1500), tentato forse da Blasco de Garay (1543) e certo da D. Papin (1707). Posteriormente i due principî, necessariamente complementari, erano stati studiati insieme da J. Hulls nel 1736, dall'Académie des Sciences nel 1753, da G. B. Soardi, bresciano, verso il 1767; in modo che alla fine del '700 parecchi serî tentativi vennero fatti quasi contemporaneamente e in modo indipendente, in paesi diversi, per applicare a bordo di navi, su laghi o su canali, la macchina a vapore, la "pompa a fuoco". Nel 1774 il marchese di Jouffroy sulla Saône, nel 1786 J. Rumsey sul Potomac, nel 1788 R. Miller, il Taylor e W. Symington presso Edimburgo, nel 1790 il geniale e infelice J. Fitch a Filadelfia, nel 1801 ancora il Symington sulla Clyde riescono in misura più o meno soddisfacente a far navigare piccoli battelli con la macchina a vapore e con varî propulsori: a getto, a ruote laterali o poppiere, ecc. La tradizione ha assegnato a R. Fulton (v.) una parte preminente fra questi pionieri: egli, dopo aver studiato i tentativi già fatti negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia, in collaborazione con C. Livingstone, nel 1803 fȧceva navigare per breve ora sulla Senna uno scafo di 20 m. alla velocità di 3,5 nodi e nel 1807 faceva costruire a New York il suo celebre Clermont (stretto scafo di legno, a fondo piatto, macchina inglese di Fulton e Watt, propulsione a ruote laterali), che alla velocità media di oltre 5 nodi compiva felicemente sul fiume Hudson il tragitto New York-Albany e viceversa, cioè 460 km., dimostrando la praticità della navigazione a vapore sui fiumi, che prese subito uno sviluppo notevole.

Ma l'applicazione del vapore alla navigazione presentava problemi molteplici e complessi: si trattava di fare scafi abbastanza robusti per sostenere il grande peso dell'apparato motore (centinaia di kg. per HP), di disegnare carene abbastanza stabili e tranquille nonostante la grande lunghezza e la moderata larghezza; di trovare il tipo e la posizione più adatta per le ruote propulsatrici, in modo da ottenere regolare funzionamento pur con mare mosso; di adattare caldaia e motrice alle speciali condizioni di bordo. Dapprima gli scafi erano troppo deboli; le carene con forme strane, troppo strette e instabili; gli apparati motori troppo pesanti. Lentamente i vapori presero forme veramente marine, abbandonando quelle troppo originali e avvicinandosi ai velieri, con scafi veramente robusti, sì da poter affrontare il mare aperto: nel 1818 a New York si costruiva il Savannah (350 tonn., m. 30,5 × 7,92 × 4,26), attrezzato come un tre alberi, ma fornito di propulsione a ruote, il quale nello stesso anno traversava l'Atlantico, da occidente a oriente, parte a vapore e parte a vela.

Nonostante questo memorabile evento, la navigazione marittima a vapore si sviluppò maggiormente in Europa che in America. Il successo di Fulton e dei suoi imitatori, dovuto in gran parte all'esperienza europea e alle macchine inglesi, aveva avuto eco profonda di qua dall'Atlantico. In Inghilterra nel 1812 si cominciava un servizio regolare sulla Clyde (Comet di T. Bell); nel 1813 il piccolo piroscafo Marjory si avventurava in alto mare e passava da Londra a Parigi; nel 1815 dieci vapori navigavano sulla Clyde e s'iniziava un servizio analogo sul Tamigi; lo stesso Watt nel 1817 con il Caledonia (lungo 30 m., munito di due macchine da 32 HP) compiva una delle prime traversate dall'Inghilterra al continente e risaliva il Reno; nel 1819 l'Inghilterra contava già 32 vapori per oltre 6500 tonn. complessive.

In Italia la grande innovazione era presto accolta con energia attiva; nel 1818-19 contemporaneamente a Napoli, Trieste e Genova - quasi simbolo dell'unità ideale del nostro popolo - venivano costruiti tre piroscafi per navigazione marittima, i primi che solcassero il Mediterraneo: il celebre Ferdinando I di P. Ariel, nei cantieri marittimi di Napoli, per il servizio Napoli-Genova-Marsiglia; la Carolina di G. Allen, nel cantiere Panfilli di Trieste, per il servizio Trieste-Venezia; l'Eridano di L. Pellico nel cantiere della Foce a Genova per un servizio in Adriatico. Disgraziatamente le condizioni politiche del nostro paese e del Mediterraneo, e la mancanza di combustibile e d'industria meccanica, nonostante, per es., le provvidenze del Medici a Napoli, furono sfavorevoli allo sviluppo celere del nuovo sistema.

È degno di ammirazione l'ardimento con il quale, subito dopo la fortunosa traversata del Savannah, in Inghilterra si pensava già alla navigazione a vapore sulle vie oceaniche, con scafi in legno di forma poco diversa dai contemporanei velieri, attrezzati in modo eguale, e che portavano nella loro parte centrale una massiccia macchina a bilanciere, trasmettente il suo lento moto alle due ruote propellenti, animati da velocità moderate (6÷8 nodi), inferiori a quelle massime di certi velieri. Ma l'indipendenza dagli elementi meteorologici costituiva un elemento talmente nuovo e favorevole, da superare ogni altro problema contrario, tra cui principale il rifornimento di combustibile neì paesi privi di tale ricchezza naturale.

La prima grande navigazione a vapore venne appunto organizzata dagl'Inglesi sulla via per le Indie, le cui essenziali comunicazioni con la metropoli, per il Capo di Buona Speranza, erano così lunghe e malagevoli. Nel 1826 l'Enterprise (tonn. 470, lungo 37 metri, HP 120) riusciva a raggiungere Calcutta in 113 giorni, superando notevoli difficoltà. Però un servizio regolare misto per mare e terra, via Suez - rotta sfavorevole alle navi a vela, ma tanto più breve - cominciò a funzionare solo dieci anni dopo, a cura dell'Ammiragliato e di società private, e poi a completa cura della società "Peninsular and Orient" (1840), la quale verso il 1850 assumeva anche il servizio regolare per l'Australia.

Quasi contemporaneamente venne iniziato il servizio transatlantico: la difficoltà tecnica fondamentale era costituita dall'autonomia necessaria per la traversata di oltre 3000 miglia, cioè dal peso del combustibile corrispondente, che non doveva togliere alla nave la possibilità di sfruttamento industriale, pur considerando la rudimentale semplicità delle sistemazioni di allora per i passeggeri. Le macchine con condensatori a superficie, con la diretta conseguenza dell'aumento della pressione in caldaia (grazie all'impiego dell'acqua dolce), e l'aumento delle dimensioni delle navi, consentirono di raggiungere lo scopo. Primo traversò l'Atlantico completamente a vapore il piccolo piroscafo olandese Curaçao, costruito a Dover (1828), secondo il canadese Royal William (1832, 1200 tonn., 120 HP), più grande, ma non espressamente costruito. Allora la società inglese "Great Western" fece costruire un apposito grande piroscafo in legno, a ruote, il Great Western (1440 tonn.; m. 71,92 × 17,78 × 4,88; 400 HP, 10 nodi), il quale nel 1838 (8-23 aprile) compì la memorabile traversata da Bristol a New York alla straordinaria velocità di 8,5 nodi circa, aprendo effettivamente il periodo della grande navigazione transoceanica. E quasi insieme, sebbene più lentamente, un altro piccolo piroscafo, il Sirius, compiva la stessa traversata.

Nel Pacifico, dopo un prematuro e disastroso tentativo (1825), la navigazione a vapore venne regolarmente organizzata da una società inglese fra l'Australia e gli stati spagnoli dell'America Meridionale ("Pacific Steam Navigation Co.", 1840) e un servizio misto anglo-americano fu iniziato dall'Australia alla Gran Bretagna, via Panama, nel 1854, riducendo il tempo del viaggio Sydney-Londra a 67 giorni.

Nel campo nordatlantico, quasi contemporaneamente alla "Great Western" era sorta la compagnia di S. Cunard, che ottenne dal governo inglese la concessione del servizio postale per l'America con i piroscafi tipo Britannia. Alla concorrenza fra la "Great Western" con I. K. Brunel e la "Cunard" con R. Napier, si debbono i progressi più importanti di quel tempo, ossia l'adozione del ferro e dell'elica nei transatlantici.

Ricordiamo la genesi dell'una e dell'altra innovazione. L'impiego del ferro nella costruzione degli scafi ebbe inizio, in Inghilterra, per la scarsezza del legno: si ricorda che fin dal 1788, dopo i progressi della metallurgia (invenzione dei laminatoi), dopo che il ferro era stato adoperato per le caldaie a vapore invece del rame, si era tentato l'uso delle lamiere di ferro nella costruzione di galleggianti per canali (la navigazione interna ci ha dato anche questo), con strutture copiate dagli scafi in legno, e quindi di un peso, ma anche di una robustezza, eccezionali. Ciò nonostante, i galleggianti di ferro avevano maggior capacità, in peso e in volume, di quelli di legno, e il nuovo sistema di costruzione si estese, ma sporadicamente e lentamente, fino verso il 1818, quando fu quasi sospeso, per ragioni difficili a precisare. Solo nel 1824 si costruì a Birmingham forse il primo piroscafo marittimo in ferro, l'Aaron Manby (m. 32,30 × 5,18; HP 30), così chiamato dal suo ardito proprietario, il quale lo condusse in Francia, dove l'idea venne accolta con molto interesse. Ma in Inghilterra si obiettava ancora che il fasciame metallico non presentava una sufficiente resistenza contro gli urti locali; che la struttura di ferro non era elastica quanto quella dì legno; che la carena si sporcava rapidamente e non resisteva all'azione corrosiva dell'acqua di mare; che le bussole non potevano funzionare sugli scafi in ferro. Però i grandi progressi delle costruzioni metalliche civili, che I. K. Brunel andava moltiplicando nel Regno Unito, spinsero M. G. Laird, W. Fairbairn e altri a costruire alcuni rimorchiatori di ferro (1831), a impiantare a Londra stessa un cantiere per costruzioni di ferro (1834). In quel tempo (1838) una delle rare navi in ferro, il Garry Owen (m. 37,5 × 6,45; 90 HP; 2 macchine) ebbe la "fortuna" di essere buttato in costa, insieme con altre navi di legno, da una violenta tempesta: solo il Garry Owen si salvò per la robustissima sua costruzione, consolidando la fama degli scafi di ferro, e forse rompendo il cerchio di dubbî che li avvolgeva. Da allora il nuovo sistema si sviluppa, mantenendosi sulla traccia delle precedenti strutture di legno, lentamente dapprima, per le difficoltà intrinseche relative alla soluzione felice di tutti i complessi particolari dello scafo; per la necessità di trovare sperimentalmente le dimensioni più appropriate, in modo da ridurre (come in effetti si ridusse) il peso dei nuovi scafi rispetto agli antichi; per raggiungere, infine, la necessaria tenuta all'acqua (chiodature, calafataggio, ecc.), la desiderata resistenza alle ossidazioni e alle vegetazioni marine, la necessaria compensazione delle bussole. Poi, quasi a un tratto, per l'ardimento geniale di pochi, il nuovo sistema è portato a perfezione, anzi alle sue grandi conseguenze logiche, dal Brunel e da J. Scott Russel (1843-1854), appunto partendo dalla fiera concorrenza tra la "Great Western" e la "Cunard".

Contro i fortunati piroscafi tipo Britannia, a scafo di legno e propulsione a ruote, della "Cunard", la "Great Western" creò il primo grande transatlantico di ferro e ad elica, il Great Britain (1843). Il Brunel in questo progetto, staccandosi dai piccoli bastimenti di ferro fino allora costruiti, passò a una nave di circa cento metri di lunghezza - superiore a quella di ogni scafo di legno - e di oltre tremila tonn. di stazza, con un'elegante carena da clipper, la quale, con una macchina di 1000 HP e, si noti, con propulsore a elica, faceva ben 10 nodi. Lo scafo riuscì magnificamente, certo robustissimo (è durato fino a questi ultimi anni), dimostrando in modo definitivo la superiorità del ferro sul legno, anche per le grandi costruzioni.

L'esperimento del Great Britain spinse il suo autore ad ardimenti maggiori, perché egli intuì che per la costruzione di ferro non esistono limiti di grandezza, e quindi il progresso tende alle grandi dimensioni, vantaggiose sotto ogni punto di vista, costruttivo, architettonico, economico. Dieci anni dopo, nel 1854, egli studiava con J. Scott Russel, per le linee dell'Australia e delle Indie, il celeberrimo Great Eastern, di 14 nodi e 27.000 tonn., tanto grandioso che non fu più superato per tutto il secolo XIX, e che ancor oggi, a 80 anni di distanza, con i suoi 211 m. di lunghezza, si deve considerare una grande nave (l'Augustus, del 1927, è lungo m. 202). Se si pensa che allora non si aveva quasi esperienza in materia, che il sistema di costruzione era completamente originale, che i problemi di stabilità e di manovrabilità erano nuovi, che la velocità presunta era superiore a quella di ogni altra unità esistente, si deve riconoscere che mai nell'architettura navale si era veduto un ardimento simile. Il Brunel e il Russel precorsero con il loro Great Eastern i tempi, e se per altre ragioni il successo industriale del loro capolavoro mancò, resta il fatto che il nome della nave è legato al trionfo definitivo della costruzione metallica e alla posa del primo cavo sottomarino transatlantico, cui essa venne poi adibita. Le caratteristiche del Great Eastern erano le seguenti: lunghezza massima m. 210,92; lunghezza al galleggiamento 207,26; altezza di costruzione 17,67; stazza lorda tonn. 18.915; dislocamento all'immersione m. 9,14, tonn. 27.000. Esso poteva portare quattromila passeggeri: 800 di prima classe, 2000 di seconda e 1200 di terza. L'apparato motore era doppio: esso comprendeva 10 grandi caldaie a carbone con 112 forni (pressione 1,5 atm.) e tre motrici, due per le due ruote, una per l'elica. La potenza complessiva era di 8000 HP, corrispondenti a una velocità di oltre 14 nodi. Il disegno dello scafo era sommamente interessante, anzi rivoluzionario, staccandosi del tutto dai sistemi fino allora usati derivati dagli scafi di legno. Ispirandosi alle costruzioni civili del Brunel (ponte del Menai), il Russel disegnò lo scafo del Great Eastern esclusivamente a elementi longitudinali, con doppio fondo completo e doppio ponte superiore, affidando la robustezza trasversale a numerose paratie stagne: ne risultò una costruzione straordinariamente robusta e sicura, nonostante le sue grandi dimensioni, come venne dimostrato da un grave incaglio della nave sulle coste d'America, donde essa uscì quasi incolume. Mai sarebbe stato possibile costruire alcunché di simile col legno.

La comparsa nel traffico transatlantico del Great Britain e del Great Eastern indusse altri a seguire la nuova via: tra i primi il Cunard stesso con il Persia, 1856, di ferro, ma a costruzione trasversale (stazza 3300 tonn., propulsione a ruote, 4000 HP, velocità circa 14 nodi, consumo giornaliero 150 tonn. di carbone). Restò così definitivamente acquisito il nuovo sistema, destinato a svolgersi ancora per lunga via - di cui non possiamo vedere neppure oggi un termine - e che rispetto alla costruzione di legno realizzava già allora i seguenti vantaggi: 1. materia prima più abbondante e sicura; 2. materiale di maggior durata, incombustibile e imputrescibile; 3. sistema di costruzione più robusto e senza limitazioni intrinseche di dimensioni; 4. scafi più leggieri, più capaci e più sicuri contro gli allagamenti, per la nuova possibilità della "compartimentazione stagna"; 5. carene più fini e di forme più adatte alle alte velocità. Dimodoché in sintesi giustamente si riteneva, come sì è ritenuto ancora per molto tempo, che una tonnellata di stazza lorda di un vapore di ferro valesse per tre tonnellate di un veliero.

L'altra grande innovazione nella propulsione marina a vapore, cioè la sostituzione dell'elica alle ruote, stava affermandosi nella marina mercantile, come abbiamo veduto, col Great Britain e in parte col Great Eastern. Il sistema, portato nella marina mercantile dalla marina militare, presentava vantaggi molteplici: maggior rendimento propulsivo, minore ingombro delle murate, migliori qualità nautiche, grande semplicità di sistemazione, ecc. L'origine dell'elica come elemento propulsivo è molto remota: rimonta a Leonardo da Vinci; ma solo al principio dell'Ottocento W. Littleton in Inghilterra e Th.-Ch.-Au. Dallery in Francia ripresero l'idea, che trovò poi fautori più fondati nel francese F. Delisle, il quale nel 1824 aveva presentato uno studio al riguardo alla "Société des Amateurs" di Lilla, e nell'inglese S. Brown, il quale aveva vinto nel 1825 un concorso aperto al riguardo dalla marina britannica. La difficoltà maggiore consisteva nel trovare la posizione adatta al nuovo propulsore e poi nel dargli la forma conveniente: finalmente dopo il 1830 cominciarono le proposte pratiche da parte dello scienziato francese F. Sauvage (1832), del capitano inglese F. P. Smith (1836), dell'ingegnere svedese J. Ericsson (1837): pratiche perché l'elica era disposta all'estremità della nave, in corrispondenza del massiccio di poppa. Nel 1838 in Inghilierra venne fondata la "Ship Propeller Co.", che costruì il vapore Archimedes di 237 tonn. di stazza con una macchina da 66 HP, munito di elica Smith, sistemata a poppa estrema, in posizione fissa: l'elica, prima composta di una spirale completa, venne poi ridotta con vantaggio a due porzioni di spirale. L'efficacia dell'elica fu provata in molteplici esperimenti comparativi con le ruote, nelle marine militari e mercantili: tra essi si ricordano le esperienze di due corvette inglesi di circa 900 tonn. con macchine di eguale potenza (Rattler munita di elica, Alecto munita di ruote a pale), le quali (1845) vennero collegate con cavi e poi fatte muovere in senso opposto a tutta forza: il Rattler riuscì facilmente a vincere e rimorchiare l'Alecto, dimostrando quale maggiore utilizzazione della potenza motrice si ottenesse con il nuovo propulsore.

La navigazione delle navi a elica dimostrò sempre più i vantaggi diretti e indiretti del nuovo propulsore, specialmente con mare mosso; tuttavia esso venne adottato su vasta scala solo dopo il geniale Brunel (Great Britain, 1843). Seguirono poi gli altri, abbandonando a mano a mano i sistemi speciali complessi di eliche mobili in pozzo, di eliche multiple, ecc., in modo che fra il 1860 e il 1870 l'elica aveva completamente sostituito la ruota, ove si eccettuino alcuni casi speciali, per esempio di navigazione in acque basse (v. elica).

Con gli scafi di ferro e con la propulsione a elica si era felicemente superato il difficile periodo di transizione, nonostante la quantità di problemi che si erano presentati: sotto il punto di vista costruttivo, cosi nuovo per il materiale e per le grandi dimensioni; sotto quello architettonico, così difficile per la stabilità statica e dinamica, per la manovrabilità, per la tenuta al mare (distribuzione di pesi, forme di carena, azione del propulsore, ecc.); infine sotto il punto di vista organico così complesso (personale, rifornimento di combustibile, ecc.), e perfino psicologico (ricordiamo che a Venezia le autorità avevano proibito di avvicinarsi alla Carolina al suo primo arrivo).

Si trattava ora di perfezionare il nuovo strumento che la tecnica offriva alla navigazione, proprio nel momento del suo straordinario sviluppo, dalla guerra di Crimea a quella di Secessione, all'apertura del Canale di Suez, con la soppressione della pirateria musulmana e greca nel Mediterraneo, di quella cinese nell'Estremo Oriente, con l'abolizione delle leggi restrittive britanniche sulla navigazione, con il grande sviluppo dell'emigrazione transoceanica. I vapori tipici di questo periodo hanno carene che ricordano ancora, nelle sezioni trasversali tondeggianti, nelle forme di prora a clipper e di poppa ellittica, le carene dei velieri, però anche troppo strette; hanno scafi che risentono tuttavia della costruzione di legno, forse troppo alti, con una robustezza eccessiva (l'esempio della struttura longitudinale del Great Eastern doveva restare unico per quasi mezzo secolo), nonché della metallurgia del tempo, con strutture eccessivamente complicate e pesanti, dove il legno non è bandito; hanno apparati motori assai pesanti e poco economici. Ma cominciano ad affermarsi progressi in tutte le direzioni: si migliora la stabilità, facendo carene più larghe, ma non più resistenti al moto; si aumenta la sicurezza con la compartimentazione stagna, con l'introduzione dei doppî fondi e con l'aumento del numero delle paratie resistenti; si adottano macchine a doppia espansione, pressioni più alte (5÷10 atm.), caldaie cilindriche; si tentano perfino il tirare forzato, il surriscaldamento, le caldaie tubolari. All'eccesso del peso di alcune strutture, non razionalmente proporzionate, e alla contemporanea mancanza di robustezza di altre, derivanti soprattutto da insufficiente esperienza; alla deficienza di stabilità, in determinate condizioni di carico e di mare, derivanti da errate distribuzioni di pesi, da soverchia altezza di costruzione in rapporto alla larghezza, mantenuta troppo limitata in proporzione alla lunghezza; all'eccessivo caricamento delle stive e dei ponti per ignoranza o brama di lucro, con danno della stabilità, della riserva di galleggiabilità, della robustezza, ecc. - difetti e deficienze spiegabili in un periodo di così vaste e profonde trasformazioni - si mise riparo con provvedimenti intesi a raccogliere metodicamente i risultati della esperienza viva della navigazione, a imporre determinate garanzie architettoniche e meccaniche di costruzione, a stabilire precise condizioni di carico in relazione alla robustezza strutturale e alle rotte. Questa metodica raccolta di dati, questo controllo delle costruzioni e del caricamento portò alla istituzione ufficiale dei "Registri di classificazione" e delle "Regole di bordo libero" (v. classificazione, X, p. 541; bordo: Bordo libero, VII, p. 463), che sono i due pilastri della costruzione navale e della sicurezza della navigazione moderna, e la cui importanza benefica difficilmente può essere esagerata, anche se in qualche momento essi possono essere apparsi una remora al progresso.

Per quanto riguarda l'Italia, dopo i primi tentativi del 1818-19 non possiamo rilevare quella fioritura della navigazione a vapore che si potrebbe immaginare tenendo conto dello sviluppo contemporaneo delle marine veliche italiane. Sebbene a Napoli sorgesse quasi subito la fabbrica di macchine di Pietrarsa e a Trieste quella dei Panfilli, la mancanza di una grande industria siderurgica e meccanica, la tradizione e la forza della nostra marina velica, le condizioni politiche, ecc., non consentirono il celere accrescimento del naviglio a vapore.

A Napoli nel 1823 si era costituita una società sovvenzionata ("Pacchetti a vapore delle Due Sicilie" piroscafo Real Ferdinando), e nel 1823 la prima società libera del Mediterraneo (G. Sicard, Benucci e Pizzardi). Dopo il 1845, con la libertà di commercio e con il movimento novatore, si ebbe più celere ritmo, specie per opera dei Florio (1852, piroscafo Corriere Siciliano, 400 tonn., scafo di ferro, 12 nodi; 1859, pir. Elettrico, 400 tonn., scafo di ferro, 13 nodi) e della società "Sicula Transatlantica" (1854, piroscafo Sicilia, 1200 tonn., 300 HP, il primo vapore italiano che abbia traversato l'Atlantico), ecc.; nel 1860 la marina napoletana contava 20 piroscafi, di cui 14 di ferro.

A Genova prima del 1830 sorge la "Società Sarda" (piroscafo Carlo Alberto) per la navigazione nel Mediterraneo, nel 1840 la società "Rubattino" (piroscafo Dante, 78 tonn., m. 33 × 5,20 × 2,82, scafo di legno, 8 nodi, 62 HP); nel 1850 circa la "Società Vapori Sardi" (Lombardo, San Giorgio), nel 1858 la "Compagnia Transatlantica" (quattro piroscafi tipo Vittorio Emanuele). Nel 1854 si costruisce a La Foce il primo piroscafo di ferro, la Sicilia di L. Orlando.

A Trieste, dove le condizioni erano più favorevoli, per la mancanza di una grande marina a vela e per l'organizzazione industriale del retroterra, sorse nel 1833 il solido organismo del "Lloyd Triestino", tanto importante per il movimento marittimo dell'Adriatico e dell'Oriente, il quale nel 1837 cominciò i suoi servizî marittimi con quattro piroscafi a ruote, tipo Arciduca Ludovico, alcuni costruiti dal Panfilli, aumentando poi celermente la sua flotta. Nel 1853 il R Lloyd Triestino" fondava a Trieste il suo arsenale, da cui uscirono tante belle unità, e nel 1856 contava 61 piroscafi per oltre 28.000 tonnellate, ossia più che tutto il regno, dove si continuava a dare soverchia importanza al naviglio a vela.

In Francia lo sviluppo della costruzione di vapori mercantili aveva proceduto dapprima lentamente, poi con celerità durante il secondo impero: i grandi cantieri di Tolone, di Bordeaux, di Nantes, ecc., si dedicarono alla nuova tecnica, cui F. Sauvage e A. Normand apportarono le prime applicazioni continentali dell'elica, M. du Temple e J. Belleville le prime caldaie a tubi d'acqua, ecc. Allora sorsero le due principali compagnie francesi di navigazione a vapore: le "Messageries" (1851) e la "Transatlantique" (1855).

In Germania, in Olanda, in Russia, negli Stati Uniti, ecc., dopo i primi tentativi, dopo l'inizio del movimento migratorio verso l'Occidente, cominciarono le intense costruzioni: forse più in Germania che non in America, per iniziativa delle società "Norddeutscher Lloyd" e "Hamburg-Amerika Linie" (1855), allora all'inizio della loro trasformazione dalla vela al vapore.

2° periodo: dal "Great Eastern" alle turbonavi (1900), alle motonavi (1912) e all'apertura del Canale di Panamá (1914-18). - L'apertura del Canale di Suez segna il momento del definitivo trionfo del naviglio di ferro a vapore: dopo di allora si sono realizzati progressi nella costruzione sia degli scafi, passando, per es., dal ferro all'acciaio, sia delle macchine, sostituendo la turbomotrice a quella alternativa, e poi la motrice a combustione interna alla macchina a vapore, ma la via era già chiaramente tracciata, ed essa fu seguita con un moto ascendente continuo, che si può far giungere fino alla guerra mondiale, fino all'apertura del Canale di Panamá. Questo progresso mirò a costruire scafi più robusti e leggieri, sempre più sicuri contro i pericoli del mare; a disegnare forme di carena sempre meglio adatte alle alte velocità, pur conservando buone qualità nautiche; a progettare apparati motori di sempre maggior potenza specifica e di minor consumo unitario.

Negli scafi il cammino ascendente fu diretto verso l'incremento delle dimensioni, del peso e del volume utilizzabili, e della sicurezza. L'aumento delle dimensioni fu caratteristico: il tonnellaggio medio delle navi di carico negli anni 1870-1880-1890-1900-1910 passò, senza discontinuità, da 870, a 1330, a 1500, a 1900, a 2300 tonn.; la lunghezza media delle stesse unità salì da 60 m. nel 1860 a 105-120 m. nel 1910. Quest'aumento fu accompagnato dalla conservazione di adeguata robustezza, adattando le strutture al conseguente aumento delle sollecitazioni interne ed esterne, in base all'esperienza e ai calcoli; sostituendo l'acciaio al ferro (1880-1890); migliorando il disegno dello scafo, in modo da irrigidire armonicamente ogni sua parte e da farla meglio contribuire alle reazioni generali e locali, comprese le sovrastrutture. A poco a poco gli elementi costitutivi dello scafo, dapprima complicati, pesanti, e non sempre razionalmente coordinati, si semplificano, si alleggeriscono, si fondono per così dire in un insieme omogeneo e armonico, omogeneità e armonia essendo fattori essenziali nella resistenza contro le azioni dinamiche e alternate, cui il mare ondoso sottopone gli scafi. La metallurgia, con la fabbricazione corrente di lamiere e profilati in acciaio, con la produzione di profilati speciali e di grandi getti di acciaio fuso, permette di sostituire alle strutture complesse, formate di molte parti insieme chiodate, elementi semplici, che i perfezionati impianti dei cantieri consentono di lavorare adeguamente. Nel disegno strutturale le ossature trasversali, più robuste e più distanti, gli elementi longitudinali, meno numerosi, più leggieri e continui, anche a traliccio, senza correnti laterali, si compenetrano fra loro (per quanto restino prevalenti gli elementi trasversali), specie dopo che il doppio fondo (1880-1890) viene a costituire elemento fondamentale del disegno di quasi tutte le navi e fattore essenziale di robustezza longitudinale e trasversale.

Il doppio fondo si sviluppa nel suo disegno: prima semplice cassa, destinata a contenere zavorra liquida - come proposto da I. MacIntyre (1860 circa) - in sostituzione della zavorra solida, costosa e ingombrante, precedentemente usata; poi elemento complementare della struttura del fondo, come nei posteriori disegni del MacIntyre; quindi struttura essenziale, ma ancora troppo robusta e pesante, del fondo stesso, come nei tipi cellulari, Austin e Hunter (1876), a similitudine delle contemporanee navi militari; infine struttura, essenziale sempre, del fondo, ma assai alleggerita e meglio proporzionata nel suo contributo alla robustezza longitudinale e trasversale.

I ponti, in principio legamento strutturale generale trascurabile, perché numerosi, ma fasciati di legno e con pochi elementi metallici continui, diventano poi strutture essenziali, anche se ridotti di numero, perché fasciati interamente di lamiere di acciaio, robustamente rinforzati in corrispondenza dei boccaporti, e sostenuti da puntelli tubolari, leggieri, meno numerosi, ma più robusti.

Le soprastrutture assumono proporzioni grandiose a cominciare dai transatlantici, per dare alloggio ai passeggeri di classe, che dall'estrema poppa, zona destinata al comando e allo stato maggiore nei velieri, passano poi al centro, e nelle soprastrutture trovano ampî locali per la loro vita in comune. Allora s'impone gradualmente l'utilizzazione di queste grandi soprastrutture, non più peso morto, quali elementi di robustezza generale, rinforzandole e legandole efficacemente alle estremità, in modo da aumentare l'altezza di costruzione e da rendere più favorevoli i rapporti fra altezza e lunghezza di scafo.

Questi provvedimenti consentono di alleggerire a poco a poco il peso morto dello scafo e di ricavare nel suo interno stive ampie e senza ingombri, favorevoli allo sfruttamento economico del bastimento e alla sistemazione di grandi apparati motori, le cui reazioni sullo scafo vengono adeguatamente sostenute dalle fondazioni di macchina e di caldaia. Mentre a un certo momento (dopo il 1890) sembrò che si fossero raggiunte le massime dimensioni possibili, in quanto il peso dello scafo minacciava di crescere in modo proibitivo con l'aumento della lunghezza, il perfezionamento del materiale e del disegno permise di prevedere che tale limite non esiste praticamente, se non economicamente, nonostante le provvidenze necessarie alla sicurezza, e il fallimento di tentativi di strutture in alluminio. L'incremento delle dimensioni costituiva per sé stesso elemento di sicurezza, ma essa era accresciuta dal progresso delle caratteristiche architettoniche (riserva di galleggiabilità, bordo libero, campo di stabilità, larghezza), e dalla più minuta e più robusta compartimentazione dello scafo, costituita: 1. dalla graduale adozione del doppio fondo (ancora nel 1889 qualche grande transatlantico non lo aveva), il quale formava un secondo scafo nella parte più immersa e più facile agli urti; 2. dal rinforzo delle paratie trasversali, prima semplicì divisioni leggiere, poi a mano a mano più robuste, fino a giungere quasi alla solidità del fasciame esterno, ossia capaci di reggere alla pressione dell'acqua in caso di allagamento; 3. dalla disposizione opportuna di queste paratie, in modo da assicurare la galleggiabilità e la stabilità della nave, pur con l'allagamento di un certo numero di grandi locali di stiva; 4. dalla costruzione di uno o più ponti metallici (ponte delle paratie), completamente stagni (metallici e con adeguate chiusure), ben alti sul mare, e coordinati con il sistema delle paratie trasversali. Gravissimi disastri (Elbe, 1896; Titanic, 1912) dimostrarono quanto fossero necessarî tali provvedimenti e come si dovesse ancora proseguire su questa via, eliminando le paratie longitudinali dove dannose, irrobustendo e avvicinando le paratie trasversali e portandole ben alte sul galleggiamento. Queste provvidenze vennero definite con accordi internazionali dalla Convenzione di Londra (1914), la quale dava pure debito rilievo alle provvidenze contro l'alimento al fuoco (materiali incombustibili) e per la limitazione della sua propagazione (paratie tagliafuoco).

Accanto a questi sistemi, si vennero tentando forme di scafo diverse, atte a consentire una sempre maggior disponibilità di carico (peso e volume), soprattutto per navi destinate a servizî speciali. In alcuni tipi "trasversali", si svilupparono appunto gli elementi trasversali in tanti robusti anelli, "ad arco", dal fondo alla coperta, eliminando ogni puntello e ogni paratia intermedia (sistema Ayre-Ballard, ecc.); in altri tipi "longitudinali" si diede invece la massima importanza agli elementi appunto longitudinali, affidando la robustezza trasversale alle paratie (sistema J. Isherwood, ecc.); in altri infine, "misti", si accordarono variamente i due concetti. Il sistema longitudinale ebbe poi straordinaria diffusione nelle navi "cisterna", destinate cioè al trasporto dei combustibili liquidi.

In questo periodo presero grande sviluppo gli studî di architettura navale, soprattutto per quanto riguarda sia il comportamento della nave in mare mosso e la sicurezza contro gli allagamenti, sia la resistenza al moto, per raggiungere alte velocità con minimo dispendio di potenza.

Dalle carene strette, con minima area di sezione maestra, e quindi con poca stabilità, si passò allo studio delle carene larghe e relativamente basse, più stabili e più tranquille in mare mosso, con speciale riguardo alle navi a grandi variazioni di carico (traversate celeri nord-atlantiche); le linee d'acqua si fecero meglio avviate, con estremità concave o convesse, e più o meno fine (come era concesso dalla costruzione metallica); le ordinate (sezioni trasversali) ebbero forma più o meno fina, con murate più o meno rientranti o svasate, ma generalmente molto piene nella parte centrale della nave dove formavano una cospicua porzione cilindrica; le forme di poppa passarono gradualmente da quelle ispirate ai precedenti velieri a quelle fine, tipo incrociatore; le forme di prua (a U o a V) si adattarono alle varie velocità; tenendo ben presenti le qualità nautiche, le quali non sempre si avvantaggiarono delle forme successivamente proposte, come quelle a sigaro, analoghe ai sottomarini, dei Winans. L'adozione dei doppî fondi e poi delle cisterne d'acqua di zavorra (deep-tanks) e in qualche caso (navi per carichi assai densi, minerali di ferro) dei doppî fianchi, migliorò assai la condizione delle navi scariche o poco cariche, in quanto il volume dei doppî fondi fu, ed è ancora, studiato in relazione alle condizioni di stabilità della nave vuota, tanto che in alcune navi (cantilever) le casse d'acqua sono disposte lateralmente in alto, allo scopo di sollevare il centro di gravità.

Lo studio delle carene di minima resistenza al moto (che non coincidono necessariamente con quelle di ottime qualità nautiche) fece un grandissimo progresso con l'applicazione dei nuovi concetti formulati da W. Froude (1869), i quali, partendo dalla legge newtoniana della similitudine meccanica, permettono di prevedere con sufficiente approssimazione la resistenza della nave al vero, sperimentando su modelli (vasche di esperienze di architettura navale, 1870-75), e quindi consentono di calcolare la potenza effettiva dell'apparato motore tenendo conto di adeguati rapporti sperimentali (coefficienti di rendimento). Queste ricerche hanno consentito di chiarire il complesso fenomeno della resistenza al moto della carena eliminando concetti errati precedenti, come quello, per es., che fosse vantaggioso ridurre al minimo l'area della sezione maestra (R. N. P. Micca), mentre invece è più importante, in relazione alla velocità, di avere una certa finezza longitudinale. Altrettanto preziose furono le vasche per lo studio delle eliche e degli altri propulsori, eliminando le forme strane e dannose, adattandole meglio alle alte velocità, alle grandi potenze, ai forti giri, e ricercando il coordinamento "ottimo" delle carene, delle loro appendici e delle eliche. Lo studio sperimentale fu anche applicato allo studio delle oscillazioni delle navi (navi-pendolo G. Russo, ecc.), e ai varî sistemi dì stabilizzazione (ossia intesi a ridurre le oscillazioni di rollio in mare ondoso) fin da allora proposti, senza grande successo (casse stabilizzatrici di P. Watts, 1875, sull'Inflexible; camere antirollanti di E. J. Reed e di H. Bessemer, 1875; e posteriormente giroscopî stabilizzatori passivi di O. Schlick, 1900; casse stabilizzatrici regolabili di H. Frahm, 1900; ecc.). Il metodo sperimentale infine fu seguito per lo studio delle qualità evolutive delle navi: forma della carena, forma e posizione dei timoni, i quali a mano a mano si allontanarono da quelli derivati dai tradizionali timoni "alla navarresca" della vela, per assumere altre forme (timoni compensati, timoni multipli, ecc.) più adatte a ridurre la resistenza al moto del complesso nave-timone, e la forza necessaria a manovrarli.

Questi varî elementi costruttivi e architettonici si fusero nei diversi tipi di navi da passeggeri e da carico che si svilupparono nel periodo, e che si possono raccogliere in quattro gruppi principali in rapporto alla loro funzione: a) bastimenti da passeggeri, derivati dal primitivo atlantic-ferry, veri alberghi galleggianti, celeri e fini, destinati o alle grandi traversate, p. es., nord e sud Atlantico, o alle brevi, p. es., Manica e Napoli-Palermo; b) bastimenti misti, per passeggeri e per carico, destinati a servire le linee prive d'intenso traffico di passeggeri di classe elevata, ma con movimento di merci preziose: p. es., linee orientali e del Sud-Africa; c) bastimenti da carico vagabondi (tramps), atti al carico vario che vanno a cercare, continuatori dell'antico veliero da carico; d) bastimenti di servitù, per servizî ausiliarî nei porti e in mare (rimorchiatori, salvataggio, ecc.).

Naturalmente questo adattamento è avvenuto per gradi, e il raggiungimento degli scopi accennati è stato diverso a seconda dei tipi e della loro più o meno grande specializzazione, e a seconda dell'influenza dovuta alle condizioni del momento o ad altri fattori: p. es., al vecchio regolamento sulla stazzatura delle navi, sulla quale sono poi calcolati ancor oggi i gravami di tasse, diritti, ecc.

Il bastimento da passeggeri fu dapprima a tre ponti normale (full-deck) e con limitate soprastrutture (tipi classici "a tre isole", ossia con castello, cassero centrale e cassero poppiero; tipi "a pozzo", dove il cassero centrale e il castello o il cassero poppiero sono rispettivamente uniti, lasciando fra i due tratti un "pozzo" (well); tipi "a mezzo cassero", dove il ponte di coperta a poppa è sollevato di circa una mezza altezza d'interponte, per compensare lo spazio occupato nelle stive poppiere dai tunnels delle eliche). Le soprastrutture gradatamente si accrebbero, qualche volta a scapito dei ponti inferiori, dando luogo a numerose specie di bastimenti: le principali, in ordine di tempo, erano: bastimenti "a controcoperta" (spar-deck), nei quali si aveva un ponte di coperta continuo leggiero, sopra un ponte inferiore più robusto, tipo poco stabile e pesante, ora sorpassato; bastimenti "a coperta di manovra" (awning-deck), dove le tre "isole" del tipo classico sono unite fra loro costituendo un ponte continuo; bastimenti "a ponte tenda" (shade-deck) e "a ponte di riparo" (shelter-deck), analoghi al precedente, ma con il ponte delle sovrastrutture meno esteso e più leggiero della coperta di manovra e con aperture sul ponte e sui fianchi in relazione alle riduzioni di stazza.

Il bastimento da carico dapprima fu simile al bastimento da passeggeri a tre ponti, normale o a controcoperta, poi si staccò da quello per la soppressione dei ponti inferiori, in modo da avere stive ampie e sgombre nonché maggiore stabilità, per arrivare infine al tipo a un solo ponte, con strutture rinforzate o speciali, e di forma interna tale da favorire il carico e lo stivaggio dei materiali alla rinfusa (carbone, grano, minerali, ecc.), e perciò detti autostivanti". In alcuni di questi bastimenti si abbandonò pure la forma tradizionale esterna del bastimento, che venne ridotto a un cassone, quasi parallelepipedo, poco sollevato sul mare, a guisa di sommergibile, con qualche piccola soprastruttura per gli alloggi e per la manovra: tipi a "dorso di balena" (whale-back), a cofano (trunk-deck), a torre (turret-deck), che però alla fine vennero tutti abbandonati, pur conservando l'autostivaggio, a favore della forma esterna tradizionale, più marina, anche se un po' meno vantaggiosa per la stazzatura.

Speciale sviluppo presero, specie alla fine del periodo, i bastimenti cisterna, destinati al trasporto di combustibile liquido in massa, concetto che, seguito da tempo sul Mar Caspio, trovò nel 1885 applicazione anche nel traffico marittimo oceanico (piroscafo Giückauf costruito dalla società inglese "Armstrong" Mitchell). Le navi cisterna (tank-steamers) crebbero sempre più d'importanza, come tonnellaggio globale, come dislocamento unitario, come sistema di costruzione. Furono presi provvedimenti atti a combattere le conseguenze del carico liquido sulla stabilità (compartimentazione longitudinale) e della grande dilatabilità del carico sul volume delle stive anche alle temperature ordinarie (casse di espansione). Nel 1914 si avevano già 1½ milioni di tonn. di navi cisterna (oggi circa 9 milioni). Costruite prima a strutture trasversali, le navi cisterna vennero poi (1908) disegnate secondo il sistema longitudinale di J. Isherwood, fino a dislocamenti di oltre 20.000 tonn.

Progressi forse maggiori si verificavano negli apparati motori a vapore, mentre si cominciavano a vedere gli albori del motore a combustione interna, caratteristico del tempo presente. Nelle caldaie, la sostituzione della cilindrica alla parallelepipeda, compiutasi nella marina mercantile intorno al 1870, aveva consentito a poco a poco di elevarne la pressione fin verso i 12-14 kg. per cmq., che le macchine alternative (quasi esclusivamente a vapor d'acqua saturo), munite di condensatori a superficie, andavano sempre meglio utilizzando, prima con la doppia espansione (1860-1870), poi con la tripla e infine con la quadrupla (1880-1890). In tal modo il consumo orario di carbone (combustibile allora esclusivamente adoperato nella marina mercantile), riferito alla potenza unitaria, era a mano a mano disceso da 3 kg. a 0.800 per HP, mentre pure, sebbene più lentamente, diminuivano il peso e l'ingombro in superficie ed in volume degli apparati motori, riferiti alla potenza.

Le prime macchine Wolff, a doppia espansione, comparvero intorno al 1860, e consentirono subito un netto incremento nell'autonomia (traversate senza scalo Londra-Maurizio, 8500 miglia, e Fu-chow-Londra, 13.500 miglia, del vapore Achilles di A. Holt, 1865). Seguirono nel decennio seguente le macchine a triplice e poi quelle a quadruplice espansione, il cui successo dipese dalla maggior pressione delle nuove caldaie cilindriche, e dal vuoto dei migliorati impianti di condensazione (pompe di circolazione, del vuoto, ecc.). Verso il 1900 la macchina alternativa policilindrica a vapore saturo, con distribuzione a cassetto, e la caldaia cilindrica a media pressione avevano raggiunto la perfezione (consumi orarî di 700 gr. di carbone per HP ind.; potenze fino a 20.000 HP ind. per macchina). Nello stesso periodo, per ragioni di potenza, d'ingombro e di sicurezza, si era passati dagli impianti a un asse, ossia a una sola elica, ancora oggi prevalenti sulle navi da carico, agli impianti a due assi (intorno al 1880, per es. R. N. Folgore); a quelli a tre assi (a cominciare dalla R. N. Tripoli, 1886). Questo fu il massimo generalmente adottato con le macchine alternative, quantunque si siano avuti anche esempî di quattro assi (Kaiser Wilhelm II.).

L'incremento della potenza era richiesto dall'aumento della velocità: fin dal 1846 si erano raggiunti i 20 nodi di velocità in bastimenti speciali (battello fluviale Oregon, sul Hudson), ma nei bastimenti marittimi tale velocità si era realizzata soltanto nel 1880, in qualche unità militare. Da allora però il progresso è continuo: nel 1882 il piroscafo Nord-America (ex Stirling Castle), poi della Società "La Veloce", raggiunge i 18,4 nodi; nel 1890 il City of Paris della "Inman Line" tocca i 21 nodi con 20.000 HP; nel 1900 il Deutschland della "Hamburg-Amerika Linie" con 33.000 HP oltrepassa i 23,5 nodi. Le velocità effettive - calcolate sulle medie delle traversate nord-atlantiche (blue ribbon), naturalmente un po' inferiori alle velocità nelle prove - erano passate da 15 nodi nel 1872 (Baltic), a 17 nodi nel 1881 (Servia), a 19 nodi nel 1885 (Umbria), a 20,5 nel 1890 (City of Paris), a 22,5 nel 1897 (Kaiser Wilhelm der Grosse), a 23,3 nel 1900 (Deutschland).

Con questi impianti la macchina alternativa e la caldaia cilindrica a carbone avevano toccato il loro apice: per raggiungere maggiori velocità, era necessario passare a un'altra motrice e ad un altro combustibile: alla turbina a vapore e alla nafta, per i quali quasi non esistono limiti né di potenza né di pressione, né di temperatura, né di vuoto. La turbina a vapore, proposta da C. Parsons nel 1880-90, adottata prima per qualche ausiliario (turbodinamo della R. N. Dogali, 1881), sperimentata poi come motrice propulsiva nel 1894-900 (Turbinia), venne impiegata sui piroscafi della Manica a partire dal 1903 (tipo Queen, nodi 21,7), e sui transatlantici a partire dal 1905 (tipo Carmania, 30.000 tonn., 20,5 nodi). La caldaia a nafta, invece, nonostante la vasta applicazione militare, si sviluppò nella marina mercantile solo dopo la guerra, e fino allora le pressioni e le temperature del vapore restarono pure invariate. Tuttavia gli apparati motori con caldaie cilindriche a carbone e turbine segnarono un grande progresso e sul tragitto nordatlantico si raggiunse la velocità media di 25,5 nodi (1907, Mauretania), insuperata fino al 1929.

Nello stesso periodo si erano venuti perfezionando i macchinarî, così numerosi e complessi, detti "ausiliarî", necessarî cioè per i diversi servizî della nave (oltre alla propulsione): per le manovre marinaresche (timone, argano, ecc.); per rendere più comoda e sicura la vita a bordo (pompe, ventilatori, riscaldamento, illuminazione, ecc.); per il maneggio del carico (gru, verricelli, ecc.). Macchinarî prima a vapore, poi idraulici, infine elettrici. Le macchine per la manovra del timone, "asservite", ossia capaci di muovere il timone docilmente in fase perfetta con il movimento della ruota del timoniere e di fermarsi automaticamente nella posizione voluta (asservimento a vapore: Forrester, Brown, ecc.; elettrico: Locarni, ecc.; idraulico: Williams Janney, ecc.). Le macchine per la manovra delle ancore mediante le ruote a impronte, "barbotin" (argani, se ad asse verticale; molinelli, se ad asse orizzontale), capaci di sollevare le più pesanti ancore e relative catene con velocità di 10 m.-min. Le pompe di varia specie, a vapore o elettriche, per i numerosissimi servizî d'acqua dolce e salata, di esaurimento, di sentina, di incendio, ecc. Gli ausiliarî per la ventilazione, per il riscaldamento, per la refrigerazione, per i servizi igienici, per i servizî di cucina; predominanti quelli della ventilazione, che ebbero tanta importanza nel risanamento della vita di bordo.

Di speciale rilievo è lo sviluppo grandioso dell'elettricità a bordo, cominciato con l'illuminazione, seguito poi dall'adozione di meccanismi ausiliarî elettrici per molti altri servizi: si ricorda tra le prime applicazioni sperimentali quella dello yacht francese Jérôme Napoléon (1867), ma l'estensione del sistema si verificò lentamente nel decennio seguente e più celere dopo il 1890. Alla fine dello stesso periodo comincia l'applicazione su vasta scala della radiotelegrafia, che, sperimentata nel 1896-97 dalla R. Marina Italiana (campagne della R. N. Carlo Alberto), rapidamente si diffuse, lasciando poi il posto alla radiotelefonia durante e dopo la guerra. L'idea precisa dell'immensa benefica rivoluzione portata dalla radiotelegrafia nella sicurezza della navigazione è data dalla straordinaria riduzione delle perdite di vite umane verificatasi dopo la sua introduzione.

L'aumento di sicurezza nella navigazione, caratteristico dell'età presente, fu dovuto pure a provvedimenti diretti: oltre a quelli strutturali ricordati sopra (forma della carena, bordo libero, compartimentazione, ecc.), intesi a rendere la nave stessa il mezzo di sicurezza meglio garantito, si diede largo sviluppo alle sistemazioni delle imbarcazioni di salvataggio, sebbene esse non raggiungessero ancora il grado necessario (disastro del Titanic) e richiedessero ulteriori provvidenze, maturate solo dopo il 1918.

Insieme con questi sviluppi tecnici, procedeva il trattamento dei passeggeri, legato alla civiltà degli ospiti, agli usi e al gusto del tempo. Al principio del sec. XIX i viaggiatori si recavano in America portando con loro i viveri occorrenti, senza neppure pretendere una cuccetta per ciascuno, quasi senza potersi muovere e senza vedere il cielo per tutto il tragitto. Al principio del sec. XX lo stesso viaggio si faceva sopra navi mobiliate con sfarzo, simili ad alberghi di prim'ordine, con sale splendide, camere da letto eleganti, biblioteche, cappelle, passeggiate, ecc., e con un servizio di cucina quale non si trovava nei più ricchi ristoranti terrestri. Eppure la durata del tragitto era stata ridotta a un quarto e il costo del passaggio in terza classe Europa-America era caduto, verso il 1900, a sole due sterline a testa. Lo spazio dedicato a ogni passeggero andò gradualmente crescendo, perfino nei bastimenti usati per il traffico degli emigranti, le cui condizioni miserabili erano restate quasi inalterate rispetto all'epoca precedente fin dopo il 1900, quando, per es. anche in Italia, il Florida (1905) e l'Ancona (1908) ebbero adattamenti decenti anche per questi viaggiatori. La decorazione degli alloggi e delle sale per i viaggiatori di classe non ebbe in genere caratteristiche originali, ripetendo in massima motivi triti e fastosi, ripresi dall'architettura civile del tempo, e quindi oggi poco degni d'imitazione: facevano eccezione alcuni interni dei grandi transatlantici delle marine nordiche, e fra gli italiani, quelli del Principessa Mafalda (Riva Trigoso, 1909), il primo nostro piroscafo del tipo lussuoso.

Lo sviluppo quantitativo e qualitativo del naviglio nel periodo 1869-1914, come quello del ventennio precedente, fu conseguenza del contemporaneo incremento straordinario dei traffici marittimi di tutto il mondo; il tonnellaggio, che dal 1816 al 1869 era passato da circa 3,4 a 19,1 milioni di tonn., nel 1900 è a 27 milioni, e nel 1914 a 46,9 milioni; il quantitativo di merci trasportate passa da circa 60 milioni di tonn. nel 1869, a 140 circa nel 1887, a 400 circa nel 1913.

Nell'organizzazione delle flotte mondiali cresce l'influenza delle grandi società, sole capaci di preparare i vasti mezzi finanziarî e tecnici occorrenti per il nuovo traffico e il nuovo materiale: questa trasformazione determina la crisi marinara delle nazioni industrialmente meno progredite, tra cui la nostra, che trova la sua ripresa soltanto al principio del nuovo secolo.

Le compagnie armatrici e i cantieri costruttivi si rinnovano, si trasformano, si ampliano. Giacché si vede da un lato la connessione tra i varî rami dei trasporti terrestri e marittimi, fra la navigazione e gl'impianti portuali, dall'altro lato la relazione fra le industrie metallurgiche-meccaniche e la costruzivne navale. L'industria dei trasporti marittimi diventa sempre più l'industria sintetica per eccellenza, quella dove si fondono le tecniche più disparate e più difficili. La Gran Bretagna conserva la sua prevalenza, ma la Germania, approfittando della profonda trasformazione tecnica, progredisce rapidamente, battendo in qualche campo la grande rivale, seguita dalla Francia, dall'Olanda, dalla Norvegia, dagli Stati Uniti, i quali attendevano dalla guerra mondiale e dall'apertura del Canale di Panamá nuovo slancio, e dal Giappone, che stava preparando il suo passaggio da nazione a interessi limitati a nazione a interessi mondiali.

Nel traffico nordatlantico, indice della prosperità mondiale, e campo dell'antagonismo anglo-germanico, lo sviluppo è continuo di grandezza, velocità e lusso, sebbene il trasporto degli emigranti ne costituisca sempre un cespite fondamentale. Nel 1870 caratteristici i tipi Britannic della "White Star" di 5000 tonn., 5000 HP, 16 nodi; nel 1881-82 i tipi Servia della "Cunard" di 7400 tonn., 10.500 HP, 17 nodi; nel 1884 lo Sterling Castle, della "Inman", di 4800 tonn., 6000 HP, 18 nodi; nel 1886 l'Umbria della "Cunard" di 8100 tonn., 14.000 HP, 18 nodi; nel 1889 la City of Paris della "Inman", di 10.500 tonn., 18.000 HP, di oltre 21 nodi; nel 1890 i Teutonic della "White Star", i Bourgogne della "Transatlantique", ecc., di circa 10.000 tonn., 10.000 HP e 18 nodi. Nel decennio successivo si compie l'ultimo passo con le navi munite di macchine alternative: nel 1893 i Campania della "Cunard" (13.000 tonn., 30.000 HP, 22 nodi); nel 1897 i Kaiser Wilhelm der Grosse del "Norddeutscher Lloyd" (14.300 tonn., 27.000 HP, 22,5 nodi), nel 1900 il Deutschland della "Hamburg-Amerika Linie" (16.500 tonn., 34.000 HP, 23,5 nodi), nel 1904 il Kaiser Wilhelm II. della stessa (19.000 tonn., 40.000 HP, 24 nodi), con i più grandi apparati motori a macchine alternative, che siano stati costruiti per navi mercantili. Gl'Inglesi riprendono il passo, adottando le turbine con i magnifici Mauretania della "Cunard" (1906-07), di 30.000 tonn., 74.000 HP e 26 nodi; passeggeri: 524 di 1ª classe, 438 di 2ª, 796 di 3ª. A questo punto la gara della velocità cessa, e predomina la tendenza verso grandissimi transatlantici con velocità più moderate, come l'Imperator tedesco del 1912 (52.000 tonn., 76.000 HP, 23,5 nodi, passeggeri 813 di 1ª, 702 di 2ª, 1327 di 3ª classe). Sembrava che il naviglio del nord Atlantico, fiore della navigazione mondiale, avesse raggiunto la perfezione, quando il disastro del Titanic (14 aprile 1912) dimostrò quanto ancora restava da fare (conferenza di Londra 1913-14); ma venne la guerra a sospendere lo sviluppo ulteriore.

Il naviglio italiano a vapore progredì in questo periodo con una certa continuità, ma con una lentezza, che non possiamo giudicare senza tener conto dello sviluppo contemporaneo, anche se intempestivo, della flotta veliera, nonché degli ostacoli economici e politici, superati dal paese solo nel primo decennio del regno di Vittorio Emanuele III.

Lo sviluppo del naviglio era ovviamente legato allo sviluppo dei traffici e all'organizzazione industriale. Le prime iniziative fortunate mirarono verso l'Oriente mediterraneo ("Florio" e "Tagliavia"), e oltre Suez ("Rubattino" "Lloyd Italiano"), iniziative che dopo circa un ventennio diedero origine alla "Navigazione Generale Italiana" (1881). Meno favorevole, in principio, l'attività verso l'Occidente: ma dopo i tentativi anteriori al 1860 della "Compagnia Transatlantica", appoggiata dal Cavour, e della "Sicula-Transatlantica", quando il movimento degli emigranti si fu sviluppato maggiormente, il traffico riprese tanto dalla Liguria (Lavarello, Piaggio, Raggio), quanto da Napoli ("Italo-Platense"), fino a che fu assorbito dai due organismi principali, "La Veloce", e la "Navigazione Generale Italiana" (1885-95).

Il naviglio a vapore di questo periodo, sebbene si cominci a costruire degnamente anche nel paese, è in gran parte di origine estera, giacché nonostante l'iniziativa pronta del Medici (1820: fabbrica di Pietrarsa) e quella posteriore del Cavour (1853: costituzione dell'"Ansaldo"), nonostante gli ardimenti dei Florio (Oretea, 1841) e degli Orlando (Genova, Pila, 1855), nonostante le prime provvidenze del governo nazionale dopo l'unità (commissione Menabrea), al momento dell'apertura del Canale di Suez purtroppo l'Italia non aveva ancora l'attrezzatura necessaria. Caratteristici dell'epoca (1870-1900) sono il Rubattino della "Navigazione Generale Italiana", il Nord America della Veloce (varo 1882, tonn. 4826, dimensioni m. 127,50 × 15,22 × 7,26; velocità 18 nodi); il Duchessa di Genova, ecc.

L'attrezzatura navale nazionale venne preparata nel periodo dal 1880 al 1900 dal Brin, dal Breda, dall'Orlando, con l'impianto di stabilimenti metallurgici (Terni, Sesto S. Giovanni, Piombino, ecc.), di stabilimenti meccanici (Ansaldo, Orlando, Guppy), di cantieri (Odero, Ansaldo, Orlando, Palermo, ecc.), di scuole medie e superiori. Questi primi elementi, completati con la collaborazione d'importanti stabilimenti esteri, inglesi e francesi, appunto nel primo '900 raggiunsero un notevole grado di perfezione, in modo da fronteggiare come quantità e come qualità il fabbisogno dell'armamento nazionale. Allo scoppio della guerra mondiale l'Italia aveva, tra gli altri, due grandi organismi navali completi: il gruppo "Ansaldo", di P. e M. Perrone (miniere e acciaierie di Cogne, cantieri di Sestri Ponente, stabilimenti meccanici ed elettromeccanici di Sampierdarena, Cornigliano, ecc.); il gruppo "Odero-Terni-Orlando", alleato con l'"Ilva" (miniere dell'Elba, acciaierie di Terni, cantieri di Livorno, di Sestri Ponente e della Foce). A lato sorgevano numerosi cantieri: del Muggiano (Fiat-S. Giorgio); del Tirreno (Riva Trigoso e Genova); i Cantieri Navali Riuniti (Palermo e Ancona); Pattison (Napoli); ecc., oltre quelli per naviglio minore e in legno (Baglietto, Poli, Svan, ecc.).

Nello stesso tempo, superata la crisi del trapasso dalla vela al vapore, ripresi attivamente i traffici, accresciuta la corrente migratoria verso l'America Settentrionale (circa mezzo milione di persone all'anno dal regno), anche la Botta mercantile nazionale prendeva una vita nuova, nonostante la concorrenza estera. Accanto alla "Navigazione Generale Italiana", sorgono la "Ligure Brasiliana" (poi "Transatlantica Italiana") nel 1898, l'"Italia" nel 1899, il nuovo "Lloyd Italiano" nel 1904, la "Sicula Americana" e il "Lloyd Sabaudo" nel 1906, principalmente per il traffico occidentale; cui si aggiungono presto altre linee per il Sud-Africa e per l'Australia. Il materiale di questi organismi, in gran parte nuovo, viene costruito nei cantieri nazionali, con un ritmo intenso, bene in contrasto con quello del decennio precedente. Il traffico dei porti italiani era allora di qualità diversa da quello dell'Europa del Nord, quindi il naviglio italiano non poteva competere con i magnifici transatlantici delle marine inglese, tedesca e francese, che si contendevano il blue ribbon; ma il progresso era notevolissimo.

La rinascita della flotta mercantile italiana può essere segnata da alcuni interessanti esemplari: il Principessa Mafalda (1909, Riva Trigoso, 10.000 tonnellate, 19 nodi) del "Lloyd Italiano", destinata ai traffici dell'America Meridionale; il Verona (1908, 8500 tonnellate, 15 nodi) dell'"Italia" per l'America Settentrionale; la nave carboniera Milazzo (Muggiano, 1910) della "Navigazione Generale Italiana"; il Città di Catania (1909, Ansaldo, Sestri Ponente, 3700 tonnellate, 14.500 HP, turbine, 22 nodi) delle Ferrovie dello Stato, ecc.

Allo scoppio della guerra mondiale la flotta mercantile italiana contava 1.541.820 tonnellate di piroscafi, di cui oltre 210.000 tonnellate di transatlantici, e 348.959 tonnellate di velieri. Al duro sacrificio, che costò all'Italia oltre un milione di tonnellate (relativamente superiore a quello di ogni altra nazione), corrispose l'importantissimo apporto della nostra marina mercantile alla causa nazionale e a quella degli Alleati, nel Mediterraneo e nell'Atlantico: la flotta transatlantica italiana trasportò il maggior numero di soldati americani in Francia, dopo la flotta inglese, e la maggior parte dell'esercito serbo fu da essa tratto in salvo.

Altrettanto vigoroso, e per certi aspetti anzi più celere e più organico, il progresso della marina triestina e fiumana - dovuto essenzialmente ad iniziative locali - nel periodo 1869-1914. Il "Lloyd", conquistato il mercato del vicino Oriente, appena aperto il Canale di Suez lanciò in India e poi verso la Cina e il Giappone i suoi bianchi piroscafi sempre più perfetti, mentre il tonnellaggio della sua flotta passava gradualmente da 70 mila tonn. nel 1876 a ben 213 mila nel 1914. Accanto ad esso, con direttive spinte verso l'Atlantico, per il servizio di emigrazione, si erano affermati a Trieste la "Cosulich" e la "Libera Triestina" (dal 1900 in poi), a Fiume l'"Adria" e l'"Atlantica". Tale intenso sviluppo era stato ottenuto quasi interamente con la costituzione di grandi istituti industriali locali: l'arsenale del "Lloyd Triestino", i cantieri di San Marco e di San Rocco (Trieste), la fabbrica di macchine di S. Andrea (Trieste), i cantieri di Monfalcone e i cantieri del Quarnaro (Fiume), che possedevano tutti un'organizzazione di prim'ordine e una geniale capacità creativa.

L'avviamento del progresso navale subì un brusco arresto allo scoppio della guerra mondiale, che esercitò un'influenza enorme sul tralfico marittimo, e un notevole effetto pure sulla tecnica delle costruzioni navali mercantili, sia per la produzione celere del tonnellaggio, necessaria a fronteggiare le perdite causate dalla campagna dei sommergibili tedeschi; sia per lo sviluppo di immensi impianti per la sua costruzione. Si disegnarono allora alcuni pochi tipi fondamentali di navi, intesi a renderne la fabbricazione più rapida possibile (tipi standard), e in modo da utilizzare anche impianti non specializzati (tipi fabricated). Questi bastimenti di guerra ebbero carene con forme semplificate e geometrizzate, tali da richiedere la minima lavorazione, nonostante la maggiore resistenza al moto e le qualità nautiche meno favorevoli, e scafi "a sezioni" in modo da poterle costruire separatamente in officine anche lontane e poi montarle sugli scali. I loro apparati motori e i macchinarî ausiliarî furono unificati in tipi di semplice costruzione e di facile condotta, obbligatorî per tutte le nuove navi, in modo da rendere celere la fabbricazione, escludendo perfezionamenti che avrebbero significato perdita di tempo: si adottarono caldaie cilindriche e motrici alternative a tripla espansione a tre cilindri. Si tentò, specialmente in America, di riprendere la costruzione di scafi di legno e compositi, e se ne misero in mare parecchie migliaia di tonnellate, con scarso successo, anzi qualche volta con gravissimi disinganni. Si giunse perfino a tentare la costruzione di navi in cemento armato per economizzare il ferro e per accelerare l'approntamento, prima in galleggianti portuali e fluviali, poi mano a mano in bastimenti anche marittimi, per dimensioni abbastanza considerevoli. Negli Stati Uniti sembra che si sia arrivati fino a 5000 tonn.; in Italia si giunse alla Perseveranza (1922, portata 2500 tonn., 150 HP). Ma per la poca resistenza del cemento alle sollecitazioni dinamiche, specialmente locali, e per l'eccessivo peso morto di tali strutture, il tentativo non ebbe seguito, se non per casi limitatissimi. Questi criterî, molto discutibili in condizioni ordinarie, permisero di superare la terribile crisi del 1917, giungendo alla produzione di circa 5 milioni di tonn. Ma la capacità totale di produzione dei cantieri alla fine della guerra era giunta a cifre enormi, difficili da precisare, giacché tutto il movimento ebbe un arresto all'armistizio anzi avrebbe dovuto averlo anche più netto, se si fosse avuta una chiara visione della situazione.

In Italia lo sforzo venne naturalmente diretto verso il tonnellaggio da carico, per quel poco consentito dalla penuria di acciaio, rigorosamente dosato dagli Alleati, e dalla preparazione del naviglio militare, minima parte della capacità dei nostri cantieri, assorbiti anch'essi, fino al parossismo, dal rifornimento dell'esercito in campagna. Quale effetto di speciali provvedimenti legislativi, per es. sui sopraprofitti di guerra, ecc., sorsero nuovi cantieri a La Spezia (Migliarina), a Napoli (Baia), a Palermo (Mondello), a Taranto (Tosi); e si svilupparono quelli esistenti. Alla fine della guerra, anzi subito dopo di essa, la capacità annuale degl'impianti, negli antichi confini del regno, toccava le 200.000 tonn., sebbene la produzione di guerra fosse stata minima.

3° periodo: dalla guerra mondiale e dall'apertura del Canale di Panamá al 1934. - La fine della guerra mondiale e l'apertura del Canale di Panamá al libero traffico segnano l'inizio dell'epoca contemporanea nell'evoluzione del naviglio mercantile, epoca che avrebbe potuto essere di florido sviluppo, se cause economiche e politiche non lo avessero subito intralciato, anzi presto travolto in una crisi senza precedenti. Tuttavia queste condizioni hanno stimolato il progresso intrinseco, dopo un primo periodo di faciloneria tecnica, che pretendeva di conservare in pace i criterî della tecnica di guerra, mentre alla "produzione di quantità" allora necessaria, bisognava sostituire la "produzione di qualità", indispensabile soprattutto durante una crisi economica.

Tutta l'attività marittima era stata sconvolta dalla guerra, con l'alterazione del corso naturale dei traffici e la soppressione della concorrenza di alcune delle più potenti marine. Questa condizione fu complicata ancor più dopo l'armistizio. A un breve periodo di fittizio benessere, che provocò un'eccessiva produzione di tonnellaggio scadente, seguì una situazione molto sfavorevole: soppresso il mercato russo, aumentati vertiginosamente e caduti poi velocemente i mercati orientali, ridotto a poco il traffico europeo, annullato il traffico degli emigranti, mentre il naviglio mercantile, come tonnellaggio e ancor più come capacità, superava assai quello del 1914. Conseguenze economiche: caduta di noli, disarmo di navi, chiusura di cantieri, fallimento e riorganizzazione di enti armatoriali; conseguenze tecniche: ricerca affannosa del perfezionamento, per produrre il naviglio più economico come costo, come esercizio, come durata.

Questo miglioramento del naviglio mercantile fu conseguito o seguendo criterî già applicati con successo nel naviglio militare, o trovando nuove vie nel perfezionamento delle carene, degli scafi, degli apparati motori. Il perfezionamento delle caretie, per renderle cioè più adatte alle alte velocità, fu compiuto con il metodo di W. Froude nelle vasche sperimentali, di cui sorsero nuovi importanti impianti (per es. a Roma, 1930, progetto G. Rota); si affinarono le estremità della nave (prore "a bulbo", poppe "a incrociatore", ecc.); si aumentò la lunghezza relativa e si diminuì la finezza longitudinale (carene tipo Mayer, Yourkevitch, ecc.); si passò a forme di murata meglio avviate e tondeggianti (Isherwood); si avvicinarono le forme delle carene dei bastimenti da carico a quelle dei precedenti bastimenti da passeggeri, e queste ultime a quelle delle veloci unità militari, senza perdere le buone qualità nautiche, sempre fondamentali. Si perfezionarono le appendici, che offrono tanta resistenza al moto, con bracci e timoni di tipo speciale (Oertz, Simplex, ecc.); si studiarono eliche più efficienti; si adottarono sistemi intesi ad accrescerne il rendimento (avviamenti di poppa, controeliche Star, ecc.). Seguendo tali concetti, a pari dislocamento e velocità, una carena moderna può forse assorbire una potenza quasi metà dì quella richiesta da una carena di anteguerra, tanto che in parecchi casi si sono modificati con analoghi criteri anche bastimenti già in servizio.

L'affinamento nella costruzione dello scafo, inteso ad ottenere economia di peso e aumento di robustezza, si è ottenuto sostituendo in qualche caso alla costruzione puramente trasversale o a quella strettamente longitudinale (ben adatta solo per navi speciali), la costruzione "mista", nella quale cioè le parti basse e alte dello scafo sono del tipo longitudinale, e quelle intermedie del tipo trasversale, mentre altri propugna strutture più lontane da quelle normali (sistema G. Wrobbel a diagonale, ecc.), mantenendo sempre le forme generali tradizionali dello scafo, perché più marine, e adottando nella distribuzione dei locali interni il concetto di fare stive sempre più grandi e più libere da ingombri nei bastimenti da carico, e sovrastrutture sempre più spaziose, aereate e luminose nei bastimenti da passeggeri. Gli elementi strutturali dello scafo sono diventati meno numerosi e più robusti, e si è accentuata la tendenza ad utilizzare, nei riguardi della robustezza generale, le grandi sovrastrutture, sviluppatesi in maniera imponente.

Allo stesso fine di economia di peso si adoperano metalli più resistenti (acciai speciali) o più leggieri (leghe di alluminio e di magnesio), i primi nelle strutture più cimentate (fondi, doppî fondi e ponti superiori), i secondi invece in quelle meno importanti (accessorî, divisioni, ecc.), perché troppo duttili e in genere ancora facilmente corrodibili. L' impiego di acciai speciali consente di far lavorare di più il materiale e di costruire scafi più leggieri, ma per provvedere alla rigidezza dello scafo bisogna adottare insieme un'adeguata distribuzione di materiale (costruzione longitudinale), necessaria nelle navi veloci, molto lunghe e relativamente basse. Notevole contributo alla rigidezza delle strutture e alla leggerezza dello scafo ha portato la parziale sostituzione della saldatura (autogena e ancor più elettrica) alla chiodatura; innovazione che, ormai adottata largamente nella marina militare e in parte nella marina mercantile, tende a estendersi, con sensibili vantaggi, anche se con qualche difficoltà di esecuzione.

Nella costruzione degli scafi si sono seguiti concetti più rigorosi e qualche volta nuovi per tutto quanto riguarda la sicurezza, specie nella compartimentazione contro gli allagamenti e contro gl'incendî, come conseguenza delle prescrizioni internazionali concretate nelle nuove conferenze di Londra del 1929 (sicurezza della vita umana in mare) e del 1930 (bordo libero): il progresso tecnico ha consentito di fronteggiare queste nuove provvidenze senza troppo aggravio sul rendimento della nave, aggravio del resto quasi senza conseguenze economiche, dovendo essere eguale per tutti.

Il progresso degli apparati motori, anche più appariscente di quelli ricordati, ha portato il trapasso quasi completo dal carbone alla nafta, e l'adozione di motori a combustione interna o di apparati motori a vapore ad alta pressione ed alta temperatura, e a forte numero di giri. L'impiego della nafta in luogo del carbone, ormai generale nelle navi da passeggeri, ha consentito una considerevole economia diretta di peso (un terzo a un quarto) perfino nei vapori, per il minore consumo unitario e il forte risparmio di spazio, perché il combustibile liquido si può stivare e manovrare in maniera semplice e celere, con indiretto vantaggio per l'utilizzazione del volume e del dislocamento. Le alte velocità raggiunte negli ultimi anni, e facilmente conservate in lunghe navigazioni, sono essenzialmente dovute al combustibile liquido.

I motori a combustione, superato il periodo sperimentale interrotto dalla guerra, si sono diffusi nel decennio 1920-30, per i loro vantaggi di economia di consumo (circa 0,160÷0,180 kg. di nafta per HP e per ora) e di economia di spazio (locali apparato motore e depositi combustibile), per potenze fino a 28.000 HP nei transatlantici (Augustus) e fino a 6000 HP nelle navi da carico celeri a un solo motore (Barbarigo). I vantaggi sono stati così forti da permettere la creazione di un nuovo tipo di nave, la nave da carico celere (liner), capace di fare il giro del mondo senza rifornimento di combustibile.

Le caldaie ad alta pressione e alta temperatura, e a combustibile liquido, ancora prevalentemente del tipo cilindrico ma con tendenza verso tipi a tubi d'acqua (Ausonia, 1928) o anche più nuovi, hanno raggiunto grandi potenze (oltre 12.000 HP ciascuna), grandi intensità di produzione di vapore, alti rendimenti, piccolo ingombro, peso limitato. Le turbomotrici ad alto numero di giri (4000÷6000), leggerissime, compatte, economiche (3 kg. di vapore per HP e per ora) non hanno limitazioni di potenza, ma richiedono l'interposizione di un riduttore con elica, la quale, per essere efficiente, deve avere un basso numero di giri (80÷100) in relazione alla velocità del bastimento. Questo riduttore è meccanico (a ingranaggi) o elettrico, il primo più semplice ed economico, il secondo più complesso e flessibile. Naturalmente la tradizionale macchina a vapore alternativa, con caldaie a carbone, si difende con l'impiego di combustibile polverizzato e di griglie automatiche, con il basso costo dell'impianto e dell'esercizio.

Così i varî tipi si specializzano e si completano, senza bandirsi definitivamente. Oggi le turbomotrici con riduzione a ingranaggi (Rex) o con trasmissione elettrica (Normandie) sono prevalenti nei bastimenti di grandissima potenza (100÷150 mila HP) e forte velocità (25-30 nodi); i motori a combustione interna nei bastimenti di media potenza (20 a 30 mila HP) e moderata velocità (18-22 nodi); i motori a combustione interna e le macchine a vapore alternative nei bastimenti di piccola potenza e di bassa velocità. Le turbomotrici con caldaie a nafta (Rex, Conte di Savoia, Europa), hanno permesso di raggiungere velocità di circa 30 nodi (Rex 29,61 nodi) con 50-60.000 tonn., e consentiranno probabilmente di costruire il four-days liner, il transatlantico capace di fare il tragitto Europa-America in quattro giorni.

Accanto allo sviluppo degli apparati motori (vedi appresso) nel dopoguerra si è avuto un impulso straordinario in tutti i servizî ausiliarî di bordo - del resto già bene avviati anche nel periodo precedente - per migliorare le condizioni di abitabilità e di rendimento economico della nave, per renderne sempre più certo il funzionamento, più agevole la manovra e più sicura la navigazione.

Nei servizî per la sicurezza della navigazione si sono perfezionati: la forma e la manovra dei timoni, provvedendo mezzi automatici per il governo, in modo da rendere la rotta della nave più uniforme possibile (v. timone); i sensibili apparecchi delle varie sistemazioni relative alla navigazione propriamente detta, mezzi di segnalazione radiotelegrafica e radiotelefonica, indicatori di rotta, rilevatori di profondità, indicatori di velocità, trasmettitori di ordini meccanici ed elettrici tra le varie parti della nave, sopra tutto fra il ponte di comando e le macchine. Nello stesso tempo si sono estese considerevolmente, sebbene ancora con carattere sperimentale, le sistemazioni stabilizzatrici antirollanti, attive (Sperry) e passive (Frahm).

I servizî relativi alla sicurezza del personale in genere, specie sulle navi da passeggeri (cioè navi con sistemazioni permanenti per almeno 12 passeggeri), hanno avuto uno sviluppo grandioso. Contro gli allagamenti, oltre alla compartimentazione, affidata alle paratie e ai ponti stagni, si sono perfezionati: la manovra a distanza delle relative porte stagne (sistemi Stone, Atlas, ecc.), concentrandone la manovra in apposito locale; i mezzi di esaurimento, mediante pompe elettriche, opportunamente decentrate; ecc. Contro gl'incendî, specialmente dopo alcuni dolorosi disastri (Philippar, 1931, ecc.), oltre alla compartimentazione, si è curato l'allestimento escludendo materiali e pitture combustibili, ampliando i mezzi repressivi (con acqua, con gas inerti, con apparecchi a schiuma), organizzando in modo celere ed efficiente l'impiego di tali mezzi (avvisatori termici, elettrici, a fumo) in apposite centrali. Per sfuggire infine alla nave in caso di estrema necessità (giacché la nave è e deve essere costruita quale elemento intrinsecamente più sicuro) si sono moltiplicate le imbarcazioni di salvataggio (posto per tutti), facendole più grandi (fino a 150 persone ciascuna), più marine, e anche automobili (Rex); rendendone la manovra agevole e celere, malgrado il loro peso e l'eventuale inclinazione della nave, l'accesso comodo, l'imbarco dei passeggeri rapido, e aggiungendovi a complemento galleggianti varî di fortuna (zattere, salvagenti) e mezzi opportuni per l'illuminazione (centrale di emergenza), anche quando la nave sia allagata. Provvidenze che vanno completate soprattutto con l'esercizio degli equipaggi e dei passeggeri, come prescrive, p. es., il prezioso regolamento italiano di sicurezza (1927-32).

Particolare sviluppo hanno avuto i servizî del carico, per facilitare la manovra, lo stivaggio e lo sbarco. I picchi e le gru si sono moltiplicati, con capacità adatta al carico (fino a 25 e più tonn.) e con verricelli a vapore o elettrici, di facile e pronta manovra, con la tradizionale sistemazione a doppio picco (yard and stay), sebbene in casi particolari di determinati carichi si siano adottati impianti più complessi e perfino completamente automatici.

In tutto quanto riguarda il conforto per i passeggeri la fantasia della meccanica si è sbizzarrita: la ventilazione, il riscaldamento e la refrigerazione regolabili di tutti i locali; l'illuminazione sfarzosa degli ambienti comuni e privati; i bagni e i locali igienici riforniti di acqua corrente calda e fredda; le cucine e i forni elettrici; gli ascensori; le piscine; ecc.: risultati raggiunti specialmente con l'estensione più larga dell'energia elettrica, sempre meglio adattata alle speciali condizioni di bordo, in modo da costituire il mezzo più pratico e più sicuro, più flessibile e più leggiero per tutti gli ausiliarî di bordo. Le centrali elettriche raggiungono migliaia di kW, sia a vapore (turbodinamo), sia a combustione (dieseldinamo); la loro energia viene in massima distribuita come corrente continua a media tensione (110/220 volt), a due fili, ma già si hanno impianti a corrente continua a tensione maggiore, a intensità variabile o costante, e impianti a corrente alternata. Gli impianti e i macchinarî sono costruiti con speciali accorgimenti e con materiali adatti contro l'acqua e l'aria salmastra, secondo i particolari regolamenti dei Registri e delle Associazioni tecniche, i quali determinano le condizioni necessarie per le reti di distribuzione, comprese le misure contro gl'incendî, per i generatori, per i motori. Accanto agli ausiliarî elettrici, in qualche caso particolare si sono conservati sistemi più complessi elettro-idraulici, che posseggono qualità special) in relazione a qualche servizio (servomotrici del timone), e uniscono i vantaggi dei sistemi elettrici e idraulici (Williams-Janney, Hele-Shaw-Martineau, ecc.).

Insieme con questi perfezionamenti di ordine meccanico, si sono avuti gli sviluppi o le variazioni relative a tutto l'arredamento, tanto nel campo costruttivo quanto in quelli artistico e alberghiero. Nel campo costruttivo si sono moltiplicati i grandi locali comuni, vasti e senza ingombri, deviando, quando necessario, perfino i fumaioli delle caldaie, e si sono diffuse le cabine a illuminazione naturale diretta e con spaziose verande. Indice di questo aumento del conforto è il volume destinato ad ogni passeggero, passato da mc. 55 sul Roma a oltre 70 mc. sul Rex, ossia dal fatto che i bastimenti nuovi più grandi portano oggi meno passeggeri di bastimenti meno recenti più piccoli. Le sistemazioni relative alle necessità e al comodo dei passeggeri si sono sviluppate in modo grandioso, anzi forse eccessivo, tenendo conto che le accresciute velocità hanno ridotto di tanto le traversate, proprio su quelle rotte dove esse raggiungono il colmo, imposto dalla concorrenza, per ora solo marittima. Il personale di camera è oggi più numeroso dell'equipaggio. Nella decorazione, dopo il dominio di uno stile artificioso, che pretendeva di portare a bordo stili di altri tempi e di altri ambienti, eccessivamente pesanti, si tende ad adottare uno stile "navale" intonato alle caratteristiche costruttive della nave, quindi razionale, abilmente sfruttando le strutture degli ambienti, costruiti armonici, vasti e senza ingombri. Il Victoria del "Lloyd Triestino" e il Conte di Savoia dell'"Italia" offrono begli esempî di questa tendenza, applicata con buon gusto e senza esagerazioni, trionfo di bellezza sana e organica.

A causa delle fluttuazioni dei traffici e della crisi attuale, lo sviluppo del naviglio ha seguito un ritmo piuttosto disordinato, ma alla fine ha trovato la sua giusta via eliminando i tipi troppo particolari, anche se con qualche speciale dote, evitando tutto quanto non è marino e pratico, condannando a fine precoce tutta la scadente massa di tonnellaggio di guerra, costruito durante le ostilità, e in America anche dopo, per parecchi milioni di tonnellate.

Nel traffico transatlantico dei passeggeri, al movimento degli emigranti si sostituì quello dei turisti, migliorando le antiche sistemazioni di terza classe (classe turistica, classe unica), che oggi si presentano completamente rinnovate, indice chiaro della trasformazione sociale negli ultimi decennî. Accanto ai pochi grandissimi colossi celeri transatlantici, che dopo il 1928 hanno ripreso la tendenza dell'anteguerra verso il tipo cosiddetto dei "quattro giorni", e di cui oggi esistono (1934), costruiti o in costruzione, sette soli campioni in tutto il mondo (Rex e Conte di Savoia italiani; Bremen ed Europa tedeschi; Mauretania e Queen Mary inglesi; Lorraine francese); si sono moltiplicati i grandi bastimenti (20-30 mila tonn.) con velocità moderate (20-22 nodi) e con comode sistemazioni. Subito dopo la guerra si era constatata una qualche incertezza nell'indirizzo da seguire e si ebbero unità relativamente piccole e lente, ma il favorevole esempio italiano (G. Cesare, 1921; Duilio, 1923; Roma, 1926) e francese (Paris, 1921; Île-de-France, 1926) indussero tutti a riprendere la tendenza verso le grandi dimensioni, finché si ebbero i Bremen tedeschi (1928, 51.656 tonn.), i Rex italiani (1932, 51.062 tonn.), infine il Normandie francese (varo 1933, 79.280 tonn.) e il Queen Mary (varo 1934, 73.000 tonn.) e il suo gemello, inglesi, ora (1934) in costruzione.

Eguale progresso si nota nel naviglio delle altre linee, sia nelle motonavi, nuovo portato del dopoguerra, sia nelle turbonavi: caratteristici i Victoria ("Lloyd Triestino") per le linee dell'India; i Giulio Cesare ("Italia") per le linee del Sud-Africa; l'Atlantique (Messageries Maritimes") e l'Augustus ("Italia") delle linee dell'America Meridionale, lo Stadenman ("Holland-Amerika Linie") e la Queen of Bermuda ("Furness") per l'America Settentrionale; il Città di Palermo ("Tirrenia") per la Napoli-Palermo, ecc.

Nel campo delle navi miste, l'introduzione degli apparati motori a combustione ha consentito di trarre maggior vantaggio dal volume e dal dislocamento, con sistemazioni migliori, sotto ogni punto di vista, di quelle delle navi da passeggeri del decennio precedente: tali le motonavi Esquilino ("Lloyd Triestino"), per il servizio oltre Suez, e Virgilio ("Italia") per i servizî oltre Panamá.

Nel campo delle navi da carico, come s'è già accennato, i motori a combustione hanno prodotto la maggiore rivoluzione col cargoliner di notevole velocità (14÷16 nodi) e grandissima autonomia, nuovo concorrente della classica nave da trasporto del periodo precedente, il tramp: tali i Barbarigo della "Soc. Veneziana di Navigazione" (1930, 5300 tonn., 15 nodi). Di fronte al liner la nave da carico vagabonda cerca difesa nel miglioramento delle forme, nell'adozione di motrici a vapore semplicissime e di poco costo iniziale, nell'impiego di carbone: così l'Arcwear (1934) dell'Isherwood.

Fra le navi speciali hanno preso enorme sviluppo, e costituiscono la maggioranza del tonnellaggio costruito negli ultimi anni, le cisterne per nafta (circa 9 milioni complessivamente), generalmente con motori a combustione, perfettamente organizzate per il loro speciale compito (centrale pompe), di costruzione robustissima, bene compartimentate e chiuse (godenti perciò di speciali bordi liberi ridotti): per es. le Hague di 18.000 tonn. di portata, costruite dal cantiere di Monfalcone.

Meritano ricordo lo sviluppo delle navi frigorifere, destinate al trasporto di carne dall'Argentina e dall'Australia in Europa, e delle frutta dall'Africa in Europa: come il Capitano Bottego dell'"Itala-Somala", e delle navi traghetto (ferry-boats) che si sono adottate anche per lunghe traversate (Norvegia-Inghilterra, Florida-Cuba), con dislocamenti di migliaia di tonnellate, per treni di decine di vetture, come il Cariddi (2800 tonn., diesel-elettrico, 17 nodi) delle Ferrovie dello Stato. Fra i tipi più particolari sono: le unità destinate al trasporto delle automobili montate dall'America in Europa, con speciali sistemi per l'imbarco e lo sbarco delle macchine; quelle per le grandi pesche polari, grandiosi stabilimenti chimici galleggianti di oltre 10.000 tonn.; le navi rompighiaccio di grandi dimensioni e di complesso disegno, a propulsione diesel-elettrica (Erik svedese); le navi di salvataggio, ecc., fino a quelle destinate al trasporto di interi sommergibili (Kanguroo francese, Ceará italo-brasiliano) o di monoliti marmorei, fino ai rimorchiatori d'alto mare e da porto, i quali negli ultimi tempi, pur conservando le loro straordinarie qualità nautiche, hanno adottato la propulsione diesel-elettrica, con la massima sicurezza e prontezza di manovra, che vien fatta direttamente dal ponte di comando (rimorchiatori dei Cantieri Navali Riuniti per la R. Marina).

Circa la situazione attuale del naviglio, accenniamo solo che la marina britannica continua a conservare il suo posto preminente, ma relativamente più debole del decennio scorso, sebbene per il suo naviglio la qualità compensi la quantità; gli Stati Uniti hanno conquistato un posto quantitativamente notevolissimo, ma, specie per le costruzioni di guerra, di non eguale valore intrinseco; la Germania ha ricostituito in gran parte la sua magnifica marina con un ammirevole sforzo e con materiale ottimo; il Giappone, le nazioni scandinave e l'Olanda si sono provvedute di flotte mercantili di prim'ordine, come quantità e come qualità. Merita speciale attenzione la situazione della Norvegia, che possiede la quarta flotta mercantile del mondo (subito dopo Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone) e forse la più grande flotta petrolifera del mondo, pur senza possedere né grande traffico proprio, né organizzazioni petroliere, né grandi cantieri.

Il naviglio italiano, dopo la fusione con le flotte italiane di Trieste e di Fiume e la ricostruzione, ha compensato le gravi perdite subite nella guerra mondiale, e con la grande attività del regime fascista ha sensibilmente migliorato sia la qualità del naviglio (rinnovamento del materiale), sia l'organizzazione armatoriale (accentramento e divisione di lavoro per il traffico passeggeri: v. italia: Marina mercantile). Lo sviluppo principale si è verificato nella flotta da passeggeri, con grandi e veloci unità nuove, costruite interamente in Italia, in misura tale da imprimere a tutto il traffico di passeggeri del Mediterraneo un tono eguale a quello delle rotte del nord Atlantico. La flotta italiana comprende oggi due grandiose turbonavi velocissime dell'"Italia": Rex (Ansaldo, 1932) e Conte di Savoia (Cantieri Riuniti dell'Adriatico, 1932); la prima notevole per la sua altissima velocità, che ha fatto conquistare all'Italia il "nastro azzurro" dell'Atlantico la prima volta nella storia (traversata Gibilterra-New York, agosto 1933: 3181 miglia; velocità media: 28,92 nodi; velocità massima per 24 ore: 29,61 nodi); e la seconda memorabile per la sua stabilizzazione giroscopica, "la nave che non rolla", la più grandiosa sistemazione stabilizzatrice finora tentata (v. stabilizzatore). Alla bandiera italiana appartengono inoltre: la più grande motonave del mondo, Augustus, dell'"Italia" (32.650 tonn., 21 nodi, 28.000 HP, Ansaldo, 1927); il più veloce mototransatlantico: l'Oceania della "Cosulich" (1933, 19.507 tonn., 24.000 HP, 22,8 nodi), la più veloce motonave: la Victoria del "Lloyd Triestino" (1931, 13.000 tonn., 18.000 HP, 23,5 nodi). Infine i bei piroscafi: Conte G.ande, 1928 (25.661 tonn., 22 nodi); Roma (1926, 32.583 tonn., 21 nodi); Principessa Maria (1923, 8500 tonn., 15 nodi), tutti dell'"Italia", la motonave celere Città di Palermo della "Tirrenia" (1930, 5000 tonn., 19 nodi), ecc. La flotta da carico italiana, a causa della crisi formidabile, ha seguito un ritmo di rinnovamento più lento: sono caratteristiche come navi da carico celeri (cargo-liners) le motonavi Barbarigo della "Soc. Veneziana di Navigazione" per il traffico delle Indie, e come tramps le navi a vapore della "Soc. E. V. Parodi" tipo Bainsizza (1930, 11.000 tonn., 10-11 nodi), che detiene il record di celerità di discarica (circa 4400 tonn. nelle 24 ore).

La ricostruzione della flotta mercantile italiana è stata compiuta nei cantieri italiani che, dopo l'accrescimento eccessivo seguito alla guerra mondiale, si sono assestati in organismi più robusti, sebbene ancora forse troppo numerosi. Così la "Ansaldo S. A." di Genova Cornigliano, con cantieri a Sestri Ponente, costruttrice dello scafo e delle macchine dei tipi Rex, Augustus, Ausonia; la "Odero-Terni-Orlando", con cantieri a Sestri Ponente, Muggiano, Livorno (S. Rocco); i "Cantieri del Tirreno" e i "Cantierì Navali Riuniti" di Genova, con cantieri a Riva Trigoso, Palermo e Ancona, costruttori dei tipi Esperia, Città di Palermo; i "Cantieri Tosi" di Legnano, con cantiere a Taranto, costruttori dei Principessa Maria; i "Cantieri Riuniti dell'Adriatico" di Trieste, con cantieri a Monfalcone, Trieste e San Rocco, costruttori dello scafo e dell'apparato motore dei Conte di Savoia, Conte Grande, Oceania, Saturnia; i "Cantieri del Quarnaro" di Fiume, ecc.

Il naviglio militare moderno. - 1° periodo: dall'introduzione del ferro e del vapore alla nuova nave da battaglia e all'apparizione del siluro (1840-1876). - La nave da battaglia a vela, con scafo in legno, dominante fino alla guerra di Crimea (1855), si modificò prima con l'introduzione delle corazze (Gloire di S. Dupuy de Lôme), si trasformò poi con l'adozione degli scafi in ferro (Warrior di J. Watt) e con l'esclusione assoluta della propulsione a vela, prima adottata a fianco di quella a vapore (Napoléon del Dupuy de Lôme). La costruzione in ferro solo lentissimamente era penetrata nelle marine da guerra per le preoccupazioni relative alla protezione, che giustamente non si riteneva assicurata dalle sottili lamiere di ferro del fasciame. Nella marina militare della Gran Bretagna, patria del Laird e del Brunel, le applicazioni ne furono per gran tempo limitate a rimorchiatori e a vapori postali. Solo nel 1843 si passò a navi di qualche valore bellico, corvette e avvisi a ruote, e poi nel 1845 ad unità a elica (Simoon, fregata: 18 cannoni, 1980 tonn.). Ma subito l'Inghilterra e la Francia si arrestarono, dopo l'esito negativo di alcune prove al tiro contro lamiere di ferro (1840-1850), tanto che le navi di ferro già costruite furono tolte dal naviglio combattente. Soltanto la corazza diede libero passo alla costruzione in ferro, come acutamente intuì l'Ammiragliato inglese, quando decise di costruire, come risposta al Gloire francese, una corazzata tutta di ferro, il Warrior, riunendo così gli elementi dello scafo militare moderno: leggerezza e robustezza, protezione e incombustibilità. Il Warrior, per metà della sua lunghezza al centro, aveva le murate coperte di corazze di circa 12 cm., fissate sopra il fasciame di ferro, con interposto un cuscino di legno. L'esempio innovatore del Warrior lentamente fu seguito dalle altre marine, più fedeli alla tradizione: l'esclusione degli scafi di legno avvenne in Italia nel 1867 e in Francia nel 1872, dopo un periodo d'incertezze e di prove con navi miste di legno e di ferro.

Accanto a questa innovazione, ed anzi prima ancora di essa, era maturata l'adozione della propulsione meccanica, che, preconizzata dal Fulton stesso per le navi da guerra (Demologos), era stata tentata fra il 1820 e il 1840 sopra unità minori (di basso bordo), solo come ausiliaria della vela e con molte esitazioni, perché richiedeva la sistemazione delle ingombranti ruote propellenti, a murata, al centro, proprio in corrispondenza delle batterie, dove si dovevano disporre i cannoni, perciò assai ridotti di numero. Soltanto intorno al 1840, con l'introduzione dell'elica, appunto studiata per la marina militare, dopo che l'esperienza ebbe dimostrato l'efficienza e la sicurezza del nuovo sistema, si era tentata la prima adozione del vapore come ausiliario sui bastimenti d'alto bordo con il primo vascello ad elica, il Napoléon del Dupuy de Lôme.

Il brillante risultato del Napoléon (episodio dei Dardanelli, 1855) aprì l'applicazione del vapore perfino ai vascelli già costruiti, che venivano allungati e provveduti di macchine, ma la velatura, benché diventasse a poco a poco il mezzo ausiliario di propulsione, fu conservata per anni, finché le nuove sistemazioni delle artiglierie ne consigliarono l'esclusione definitiva (1870-75). Ma quanti dubbî e incertezze in questo periodo! Basti citare il vascello inglese Goliath, da 80 cannoni, che fu costruito, modificato e ricostruito tre o quattro volte, senza riuscire mai a prendere il mare, finché venne demolito.

L'adozione del vapore e della corazza aveva trovato seguito anche in Italia: nel 1834 a Castellammare di Stabia si erano costruite tre corvette a vapore (tipo Santa Wenefrede) e nel 1840 sette fregate a vapore (tipo Carlo III), con macchine da 300 HP, e nella campagna del '48 la marina napoletana aveva messo in linea un numeroso naviglio a vapore, con personale di macchina tutto nazionale; la piccola marina sarda nel 1835-40 aveva varato al cantiere della Foce le navi a ruote Icnusa e Malfatano, poi la corvetta Tripoli (1847), ma con personale di macchina inglese; e la marina, che ufficialmente si chiamava ancora la "I. e R. Marina Veneta", possedeva la corvetta a ruote Vulcano. Quando il Cavour prese la direzione della marina sarda, e poi della italiana, il naviglio militare si accrebbe delle belle fregate a vapore tipo Maria Adelaide, di F. Mattei (3460 tonn., 38 cannoni da 22 cm., 600 HP, 13 nodi, vasti carbonili), che parteciparono brillantemente alle azioni di Ancona e Gaeta. Il Cavour, saggiamente consigliato, comprese l'importanza della rivoluzione tecnica che stava maturando in Francia e già nel 1859 ordinava ai cantieri della Seyne le prime corazzate di legno (Terribile, 2850 tonn.) e subito dopo altre due grandi in America (Re d'Italia e Re di Portogallo, 5700 tonn.). Per le nostre condizioni industriali, nella urgente preparazione per le guerre di indipendenza, fu necessario ordinare all'estero le successive unità di ferro (Maria Pia, Palestro, ecc.), e in Italia le unità di legno (Roma, Messina, ecc.), mentre si tentavano le costruzioni miste (Conte Verde, Venezia), per poi passare alle costruzioni di ferro anche da noi. I continuatori del Cavour (C. Persano, L. Menabrea, ecc.) seguirono le sue tracce, e nel 1865 acquistavano in Inghilterra una delle prime corazzate del mondo, di ferro e a torri, armata con 2/254, l'Affondatore.

I problemi da risolvere nel trapasso dai vascelli di legno a vela alle corazzate a vapore e di ferro erano grandi e difficili: la forma della carena, che si doveva adattare alle nuove velocità, pur conservando buone qualità nautiche; la struttura dello scafo, che doveva essere anche più robusta dell'antica, per sostenere le maggiori velocità con qualunque rotta (non più obbligata dal vento), e più leggiera, per portare lo stesso peso di artiglieria, nonostante i nuovi pesi della corazza, dell'apparato motore e del combustibile, la stabilità, che si presentava così diversa, per la nuova distribuzione dei pesi, usuali e nuovi, per la differente forma delle carene, per la mancanza della velatura e l'azione delle eliche; la velocità, ossia il proporzionamento della potenza necessaria, senza elementi sperimentali d'appoggio. Inoltre si presentavano i problemi puramente militari dell'offesa (artiglieria) e della difesa (corazzatura), per quella gara che subito allora si accese tra questi due fattori contrastanti, e che non è ancora chiusa.

Per vincere la nuova difesa, l'artiglieria doveva aumentare la sua potenza, quindi aumentare o il calibro o la velocità iniziale: in quel tempo si seguì la prima via, salendo successivamente col calibro da 20 a 30 e perfino a 40 cm., e quindi portando il peso dei cannoni in pochi anni fino a 100 tonn., con manovra meccanica (Mattei-Armstrong), ma con tiro assai lento (un colpo ogni quarto d'ora). L'aumento del peso dei singoli cannoni obbligò a diminuirne il numero, benché il dislocamento crescesse: dai centoventi cannoni dei vascelli del 1850 si scese a poche dozzine, e infine a meno di dieci, sopprimendo le medie artiglierie.

Corrispondente fu l'incremento della capacità difensiva, come grossezza e come estensione della corazza di murata: dapprima si cercò semplicemente di corazzare l'intera murata (Gloire francese, Re d'Italia italiano), ma, per non eccedere nel peso, si dovette ridurre la superficie corazzata o ad una sola zona centrale (navi a "ridotto") dal galleggiamento alla coperta (Warrior inglese, Terribile italiano); o ad una striscia di corazza di moderata altezza (navi a "cintura") per tutta la lunghezza della nave in corrispondenza del galleggiamento (Affondatore italiano, Océan francese); o ad una "cintura" insieme con una batteria centrale corazzata per le artiglierie, navi a cintura e batteria corazzata (Bellerophon inglese, Maria Pia italiana). Alcune di queste navi ebbero di legno le zone corazzate e subacquee, e di ferro le parti non corazzate esterne.

Un altro metodo di difesa si andava studiando da É. Bertin: il "sistema cellulare", il quale, tenuto conto del lentissimo fuoco e dell'azione semplicemente perforante dei proiettili di grosso calibro di allora, cercava non di tenerli fuori, ma di limitarne l'azione, suddividendo minutamente il volume della nave a murata in piccoli spazî, "cellule", vuote o piene di materiali ingombranti e leggieri.

I due sistemi, corazza e compartimentazione cellulare, si dovevano poi fondere nelle successive navi francesi, con la cosiddetta "zattera corazzata cellulare", in corrispondenza del galleggiamento, costituita dalla cintura corazzata di murata e da due ponti protettivi, in maniera da formare nell'insieme una zona impervia alle offese, a garanzia della galleggiabilità e della stabilità della nave. Concetto organico che, opportunamente esteso, troviamo ancora nelle navi moderne, ma che allora, per le eccessive limitazioni (specialmente di altezza, soli 50 cm. sul mare, Amiral Duperré, 1879), possedeva poco valore, come risultò manifesto alla luce dell'esperienza.

Fino a questo momento l'armamento era disposto in base ai concetti dei vascelli (batterie a murata con tiro, da stretti sabordi, al traverso): armonico complesso tra l'armamento e la velatura. Ma la riduzione del numero dei grossi cannoni non consentiva di averne a sufficienza per ogni fianco, mentre le loro cresciute dimensioni ne rendevano difficile la sistemazione negl'interponti. Allo scopo di dare alle armi un campo più vasto, possibilmente su ambedue le murate, pur con una efficace protezione, fin dalla guerra di Crimea il comandante inglese C. Coles aveva proposto la sistemazione delle artiglierie in torri corazzate, brandeggiabili, che raggiungevano i due scopi anzidetti. Ma il nuovo sistema urtava contro parecchi ostacoli: intrinseci (grande peso: centinaia di tonnellate in luogo di una decina dei più grossi pezzi in batteria; difficoltà di manovra, lenta e complessa, anche perché manuale) ed estrinseci (interferenza con le sistemazioni di coperta e con l'alberatura). Quindi l'idea della sistemazione dei cannoni in torri poté essere applicata solo alcuni anni dopo (1860-70), quando tutto il concetto della nave era mutato, anzi gl'impianti in torri costituirono il fattore artiglieristico necessario per la grande trasformazione navale in corso, cambiando perfino l'aspetto delle navi da guerra e imponendo l'abolizione di ogni velatura, del resto ormai superflua.

Nella guerra di Secessione (1861-65) venne a cadere il tradizionale concetto dell'armamento laterale in batterie sovrapposte, e l'idea nuova dell'armamento in torri girevoli fu definitivamente realizzata dall'ingegnere svedese J. Ericsson con il Monitor dei Federati, unità fluviale con minimo bordo libero (1200 tonn., 9 nodi), armata di una speciale torre corazzata girevole con due cannoni da 280 mm., difesa con corazze di cm. 20, e con un ponte coperto con lamiere di ferro di 2,5 cm. Il celebre combattimento Monitor-Merrimac (marzo 1862) dimostrò l'efficacia del nuovo sistema, come la precedente azione tra il Merrimac (fregata confederata, corazzata con mezzi di fortuna) e il Cumberland aveva confermata l'importanza decisiva della corazza. Il nuovo concetto doveva essere ancora perfezionato architettonicamente per la stabilità e per la tenuta al mare (naufragio del Monitor, dicembre 1862, e del Captain inglese, 1870). Ma il progresso fu celere: già nel 1865 il monitore americano Miantonomoh riusciva a traversare l'Atlantico, e in meno di dieci anni tutto il problema architettonico poteva considerarsi risolto: periodo assai breve, considerandone la novità e la complessità, e la necessità di una conveniente esperienza effettiva delle successive proposte. Lunghe e acerbe furono le discussioni, faticosi e tragici i tentativi: il Coles stesso doveva dividere il fato del suo Captain, che i progressi delle artiglierie dimostrarono logico e quelli dell'architettura navale resero pratico, specialmente quando si arrivò ai cannoni a retrocarica tipo Armstrong, ecc. (provati e accettati in un primo tempo, poi ripudiati, per essere infine definitivamente adottati in Francia, in Italia, e infine in Inghilterra, 1860-80).

La guerra di Secessione vide pure rinnovata l'antica tattica dell'attacco con lo sperone, eccezionale con le navi moderne (episodio del Ferdinand Max a Lissa, 1866), ma che allora ebbe un certo influsso, da un lato transitorio verso la costruzione di navi appositamente disegnate per l'impiego del rostro (Polyphemus inglese, Taureau francese); dall'altro durevole a favore dell'armamento in torri, con la dimostrazione dell'importanza del tiro per chiglia.

Il primo decennio (1860-70) della corazzata a vapore aveva concretato i suoi elementi fondamentali militari (armamento e difesa) e tecnici (forma di carena, scafo e macchine); ma restava ancora il problema generale della potenza e della disposizione dell'armamento, problema insieme di artiglieria e di scafo, risolto solo separando la protezione delle armi da quella della carena, che nei bastimenti "a batteria" si fondevano. Prima si ebbe l'accoppiamento delle torri e delle batterie (Océan francese, 1866) in una forma comune di vascello; poi l'adozione integrale delle torri, in monitori modificati in una nuova forma marina, come fu tentato in maniera ingegnosa da E. J. Reed (Devastation, 1869; Dreadnought, 1870).

Queste soluzioni, sebbene interessanti, non erano ancora definitive, perché mancava il concetto sintetico superiore, della nuova unità "assoluta" (come la chiamò il comandante D. Bonamico) dell'epoca moderna. Il concetto venne dato da S. di Saint-Bon, la realizzazione fu compiuta da B. Brin, con il Duilio (1872), prototipo della nuova grande nave da battaglia "senza compromessi": massima potenza offensiva e difensiva, tra loro "corrispondenti" ossia reciprocamente adeguate, alta velocità, ottime qualità nautiche, con il dislocamento elevato quanto necessario. Il Duilio (Castellammare, 1872-1876) aveva le seguenti caratteristiche: potenza offensiva travolgente (quattro cannoni Armstrong, ad avancarica, da 100 tonn. e 450 mm., i primi al mondo di questo calibro, in due torri corazzate a 480 mm.); scafo robustissimo di ferro e acciaio, con notevole bordo libero, in modo da tenere qualunque mare e da impiegare sempre le artiglierie principali; stabilità ottima, con tranquillità di piattaforma; scafo ben suddiviso, con alternazione dei depositi delle munizioni e dei locali di macchine e caldaie; difesa corrispondente all'offesa: ridotto centrale con corazze di acciaio (le prime del genere) di 550 mm., lungo metà della nave, alto fino alla coperta, comprendente le basi delle torri; ponte corazzato sopra il ridotto e fuori del ridotto (75 mm.), con sovrapposta struttura cellulare; apparato motore di 7700 HP: caldaie a carbone, parallelepipede con focolai interni a ritorno di fiamma, a bassa pressione (2 kg. cmq.), due motrici orizzontali a fodero (due cilindri ciascuna, diametro 2375 mm., corsa 990 mm., giri 83), condensatore a superficie; peso 127 kg. per HP; velocità nodi 15; autonomia 2300 a 10 nodi; nessuna velatura, un solo albero militare; dimensioni: lungh. 103,50; largh. 19,70; immers. 7,90; bordo libero al centro m. 3,50; dislocamento 10.400 tonn. Il Duilio infine avrebbe dovuto portare, in un recesso a poppa, una torpediniera.

Il nuovo concetto si diffuse: in Inghilterra il Barnaby disegnò gli Inflexible e l'Admiral class (1880), perfezionandolo con il Nile (1886), avente ridotto più lungo e armamento secondario.

Accanto all'unità da battaglia "assoluta", nacque in quel tempo in Italia l'idea del grande "incrociatore da battaglia", nave tanto prevalente come velocità e armamento rispetto a qualunque altra, da trovare in questa superiorità la propria difesa, potendo combattere fuori della portata dei cannoni nemici. Il Saint-Bon, fautore di questo concetto, che doveva essere ripreso quarant'anni dopo da Lord Fisher in Inghilterra (Glorious, 1915), fece disegnare dal Brin l'Italia (lungh. 122 m., largh. 23 m., immers. 10 m., disloc. 15.600 tonn.), armata con cannoni da 431 mm. a retrocarica, i più potenti del tempo, con velocità di oltre 18 nodi (25% in più delle corazzate contemporanee), con una potenza di 15.000 HP (oltre il doppio del Duilio); munita di una difesa molto originale, costituita cioè da un ponte subacqueo (132 mm.) a dorso di testuggine, coperto da un'alta struttura cellulare, sulla quale si elevavano i ridotti delle grandi artiglierie (corazzati con 480 mm.). Il disegno era genialmente concepito: apparato motore su due assi con quattro macchine, due gruppi di caldaie alle estremità, due ridotti delle artiglierie al centro; ma il disegno della protezione, privo di corazze a murata, logico contro l'offesa di grossi proiettili solo perforanti a fuoco lentissimo, era inadatto contro il tiro celere di proiettili scoppianti di cannoni di medio calibro che sorsero subito dopo, in maniera che queste navi perdettero presto il loro valore militare, iniziale, come aveva previsto il Brin.

Il trionfo del ferro e del vapore ebbe grande influenza anche sul naviglio minore, a parte le corazzate "costiere", tipo per sua natura transitorio e limitato, costruito solo per economia (Francia, Germania, ecc.): le fregate e le corvette, destinate all'esplorazione e alle missioni isolate, si mutarono negl'incrociatori di varie dimensioni da 500 a 4000 e più tonn., e accanto a loro sorse un naviglio nuovissimo, minimo, ma di grande avvenire, la torpediniera.

in cui V è il volume di carena, Iy è il momento d'inerzia della figura di galleggiamento AB rispetto all'asse baricentrico gy parallelo a quello d'inclinazione e Pxy è il prodotto d'inerzia della stessa figura rispetto all'asse gy e all'asse gx parallelo a CX.

Da queste espressioni si rileva che il valore della coordinata Z è infinitesimo rispetto a quelli delle coordinate X e Y; e, poiché tale proprietà sussiste per qualsiasi altro punto della superficie, preso, come C′, nei dintorni di C, si deduce che il piano CXY tocca in C la superficie. Inoltre, tale piano, per la scelta degli assi, è parallelo al galleggiamento AB; dunque:

Il piano tangente alla superficie dei centri di carena, nel centro di carena, è parallelo al galleggiamento corrispondente; la spinta del liquido, che è normale al galleggiamento, è quindi anche normale alla superficie dei centri di carena.

Si rileva altresì che il valore della Z è sempre positivo, qualunque sia il galleggiamento AB′, infinitamente vicino ad AB; ne risulta che, nei dintorni di C, il quale è un punto qualsiasi della superficie, questa è tutta situata da una stessa parte del piano tangente, e quindi è convessa.

Rispetto alla terna ortogonale CX1 Y1 Z, che ha gli assi X1 e Y1 rispettivamente paralleli agli assi principali d'inerzia u e v del galleggiamento, le coordinate di C′ sono:

in cui lu e lv sono i momenti principali d'inerzia del galleggiamento AB e ϕ è l'angolo che gv fa con gy. Le precedenti espressioni verificano l'equazione:

che è quella del paraboloide osculatore in C alla superficie dei centri di carena. Esso ha il vertice in questo punto, l'asse secondo CZ e per piani principali i due coordinati ZCX1 e ZCY1; inoltre è ellittico, perché i denominatori dei due termini del secondo membro sono essenzialmente positivi.

I raggi di curvatura principali della superficie nel punto C sono quindi:

supporremo di chiamare v la direzione dell'asse maggiore dell'ellisse d'inerzia del galleggiamento, in modo che risulti r ≤ R.

L'ellisse indicatrice nel punto C della superficie dei centri di carena è simile all'ellisse centrale d'inerzia del galleggiamento corrispondente a C e ha l'orientazione di questa.

Un asse d'inclinazione qualunque e la tangente in C alla curva corrispondente, descritta dal centro di carena per la rotazione del galleggiante, hanno direzioni coniugate rispetto all'ellisse indicatrice, o, ciò che è lo stesso, rispetto all'ellisse d'inerzia del galleggiamento.

Dalle espressioni delle coordinate di C′ si rileva che, quando ϕ = + 0 Y1 = o e quando ϕ = π/2, X1 = 0; ad eccezione di questi due casi, il primo elemento CC′ della traiettoria (fig. 92) descritta dal centro di carena è fuori dei piani principali. Nei primi due casi, le normali in C′ alla superficie incontrano la normale condotta per l'origine C, cioè l'asse CZ, e generalmente, cioè se Iu è diverso da Iv, in due punti distinti. Si chiama grande metacentro di carena o semplicemente grande metacentro, il punto d'incontro M più lontano da C; piccolo metacentro di carena, l'altro m; essi sono quindi rispettivamente i centri di curvatura in C delle due sezioni principali, contenute nei piani ZCY1 e ZCX1 e si ha

Ma sempre che l'asse d'inclinazione non coincida con uno degli assi principali d'inerzia del galleggiamento, la normale condotta alla superficie per l'estremo C′ dell'arco infinitesimo CC′ descritto dal centro di carena non incontrerà la normale condotta per C, cioè l'asse CZ, ma passerà ad una distanza da esso dello stesso ordine di grandezza dell'arco CC′. Si chiama in tal caso metacentro di carena, o semplicemente metacentro corrispondente all'asse gy, parallelo e infinitamente vicino a quello d'inclinazione MN, il piede μ, sulla normale in C, della perpendicolare μμ′ comune a questa normale e a quella condotta per C′. Il segmento ρ = Cμ si chiama raggio metacentrico della carena considerata, relativo alla direzione gy dell'asse d'inclinazione, e si ha:

La proiezione ortogonale CC″ sul piano d'inclinazione ZCX dell'arco infinitesimo CC′ descritto dal centro di carena per la rotazione dθ del galleggiante si trova sull'intersezione di tale piano col cilindro che proietta ortogonalmente su esso la superficie dei centri di carena. Il metacentro μ e il raggio metacentrico Cμ sono rispettivamente il centro e il raggio di curvatura in C dell'arco CC″.

Il raggio di curvatura nel punto C della sezione normale prodotta nella superficie dei centri di carena dal piano ZCY′, contenente la nuova posizione C′ del centro C e facente l'angolo α col piano ZCY1 è dato da:

dove ϕ è, come è noto, l'angolo che l'asse CY1 fa con CY, parallelo a quello d'inclinazione e avente la direzione coniugata a gy′ nella ellisse d'inerzia del galleggiamento. In funzione dell'angolo α, legato a ϕ dalla relazione R tg α = r cos ϕ, si ha pure: ρa = Rr/(R sen2 α + r cos2 α).

Sulla normale CZ in un punto qualunque C della superficie dei centri di carena, la punteggiata dei metacentri μ relativi alle infinite tangenti in C alla superficie, considerate come assi CY, e quella dei centri di curvatura delle sezioni normali prodotte nella superficie dai piani ZCY contenenti questi assi, si corrispondono in una involuzione iperbolica, avente per costante il prodotto Rr dei raggi di curvatura principali della superficie nel punto C. Analogo teorema sussiste per la superficie dei centri di galleggiamento e per quella dei centri delle zone. In esse però l'involuzione è ìperbolica o ellittica, secondoché i raggi di curvatura principali sono dello stesso segno o di segni contrarî.

Galleggianti cilindrici. Luoghi dei centri di galleggiamento e dei centri di carena relativi a quei piani di galleggiamento che tagliano la sola parte cilindrica della superficie del galleggiante. - Le nozioni che qui si riassumono valgono per qualsiasi galleggiante che, per tutta quella parte della sua superficie esterna nella quale sono comprese le tracce dei piani secondo i quali si suppone possa trovarsi immerso, abbia forma cilindrica con ditettrice arbitraria; le rimanenti parti della superficie del galleggiante, ossia quelle che, per tutte le posizioni che si considerano, si trovano sempre al disopra o sempre al disotto del piano di livello del liquido, possono essere di forma qualsiasi. Essendo arbitraria la forma della direttrice, le proprietà che enunceremo sussistono anche per direttrici costituite da linee spezzate, ossia per prismi con base poligonale qualsiasi, anche mistilinea; in particolare, i risultati sono d'immediata applicazione nello studio dell'equilibrio e della stabilità dei pontoni cilindrici e dei bacini galleggianti. Sono invece esclusi i galleggianti cilindrici immersi con le generatrici orizzontali o inclinate all'orizzonte di un angolo troppo piccolo per far risultare la linea di galleggiamento tutta compresa nella parte cilindrica; in tali casi, la linea di galleggiamento ha dei tratti che appartengono alle basi o alle altre superficie, che, con quella cilindrica, racchiudono il volume del galleggiante, e non si hanno più quelle particolari condizioni, che sono necessarie per il verificarsi delle proprietà che seguono:

In un galleggiante cilindrico qualsiasi, il luogo dei centri dei galleggiamenti isocarenici, relativi ad un dato volume e che tagliano la sola superficie cilindrica, è un punto; il luogo dei centri di carena è un paraboloide ellittico.

Se AB è un galleggiamento dritto, cioè una sezione retta del cilindro, limitante una carena di volume V e centro C, le coordinate del centro C′ dell'isocarena generica limitata dal galleggiamento AB′ inclinato su AB di un angolo finito θ, rispetto a una terna CX1Y1Z avente l'asse Z parallelo alle generatrici e diretto positivamente da C verso AB e gli assi X1 e Y1 rispettivamente paralleli agli assi principali d'inerzia gu e gv del galleggiamento AB, sono infatti:

essendo R ed r i due raggi metacentrici principali della carena AB e ϕ l'angolo che l'asse gv fa con l'asse d'inclinazione, cioè con l'intersezione gy dei due galleggiamenti, sulla quale il verso positivo sia scelto in modo da formare, con l'asse gx rivolto verso il menisco d'immersione, la coppia gxy orientata come CX1Y1. Le coordinate di C′ verificano dunque l'equazione del paraboloide ellittico:

e quindi: la superficie dei centri di carena di un galleggiante cilindrico è quello stesso paraboloide che è soltanto osculatore, nel centro della carena dritta, alla superficie dei centri di carena di un galleggiante, avente per figura di galleggiamento dritto la sezione retta del cilindro e lo stesso volume di carena.

Cenno sui calcoli delle carene dritte e inclinate. - Gli elementi geometrici delle carene, che, come si è accennato nelle generalità sulla geometria dei galleggianti, hanno la massima importanza nella meccanica delle navi, sono oggetto di particolari determinazioni, che costituiscono lo scopo dei calcoli delle carene dritte, e dei calcoli delle carene inclinate trasversalmente e delle carene inclinate longitudinalmente.

I calcoli delle carene dritte si estendono alle carene limitate alle diverse linee d'acqua del piano di costruzione e per ciascuna di tali carene determinano: volume, ascissa e ordinata del centro di carena, area del galleggiamento e ascissa del suo centro, raggi metacentrici di carena e di galleggiamento.

I calcoli delle carene inclinate consistono principalmente nella determinazione dei volumi e delle linee di azione delle spinte di tali carene, ciascuna di esse essendo definita dalla pescagione p, cioè dal segmento che il corrispondente galleggiamento stacca sulla perpendicolare al mezzo, e dall'angolo d'inclinazione θ ovvero dalla differenza d'immersione d, se l'inclinazione è longitudinale. Talvolta i calcoli delle carene inclinate comprendono anche la determinazione di altri elementi, fra i quali hanno importanza notevole i momenti d'inerzia dei galleggiamenti inclinati.

Poiché la superficie esterna dello scafo non è definita da un'equazione, ma è rappresentata solo graficamente dal piano di costruzione, il calcolo del valore numerico degl'integrali che si presentano nelle espressioni analitiche degli elementi geometrici si effettua con adatti procedimenti, i quali si possono distinguere in numerici, planimetrici, grafici e meccanici, secondoché sono fondati sull'impiego dei metodi di quadratura approssimata, degli strumenti d'integrazione grafica (planimetri, integratori, integrafi), delle operazioni del calcolo grafico, o di speciali modelli, sagome e apparecchi. I procedimenti numerici sono molto convenienti e si fondano sull'impiego della notissima formula di Simpson o di altre formule di quadratura. Per gli scopi della presente trattazione, sarebbe del tutto fuori posto l'esposizione dei procedimenti di calcolo seguiti negli uffici tecnici degli stabilimenti navali.

Determinati gli elementi geometrici per alcune carene, si tracciano le curve che li rappresentano, in modo da poter rilevare da esse i valori relativi a qualsiasi altra carena compresa tra i limiti estremi di quelle considerate. Per le carene dritte, i centri di galleggiamento e di carena e i rispettivi metacentri si possono segnare in vera posizione sul piano diametrale (fig. 93), oppure i diversi elementi geometrici si possono rappresentare in funzione del volume (fig. 94). Si passa dall'una all'altra delle due figure, mediante la curva delle immersioni medie in funzione dei volumi, contenuta nella seconda figura. Tale curva, che talvolta è disegnata isolatamente, si chiama scala di solidità ed è molto importante, perché dà il volume di carena in funzione dell'immersione media della nave e quindi permette di determinare il dislocamento di essa e la quantità di carico che contiene. Un altro gruppo importante di curve, contenuto nella figura 93 e spesso tracciato separatamente, è quello che rappresenta i centri di carena e i corrispondenti metacentri trasversali in vera posizione nel piano diametrale; la corrispondenza fra le linee d'acqua e i relativi centri di carena risulta dal luogo dei punti K che sono le proiezioni dei centri sulle linee d'acqua. Gl'Inglesi usano invece stabilire tale corrispondenza mediante una retta a 45°, ma in tale modo si hanno le sole ordinate e non le ascisse dei centri di carena, che la nostra curva dei punti K lascia in vera posizione anche in senso orizzontale.

Altre curve utili sono: la curva delle aree delle linee d'acqua; il verticale integrale, cioè il fascio delle curve integrali delle ordinate del piano di costruzione, che rappresentano le aree di queste alle successive immersioni; le curve delle aree delle ordinate per l'immersione relativa alle diverse linee d'acqua, deducibili per sezioni orizzontali del verticale integrale, allo stesso modo come le linee d'acqua si possono dedurre dal verticale del piano di costruzione, ecc.

Per le carene inclinate trasversalmente, si possono fare diversi tracciati, che devono permettere la determinazione delle posizioni delle rette di azione delle spinte delle isocarene di un volume dato qualsiasi. Per le carene inclinate longitudinalmente, si può procedere in modo analogo, ma si possono anche con vantaggio compendiare i risultati dei calcoli nel Diagramma Russo, molto adoperato nella R. Marina, il quale consente di rilevare rapidamente, non solo il volume e la posizione della spinta per qualsiasi carena inclinata longitudinalmente, ma anche la posizione del metacentro trasversale di tale carena, quali che siano le sue immersioni di prora e di poppa.

Statica dei galleggianti. - Equilibrio di un galleggiante libero. - Consideriamo un galleggiante libero, ossia un galleggiante sul quale non agiscano altre forze, all'infuori del peso proprio e della spinta del liquido. Se questo galleggiante si trova in equilibrio in una certa posizione, il suo peso, agente secondo la verticale passante per il centro di gravità, deve essere uguale e direttamente opposto alla spinta, che, per il principio di Archimede, è uguale al peso del liquido spostato e agisce secondo la verticale passante per il centro della carena di equilibrio; dunque, il peso del liquido spostato deve essere eguale al peso del galleggiante e i due centri, di gravità e di carena, si devono trovare sulla stessa perpendicolare al galleggiamento che individua la posizione di equilibrio considerata. Inoltre, la spinta del liquido, essendo normale al galleggiamento, è anche normale alla superficie dei centri di carena, nel centro della carena di equilibrio: segue da ciò che questa normale, nella posizione di equilibrio considerata, contiene il centro di gravità. Le posizioni di equilibrio di un galleggiante sono dunque tante, quante sono le normali che dal suo baricentro si possono condurre alla superficie dei centri di carena; ma, affinché il galleggiante si possa disporre e rimanere in una di tali posizioni, occorre che essa sia di equilibrio stabile e ciò richiede che sia soddisfatta un'altra condizione, che sarà stabilita in seguito.

Per la determinazione delle posizioni di equilibrio di un galleggiante libero, esistono un procedimento grafico e un procedimento analitico. Essi sono entrambi applicabili se il galleggiante è rigido, ossia se la sua superficie esterna si deforma in modo trascurabile sotto l'azione delle forze che lo sollecitano e se, nello stesso tempo, rispetto a questa superficie, la posizione del centro di gravità non varia, allorché varia l'orientazione del galleggiante. Ma, se ciò non si verifica, come avviene, ad esempio, per un galleggiante avente compartimenti incompletamente riempiti di carichi liquidi o scorrevoli, è applicabile il solo procedimento analitico.

Il procedimento grafico, dovuto al Dupin, presuppone, al pari dell'altro, che sia nota la superficie dei centri di carena individuata da quel valore del volume di carena che è necessario per l'equilibrio del galleggiante nel liquido che si considera; e consiste nella determinazione delle normali che dal baricentro G del galleggiante si possono condurre alla sua superficie dei centri di carena.

Per G si faccia passare un asse qualunque GZ e si consideri la superficie ottenuta dalla rotazione della superficie dei centri di carena intorno a quest'asse; sia poi GN una delle normali condotte da G alla superficie dei centri. Il piede N di questa normale deve soddisfare a due condizioni: deve essere anche il piede della normale condotta da G al meridiano della superficie di rotazione passante per H; deve essere il punto di contatto del parallelo passante per N con la linea di sezione della superficie dei centri col piano del parallelo. Queste due condizioni bastano per individuare i piedi N delle normali condotte da G alla superficie dei centri di carena, ossia i centri delle carene di equilibrio del galleggiante. La prima condizione determina i piani dei paralleli in cui tali centri N devono essere compresi: basta infatti disegnare il meridiano della superficie di rotazione e condurgli da G tutte le possibili normali. I piedi di queste normali determinano i piani dei paralleli: i punti in cui i paralleli contenuti in tali piani toccano le sezioni compiane della superficie dei centri di carena, sono i centri delle carene di equilibrio.

Il procedimento analitico racchiude in sé la soluzione generale del problema, tanto per i galleggianti rigidi, quanto per quelli deformabili; le equazioni che si ottengono possono risolversi, tanto se la superficie dei centri di carena è definita analiticamente, quanto se essa è definita solo graficamente, e quindi permettono la risoluzione del problema anche se la superficie esterna del galleggiante non è rappresentata analiticamente, ma semplicemente mediante un disegno.

Riferiamo il galleggiante a una terna ortogonale arbitraria OXYZ a esso invariabilmente collegata e definita ad esempio in modo che un osservatore coi piedi nell'origine e col capo nel senso delle Z positive, guardando nel senso positivo OY, abbia l'asse OX alla sua sinistra. In una posizione di equilibrio del galleggiante, il peso e la spinta del liquido sono forze uguali e direttamente opposte. La condizione di uguaglianza definisce il volume di carena e con esso quella superficie di centri di galleggiamento alla quale devono essere tangenti i galleggiamenti di equilibrio, nonché la corrispondente superficie di centri di carena, su cui si devono trovare i centri delle carene di equilibrio; la seconda condizione richiede che il centro di gravità si trovi sulla linea di azione della spinta, la quale è normale alla superficie ora considerata, nel centro di una di tali carene. Questa superficie sia rappresentata in generale dalle equazioni:

che, rispetto alla terna sopra indicata, definiscano le coordinate di un suo punto generico come funzioni continue e derivabili di due parametri u e v. Se X, Y, Z sono le coordinate correnti, la normale a tale superficie nel centro C (X′, Y′, Z′) di una delle carene di equilibrio, ha per equazioni:

nelle quali p e q rappresentano, come d'ordinario, le derivate parziali di Z rispetto a X e a Y, calcolate nel punto C′. Poiché questa normale è proprio la retta di azione della spinta, la seconda condizione di equilibrio richiede che le coordinate del centro di gravità G (XG, YG, ZG) verifichino queste equazioni, ossia che si abbia:

Queste due equazioni, nelle quali p e q sono funzioni di u e v, determinano, in generale, un certo numero di coppie di valori di questi parametri, le quali individuano le posizioni di equilibrio. Per ogni coppia di valori, restano infatti determinate le derivate p e q che individuano la giacitura del piano di galleggiamento, il quale resta poi determinato in posizione dalla condizione d'individuare una carena avente il volume necessario per l'equilibrio, ossia, in altri termini, dalla condizione di essere tangente alla superficie dei centri di galleggiamento individuata da tale valore del volume e rappresentabile con equazioni analoghe a quelle scritte sopra, per la superficie dei centri di carena. Queste ultime dànno poi le coordinate di C′ in funzione degli stessi parametri, sicché, per ogni coppia di valori di u e v, tutti gli elementi relativi alla corrispondente posizione di equilibrio restano pienamente determinati. La soluzione sussiste anche se il galleggiante contiene carichi deformabili, ossia se le coordinate di G sono funzioni di u e v, al pari delle altre grandezze che compaiono nelle equazioni risolventi.

Le formule ora scritte separano nettamente la parte meccanica del problema, che è completamente risoluta, dalla parte geometrica, che si compendia nelle espressioni, generalmente incognite, delle coordinate della superficie dei centri di carena e della superficie dei centri di galleggiamento, in funzione dei parametri u e v. L'importanza fondamentale del problema geometrico, consistente nella determinazione di tali espressioni, viene così a presentarsi in tutta la sua evidenza: per quei galleggianti per i quali le coordinate sono note, sia pure soltanto graficamente, resta effettivamente e rigorosamente risoluto il problema di equilibrio qui considerato; se invece non si conoscono che espressioni approssimate delle coordinate, soltanto con approssimazione si potranno, com'è naturale, determinare le posizioni di equilibrio.

I parametri u e v sono stati finora lasciati indefiniti, ma, per l'effettiva risoluzione del problema, è necessario definirli. Possiamo, ad esempio, assumere per tali parametri i due angoli ϕ e θ che abbiamo considerati nella geometria dei galleggianti per individuare la giacitura di un galleggiamento comunque inclinato; questi angoli siano precisamente definiti nel modo che segue:

Sulla parallela condotta per l'origine alla traccia del piano di galleggiamento sul coordinato XY, si assuma (fig. 95) una direzione positiva ON e si chiami ϕ l'angolo, compreso tra 0 e 2π, di cui l'asse OY deve rotare nel senso delle rotazioni orarie del piano XY intorno a OZ, per coincidere con ON. L'angolo θ sia quello compreso fra il piano di galleggiamento e il coordinato XY e sia contato positivamente nel senso delle rotazioni orarie del galleggiante intorno a ON, o, in altri termini, sia l'angolo di cui il piano XY deve rotare nel senso antiorario intorno a ON, per disporsi parallelamente al piano di galleggiamento.

Consideriamo ora la normale condotta dall'origine al piano di galleggiamento e fissiamo su essa il senso positivo secondo la semiretta che fa l'angolo 0 con l'asse positivo OZ. Siano λ e μ gli angoli, compresi fra 0 e μ, che la stessa fa con gli assi positivi OX e OY; risultano: cos λ = − cos ϕ•sen θ, cos μ = − sen ϕ•sen θ e quindi: p = cos ϕ tg θ, q = sen ϕ tg θ. Le precedenti equazioni di equilibrio assumono allora la forma:

e divengono d'impiego immediato. Tutto sta nel conoscere le espressioni delle coordinate di C in funzione di ϕ e di θ, e, se G non è fisso rispetto alla superficie del galleggiante, anche le coordinate di questo punto in funzione degli stessi parametri.

Le equazioni ora scritte daranno allora i valori di questi angoli che determinano la giacitura dei piani di galleggiamento, i quali restano poi individuati anche in posizione dal valore del volume di carena, noto perché si conoscono la massa del galleggiante e la densità del liquido.

Stabilità dell'equilibrio di un galleggiante rigido libero. - Si consideri un sistema soggetto all'azione del peso e a reazioni di appoggio che non gl'impediscano la mobilità, cioè la possibilità di passare dalla posizione che esso occupa ad altre posizioni infinitamente vicine; è noto dalla meccanica che la condizione necessaria e sufficiente per la stabilità dell'equilibrio in tale posizione è che l'altezza del centro di gravità passi per un minimo assoluto, ossia che il centro di gravità sia più basso in tale posizione che in tutte le altre infinitamente vicine nelle quali il sistema si può spostare compatibilmente coi vincoli.

Applichiamo questo principio al sistema costituito da un galleggiante e dal liquido sul quale esso galleggia liberamente, supponendo che questo liquido sia contenuto in un recipiente di forma e dimensioni affatto arbitrarie; vedremo poi che esse non influiscono sulla stabilità dell'equilibrio.

Sia LL (fig. 96) il livello del liquido di peso specifico ω contenuto in tale recipiente e sia P il peso del galleggiante. Tutte le possibili posizioni di equilibrio devono essere individuate da galleggiamenti che limitano il volume di carena V = P/ω; sia AB uno qualsiasi di questi galleggiamenti isocarenici, secondo il quale noi per ora non supponiamo che il galleggiante si trovi in equilibrio. Il volume racchiuso tra il piano AB = LL e le pareti del recipiente, essendo uguale alla somma del volume Q/ω occupato dal peso arbitrario Q di liquido in esso contenuto e dal volume V di carena, non varia se, invece del galleggiamento AB, se ne considera un altro isocarenico qualsiasi: il piano LL è cioè invariabile, quale che sia l'isocarena secondo la quale si considera immerso il galleggiante e non varia perciò nemmeno la posizione del baricentro O del volume racchiuso tra questo piano e le pareti del recipiente. Potremo dunque contare dal piano orizzontale che passa per questo punto l'altezza del centro di gravità y del sistema costituito dal liquido e dal galleggiante.

Sia C il centro della carena AB; la parallela CX condotta da C al piano di livello del liquido è la traccia del piano tangente in C alla superficie dei centri di carena, sul piano della figura; siano inoltre G il baricentro del galleggiante, C1 la sua proiezione sopra CX, K il baricentro del liquido e Oi la proiezione di γ sul piano orizzontale di traccia Oξ passante per O. Poiché i pesi P e Q, aventi rispettivamente i baricentri in G e K, sono proporzionali ai volumi, che hanno i baricentri in C e K, Oy è parallela a GC e risulta:

Questa è l'altezza che deve essere minima nelle posizioni di equilibrio stabile del galleggiante; essa è da considerarsi positiva o negativa, secondo che γ si trova al disopra o al disotto di Q, cioè secondo che G sta al disopra o al disotto di C. Quando G sta al disotto di C, il segmento O1 γ, che allora è negativo, sarà minimo quando il suo valore assoluto sarà massimo. Si vede dalla formula ora scritta che il minimo di γO1 si ha quando si verifica il minimo di GC1; ossia, affinché AB sia una posizione di equilibrio stabile, la distanza del centro di gravità del galleggiante dal piano tangente in C alla superficie dei centri di carena deve essere minore della distanza di tale punto da qualunque piano che tocchi questa superficie nei dintorni di C.

Facciamo ora astrazione dalla superficie del galleggiante e consideriamo invece il solido limitato dalla superficie dei centri di carena del medesimo e avente il baricentro coincidente con quello del galleggiante; questo solido, poggiato su un piano orizzontale, si trova in condizioni di equilibrio stabile quando GC1 è minima, cioè appunto quando il galleggiante si trova nelle stesse condizioni. Segue da ciò che, se estratto un galleggiante dall'acqua fosse possibile poggiarlo, come effettivamente si può fare per alcuni galleggianti di forma conveniente, con la sua superficie dei centri di carena su un piano orizzontale, conservando immutata la posizione relativa del baricentro del galleggiante rispetto a questa superficie, le posizioni di equilibrio del galleggiante, ridotto così a un corpo poggiato su un piano, coinciderebbero con quelle secondo le quali si può disporre allo stato di galleggiante.

Vediamo ora quali condizioni si debbono verificare affinché GC sia minima.

Poiché il punto G e la superficie dei centri di carena sono da ritenersi fissi rispetto alla superficie del galleggiante, e quindi tra loro, potremo riferire la superficie dei centri a una terna ortogonale con l'origine in G; rispetto a questa terna, siano x, y, z le coordinate di C. Se X, Y, Z sono le coordinate correnti, dette p e q le derivate parziali di Z rispetto a X e Y, calcolate nel punto C, l'equazione del piano che tocca la superficie dei centri in questo punto è:

e la distanza GC1 del punto G da questo piano è:

Le tre variabili che compaiono in questa espressione sono legate dall'equazione della superficie dei centri e quindi una di esse, p. es. la z, è da considerarsi funzione delle altre due; le condizioni necessarie per l'esistenza di un massimo o di un minimo di GC1 risultano quindi dall'uguagliare a zero le sue derivate parziali rispetto a x e a y. Si hanno così le equazioni:

le quali esprimono che il centro di gravità del galleggiante si deve trovare sulla normale alla superficie dei centri, passante per il centro C della carena AB, secondo la quale si trova immerso il galleggiante. Questa, com'è noto, è una delle condizioni necessarie per l'equilibrio; all'altra si è già soddisfatto, limitandosi alla considerazione delle sole carene per le quali la spinta è uguale al peso del galleggiante. La normale che passa per G, essendo perpendicolare al piano tangente in C, coincide dunque con la GC, ossia C1 coincide con C.

Vediamo ora in quali regioni della retta GC si deve trovare il baricentro G, affinché GC sia minima, ossia affinché l'equilibrio sia stabile. Considerando il galleggiante immerso secondo AB, riferiamolo a una nuova terna avente l'origine in C e per asse Z la verticale CG diretta positivamente verso l'interno della superficie dei centri di carena. Scegliamo, come assi orizzontali, quelli CX e CY che individuano le direzioni principali della superficie in questo punto e che, come si sa, sono paralleli agli assi principali d'inerzia del galleggiamento. Sia C′ (x, y, z) un punto qualsiasi della superficie, infinitamente vicino a C; dette p e q le derivate parziali prime della z rispetto a x e a y nel punto C′, l'equazione del piano tangente in questo punto è Z − z = p (X x) + q (Y y). Indicando ora con a l'altezza GC, la distanza di G (0, 0, a) da tale piano è:

col segno +, perché per x = y = z = 0, deve risultare l = + a. Sviluppando in serie la z del punto C′, dette rc e tc le derivate

calcolate nel punto C, e ricordando che, per la scelta degli assi

sono nulle nello stesso punto, si ha:

e le derivate p e q nel punto C′ risultano: p = rcx + ...; q = tcy +...; per cui:

E, sviluppando la potenza

che si può scrivere anche:

se si osserva che i raggi metacentrici principali di carena r ed R sono rispettivamente gl'inversi delle derivate rc e tc, essendo nulle in C le derivate parziali prime.

Ora, affinché a, che è il valore di l per x = y = z = o, sia un minimo, è necessario e sulnciente che la condizione l − a > 0 sia verificata quali che siano x e y, cioè per tutti i punti nei dintorni di C; in particolare quindi anche per i punti delle linee d'intersezione della superficie coi coordinati Y = 0 e X = 0, il che richiede che siano soddisfatte le condizioni:

la seconda delle quali è inclusa nella prima, perché R r.

Segue da ciò che, se r − a > 0, la l sarà minima e l'equilibrio sarà stabile, mentre, se R a 〈 0, la l sarà massima e l'equilibrio sarà instabile. Se r a 〈 0 ed R a > 0, il galleggiante è instabile per alcune inclinazioni, cui corrispondono raggi metacentrici compresi fra r e a, e stabile per le altre, ma è sempre da considerare come instabile, perché non potrà restare nella posizione di equilibrio in esame.

Se poi r a = 0, lo sviluopo in serie di l diviene:

ed essendo R > a, la l risulterà maggiore di a per tutti i punti dei dintorni di C i quali abbiano la y diversa da zero. Ma, per i punti della linea di sezione della superficie col coordinato Y = 0, lo sviluppo si riduce semplicemente a:

ossia la differenza l a consiste in un insieme E di termini di grado superiore al secondo e quindi il comportamento del galleggiante per inclinazioni intorno alla direzione CY dipenderà dal segno di ε. L'equilibrio sarà stabile o instabile, secondo che ε ≷ 0 e sarà indifferente se ε = 0.

Statica delle navi. - Equilibrio di una nave galleggiante liberamente. - a) Generalità. - Il problema della determinazione delle posizioni di equilibrio che una nave assume sotto la sola azione del suo peso e della spinta dell'acqua è stato già sostanzialmente risoluto nella statica dei galleggianti; si tratta ora di vedere in quale modo conviene adoperare, secondo le circostanze, i risultati ivi ottenuti, nella effettiva applicazione alle navi e di dedurne le formule di approssimazione che si adoperano correntemente nell'ingegneria navale.

In tutto ciò che segue, supporremo sempre che la terna ortogonale di riferimento OXYZ, invariabilmente collegata alla nave, abbia l'origine in un punto conveniente del piano diametrale, da stabilirsi secondo i problemi che si considerano, e per coordinato YZ proprio questo piano. L'asse Y sarà parallelo al galleggiamento del piano di costruzione e sarà diretto positivamente verso poppa; l'asse Z sarà diretto positivamente verso l'alto e l'asse X verso il lato destro del bastimento, affinché la terna risulti definita come nella statica dei galleggianti. Un galleggiamento di equilibrio sia poi individuato dagli angoli ϕ e θ definiti nella stessa trattazione.

La scelta del procedimento da adoperare per la risoluzione del problema dipende essenzialmente dalla grandezza dell'angolo θ, ossia dalla distanza fra il centro di gravità della nave e la parallela all'asse Z passante per il centro della carena dritta che ha il volume necessario per l'equilibrio. Se questa distanza è notevole, in modo da fare prevedere che θ sia grande, la determinazione esatta delle posizioni di equilibrio si deve fare in base ai risultati dei calcoli delle carene inclinate; se invece è da prevedersi che il galleggiamento di equilibrio non risulti tanto inclinato da tagliare l'orlo del ponte di coperta e le forme dello scafo non si scostano notevolmente da quelle del cilindro avente per sezione retta il galleggiamento normale, si potranno usare le formule relative ai galleggianti cilindrici o la corrispondente soluzione grafica, infine, se il centro di gravità è tanto poco distante dalla parallela all'asse Z passante per il centro della carena dritta isocarenica con quella di equilibrio, da far risultare insufficientemente piccolo, sì da potere trascurare le potenze di quest'angolo superiori alla prima, si potranno adoperare le formule del metodo metacentrico. Questo metodo però non richiede tali limitazioni di ampiezza dell'angolo θ sempre che la posizione di G è tale da fare inclinare la nave solo trasversalmente o solo longitudinalmente, ossia proprio nei casi più importanti e utili della sua applicabilità.

b) Determinazione delle posizioni di equilibrio mediante i risultati dei calcoli delle carene inclinate. - Innanzitutto, se la posizione del centro di gravità è tale da dare luogo a galleggiamenti di equilibrio comunque inclinati, si richiedono i calcoli di carena per diversi valori di θ e di ϕ, ossia occorre una laboriosa serie di calcoli preparatorî, che si può fare solo in casi di eccezionale importanza o per scopo d'indagine scientifica; in caso contrario, bisognerà rinunziare alla risoluzione esatta del problema, perché non c'è altro mezzo, a meno che non si voglia ricorrere alla determinazione sperimentale, mediante un modello, per il quale siano esattamente soddisfatte le condizioni di similitudine circa la forma esterna, il peso totale, la posizione del centro di gravità e la densità del liquido.

Quando invece la posizione di G è tale da far risultare la nave inclinata solo trasversalmente o solo longitudinalmente, la risoluzione del problema si può fare esattamente mediante i risultati dei rispettivi calcoli delle carene inclinate.

Per la definizione della terna ortogonale di riferimento, si avrà ϕ = 0 oppure ϕ = π nel caso dell'inclinazione trasversale e ϕ = π/2 oppure ϕ = 3 π/2 nel caso dell'inclinazione longitudinale; sicché, se l'inclinazione è soltanto trasversale, le equazioni d'equilibrio stabilite nella statica dei galleggianti divengono:

e

mentre, se l'inclinazione è soltanto longitudinale, si ha:

e

La seconda equazione è equivalente alla prima, perché, stabilito il senso positivo delle rotazioni, uno stesso galleggiamento di equilibrio che è individuato, come giacitura, dall'angolo θ allorché si considerano le rotazioni intorno alla semiretta definita da ϕ = 0, è individuato invece dall'angolo − θ allorché si considerano le rotazioni intorno alla semiretta definita da ϕ = π. Allo stesso modo, la quarta equazione è equivalente alla terza.

Considerando ad esempio la prima di queste equazioni, si vede che si può scrivere:

in essa, il secondo membro rappresenta il braccio della spinta rispetto all'origine (fig. 97) ed è noto, per ogni inclinazione, dai calcoli delle carene inclinate; esso si può quindi rappresentare (fig. 98) in funzione di θ Del pari in funzione di θ si può rappresentare il primo membro, nel quale XG e ZG sono date; l'ascissa del punto d'intersezione delle due curve che rappresentano i due membri dà il valore di θ che risolve il problema. Se c'è più di un punto d'intersezione, ci sarà naturalmente più di una posizione di equilibrio.

Il procedimento per l'inclinazione longitudinale è perfettamente identico.

c) Determinazione approssimata delle posizioni di equilibrio di una nave, mediante il procedimento che risolve esattamente il problema per i galleggianti cilindrici. - È noto dalla geometria dei galleggianti che la superficie dei centri di carena di un solido limitato anche parzialmente da una superficie cilindrica, per la parte relativa a quei piani di galleggiamento che tagliano la sola parte cilindrica, è un paraboloide ellittico, che, rispetto a una terna ortogonale con l'origine nel centro della carena individuata dal galleggiamento dritto costituente la sezione retta del cilindro, con gli assi X e Yrispettivamente paralleli agli assi minore e maggiore dell'ellisse centrale d'inerzia di questo galleggiamento e con l'asse Z diretto positivamente verso il piano di galleggiamento, ha per equazione:

in cui r ed R sono i raggi metacentrici principali di tale carena.

Ora, in un galleggiante qualsiasi, considerando una carena comunque inclinata come il risultato della deformazione di una sua isocarena, ottenuto mediante lo spostamento del volume del menisco di emersione in quello del menisco d'immersione, si vede che il centro di tale carena si trova sulla parallela alla congiungente i baricentri dei due menischi passante per il centro dell'isocarena considerata e a una distanza da questo centro uguale al prodotto della lunghezza di questa congiungente per il rapporto tra il volume di un menisco e il volume di tutta la carena. La superficie dei centri di carena, nei dintorni di ciascun suo punto, ha dunque una forma che dipende soltanto da quella che il galleggiante ha nei dintorni del galleggiamento corrispondente a tale punto e dal volume di carena, ma è indipendente dalla forma che il solido che racchiude questo volume ha all'infuori di tali dintorni. Sicché, se la superficie esterna dello scafo di una nave o di un qualsiasi galleggiante prodotto dall'industria navale è costituita da un cilindro con generatrici verticali, a partire da una certa linea d'acqua e fino al ponte di coperta, i centri delle isocarene corrispondenti a quei piani di galleggiamento che tagliano solo questa parte cilindrica si troveranno sul paraboloide ellittico sopra definito, il cui vertice è il centro dell'isocarena dritta, ossia della carena limitata dal galleggiamento perpendicolare alle generatrici del cilindro.

La risoluzione del problema di equilibrio per un galleggiante cilindrico ha dunque importanza pratica, sia perché è esattamente applicabile ad alcuni tipi di pontoni, bacini galleggianti, barche da carbone, ecc., aventi le murate cilindriche o prismatiche, sia - e principalmente - perché permette di risolvere in modo approssimato lo stesso problema per una nave, tutte le volte che la superficie delle sue murate non si scosterà notevolmente da quella del cilindro avente per sezione retta il galleggiamento normale.

Tale risoluzione si può effettuare sia analiticamente, sia graficamente; essa richiede la sola conoscenza dell'immersione, delle coordinate del centro e dei raggi metacentrici della carena dritta avente il dislocamento P eguale al peso totale della nave. Scegliendo l'origine della terna ortogonale precedentemente definita nel centro C di tale carena dritta, le coordinate del centro C′ di una delle carene di equilibrio limitata dal galleggiamento individuato dagli angoli ϕ e θ, com'è noto dalla geometria dei galleggianti, sono:

Se si vuole procedere analiticamente, basta sostituire queste espressioni nelle equazioni di equilibrio stabilite nella statica dei galleggianti, che valgono per qualsiasi terna; si ottengono così le equazioni:

In esse, le coordinate del centro di gravità sono date e quindi restano determinati gli angoli ϕ e θ che individuano la giacitura di un galleggiamento di equilibrio. Questo galleggiamento passa per il centro del galleggiamento dritto, se si tratta proprio di un galleggiante cilindrico; se invece si tratta di una nave, il galleggiamento di equilibrio, di cui ϕ e θ determinano la sola giacitura, è individuato anche in posizione dalla condizione di essere isocarenico col galleggiamento dritto di dislocamento P

Da queste due equazioni si deduce:

e, sostituendo questa espressione in una di esse, si ha un'equazione di quinto grado in ϕ, di cui la risoluzione numerica non presenta alcuna difficoltà. Se una delle coordinate di G è nulla, il grado delle equazioni si riduce, secondo i casi, al terzo o al secondo.

Se invece si vuole risolvere graficamente il problema, basta applicare il procedimento del Dupin, di cui si è già detto nella statica dei galleggianti. La superficie dei centri di carena è, nel caso presente, il paraboloide ellittico innanzi definito e tutto si riduce al tracciato di pochissime linee; i risultati sono inoltre controllabili numericamente, in modo da avere lo stesso grado di approssimazione che si otterrebbe con la soluzione analitica. Per l'effettiva applicazione del procedimento, per le considerazioni semplificative e per l'ulteriore approssimazione dei risultati, v. M. Gleijeses, Sulla determinazione delle posizioni di equilibrio delle navi (Napoli 1912).

d) Determinazione approssimata della posizione di equilibrio di una nave col metodo metacentrico. - In un galleggiante che s'inclina rotando intorno ad assi paralleli e mantenendo costante il volume della sua parte immersa, le proiezioni dei centri delle isocarene su un piano d'inclinazione si trovano su una linea che in ogni punto, com'è noto, ha il centro di curvatura nel corrispondente metacentro. Un arco sufficientemente piccolo della curva, di lunghezza finita e variabile secondo la natura di essa e da punto a punto della medesima, non si distingue dall'arco del suo circolo osculatore nei disegni eseguiti nelle scale che si stimano sufficienti per effettuare le operazioni del calcolo grafico, anche se il tracciato è molto accurato; e, dove il raggio di curvatura è massimo o minimo, e specialmente se vi è simmetria della curva dalle due parti del punto di contatto, la coincidenza del circolo con la curva si verifica per un arco molto più esteso. Per tutto il tratto di coincidenza, tanto vale dunque considerare la curva, quanto il suo circolo osculatore, nelle ordinarie applicazioni pratiche, per le quali, come in quelle di cui qui ci occupiamo, si ritiene sufficiente il grado di approssimazione che si potrebbe avere con l'impiego del calcolo grafico e con tracciati di ordinaria grandezza. E poiché la curva è generalmente incognita (a meno che non si tratti di galleggianti soddisfacenti a condizioni geometriche o analitiche, oppure di navi che subiscano inclinazioni per le quali siano stati eseguiti i rispettivi calcoli delle carene inclinate), mentre il suo circolo osculatore è definito dal solo valore del raggio metacentrico, che sempre si determina per le carene dritte, risultano evidenti l'importanza e l'utilità del cosiddetto metodo metacentrico, che è fondato appunto sulla sostituzione del circolo osculatore, nel centro di una carena dritta di una nave, alla curva delle proiezioni dei centri di carena sul piano d'inclinazione, per tutto l'intervallo per il quale si verifica la coincidenza, intesa naturalmente nel senso sopra indicato. Questo intervallo, che col suo termine segna, di volta in volta, i limiti di applicabilità del metodo metacentrico, è di breve lunghezza, per le inclinazioni intorno ad assi di direzione qualsiasi contenuti nel piano del galleggiamento dritto, nonché per le inclinazioni longitudinali delle navi, perché si è nel caso generale della semplice osculazione, in cui il circolo attraversa la curva nel punto in cui la tocca; è invece alquanto più esteso per le inclinazioni trasversali, nelle quali, per la simmetria della nave rispetto al piano diametrale, si verifica il caso della surosculazione. Il metodo metacentrico, entro i limiti della sua applicabilità, presenta, sull'impiego dei grafici delle carene inclinate, che finora sono ordinariamente tracciati soltanto per le carene a semplice inclinazione, trasversale o longitudinale, anche il vantaggio di dare l'espressione analitica delle coordinate dei centri.

Prendendo l'origine della terna ortogonale innanzi definita nel centro C della carena dritta (fig. 99), per l'inclinazione θ intorno all'asse generico definito dall'angolo ϕ, si hanno le espressioni:

che soddisfano la condizione di coincidenza della curva col suo circolo osculatore per tutti i valori di ϕ, esattamente, nel caso della pura inclinazione longitudinale o della pura inclinazione trasversale, ma soltanto approssimativamente per le altre inclinazioni, perché, per ridurre la X e la Y a tali espressioni semplici, sono stati trascurati dei termini di terzo grado in θ. Tale limitazione non nuoce, perché in questo caso generale, per essere sicuri di poter sostituire con una certa attendibilità il circolo alla curva, le formule devono applicarsi soltanto per angoli molto piccoli, per i quali possa ritenersi sen θ = tg θ; d'altra parte, il conservare i termini di terzo grado toglierebbe al metodo metacentrico quel carattere di semplicità che lo rende di più corrente impiego rispetto al precedente procedimento dei galleggianti cilindrici, al quale in sostanza si avvicina sempre più, quando la Z tende a zero. Le coordinate, per ϕ qualunque, assumono allora la forma:

Invece, per le inclinazioni intorno agli assi principali, i termini di terzo grado contenuti nella X e nella Y diventano proprio nulli e l'inclinazione θ resta così sottoposta unicamente alla limitazione che deriva caso per caso dalla maggiore o minore estensione dell'arco di pratica coincidenza del circolo con la curva. Per l'inclinazione longitudinale, si hanno le formule:

e, per l'inclinazione trasversale, le altre:

Queste ultime, data la simmetria della nave rispetto al piano diametrale, si possono, secondo le forme di essa, adoperare anche fino ad ampiezze di 10°÷15°.

Stabilite le formule del metodo metacentrico, riprendiamo il problema della determinazione della posizione di equilibrio. Le formule relative a ϕ qualsiasi, sostituite nelle equazioni della statica già ripetutamente applicate, dànno:

i valori di ϕ e di θ si deducono immediatamente da queste espressioni. Esse però, rappresentando rispettivamente le tangenti degli angoli α e β compresi fra le tracce del galleggiamento di equilibrio sul piano trasversale e su quello longitudinale e le corrispondenti tracce del galleggiamento dritto isocarenico AB sugli stessi piani, individuano in maniera assai comoda la giacitura del galleggiamento di equilibrio, che, dovendo essere 0 molto piccolo, si può fare senz'altro passare per il centro g del galleggiamento dritto isocarenico AB.

Se l'origine della terna di riferimento è scelta in un punto qualsiasi del piano diametrale, le coordinate X′, Y′ e Z′. da sostituire nelle equazioni della statica risultano uguali alle precedenti aumentate delle coordinate XC (che è nulla), YC e ZC di C rispetto alla nuova terna e le formule risolutive divengono:

in cui Zm = ZC + r e ZM = ZC + R rappresentano le altezze dei metacentri principali della carena AB sul piano orizzontale della terna.

Del trasporto o spostamento di pesi sulle navi. - Si abbia una nave di dislocamento P, riferita alla solita terna ortogonale OXYZ a essa invariabilmente collegata, con l'origine in un punto arbitrario del piano diametrale ed avente per coordinato YZ proprio questo piano. L'asse Y sia parallelo al galleggiamento del piano di costruzione e diretto positivamente verso poppa, l'asse Z sia verticale e diretto in alto e l'asse X verso il lato destro della nave. A una parte Q del peso totale P venga dato uno spostamento avente per componenti le lunghezze x, y, z secondo le direzioni positive degli assi. Si vuole determinare la posizione secondo la quale la nave si dispone in equilibrio in seguito a tale spostamento.

Sia G (XG, YG, ZG) il centro di gravità iniziale della nave; dopo lo spostamento del peso Q, il centro di gravità dell'intera nave si sarà spostato in un punto G′ di cui le coordinate saranno:

Sostituendole nelle equazioni di equilibrio stabilite nella statica dei galleggianti, si ha senz'altro la soluzione del problema; si ottiene infatti:

e in queste bisognerà poi esprimere X′, Y′, Z′ in funzione di ϕ e θ, per risolvere il problema in ogni singolo caso. Se, ad esempio, si applica il metodo metacentrico, detto C (0, YC, ZC) il centro della carena dritta di dislocamento P ed m ed M i rispettivi metacentri, trasversale e longitudinale, si dovrà porre:

e si otterranno le formule risolutive:

Se la posizione nella quale la nave si trova in equilibrio prima dello spostamento del peso è individuata da un galleggiamento parallelo a quello del piano di costruzione, ossia, se, in altri termini, la carena dritta di dislocamento P e centro C corrisponde alla posizione inizíale di equilibrio, si ha:

e le formule precedenti divengono:

Queste sono le formule ordinariamente usate per la risoluzione del problema del traspotto di pesi mediante il metodo metacentrico, poiché questo richiede che θ sia piccolo, esse dànno risultati attendibili soltanto se il peso spostato Q è piccolo rispetto a P, o se è piccolo il suo spostamento, ossia sempre che è sufficientemente piccola la coppia che viene applicata alla nave col togliere il peso Q dalla sua posizione primitiva e col porlo nella sua nuova posizione.

Dell'aggiunta o imbarco di pesi sulle navi. - Su una nave di dislocamento P, riferita alla stessa terna definita nella trattazione del problema precedente, s'imbarchi un peso Q in un punto D (XD, YD, ZD); si vuole determinare la posizione secondo la quale la nave si dispone in equilibrio in seguito a tale aggiunta.

Se G (XG, YG, ZG) è il centro di gravità iniziale della nave e G1 è quello del sistema costituito dalla nave e dal peso aggiunto, le coordinate di questo punto sono:

e, se C1 (XC1, YC1, ZC1) centro della carena dritta di dislocamento P + Q e mi e Mi ne sono i metacentri principali, la posizione di equilibrio, entro i limiti di applicabilità del metodo metacentrico, è data da:

Queste formule risolvono senz'altro il problema, se si hanno i risultati dei calcoli delle carene dritte: basta infatti leggervi i valori della Y di C1 e delle Z dei metacentri m1 e M1 in corrispondenza del dislocamento P + Q e sostituire queste coordinate e quelle di G1 sopra calcolate, nelle equazioni ora scritte.

Galleggiabilità. - Ogni nave deve avere la capacità di reagire, entro certi limiti, alle forze che eventualmente tendano a sommergerla (peso di acqua imbarcata per falle, colpi di mare, ecc.) mediante la sua riserva di galleggiabilità o di spinta, misurata dalla spinta corrispondente al volume della parte emersa dello scafo. Il rapporto tra il volume di questa parte e il volume dell'intero scafo (entrambi limitati al ponte principale) si chiama riserva percentuale di galleggiabilità o di spinta.

La galleggiabilità, per una data forma di scafo, dipende dal bordo libero, dall'insellatura e dal bolzone dei bagli, dalla presenza di soprastrutture più o meno estese e più o meno efficaci per contribuire alla spinta della parte emersa dello scafo; l'efficacia delle soprastrutture è in relazione all'esistenza di porte o di altre aperture e ai loro mezzi di chiusura.

Influiscono sulla galleggiabilità anche: la compartimentazione dello scafo mediante paratie stagne, la robustezza e l'altezza di queste e dei ponti ai quali esse terminano; la presenza o l'assenza di porte stagne e i mezzi per la loro manovra; la presenza di aperture a murata, la distanza di esse dal galleggiamento e i relativi mezzi di chiusura; le sistemazioni di scarico più o meno rapido dell'acqua che irrompe in coperta durante il cattivo tempo. E inoltre, per le navi da guerra: la protezione mediante corazzatura delle murate o dei ponti, mediante cofferdams o mediante carbonili; la protezione subacquea; l'esistenza o l'assenza di comunicazioni automatiche fra locali simmetricamente disposti rispetto al piano diametrale, ecc.

Le navi più grandi hanno un bordo libero relativamente maggiore (maggiore riserva percentuale di galleggiabilità) e una compartimentazione più minuta, che riduce il rapporto tra il volume dei singoli compartimenti allagabili in caso di falla e il volume dell'intero scafo; esse quindi, dal punto di vista della galleggiabilità, si trovano, rispetto alle navi più piccole, in condizioni di sicurezza molto migliori.

Una certa altezza di murata a prua contribuisce notevolmente alle buone condizioni di navigabilità del bastimento, conferendogli buone qualità marine; è quindi di maggiore efficacia la presenza di un castello, anziché quella di un cassero centrale o poppiero, a parità di volume di soprastrutture. Per la stessa ragione, il rialzamento d'insellatura a prua si fa il doppio del rialzamento poppiero o anche di più.

Stabilità di una nave galleggiante liberamente. - a) Stabilità iniziale. - Siano rispettivamente Zm e ZG le altezze del metacentro trasversale m e del centro di gravità G della nave contate da un'origine qualsiasi, che spesso si fa coincidere col centro C della carena di equilibrio; in tale caso Zm diviene il raggio metacentrico trasversale r e ZG è l'altezza del centro di gravità sul centro di carena, che s'indica comunemente con a e si assume positiva quando G è al di sopra di C, come si verifica nella generalità delle navi di superficie. La differenza ZmZG = r a è l'altezza metacentrica trasversale o semplicemente l'altezza metacentrica della nave. Se questa non contiene carichi deformabili con l'inclinazione, vale quel che si è detto per un galleggiante rigido, ossia il suo equilibrio è stabile, se r a è positiva; è instabile, se r a è negativa. Il grado di stabilità iniziale è in tal caso misurato dall'altezza metacentrica o dal corrispondente coefficiente di stabilità o coefficiente di resistenza all'inclinazione P(r a). Se invece la nave contiene carichi deformabili con l'inclinazione, quali sono i carichi sospesi, mobili, liquidi a livello libero, la r a si chiama altezza metacentrica assoluta, per distinguerla dall'altezza metacentrica effettiva, che è quella che misura allora realmente il grado di stabilità iniziale, come si vedrà in seguito.

L'altezza metacentrica è un elemento di grandissima importanza, che, per ciascun tipo di nave, deve avere valori compresi entro certi limiti suggeriti dall'esperienza e da considerazioni teoriche; valori inferiori ai limiti più bassi dànno luogo a insufficienza di stabilità, che può rendere la nave del tutto inadatta allo scopo per il quale era stata progettata; valori eccessivi possono produrre inconvenienti di altra natura, dovuti a oscillazioni di rullio troppo vivaci, che arrecano disturbo alle persone imbarcate, rendono inefficace o impossibile il tiro delle artiglierie e sollecitano eccessivamente le strutture della nave per l'elevato valore delle forze d'inerzia.

Se un carico p esistente a bordo in una data posizione viene sospeso a un punto A che si trovi (fig. 100) all'altezza h sul suo baricentro B, l'effetto della sospensione equivale al sollevamento del peso per l'altezza h, se il cavo al quale è sospeso può oscillare liberamente intorno ad A, perché, non appena la nave si inclina di un angolo qualsiasi, tale carico si viene a disporre sulla verticale di A e agisce quindi come se avesse in A il suo baricentro. In altri termini, A diviene il punto per il quale, comunque s'inclini la nave, passa sempre la retta d'azione del peso del carico p. Lo spostamento verticale di questo verso l'alto e per l'altezza h fa dunque sollevare il baricentro dell'intera nave della quantità ph/P e l'altezza metacentrica diviene quindi: r a ph/P.

Se il peso p è di una certa entità e l'altezza h è considerevole, si può attenuare l'effetto riduttore della sospensione sulla stabilità, mediante ritenute che impediscano al cavo di inclinarsi, mantenendo sulla verticale iniziale AB il baricentro del carico durante il suo sollevamento. La riduzione in tale caso (fig. 101) sarà soltanto quella che corrisponde all'effettivo sollevamento z del carico p, ossia sarà pz/P, mentre nel caso precedente, non appena il carico fosse stato sollevato, sia pure di pochissimo, dalla sua posizione iniziale, la riduzione di altezza metacentrica sarebbe senz'altro divenuta ph/P.

Tra i carichi deformabili, hanno particolare importanza i carichi liquidi a livello libero, i quali si possono trovare sulle navi, sia in condizioni normali di esercizio (navi cisterne, compartimenti di doppio fondo, casse di zavorra, caldaie, ecc.), sia in circostanze accidentali. Per la presenza degli specchi liquidi, il coefficiente di stabilità non è il P (r - a) corrispondente all'altezza metacentrica assoluta; ciò sarebbe vero, se tali carichi fossero indeformabili, come si verificherebbe, ad esempio, se le masse liquide si solidificassero. Invece, se ω1 è il peso specifico del liquido contenuto in uno di tali recipienti e i è il momento d'inerzia della sua superficie libera rispetto all'asse che passa per il baricentro di essa ed è parallelo all'asse di simmetria del galleggiamento della nave, il coefficiente di stabilità è P (r − a) − Σω1 i; la corrispondente altezza metacentrica effettiva è: r a − Σω1 i/P, la sommatoria essendo estesa a tutti gli specchi liquidi. Si vede così che la riduzione di stabilità, a parità di forma e dimensioni degli specchi liquidi, è tanto maggiore quanto maggiore è il peso specifico del liquido. Essa inoltre non dipende dal peso totale di liquido, né dalla posizione del compartimento che lo contiene, ma solo dal momento d'inerzia della superficie libera. Suddividendo questa, col frazionare i compartimenti mediante paratie longitudinali, si riduce l'effetto della liquidità del carico. Invece di dovere considerare allora il momento d'inerzia di un dato specchio liquido, si dovrà considerare la somma dei momenti d'inerzia delle singole parti in cui è stato suddiviso, ciascuna riferita al proprio asse baricentrico, avente la direzione sopra indicata, e la riduzione di stabilità risulterà così molto minore; precisamente, nel caso di specchi liquidi rettangolari con un lato parallelo all'asse d'inclinazione, la suddivisione in n rettangoli, mediante n - 1 paratie longitudinali, renderebbe n2 volte più piccola la riduzione di altezza metacentrica.

Nelle navi costruite per il trasporto di carichi liquidi in massa, p. es. nelle petroliere, le cisterne possono essere costituite da stive, o, meno frequentemente, da grandi recipienti, cilindrici o di altra forma, sistemati nelle stive e stabilmente collegati alle strutture dello scafo. L'influenza dannosa della liquidità del carico sulla stabilità viene sufficientemente ridotta, nelle cisterne del primo tipo, mediante la sistemazione di una paratia longitudinale nel piano diametrale; in quelle del secondo tipo, la superficie libera resta già suddivisa dalle pareti verticali dei recipienti stessi. Inoltre, per lo stesso scopo, per mantenere sempre piene le cisterne e per rendere libera la dilatazione termica del carico, si suddivide con paratie longitudinali l'interponte superiore, costituendo così nella regione centrale una serie di cofani di espansione e sui fianchi una serie di compartimenti, che prima venivano adibiti a carbonili di riserva, mentre, nelle costruzioni attuali, costituiscono le cisterne di estate, che servono: per poter imbarcare una maggiore quantità di liquido in estate, allorché il bastimento si può immergere fino alla marca del bordo libero di estate, che è più alta delle altre; per avere una maggiore capacità di stiva in estate, allorché il liquido, essendo dilatato, ha relativamente minore peso specifico e quindi rende necessario maggiore volume di stiva per esaurire la portata; per avere una maggiore capacità di stiva per imbarcare liquidi più leggieri di quelli che il bastimento trasporta ordinariamente.

b) Stabilità per inclinazioni notevoli. - Un conveniente grado di stabilità iniziale, misurato dal valore dell'altezza metacentrica o del coefficiente di stabilità, mentre è necessario per le buone condizioni di navigabilità della nave, non è sufficiente per la sicurezza di essa; può darsi anzi che una nave avente un'altezza metacentrica più forte sia meno sicura di una nave dello stesso dislocamento, avente un'altezza metacentrica minore.

L'altezza metacentrica dà infatti la sola misura della tendenza della nave a ritornare nella posizione iniziale, allorché viene inclinata trasversalmente di un angolo piccolissimo, ma non fornisce un criterio per giudicare se la tendenza a riprendere la primitiva posizione esista - come deve esistere - e abbia la dovuta misura, anche quando le immancabili cause che agiscono sul bastimento durante la navigazione gli abbiano momentaneamente impresso un forte sbandamento. Tale criterio risulta invece dal considerare le condizioni di stabilità per inclinazioni notevoli, le quali si possono studiare mediante un diagramma, che si chiama diagramma di stabilità.

Siano (fig. 102): AB un galleggiamento dritto iniziale di equilibrio, AB′. un galleggiamento isocarenico, inclinato trasversalmente di un angolo qualsiasi θ, C e C′ i centri delle rispettive carene. Il piano d'inclinazione (piano della figura) è inizialmente verticale e resta tale con l'inclinazione: esso contiene quindi C e G per l'equilibrio iniziale e contiene anche la retta di azione del peso; non contiene invece in generale il centro C′ e quindi nemmeno la spinta della carena AB′, che, essendo verticale quando la nave è inclinata di θ, è parallela allo stesso piano. Supponendo che una causa esterna faccia inclinare la nave e cessi di agire allorché questa si trovi immersa secondo AB′ e senza forza viva, si vede quindi che la nave si trova sotto l'azione della coppia che risulta costituita dal peso P applicato in G e della spinta uguale e opposta, passante per C.

Riferiamo la nave a una terna ortogonale ad essa invariabilmente collegata, con l'origine in C, l'asse X normale al piano diametrale e diretto positivamente dalla parte del menisco d'immersione BDB′, l'asse Y parallelo all'asse del galleggiamento, diretto positivamente verso poppa, e l'asse Z diretto positivamente verso l'alto. Siano X, Y, Z le coordinate di C′ e a la coordinata verticale di G, cioè il segmento CG già considerato. Dando il segno positivo ai momenti che tendono a far girare il coordinato normale all'asse al quale si riferiscono nel senso antiorario, per chi osserva disponendosi con i piedi nell'origine e con la testa dalla parte positiva dell'asse, i momenti del peso e della spinta agenti sulla nave nella posizione AB′ sono:

La coppia di momento My si chiama coppia di stabilità ed è quella che, secondo il suo segno, determina la tendenza della nave a raddrizzarsi o a sbandani ulteriormente; le altre due coppie dipendono dalla distanza Y fra il centro C′ e il piano d'inclinazione. Sono generalmente di lieve entità, specialmente se, come spesso avviene, le murate non si scostano molto dal cilindro avente per sezione retta il galleggiamento AB; per tale cilindro infatti, trattandosi d'inclinazioni trasversali, o, in generale, intorno ad assi paralleli a quelli principali d'inerzia del galleggiamento, sarebbero rigorosamente nulle. Queste due coppie, durante la rotazione della nave, producono piccole variazioni di assetto longitudinale, per le quali la nave, partendo dalla posizione AB′ in cui è stata lasciata, compie le successive rotazioni elementari intorno ad assi che non hanno esattamente la direzione CY dell'asse d'inclinazione. La legge del moto non si sa determinare, ma ciò non porta inconvenienti sensibili, perché le variazioni di assetto sono così lievi da non togliere importanza pratica alla considerazione della sola coppia di stabilità per inclinazioni puramente trasversali.

Al momento Μy della coppia di stabilità, si può dare anche la forma:

se s'indica con h la distanza fra il centro C e il punto H (prometacentro), in cui la proiezione della spinta sul piano d'inclinazione incontra l'asse CZ.

La rappresentazione di M in funzione di θ costituisce il diagramma di stabilità, che può essere polare (fig. 103), o, più comunemente, cartesiano (figura 104); quest'ultimo, in quelle navi che, per particolari condizioni, non si trovano in equilibtio stabile nella posizione dritta, prende l'aspetto della fig. 105.

È indifferente, per una data nave e per un dato dislocamento, rappresentare i momenti M oppure i soli bracci (h a) sen θ; ma non è più lo stesso, allorché si tratta di paragonare le condizioni di stabilità di due navi di diverso dislocamento o le condizioni di una stessa nave, quando si trova più o meno immersa, in relazione alla quantità di carico che contiene.

Considerando il limite del rapporto M/θ per θ tendente a zero, si vede che, essendo r il limite di h, la derivata dM/dθ nell'origine rappresenta il coefficiente di stabilità P (r a); e, se invece dei momenti si sono rappresentati i bracci, la derivata nell'origine rappresenta l'altezza metacentrica r − a. In corrispondenza dell'angolo θ = 1 rad. ⊄ 57°17′45″, si ha quindì (fig. 104):

essendo ON la tangente alla curva nell'origine.

Se la nave è stabile nella posizione dritta, la successiva posizione di equilibrio θc è instabile (angolo di capovolgimento o di momento nullo, ma non di stabilità nulla, come spesso si dice); se la posizione iniziale è instabile, il successivo angolo di equilibrio segna una posizione di equilibrio stabile, che, se l'evoluta metacentrica (cioè l'evoluta della proiezione della curva CC′ sul piano d'inclinazione) è a rami ascendenti nella sua origine m, può essere moderatamente inclinata (posizione di ingavonamento). Questa posizione è infatti individuata da quell'angolo θ1 per il quale il prometacentro coincide col centro di gravità, il quale, per ipotesi, ossia per l'instabilità dell'equilibrio nella posizione dritta, sta al disopra di m è dunque necessario che, partendo da m verso l'alto, si possano trovare dei prometacentri, ossia che l'evoluta sia a rami ascendenti.

Quando l'evoluta metacentrica è a rami ascendenti, le altezze h sono maggiori del raggio metacentrico r per un certo tratto a partire dalla posizione dritta e quindi il diagramma di stabilità, dopo avere toccato nell'origine la sinusoide che rappresenta i valori di P (r a) sen θ, ossia i valori dei momenti con l'approssimazione del metodo metacentrico, si eleva al disopra di essa per un certo tratto, salvo poi ad attraversarla per incontrare l'asse delle ascisse molto prima di essa. L'opposto si verifica se l'evoluta è a rami discendenti.

Per tracciare il diagramma di stabilità, bisogna avere i bracci X cos θ + Z sen θ o h sen θ delle spinte, in funzione di θ, dai calcoli delle carene inclinate trasversalmente. Se non si hanno i risultati di tali calcoli, i momenti di stabilità, soltanto fino all'inclinazione trasversale individuata dal galleggiamento inclinato che tocca l'orlo del ponte di coperta, si possono, se l'evoluta è a rami ascendenti, determinare con buona approssimazione, come dimostrò Mengoli, mediante la formola:

che è rigorosa nel caso delle murate coincidenti col cilindro avente per sezione retta il galleggiamento dritto AB, il che dà luogo a un arco CC′ parabolico, le cui coordinate sono: X = r•tg θ e Z = 1/2 r•tg2 θ.

In un intervallo ancora più piccolo, cioè fino a 10° ÷ 15°, secondo le forme della nave, i momenti di stabilità si possono calcolare con la formola del metodo metacentrico

più volte considerata. A essa, e talvolta anche a quella che la precede, si può spesso, assai utilmente, sostituire la seguente:

la quale non costituisce un'approssimazione ancora più grossolana della formula metacentrica, come si potrebbe supporre vedendovi sostituito l'arco al seno e come è realmente in altri casi; ma è invece una formula che, quando l'evoluta metacentrica è a rami ascendenti, è spesso molto più vicina al vero della precedente, e talvolta anche della formula proposta da Mengoli, mentre ha su esse il vantaggio di apportare notevoli semplificazioni analitiche nella trattazione di diversi problemi, specialmente nello studio delle oscillazioni delle navi.

Poiché per la sicurezza della nave è di somma importanza che il diagramma di stabilità racchiuda la maggiore area possibile, è necessario, come si vedrà chiaramente fra poco, che l'evoluta metacentrica sia a rami ascendenti. Questo risultato si consegue dando ai profili delle ordinate centrali, all'altezza del galleggiamento, raggi di curvatura molto grandi, cioè per lo meno alquanto maggiori della mezza larghezza della nave. Sono quindi senz'altro da scartare quei profili di ordinata maestra, comuni nei bastimenti di forme fini e specialmente nei velieri, aventi marcata curvatura all'altezza del galleggiamento (fig. 106); apparentemente preferibili, perché la linea del garbo, considerata in sé sul disegno, presenta un andamento indubbiamente più estetico di un profilo a fianchi pressoché rettilinei (fig. 107), riducono in misura considerevole l'attitudine del bastimento, e specialmente del veliero, a resistere alle azioni che tendono ad abbatterlo in mare burrascoso. Inoltre, se su una nave si eseguono operazioni d'imbarco, sbarco o spostamento di pesi, ecc., che, producendo un sollevamento graduale del suo centro di gravità, possano eventualmente annullarne l'altezza metacentrica, non appena G raggiunge m e si eleva al disopra di esso, la nave con evoluta a rami discendenti si abbatte senz'altro, mentre, se ha l'evoluta a rami ascendenti, assume, partendo dalla posizione dritta, e con continuità, tutte le posizioni di equilibrio stabile comprese tra quella dritta e l'altra per la quale il punto H coincide con la posizione finale di G. L'angolo d'ingavonamento è con buona approssimazione definito da:

Si chiama stabilità dinamica di una nave relativa a un'inclinazione trasversale θ, il lavoro che si deve compiere per portare la nave dalla posizione dritta, nella quale si suppone inizialmente in equilibrio stabile, nella posizione definita dall'isocarena inclinata trasversalmente dell'angolo θ, senza velocità finale e in mezzo calmo e non resistente. Indicando con L questo lavoro, la stabilità dinamica all'inclinazione generica θ risulta quindi espressa da:

ed è misurata dall'area Ω racchiusa tra l'asse delle ascisse θ, la curva dei momenti di stabilità e l'ordinata individuata dall'angolo θ. Se 1 mm. di ascissa rappresenta α gradi, e se 1 mm. di ordinata del diagramma di stabilità rappresenta τ tonn. metri e si misura Ω sul disegno in mmq., la stabilità dinamica è data in tonn. metri da: L = 0,01745 α•Ω.

L'area racchiusa dall'intero diagramma di stabilità, tra l'origine e l'angolo di capovolgimento θc, si chiama riserva totale di stabilità della nave. Essa rappresenta l'energia necessaria per capovolgere la nave, sempre che questa si trovi inizialmente dritta e ferma, come si è supposto nel definire la stabilità dinamica; ma queste condizioni non sono certamente le più sfavorevoli, che è assolutamente necessario considerare per la sicurezza della nave. Ci siamo infatti finora occupati delle inclinazioni della nave da un solo lato del piano diametrale; se consideriamo anche le inclinazioni dal lato opposto (θ 〈 0), il diagramma di stabilità diviene simmetrico rispetto all'origine (fig. 108). La nave, lasciata libera a se stessa e senza velocità in un punto qualunque dell'intervallo fra −θc e + θc, esclusi gli estremi che segnano posizioni di equilibrio instabile, oscilla come un pendolo fra tale punto e quello simmetrico (se per ora si prescinde dalle resistenze), nei quali è massima l'energia potenziale, passando per la posizione dritta, in cui è massima l'energia cinetica.

Se parte, ad es., dall'angolo −θc + ε, essendo ε un angolo positivo tendente a zero, giunge dalla parte opposta all'angolo θc − ε, prossimo all'angolo di capovolgimento, per la sola azione della coppia di stabilità M, sbandante, perché fa crescere θ, a sinistra dell'origine e raddrizzante a destra di questa. In tali condizioni, una causa inclinante esterna, agente nel senso dei θ positivi con un momento m anche piccolissimo, farebbe superare l'inclinazione θc producendo il capovolgimento della nave; nella realtà, basta che il lavoro della coppia inclinante sia appena superiore a quello assorbito dal momento resistente μ che l'acqua oppone al moto oscillatorio della nave. Il pericolo di capovolgimento, evidente nel caso limite ora appositamente considerato, sussiste per oscillazioni di ampiezza anche molto minore, al crescere del momento inclinante esterno m; sia questo rappresentato, in valore assoluto, dalle ordinate della curva DAE, che, dato l'andamento della curva (M) dei momenti di stabilità, se la incontra una prima volta in un certo punto A, la incontra in generale anche una seconda volta al disopra o al disotto dell'asse delle ascisse.

Se il momento m agisce staticamente sulla nave e, nel primo punto d'incontro A, la differenza dei valori assoluti di M ed m passa da valori negativi a valori positivi, il corrispondente angolo θ1 è di equilibrio stabile e la nave può rimanere in tale posizione. La stessa posizione è anche effettivamente raggiunta, ma dopo una serie di oscillazioni, se la nave, nel momento in cui comincia ad agire su di essa la coppia m, si trova istantaneamente ferma al termine di una sua oscillazione dalla parte dei θ negativi, nella posizione definita da un angolo −θ2 tale che il lavoro della coppia sbandante risultante m M nell'intervallo da −θ2 a θ1 sia minore del lavoro della coppia raddrizzante risultante M − m fra θ1 e l'angolo θ3 in cui le curve (M) ed (m) s'incontrano generalmente una seconda volta, aumentato del lavoro della coppia μ per tutto l'intervallo da −θ2 a θ3. In altri termini, per ottenere che la velocità della nave si annulli alla fine dell'oscillazione dalla parte dei θ positivi, in corrispondenza di un angolo θ4 che sia minore dell'angolo θ3 che segna il capovolgimento della nave sotto l'azione della m (e, se questa non varia col tempo, la posizione θ1 sia effettivamente raggiunta dopo una serie di oscillazioni) è necessario che l'area ABD sia eguale alla somma dell'area AFN (che al più potrà raggiungere la AFE) e di quella che rappresenta il lavoro della μ per tutta l'oscillazione da −θ2 a θ4. Al limite, trascurando per sicurezza la resistenza del mezzo, anche in vista delle piccole variazioni di assetto che accompagnano l'inclinazione trasversale e che certamente fanno scostare il comportamento reale della nave da quello che risulterebbe dal diagramma di stabilità, si può dire che l'angolo −θ2 che segna l'ampiezza massima dell'oscillazione dalla parte dei θ negativi, compatibile con la sicurezza della nave esposta all'azione della coppia m, e quello θ3 che la segna dalla parte opposta, sono legati dalla condizione di eguaglianza delle aree ABD ed AFE.

Da tutto ciò che precede è evidente che la riserva totale di stabilità di una nave debba avere il massimo valore possibile. Questo scopo si raggiunge innanzi tutto con l'evoluta a rami ascendenti e con forte bordo libero; si raggiunge altresì con un elevato valore dell'altezza metacentrica, ma questa non può accrescersi senza inconvenienti e, d'altra parte, se il suo valore elevato è dovuto ad eccessiva larghezza della nave, viene, a pari bordo libero, a ridursi l'inclinazione del galleggiamento che tocca l'orlo del ponte di coperta e con essa l'estensione del diagramma, misurata dal valore dell'angolo di capovolgimento θc. Per una nave esistente, alla quale non si vogliano apportare modifiche, e per un dato valore del suo dislocamento, la riserva totale di stabilità può accrescersi soltanto abbassando G con l'abbassare il baricentro del carico, fino a raggiungere il massimo valore accettabile dell'altezza metacentrica ZmZc.

Prova di stabilità. - Durante la costruzione e l'allestimento di una nave, i singoli elementi che la costituiscono, a misura che vengono collocati al loro posto, sono registrati in un elenco, col loro peso accertato e con le coordinate dei punti che i loro centri di gravità vengono ad occupare sulla nave. Si ha così il modo di determinare il peso totale P di essa e le coordinate del suo centro di gravità G; ma, dato il numero considerevole degli elementi che la compongono, le cause di errore non sono poche e quindi i valori che si ottengono, specialmente per le coordinate di G, devono ritenersi come risultati di prima approssimazione, da sottoporre a ulteriore verifica.

La determinazione più accurata delle coordinate di G si effettua mediante la prova di stabilità, la quale, come appare dalla sua stessa denominazione, ha anche lo scopo di determinare l'altezza metacentrica della nave nelle condizioni dell'esperienza, nonché in altre condizioni di carico.

Sulla nave galleggiante in acqua calma e senza inclinazione trasversale, s'imbarca un peso p, ordinariamente costituito da un carrello, carico di pani di ghisa o di altra zavorra, il quale può scorrere su un binario fissato trasversalmente in coperta nella parte centrale dello scafo e viene spostato mediante paranchi, che servono anche a trattenerlo in una posizione qualunque lungo il binario. La prova consiste nello spostare il peso p, disposto inizialmente col suo baricentro nel piano diametrale, verso una delle murate e nel misurare l'inclinazione trasversale θ che la nave assume in seguito allo spostamento. Se questo ha la lunghezza u, l'equazione che esprime l'equilibrio della nave inclinata di θ risulta dall'eguaglianza del momento di stabilità P(r − a) sen θ al momento sbandante p u cos θ dovuto allo spostamento (fig. 109). Ne segue:

Questa espressione dà l'altezza metacentrica della nave nelle condizioni della prova. In essa i valori esatti di tutte le grandezze sono noti, perché p e u sono accuratamente misurati, P si rileva dalla scala di solidità in base alle immersioni lette sulle scale tracciate sui dritti e l'angolo θ viene misurato con uno o più fili a piombo, che vanno dalla coperta nelle stive (navi mercantili), oppure da una coffa in coperta (navi militari); servendosi di una scala graduata disposta orizzontalmente presso l'estremo inferiore del filo o dei fili a piombo, si rileva lo spostamento orizzontale di tale estremo e dividendolo per la lunghezza del pendolo si ha la misura di tg θ. Determinata l'altezza metacentrica r - a, la si toglie dal raggio metacentrico r, rilevato dai risultati dei calcoli delle carene dritte, e si ottiene l'altezza a del centro di gravità G sul centro di carena C, di cui l'altezza è nota dagli stessi calcoli di carena. Il valore del peso p da imbarcare per la prova si determina servendosi della stessa equazione di equilibrio, nella quale si fissa θ fra 1,5° e 3° e si pongono per le altre grandezze valori grossolanamente approssimati, che sono noti e sono sufficienti per la determinazione sommaria di p, la quale non ha carattere di precisione, ma serve solo per conoscere l'ordine di grandezza del peso p, che poi sarà esattamente misurato prima che venga imbarcato.

La prova dev'essere eseguita con mare ed aria perfettamente calmi, in porto o in bacino. La nave deve essere assolutamente libera di inclinarsi e quindi gli ormeggi si ridurranno solamente a qualche cavo disposto in prossimità del piano diametrale e da lasciarsi in bando, se è possibile, al momento delle letture. Bisogna inoltre annullare l'influenza che i carichi, sospesi, mobili e liquidi hanno sulla stabilità, vincolando convenientemente quelli sospesi o mobili e curando che le casse d'acqua siano vuote o interamente piene; che le sentine e i compartimenti del doppio fondo non contengano acqua. Le caldaie si riempiono ordinariamente fino al loro livello normale e i condensatori completamente. La gente imbarcata non dovrà muoversi dal suo posto durante la prova, ecc.

Resistenza al moto delle navi. - Generalità. - Lo studio della resistenza al moto delle navi s'inizia d'ordinario con la considerazione della cosiddetta resistenza al rimorchio.

Si supponga di togliere a una nave l'apparato propulsore con le sistemazioni ad esso inerenti (alberi, ringrossi, bracci di sostegno, ecc.), il timone, le alette di rullio e, in generale, tutte le appendici di carena, in modo da ottenere, come suol dirsi, uno scafo nudo, e s'immagini che questo scafo, rimesso mediante conveniente zavorramento nelle stesse condizioni d'immersione e di assetto della nave completa e con carena pulita, sia tenuto in moto di avanzamento uniforme e rettilineo in acqua calma, profonda e illimitata, mediante una forza contenuta nel piano diametrale ed avente la stessa intensità e la stessa linea di azione della spinta netta (ossia ridotta della deduzione di spinta) esercitata dal propulsore sulla nave completa alla stessa velocità, oppure della risultante delle spinte nette, se il propulsore non è unico. Se la forza appliplicata è tale da non modificare in alcun modo il moto originato dalla sola traslazione dello scafo nudo nell'acqua circostante, la resistenza che questa oppone al suo movimento risulta, per la supposta uniformità del moto, eguale e contraria alla componente orizzontale della forza che fa avanzare lo scafo e si chiama resistenza al rimorchio della nave alla velocità considerata.

Tutti i sistemi di propulsione finora impiegati - non esclusa la vela, che, all'infuori della deriva, produce variazioni di assetto e sbandamenti che mutano la forma della superficie immersa e la sua orientazione rispetto alla direzione del moto - modificano in modo più o meno sensibile le condizioni di moto dell'acqua circostante alla nave. Lo stesso rimorchio con altra nave, a velocità sufficientemente elevata, può, secondo le circostanze, far risentire in misura maggiore o minore il movimento prodotto nell'acqua dal rimorchiatore, e la tensione del cavo o dei cavi di rimorchio non ha inoltre la stessa linea di azione né lo stesso valore della spinta netta che il propulsore imprimerebbe alla nave per farla avanzare alla stessa velocità. Le condizioni considerate nella definizione si possono invece realizzare nel rimorchio dei modelli nelle vasche sperimentali; in esse, infatti, il mezzo traente non ha alcuna relazione con l'acqua della vasca, e, se la forza di trazione è applicata secondo la linea di azione delle spinte nette del propulsore che dovrà essere sistemato nello scafo, l'assetto che questo prenderà durante il moto per effetto di tale forza, delle pressioni dell'acqua sulla carena e del peso, corrisponderà a quello della nave al vero, salvo variazioni pressoché insensibili, dovute all'incompleto verificarsi delle condizioni richieste dall'applicabilità della teoria della similitudine meccanica. Del resto anche insensibili sono le variazioni di assetto che si verificano nei modelli di navi se la forza di trazione non è applicata esattamente secondo la linea della risultante delle spinte nette che dovranno esercitare i propulsori nella nave al vero, perché il momento di stabilità longitudinale, anche per inclinazioni lievi, è relativamente forte.

Se invece di considerare il moto dello scafo nudo, si considera il moto della nave completa, dalla quale siano stati tolti i soli propulsori, la relativa resistenza si chiama resistenza al rimorchio della carena munita di appendici.

La determinazione della resistenza al rimorchio vien fatta, come si è detto, ritenendo calma, profonda e illimitata l'acqua nella quale si muove la nave e pulita la carena. Ma se l'acqua è agitata, se vi è corrente deficienza di profondità, vicinanza di sponde; se la carena non è pulita, perché ha soggiornato per un certo tempo in acqua, si hanno variazioni di resistenza, che si considerano d'ordinario separatamente, sotto il nome di resistenze addizionali. In esse è compresa anche la resistenza normale dell'aria e quella accidentale del vento sulle parti emerse della nave, che possono essere notevoli, specialmente se la velocità è elevata e le soprastrutture sono molto estese. Del pari fra le resistenze addizionali viene considerata la resistenza delle appendici di carena. Sicché, riassumendo, la resistenza totale comprende: la resistenza al rimorchio; la resistenza delle appendici di carena; la resistenza dell'aria; le altre eventuali resistenze addizionali.

Resistenza al rimorchio. - Per determinare la resistenza al rimorchio di una nave, bisognerebbe conoscere il valore e la direzione della pressione in ciascun punto della carena, nonché la linea d'intersezione della superficie dello scafo con la superficie in cui si trasforma il piano di livello dell'acqua durante il moto della nave. Ma poiché finora non si ha alcun mezzo scientifico per calcolare questi elementi, si è costretti, nel campo tecnico, a determinazioni di carattere empirico, o pressoché tali.

L'acqua, nella quale è immerso lo scafo nudo, agisce con la sua pressione su ciascun elemento della superficie di carena, dando luogo alla resistenza al rimorchio; a sua volta, lo scafo esercita pressioni eguali e contrarie sull'acqua che lo circonda producendo movimenti delle particelle liquide, che parzialmente si manifestano sotto forma di vortici e di onde superficiali. La forza che, nelle condizioni di regime, fa avanzare lo scafo nudo equilibrando la resistenza al rimorchio viene trasmessa, per mezzo dello scafo stesso, all'acqua circostante; e il lavoro che tale forza compie in un certo tempo rappresenta l'energia comunicata all'acqua durante lo stesso tempo. Se quindi si sapesse determinare questa energia, potrebbe determinarsi la resistenza, senza conoscere il valore e la direzione della pressione in ciascun punto della carena, né la linea che durante il moto limita superiormente la parte immersa della superficie dello scafo. Questo modo di procedere sarebbe perfettamente lecito, ma purtroppo nemmeno l'energia comunicata all'acqua si sa attualmente determinare. Bisogna inoltre convenire che, nel campo tecnico, regna in proposito una confusione di idee, che non giova certo ad avviare il problema verso una soluzione razionale.

Nell'ingegneria navale infatti, la resistenza al rimorchio si considera costituita dalle seguenti parti: resistenza di attrito; resistenza di vortici; resistenza d'onda.

In altri termini, si considera la resistenza di attrito, dovuta alle componenti tangenziali delle pressioni, e l'insieme delle resistenze di vortici e di onda, che, ove fosse esattamente determinabile in base all'energia dissipata nel liquido, darebbe tutta la resistenza al rimorchio e non la parte che resta allorché se ne toglie l'attrito, inquantoché l'acqua circostante allo scafo è messa in moto dalle intere pressioni agenti sui singoli elementi della superficie liquida a contatto con la carena, e non dalle sole componenti normali di queste pressioni.

Comunque sia, non trattandosi qui di uno studio critico, sibbene dell'esposizione dei procedimenti che si seguono nell'ingegneria navale, non possiamo scostarci da questa suddivisione della resistenza al rimorchio e dalla successiva considerazione delle sue diverse parti.

Di esse, la resistenza di attrito si determina sempre mediante calcolo diretto; la resistenza di vortici e quella d'onda possono determinarsi, sia con procedimento di calcolo diretto, cioè mediante formule empiriche, sia applicando la teoria della similitudine meccanica ai risultati delle esperienze eseguite su un modello avente la carena limitata da una superficie simile a quella che limita la carena della nave.

I valori della resistenza d'onda ottenuti mediante formule empiriche sono in generale meno attendibili di quelli ottenuti coi procedimenti fondati sulla teoria della similitudine meccanica.

Resistenza di attrito. - È prodotta dallo strisciamento dell'acqua in moto turbolento sulle pareti dello scafo. Nell'ingegneria navale si ammette col Froude che la resistenza di attrito di una nave si possa ritenere eguale a quella incontrata alla stessa velocità da una lastra piana della stessa area e lunghezza e avente lo stesso grado di scabrosità superficiale; alla stessa conclusione pervenne il Tideman, ingegnere del genio navale olandese. La resistenza di attrito Ra di una nave o di un modello può quindi esprimersi con la relazione generica:

in cui δ è il peso specifico relativo dell'acqua nella quale il galleggiante si muove, S è la superficie di carena, v la velocità, f un coefficiente ed n un esponente ricavati dall'esperienza.

Secondo il Tideman, per i modelli di paraffina che si adoperano nelle vasche sperimentali, l'esponente n è costante ed eguale a 1,94, mentre il coefficiente f è una funzione decrescente della lunghezza del modello. Per le navi in vera grandezza, egli distingue gli scafi di ferro dipinti e quelli di legno, rivestiti di rame o di zinco. L'esponente n, che, come ora si è detto, è costante per i modelli, secondo le sue esperienze, per le navi è invece funzione decrescente della loro lunghezza fino ai venti metri; al disopra di questa lunghezza rimane costante ed eguale a 1,829 per gli scafi dipinti, a 1,827 per quelli rivestiti con rame o zinco in buone condizioni e a 1,843 per i medesimi dopo lunga permanenza in acqua. I coefficienti f. risultano anche qui funzioni decrescenti della lunghezza della nave ed hanno i seguenti valori:

Questi valori di f e di n, sostituiti nella formula precedente, nella quale S sia espressa in mq. e v in m./sec., dànno la resistenza Ra espressa in kg. se la velocità si esprime in miglia all'ora, cioè in nodi,

perché un miglio marino è 1852 metri, e allora la Ra è data dalla formula:

che, per scafi dipinti, essendo n = 1,829, diviene:

Il Froude considera navi con carene dipinte accuratamente e modelli dipinti allo stesso modo o di paraffina. Non fa alcuna distinzione tra superficie dipinte o di paraffina, né tra le navi e i modelli, e considera il coefficiente f variabile soltanto con la lunghezza del galleggiante, nel modo che segue:

L'esponente n è per lui costante in tutti i casi ed eguale a 1,825. Essendo 0,51441,825 = 0,297, la resistenza di attrito secondo Froude risulta data in kg. da:

per S in mq. e V in nodi. In entrambe le formule, per δ si porrà 1 per acqua dolce ed 1,026 per acqua di mare; e la superficie di carena si potrà calcolare con sufficiente approssimazione con qualcuna delle formule empiriche più attendibili, p. es. con quella di Denny, secondo il quale si ha: S = L (1,7•i + ϕ•λ); in essa, L, l, i e ϕ sono rispettivamente la lunghezza, la larghezza, l'immersione e il coefficiente di finezza totale della carena.

Presso la vasca sperimentale della Spezia fu studiata l'influenza della natura della superficie di carena sul valore della resistenza totale e quindi, a parità di condizioni, sul valore della resistenza di attrito. Al variare delle pitture adoperate, i risultati furono pressoché eguali, sicché si venne alla conclusione che la specie di pittura, purché questa sia bene stesa, non ha in definitiva alcuna pratica influenza sul valore della resistenza di attrito.

I coefficienti di attrito precedentemente considerati riguardano sempre carene pulite; ma quando una carena, dopo una certa permanenza in acqua, specialmente nei climi tropicali, si è ricoperta di incrostazioni e vegetazioni, il coefficiente di attrito può crescere fortemente, cagionando una notevole perdita di potenza motrice.

Resistenza di vortici. - Alla parte poppiera di una nave in moto, anche se la supponiamo rimorchiata senza l'insieme del propulsore e delle sistemazioni relative, si verifica che una porzione dell'acqua, e specialmente quella proprio dietro la poppa, ha dei moti vorticosi, i quali riducono notevolmente la pressione sulla parte posteriore della carena, generando una resistenza, che costituisce la resistenza dei vortici dovuti al solo scafo senza appendici. Essa è tanto più forte, quanto più estesa è la regione nella quale l'acqua presenta questi moti vorticosi, cioè quanto più piene sono le linee d'acqua alla parte poppiera, in relazione alla velocità della nave. Il Froude ritiene che, per navi ben disegnate, la resistenza di vortici possa giungere tutt'al più all'80% della resistenza di attrito e che ordinariamente sia da ritenersi in media dal 5 al 6 per cento di essa.

Resistenza d'onda. - Allorché la velocità di una nave supera un certo limite, dipendente dalla lunghezza e dalle forme dello scafo, si rende notevole la presenza di formazioni ondose nell'acqua circostante, le quali si propagano disperdendo quell'energia che la nave ha trasmesso ad esse vincendo una resistenza, che si chiama appunto resistenza dovuta alla formazione di onde, o, più brevemente, resistenza d'onda. Le prime onde che appaiono sono le onde divergenti di prora (fig. 110), che hanno le loro creste parallele tra loro e inclinate alla direzione del moto della nave di un angolo che decresce col crescere della velocità e oscilla in media tra 400 e 500. La linea di divergenza, cioè quella che separa l'acqua disturbata da quella indisturbata, appare come una retta facente un angolo quasi metà di quello delle creste, cioè all'incirca di una ventina di gradi con la direzione del moto della nave. In modo analogo, ma col crescere della velocità e specialmente con forme poppiere piuttosto piene, appare anche a poppa un sistema di onde divergenti. Ciascuna coppia di onde divergenti simmetriche rispetto al piano diametrale della nave, sia di prora, sia di poppa, marca, in senso trasversale alla nave, il limite di variazioni di livello costituenti un'onda trasversale; queste onde trasversali così comprese tra la nave e le onde divergenti, dalle osservazioni fatte, pare che siano trocoidali e aventi una celerità eguale alla velocità di avanzo della nave, e quindi la lunghezza

I due sistemi ondosi trasversali, di prora e di poppa, hanno origine in due punti la cui distanza è uguale o un po' maggiore della lunghezza della nave al galleggiamento, secondoché la velocità è bassa o elevata; tale distanza non è quindi, in generale, un multiplo della lunghezza d'onda L e i due sistemi non avranno concordanza di fase; il sistema poppiero risulterà allora modificato da quello prodiero, al variare della velocità in relazione alla lunghezza della nave. Sull'andamento della curva che, per una data nave, rappresenta la resistenza d'onda in funzione della velocità, ha influenza predominante il rapporto V/L tra la velocità e la radice quadrata della lunghezza della nave; torneremo più in là su questo punto, assai importante per l'economia di potenza motrice.

Nessuna trattazione seria e quindi nessuna formula razionale esiste ancora per il calcolo della resistenza d'onda; anche nel campo scientifico si sa ancora molto poco per soddisfare ai bisogni della pratica. Esistono diverse formule empiriche, tutte più o meno inattendibili; l'unica forse, che, in mancanza di altro, può convenire aver presente è quella di Taylor, che è valida soltanto se V/L non supera 2 (per V in nodi ed L in metri):

in essa R0 è data in kg. in funzione del dislocamento P in tonn., allorché al fattore b si dànno i valori:

Per lo stesso campo di velocità, fu in seguito data dal Taylor un'altra espressione per calcolare la R0, che è la seguente:

in cui ϕ è il coefficiente di finezza totale di carena, e gli altri simboli e le unità con le quali sono misurate le grandezze da essi rappresentate sono gli stessi di quelli della formula precedente, sulla quale questa seconda presenta il vantaggio di eliminare le incertezze cui dà luogo la scelta del valore da assumere per il coefficiente b.

Ma queste o altre formule empiriche non possono dare che un valore grossolanamente approssimato della resistenza d'onda, che può essere utile per valutazioni sommarie nell'abbozzare il progetto di un bastimento, sempre quando, come negli ordinarî mercantili (inclusi i più celeri piroscafi da passeggeri finora costruiti), il V/L si mantenga inferiore al limite indicato. Se invece questo limite è superato (naviglio militare, motoscafi, ecc.), o se la costruzione è di una certa importanza, la determinazione definitiva della resistenza residua viene fatta mediante i risultati delle prove di un modello della nave in una vasca sperimentale. In questa brevissima trattazione non possiamo fermarci sulla descrizione delle vasche per esperienze di architettura navale (v. bibliografia a p. 389), di cui si sente l'assoluta necessità per tutti i problemi inerenti al moto di un solido (carena, timone, propulsore, ecc.) in contatto con un liquido; il lettore potrà però, con l'aiuto delle illustrazioni, formarsi almeno un'idea sommaria di un impianto del genere. Si tratta in sostanza di lunghi bacini a guisa di canali rettilinei, chiusi alle estremità e muniti sulle sponde di rotaie che costituiscono un binario poco più largo della vasca. Su questo può scorrere, mediante opportune trasmissioni, un carro dinamometrico, il quale trascina il modello di carena o di elica a velocità regolabile, e porta gli strumenti registratori di tutti gli elementi da rilevare, nonché il personale che esegue le esperienze. Per la determinazione della resistenza al moto di una nave, si costruisce, generalmente in paraffina e con le apposite macchine di cui sono dotati tali impianti, un modello, ossia un solido limitato da una superficie geometricamente simile a quella esterna dello scafo della nave. Sia λ il rapporto delle dimensioni lineari tra la nave e il modello e sia r la resistenza totale rilevata dagli apparati registratori, allorché esso vien fatto avanzare nella vasca a una velocità generica v, in date condizioni di dislocamento e di assetto iniziale: i valori di r in funzione di v così ottenuti, sono sufficienti per determinare la resistenza di una carena simile, di qualunque grandezza, entro limiti della velocità V corrispondenti (ossia tali da soddisfare alla condizione V = v V/√λ, come diremo tra poco) ai minimi e ai massimi valorì tenuti per v durante le prove del modello. La determinazione si effettua applicando la teoria della similitudine meccanica di Newton. Per tale applicazione, è necessario innanzi tutto che vi sia similitudine geometrica dei due sistemi materiali che si paragonano e occorre inoltre che la velocità della nave e quella del modello stiano nel rapporto V/v = √λ, ossia si corrispondano nella similitudine cinematica, che del pari deve esser soddisfatta; realizzate queste condizioni, se una forza F agente sulla nave e la corrispondente forza f agente sul modello sono, per loro natura, tali da verificare le condizioni di similitudine, il rapporto di esse sarà noto, perché sarà eguale a quello dei dislocamenti delle due carene simili, ossia sarà λ3 se nave e modello si muovono in acqua della stessa densità, e sarà invece 1,026•λ3 se la nave si muove in acqua di mare del peso specifico 1,026 e il modello in acqua dolce, come si usa fare nelle vasche sperimentali.

Sia ora R = Ra + R0 la resistenza al moto della nave alla velocità V = v √λ, e sia r = ra + r0 a corrispondente resistenza del modello. Se R ed r soddisfacessero alle condizioni volute dalla teoria della similitudine, si avrebbe senz'altro R = 1,026•λ3r; ma ciò non avviene, perché, mentre le resistenze residue o di forma Ro ed r0 seguono la legge di similitudine (se la grandezza e la velocità del modello sono tali da assicurare intorno ad esso lo stesso regime che si stabilisce intorno alla nave, ossia similitudine di linee di corrente), le resistenze di attrito non la seguono. Le resistenze residue sono infatti le risultanti delle componenti orizzontali delle pressioni normali agenti sui singoli elementi delle superficie di carena e quindi, se i campi di moto nei due sistemi sono simili, la velocità relativa U del liquido in un punto della carena della nave e quella u nel punto corrispondente della carena del modello, sono proporzionali alle rispettive velocità di avanzo V e v: le pressioni risultano allora proporzionali ai quadrati delle stesse velocità, oltre che alle densità, e le somme dei loro prodotti per gli elementi di superficie, ossia le resistenze residue, stanno come i dislocamenti e quindi soddisfano alle condizioni di similitudine meccanica. Ciò è confermato anche dalla similitudine delle formazioni ondose prodotte da una nave e da un suo modello, a velocità corrispondenti. Quanto all'attrito, il rapporto fra la resistenza della nave e quella del modello dei quali siano fn ed fm i rispettivi coefficienti di attrito, è:

e anche senza considerare che fn è sempre minore di fm, si vede che il rapporto delle resistenze di attrito è sempre minore di quello 1,026•λ3 dei dislocamenti, essendo 1,825/2 minore dell'unità. Si può anche osservare che manca la similitudine geometrica tra le asperità delle superficie delle due carene è che, a parità di stato superficiale, il modello è relativamente più scabro della nave e quindi ha una resistenza di attrito relativamente maggiore.

Premesse queste nozioni, appare chiaro il procedimento ideato da William Froude per determinare la resistenza totale di una nave, servendosi di un modello λ volte più piccolo di essa. Fissata la velocità V della nave, si farà avanzare il modello alla velocità v = V/√λ e se ne misurerà la resistenza totale r; si sottrarrà da questa la resistenza di attrito ra calcolata direttamente con una delle formule date precedentemente e si avrà la resistenza residua r0 del modello. Poiché questa soddisfa alle condizioni di similitudine, la resistenza R0 della nave sarà 1,026•λ3r0; e infine, aggiungendo a questa la resistenza di attrito della nave, calcolata anch'essa direttamente, si avrà la desiderata resistenza totale della nave alla velocità stabilita.

Col metodo delle costanti di Robert Froude, che qui citiamo soltanto per accennare a qualcuna delle più importanti deduzioni che da esso possono trarsi, la resistenza totale può mettersi sotto la forma:

in cui P è il dislocamento e il coefficiente C0 + Fn, che, per una data grandezza di nave, varia al variare di V, consta di due termini: l'uno, C0 è costante per carene simili a velocità corrispondenti, cioè per V/L costante; l'altro, Fn, che si compone di quattro fattori, di cui tre sono del pari costanti nelle condizioni di similitudine ora indicate, mentre il quarto soltanto varia al variare della lunghezza assoluta della nave, secondo una funzione nota. Si può allora, per una data forma di carena, tracciare la curva dei Co in funzione di V/L o di grandezze ad esso proporzionali; essa è sempre la stessa, quale che sia la grandezza assoluta delle carene simili a quella per la quale è stata determinata in base ai risultati sperimentali; e, sulla stessa figura, dalla parte opposta, ossia al disotto dell'asse delle ascisse (fig. 115) si può tracciare la linea che rappresenta la Fn, la quale invece varia, sebbene di poco, al variare della grandezza assoluta della nave simile. Il coefficiente Co + Fn è quindi rappresentato dal segmento compreso fra le due curve. Se esso fosse sempre lo stesso in tutto il diagramma, la resistenza totale, per una stessa nave, varierebbe proporzionalmente al quadrato della velocità; invece, com'è agevole rilevare, ciò si verifica solo in qualche tratto, per valori moderati di V/L . Considerando per maggiore esattezza il solo andamento della resistenza residua, ossia la sola curva dei C0, si vede che se il rapporto V/L , per V in nodi ed L in metri, si mantiene inferiore a 1,8 (o meglio a un valore che è un po' minore o un po' maggiore di questo limite, secondo che la carena è di forme poco o molto adatte al conseguimento di velocità elevate) la resistenza residua non cresce rapidamente per lievi aumenti di V; ciò si verifica per la generalità delle navi mercantili di buone forme, inclusi i più celeri transoceanici. A partire dal limite ora indicato, la resistenza cresce rapidamente, in modo che una nave lunga tanto poco in relazione alla sua velocità, da far risultare V/L superiore ad esso, naviga con eccessivo dispendio di potenza motrice. Superando poi notevolmente il detto limite, e giungendo a un valore di V/L uguale a 3 ÷ 3,2, si vede che, con appropriate forme di carena (esploratori, siluranti e simili), la resistenza residua, pur avendo raggiunto un valore elevato, finisce per variare persino meno rapidamente del quadrato della velocità; tale comportamento si verifica anzi per l'intera resistenza al rimorchio. Si rileva infatti dalle prove di navi progettate per questo o per un più elevato valore di V/L che, per l'aumento di potenza dovuto al margine col quale era stato prudenzialmente progettato l'apparato motore, si sono facilmente raggiunte velocità notevolmente più elevate di quelle previste.

Propulsione delle navi. - La propulsione di una nave, ossia il suo avanzamento nel senso diretto o retrogrado secondo la direzione orizzontale contenuta nel suo piano diametrale, richiede l'applicazione di una forza motrice, che, nelle condizioni di regime, deve essere eguale ed opposta alla resistenza totale che la nave incontra; questa forza è esercitata sulla nave da un organo detto propulsore e si chiama spinta del propulsore. Oltre a produrre il moto di avanzamento, il propulsore può concorrere col timone al governo della nave, e talvolta sostituirlo temporaneamente in caso di avarie durante la navigazione.

La propulsione può essere a remi, a vela e meccanica. I propulsori meccanici sono: quello ad elica, costituito da una o più eliche (v. elica, XIII, p. 792 segg.), quello a ruote laterali, collegate o indipendenti, quello a ruota unica di poppa, il propulsore a getto, detto anche idraulico, e altri di minore importanza.

Non sono qui considerati i sistemi di rimorchio e di alaggio che sono usati per i galleggianti lungo i fiumi e i canali. Talvolta si parla di propulsione a vapore, elettrica, ecc., riferendosi, con espressione impropria non al tipo di propulsore della nave, sibbene al tipo di apparato motore il quale tiene in azione il propulsore.

Il propulsore di importanza incomparabilmente superiore a quella di tutti gli altri e quindi adoperato quasi esclusivamente, è quello a elica; ad esso seguono, per ordine d'importanza, il propulsore a ruote e quello a getto.

Quest'ultimo è costituito da una pompa che aspira l'acqua da un tubo che si apre nella carena e la scarica da uno o più tubi in senso contrario al moto della nave, cioè verso poppa, per la marcia avanti, e verso prora, per la marcia indietro; può anche scaricarla lateralmente, per produrre la girazione del bastimento. Nel concetto è semplice, e presenta diversi vantaggi, tra i quali quello di essere meno esposto degli altri alle avarie dovute a urti o al combattimento; ma, nei pochi casi in cui, dal 1866, è stato sperimentato, ha presentato un rendimento notevolmente più basso di quello dell'elica o delle ruote e quindi non ha avuto alcuna diffusione.

Il propulsore a ruote è stato il primo propulsore meccanico applicato alle navi e ha avuto generale diffusione fino all'invenzione dell'elica. È capace di rendimento elevato, non inferiore a quello dell'elica, ma, rispetto a questa, presenta numerosi inconvenienti, che ne hanno fatto ridurre l'impiego a casi speciali. Il propulsore a ruote laterali, cioè il tipo che era ordinariamente impiegato per la navigazione marittima, è innanzi tutto ingombrante ed assai esposto alle avarie; richiede macchine più lente e quindi più pesanti e più costose di quelle occorrenti per propulsori ad elica della stessa potenza; assorbe maggiori spese di manutenzione; il suo buon funzionamento è subordinato alla giusta immersione delle sue pale e quindi risente dello stato di agitazione del mare e delle oscillazioni di rullio della nave, e, anche in acqua calma, delle variazioni di dislocamento e quindi d'immersione media, se esse sono notevoli per forte consumo di combustibile o per altre variazioni di carico. Per tutti questi motivi, l'impiego del propulsore a ruote è ora limitato a quei bastimenti che devono effettuare navigazioni di durata relativamente breve e nelle acque calme di laghi o di fiumi; in questi ultimi, se l'acqua è bassa, il propulsore a ruote presenta il vantaggio di richiedere un'immersione minore di quella occorrente per la sistemazione dell'elica ed è adoperato anche sotto forma di un'unica ruota sistemata a poppa, con rendimento egualmente elevato; in tali casi può anche adottarsi la disposizione dell'elica o delle eliche in galleria (fig. 116); la cavità a forma di vòlta, secondo la quale viene allora conformato il fasciame a poppa, contiene la parte emersa dell'elica, che può così avere un diametro notevolmente maggiore dell'immersione della nave. Durante la propulsione, l'acqua aspirata dall'elica mantiene riempito lo spazio sotto la vòlta e l'elica funziona come se l'immersione della nave fosse maggiore del suo diametro.

Alla voce elica si può vedere che la spinta da essa generata può esprimersi con la formula:

ossia mediante il prodotto della densità ρ del liquido, per la portata Q del propulsore (cioè per il volume d'acqua che esso pone in moto e fa passare nella sua scia nell'unità di tempo) e per la differenza U2U0, la quale è l'incremento di velocità assiale (supposta costante in tutti i punti di una stessa sezione trasversale della scia dell'elica) che la quantità Q di acqua riceve dal propulsore; precisamente, la velocità relativa di entrata Uo è uguale in valore assoluto alla velocità di avanzamento dell'elica rispetto all'acqua che la circonda, ossia, per l'elica accoppiata alla carena della nave, è la velocità dell'elica rispetto alla corrente uniforme avente lo stesso effetto della vera scia di carena. La U2 non è altro che N•Pe, cioè il prodotto del numero di giri che l'elica compie nell'unità di tempo per il suo passo effettivo. Alla voce elica si vede altresì che la massa ρQ riferita all'unità di tempo abbandona la scia dell'elica con la velocità relativa U2 e quindi con la velocità assoluta U2U0; sempre nell'unità di tempo si perde dunque l'energia cinetica corrispondente, che è 1/2 ρQ (U2U0)2, la quale, per l'espressione della spinta, si può scrivere anche 1/2 S(U2U0).

Sotto questa forma appare evidente che la perdita di energia, per una data spinta, risulta tanto più piccola, quanto più piccolo è l'incremento U2U0, ossia quanto più grande è Q; inoltre, dallo studio dell'elica risulta che Q = Ω1 U1 = 1/2 Ω1 (U2 + U0), in cui U0 è un dato invariabile ed Ω1 è sensibilmente propoizionale all'area del disco dell'elica; ne segue che, per aumentare Q mentre nello stesso tempo diminuisce U2, occorre senz'altro aumentare i2i. Se tutte queste deduzioni non fossero risultati di approssimazione, conseguenza delle ipotesi semplificative che si trovano messe in evidenza alla voce elica, si potrebbe concludere che la perdita di energia possa farsi tendere a zero, e quindi il rendimento all'unità, facendo crescere indefinitamente il diametro dell'elica e tendere a zero, nello stesso tempo, la differenza U2U0, la quale non è altro che il regresso lineare N•PeU riferito al passo effettivo e alla velocità U. L'esperienza dimostra però che ciò non è vero in senso assoluto: è vero soltanto se si fa diminuire il regresso fino a un certo valore, cui corrisponde il massimo rendimento; al disotto di quel valore, la diminuzione del regresso porta una riduzione, anzi una rapida diminuzione e non un aumento del rendimento, che, lungi dal tendere all'unità, tende a zero con l'annullarsi del regresso.

Ma il rendimento, col quale si effettua la propulsione, non consiste nel solo rendimento del propulsore, isolatamente considerato; esso dipende invece anche da molti altri elementi, di cui alcuni sono in relazione con la potenza motrice, sulla quale è perciò necessario un breve cenno.

Innanzi tutto, nella propulsione navale, si chiama potenza effettiva quella necessaria per spostare il punto di applicazione della resistenza al rimorchio R della catena nuda, alla velocità V di avanzamento della nave. È, in altri termini, la potenza che si utilizza per la propulsione e non è perciò da confondere con la potenza utile dell'apparato motore, che, per tutte le altre macchine motrici non sistemate sulle navi, è universalmente conosciuta appunto col nome di potenza effettiva. Se R è espressa in kg. e V in nodi, la potenza effettiva in cavalli è:

Sia ora R1 la resistenza totale della nave, la quale comprende la resistenza al rimorchio, quella delle appendici di carena, quella dell'aria calma e, in generale, le eventuali altre resistenze addizionali, che qui sono da supporsi nulle. Nell'avanzamento della nave a velocità costante V la spinta S dell'elica è uguale alla resistenza alla propulsione ed è quindi maggiore della resistenza totale R1, perché a questa si aggiunge (v. elica) l'aumento di resistenza prodotto dall'elica, la quale, aspirando l'acqua per scacciarla in senso contrario al moto della nave, produce il risucchio, cioè una depressione sulla parte poppiera della carena. Si scrive ordinariamente: R = S (1 − t) e la quantità 1 − t si chiama fattore della deduzione di spinta. Si sa inoltre che la massa d'acqua, che costituisce la scia della carena, influisce sul funzionamento del propulsore ad elica allo stesso modo come influirebbe su di esso una corrente uniforme, avente la velocità V1 = w•V, definita dal fattore di scia w, che, secondo il Taylor, si può approssimativamente rappresentare in funzione del coefficiente di finezza totale di carena con le relazioni:

Il propulsore ad elica funziona quindi come se invece di avanzare alla velocità V della nave, avanzasse isolatamente alla velocità

relativa alla corrente uniforme, equivalente alla scia. Ciò premesso, si chiama potenza di spinta la Fs definita dalla relazione:

Si ha quindi:

Il rapporto R/R1 si chiama effetto riduttore o coefficiente d'influenza delle appendici di carena (realmente include anche l'effetto della resistenza dell'aria sulla parte emersa della nave); l'altro fattore ηc = (1 − t)/(1 − w) è detto impropriamente rendimento di carena. Non è un rendimento: talvolta è anche maggiore dell'unità. Il Taylor dà infatti t = w per navi a due eliche senza speciali sistemazioni a poppa, sicché, per queste navi, risulta ηc = 1; mentre dà t = 0,3 ϕ per navi a una sola elica, nelle quali ηc, risulta alquanto maggiore di1, specialmente se il bastimento è di forme piene. Questi valori numetici di w e di t sono soltanto grossolanamente approssimati.

La potenza Fa che è strettamente necessaria, cioè appena sufficiente, per tenere in rotazione l'elica, mentre effettua la propulsione della nave alla velocità V, si chiama potenza sull'asse, relativa, s'intende, a tale velocità, come le altre potenze considerate. Se M è in kgm. la coppia motrice agente sull'asse dell'elica, immediatamente prima del mozzo, e N è il numero di giri al primo, si ha:

Supponiamo ora per un momento che l'elica, come si fa per un suo modello, sia fatta avanzate isolata alla velocità U e al numero di giri N e di misurare il momento M′ necessario per ottenere la stessa spinta S. Se la scia fosse proprio la corrente uniforme di velocità V - U, questo momento M′ sarebbe precisamente il momento M ora considerato; ma, poiché la scia non è uniforme, e, soltanto agli effetti del valore della spinta, equivale alla corrente, il momento M′ sarà diverso da M, come appunto si verifica nelle esperienze sui modelli. Il rapporto M/M si chiama fattore d'influenza della variabilità della scia. Il rendimento della sola elica in propulsione è il rapporto ηc = FS/Fa, mentre il rendimento dell'elica isolata è η = FS/Fa′, essendo Fa′ la potenza sull'asse corrispondente al momento M′. Ne segue che il rendimento dell'elica in propulsione è uguale al rendimento dell'elica isolata per il fattore d'influenza della variabilità della scia.

Si chiama poi rendimento propulsivo (da non confondere, né col rendimento dell'elica in propulsione, né col coefficiente di rendimento propulsivo totale, di cui si dirà tra poco) il rapporto Fe/Fa tra la potenza effettiva, che è la potenza utilizzata nella propulsione, e la potenza Fa che per essa si spende. Si ha quindi:

Si chiama potenza al freno la potenza utile Ff che l'apparato motore dà direttamente; essa, nelle motrici degl'impianti fissi, è detta anche potenza effettiva. È uguale alla potenza sull'asse, aumentata della potenza assorbita dalla linea d'asse, incluso il reggispinta, nonché gli eventuali riduttori di giri. Il rapporto Fa/Ff è il rendimento ηl della linea d'asse; può essere molto alto, per macchine lente, situate a poppa e con eliche direttamente calettate sull'albero motore; ma può anche scendere a 0,90 o meno, se le macchine sono situate verso la metà della lunghezza della nave, se il reggispinta è di tipo antico e se l'elica è mossa con doppia riduzione ad ingranaggi. La potenza misurata coi torsiometri - detta inesattamente potenza sull'asse - include totalmente o quasi la potenza assorbita dalla linea d'asse; essa rappresenta quindi piuttosto la potenza al freno, anziché la vera potenza sull'asse. In pratica, per le motrici a turbina o a combustione interna, vengono scambiate correntemente l'una con l'altra. Conviene aver presente questa sostituzione nel dedurre la potenza dell'apparato motore di una nave in progetto dai risultati delle esperienze di propulsione di un suo modello, perché da essi, mediante la similitudine meccanica, si ottiene in realtà la potenza sull'asse e non la potenza al freno dell'apparato motore, che può essere alquanto maggiore. Tale sostituzione, inoltre, non è lecita quando si vuol discutere sul rendimento dell'elica in propulsione, perché esso è FS/Fa e non FS/Ff, può forse questa essere una delle ragioni per le quali il rendimento delle eliche al vero si trova inferiore al rendimento dei loro modelli.

Vi è infine la potenza indicata, che si considera ordinariamente per le sole motrici a vapore alternative e talvolta anche pei motori a combustione. È il rapporto tra il lavoro fatto dalla pressione risultante del fluido motore sugli stantuffi durante un ciclo (un giro nelle macchine a vapore e nei motori a due tempi, due giri consecutivi nei motori a quattro tempi) e il tempo corrispondente. Esprimendo il lavoro in kgm. e il tempo in secondi, e dividendo per 75, si ha la potenza in cavalli.

Il rapporto ηm = Ff/Fi è il rendimento organico dell'apparato motore, che per le macchine a vapore marine può oscillare da valori alquanto elevati, p. es. o,90, se si tratta di grandissime potenze, come quelle che hanno preceduto gl'impianti a turbina nei grandi piroscafi celeri, fino a valori bassi come 0,55, se si tratta di macchine di pochi cavalli.

Nelle navi con macchine a vapore alternative, si chiama coefficiente di rendimento propulsivo totale il rapporto e = Fe/Fi = (R/R1)•ηc•ηe•ηl•ηm. Nelle navi con turbine o con motori a combustione, si dà lo stesso nome al rapporto Fe/Ff, (comunemente considerato come se fosse Fe/Fa, perché si ha o si misura la Ff, e la si chiama Fa), che si indica del pari con e. Possono calcolarsi attribuendo, ai fattori che li costituiscono, valori adatti alla nave che si progetta, ma il risultato, quantunque serva di guida, non è meno incerto di quello che si ottiene assumendo direttamente per e un conveniente valore globale dedotto da navi non molto diverse da quella che si studia. In media, e oscilla intorno a 0,50 (un po' meno per navi a turbina, un po' più per macchine alternative di grande potenza); per piccole potenze si riduce sensibilmente e scende a valori molto bassi nel funzionamento a forte regresso, che si verifica nel trascinamento di pesanti rimorchi, reti da pesca e simili.

Quando si è determinata la resistenza al moto di una nave e la conseguente potenza effettiva, la potenza Fi o Fa dell'apparato motore si ottiene dividendo la Fe per il valore di e convenientemente scelto; grossolanamente, risulta circa il doppio della potenza effettiva, salvo per valori di e eccezionalmente bassi. Se invece non si hanno gli elementi per determinare la resistenza, come avviene nel primo abbozzo di un progetto di nave, si può avere un valore di prima approssimazione della Fi, o della Fa in funzione del solo dislocamento P espresso in tonnellate e della velocità in nodi, mediante la formula:

in cui C è la cosiddetta costante dell'ammiragliato, il cui valore si può dedurre da una nave simile, di cui siano noti il dislocamento P′ e la potenza F′ alla velocità:

soddisfacente alle condizioni di similitudine meccanica, servendosi della stessa formula. La C è da intendersi costante nel passare da una nave a una nave simile, che si muova a velocità corrispondente; ma non è costante per una stessa nave, al variare della velocità o del dislocamento per differenti condizioni di carico. In mancanza degli elementi di una nave simile a quella da progettare, nella pratica corrente, i valori della C o di altre costanti sostanzialmente equivalenti si rilevano da tabelle; essi oscillano fra 200 e 300 e possono anche essere un po' più elevati per navi grandi e bene studiate e costruite, mentre possono poi scendere anche al disotto di 100 nelle costruzioni piccole o piccolissime.

Timoni. - Fra i diversi elementi che influiscono sul funzionamento di un timone, ha notevole importanza la forma delle sezioni orizzontali della sua pala; conviene quindi distinguere i timoni piani o di tipo ordinario, dai moderni timoni di tipo speciale. Nei primi, l'azione dell'acqua sulla pala viene dedotta, in modo non sempre soddisfacente, dai risultati sperimentali o dalle nozioni teoriche che si hanno intorno al moto delle lastre piane isolate, ossia non precedute da una carena; determinazioni molto meno incerte si hanno con l'applicazione della similitudine meccanica ai risultati ottenuti sopra modelli di timoni accoppiati ai relativi modelli di carena e di propulsore; ma, almeno per ora, tale procedimento, che richiede speciali impianti sperimentali, può servire per determinazioni dirette solo nel caso di costruzioni molto importanti, mentre alle altre può giovare indirettamente, mediante i risultati di esperienza che permette di raccogliere e coordinare. Nei timoni di tipo speciale, la forma delle sezioni orizzontali della pala, che in alcuni è analoga a quella dei profili alari, induce piuttosto a fondarsi, con le debite cautele, sui risultati che, nel campo aerodinamico, sono stati conseguiti per tali profili; naturalmente, anche per essi, i migliori risultati si possono solo ottenere con determinazioni sperimentali su modelli di timoni accoppiati ai rispettivi scafi.

La pressione risultante dell'acqua su di un timone piano si calcola con le formule che dànno la resistenza totale T in kg. incontrata da una lastra piana della stessa superficie S in mq., avanzante nell'acqua alla stessa velocità di V nodi e con incidenza eguale all'angolo di sbandamento del timone. Tali formule sono stabilite per lastre rettangolari con un lato verticale, ma si applicano, non essendovi altro, a timoni di contorno qualsiasi. Le formule di Rankine, Weisbach, Middendorf, comunemente riportate dai testi, sono inattendibili, perché dànno risultati troppo scarsi. Non restano che la formula di Joëssel, col coefficiente ridotto a circa la metà di quello originario in seguito ad esperienze sui timoni, e quella teorica di Kirchhoff e lord Rayleigh, che, mentre da risultati per difetto per le lastre (perché trascura la depressione sulla loro faccia posteriore), dà valori attendibili per i timoni, nei quali la resistenza è inferiore a quella di una lastra della stessa superficie, avanzante con la velocità V che la nave ha nel momento in cui s'inizia lo sbandamento e con incidenza pari all'angolo massimo che si raggiunge in tale operazione. Questa richiede infatti un certo tempo (circa 10 ÷ 20 secondi) e quindi l'angolo massimo di barra vien raggiunto quando già la velocità è diminuita per effetto della resistenza diretta Tsen β (β essendo il valore istantaneo dell'angolo di barra, che cresce da o ad α), mentre l'incidenza viene contemporaneamente a ridursi, a misura che la nave procede nella sua evoluzione. La formula di Joëssel col coefficiente ridotto dà:

e quella di Kirchhoff e lord Rayleigh:

I valori di T che si ottengono da queste due formule sono praticamente gli stessi per ciascun valore di a compreso tra 0 e il massimo angolo di barra, che è di circa 35°.

Il punto C di applicazione della T si chiama centro di pressione. Quando il timone è rettangolare ed è disposto con un lato orizzontale, di lunghezza l, la distanza di C dallo spigolo prodiero del rettangolo è, secondo Joëssel:

mentre, secondo lord Rayleigh, è:

Quando il timone è semicompensato (fig. 117) e, mediante prolungamento dello spigolo superiore della parte a proravia dell'asse, può suddividersi in due rettangoli lunghi l1 e l2, si usa determinare il centro di pressione, considerandolo come il baricentro C dei centri di pressione C1 e C2 delle due parti, di aree S1 e S2, determinati con una delle espressioni di d ora date, applicando in ciascuno di essi coefficienti proporzionali alle rispettive aree S1 e S2. La distanza d di C dallo spigolo anteriore della parte superiore risulta allora:

Se il timone è di forma diversa dalla rettangolare, si assume come centro di pressione il baricentro della figura piana limitata dal contorno della pala; ma, per gli ordinarî valori dell'angolo massimo di barra, il centro si trova in realtà alquanto a proravia del baricentro di tale figura.

Per il proporzionamento della testa del timone e degli apparecchi di manovra, si deve considerare il momento torcente esercitato dalla forza T, ossia il prodotto di questa per la distanza b del centro di pressione dall'asse di rotazione (asse comune della testa e degli agugliotti). Nei timoni rettangolari, se a è la distanza di quest'asse dallo spigolo anteriore del rettangolo, situato a poppavia di esso, risulta b = d + a. Per i timoni semicompensati, vale la stessa formula, ma a è la distanza dello stesso asse dallo spigolo anteriore del rettangolo superiore. Per i timoni di altra forma, b è la distanza del baricentro della figura piana sopra indicata dall'asse degli agugliotti; ma il momento viene così calcolato per eccesso.

Su di una stessa nave, mantenendo costante la velocità di avanzo iniziale e raggiungendo lo stesso angolo massimo di barra, la pressione risultante T e con essa il momento torcente crescono, e rapidamente, col crescere della velocità di manovra. In alcune esperienze eseguite da Pecoraro con la sua barca sperimentale, la lieve riduzione, da 36 a 32 secondi, del tempo impiegato per sbandare il timone a 35°, fece aumentare del 35% il momento massimo.

Il momento Me della forza T rispetto alla verticale passante pel centro di gravità della nave si chiama momento di evoluzione. Indicando con λ la distanza dell'asse del timone da tale centro, si ha: M = T (b + λ cos a) o semplicemente Me = T λ cos α perché b è generalmente trascurabile rispetto a λ. Dai valori che, al variare di α, assume la T data dalla formula di Joëssel, risulta che Me diventa massimo intorno ai 35°, che rappresentano all'incirca l'angolo più grande che si può utilmente raggiungere nel dare la barra.

La superficie della pala si proporziona ordinariamente alla superficie del piano di deriva o più semplicemente al prodotto L•i della lunghezza della nave per la sua immersione media. ll rapporto tra questo prodotto e la superficie della pala oscilla, nelle buone costruzioni, fra i seguenti limiti: 70 ÷ 80 nei grandi piroscafi celeri (60 ÷ 65 se il timone è semicompensato); 70 ÷ 75 nei piroscafi da senvizio misto; 65 ÷ 70 nei piroscafi da carico e nei piroscafi celeri di media grandezza per brevi navigazioni; intorno a 50 nei piccoli piroscafi per brevissime navigazioni; 30 ÷ 40 nei grandi rimorchiatori e 20 ÷ 30 nei piccoli; intorno a 20 nelle barche a vapore; 60 ÷ 80 nei gmndi velieri e 40 ÷ 50 nei medi, fino a 30 nei piccoli; 14 ÷ 15 nelle barche a vela; 30 ÷ 50 nelle navi di linea e negl'incrociatori; 25 ÷ 30 nelle siluranti.

Oscillazioni delle navi. - Generalità. - Le onde, il vento, l'azione dell'acqua sul timone, ecc., sono causa di movimenti oscillatorî delle navi, che spesso sono assai complicati e senza periodo, se risultano dalla coesistenza di movimenti oscillatorî semplici, di periodi incommensurabili tra loro e quindi tali da non far ritornare mai esattamente la nave nelle identiche condizioni.

Sono movimenti oscillatorî semplici:

Il moto sussultorio, consistente in oscillazioni secondo la verticale.

Il moto di rullio, consistente in oscillazioni intorno ad assi paralleli all'intersezione del piano diametrale con quello del galleggiamento di pieno carico normale.

Il moto di beccheggio, consistente in oscillazioni intorno ad assi normali al piano diametrale.

Le guinate o straorzate, dette talvolta anche imbardate, ossia oscillazioni di giro intorno ad assi verticali.

Al cessare dell'azione delle cause inclinanti, la nave, sotto l'azione del peso, della spinta e della resistenza del mezzo, continua ad oscillare, compiendo delle oscillazioni libere intorno alla sua posizione di equilibrio stabile in acqua calma, che raggiunge dopo un certo tempo. Se le cause inclinanti persistono e sono periodiche, come l'azione delle onde si possono avere oscillazioni forzate.

Lo studio delle oscillazioni di ampiezza finita nel caso generale è irto di difficoltà, sia perché le forze agenti non sono tutte inizialmente note, inquantoché dipendono dalla posizione istantanea della nave, sia perché, anche quando tutte le forze fossero note, s'incontrerebbero sempre difficoltà analitiche per l'integrazione delle equazioni del moto. Sulla nave agiscono infatti:

il peso, noto in intensità e anche in posizione, se la nave non contiene carichi deformabili con l'inclinazione

le azioni idrodinamiche, di cui nulla è noto, perché le pressioni sui singoli elementi superficiali della parte immersa della nave dipendono, oltre che dalla posizione di questa rispetto alla superficie liquida, anch'essa incognita, anche dalla natura del moto da determinare, ossia dipendono dalle velocità, dalle accelerazioni, ecc.

E anche se in una trattazione generale si ammettesse di poter sostituire la risultante delle componenti verticali di tali azioni con la spinta idrostatica, pur essendo la superficie di livello dell'acqua diversa da un piano orizzontale, ne resterebbero sempre incognite l'intensità e la posizione, perché dipendenti, come si è detto, dalla posizione della nave, diversa da un istame all'altro.

Lo studio delle oscillazioni, nel caso generale, si è tentato considerando gli angoli d'inclinazione e le loro derivate rispetto al tempo come grandezze del primo ordine, ossia tali da poterne trascurare le potenze superiori alla prima, e per acqua inizialmente calma e supposta non disturbata dal moto della nave, in modo da poterne considerare permanentemente orizzontale il piano di livello e nulla la velocità nei punti circostanti alla nave, e da poter ammettere che la spinta sia senz'altro eguale a quella idrostatica che si avrebbe sulla nave tenuta ferma nell'acqua in riposo e nella posizione che occupa rispetto a questa in ciascun istante del moto. Si sono ritenute anche nulle le resistenze idrodinamiche. Ma, anche con tutte queste semplificazioni, le trattazioni sono assai complicate; da esse si deduce - come del resto è intuitivo e confermato dall'esperienza - che i diversi moti oscillatorî semplici sopra enumerati sono quasi sempre coesistenti in misura maggiore o minore; e si deduce altresì che, per la simmetria delle navi rispetto al piano diametrale, le oscillazioni di rullio di ampiezza assai piccola possono verificarsi senza moto sussultorio e senza beccheggio. Per altro, i risultati cui si perviene con tali complicate trattazioni sono sostanzialmente quegli stessi che si ottengono considerando indipendentemente i singoli movimenti, come si fa nelle trattazioni ordinariamente riportate dai testi di architettura navale; conviene quindi seguire senz'altro lo stesso criterio nella presente esposizione, che sarà limitata al rullio.

Rullio. - Nello studio del rullio, il mezzo ambiente può considerarsi in quattro condizioni diverse: perfetto e calmo; naturale e calmo; perfetto e ondoso; naturale e ondoso.

Rullio in mezzo perfetto e calmo. - Trattandosi di un corpo libero, si studia dapprima il moto di un suo punto qualunque, che conviene far coincidere col centro di gravità, e poi il moto relativo intorno a tale punto.

Essendo trascurate le resistenze del mezzo, le forze che si suppongono agenti sulla nave sono soltanto il suo peso e l'azione del liquido; questo viene considerato in riposo, non solo inizialmente, ma anche durante il moto della nave, in modo da ritenere invariabilmente piana la superficie di livello del liquido e da ammettere che l'azione di esso si riduca alla spinta idrostatica, applicata nel centro della carena, secondo la quale si trova immersa la nave in ciascun istante del moto. Ridotto così il sistema di forze al peso e alla spinta, entrambi verticali, il moto orizzontale del centro di gravità non può essere che rettilineo e uniforme; sicché, se all'inizio del rullio la nave era ferma, il suo centro di gravità G può soltanto spostarsi lungo la verticale sulla quale inizialmente si trovava. Assumendo questa come asse Z diretto positivamente verso l'alto, l'equazione del moto è:

Il moto relativo della nave intorno al centro di gravità consiste in oscillazioni intorno ad assi istantanei passanti per esso, che non hanno direzione invariabile, perché, per la dissimmetria della superficie esterna dello scalo e della distribuzione delle masse costituenti la nave, rispetto al piano trasversale passante per G e per il centro della carena dritta iniziale, il rullio è in generale accompagnato, in misura maggiore o minore, anche da moti secondari di beccheggio e di giro; ma, trattandosi dello studio del solo rullio, si ammette che il moto relativo intorno a G consista in una pura oscillazione intorno a un asse orizzontale baricentrico, contenuto nel piano diametrale ed avente direzione invariabile; come si ammette altresì che la spinta sia costantemente eguale al peso P della nave.

Per essere la spinta costante ed eguale a quella idrostatica, deve essere costante il volume di carena e quindi, nel moto assoluto della nave, la superficie dei centri di galleggiamento, corrispondente a tale volume, deve mantenersi continuamente in contatto col piano di livello del liquido; ciò richiede che l'asse della rotazione istantanea incontri la verticale passante per il centro g del galleggiamento secondo il quale la nave si trova immersa. Inoltre, il moto assoluto e quello relativo differiscono per la traslazione verticale di G, e quindi di tutti i punti della nave; ne segue che l'asse della rotazione assoluta deve essere parallelo a quello della rotazione relativa a G ed essere contenuto nello stesso piano orizzontale. Esso è dunque la parallela al piano diametrale, passante (fig. 118) pel punto I in cui il piano orizzontale passante per G incontra la verticale che passa per g.

Ma, se la spinta si ritiene costante ed eguale a P, l'accelerazione di G risulta nulla e quindi la sua velocità deve essere costante in grandezza, direzione e verso.

E, non potendo G, e con esso la nave, muoversi verticalmente sempre nello stesso verso, la velocità di G secondo la verticale deve essere nulla; l'asse della rotazione assoluta deve dunque passare per G e quindi deve coincidere con l'asse della rotazione relativa. Ammettere che la spinta sia costantemente eguale al peso, significa dunque ammettere che la nave oscilli come un pendolo intorno a un asse fisso orizzontale, passante per G e contenuto nel piano diametrale. E ciò, in generale, non può verificarsi, perché, come si è visto, tale asse dovrebbe passare per il punto d'inserzione del piano diametrale con la verticale passante per il centro g del galleggiamento istantaneo e quindi non può contenere G in tutte le posizioni che assume la nave, a meno che non contenga ad un tempo G e il metacentro trasversale l di galleggiamento (punti G e I coincidenti con l in proiezione trasversale) e non si tratti di inclinazioni tanto piccole da poter ritenere sostituibile, alla linea dei centri di galleggiamento in proiezione, l'arco del suo circolo osculatore. In particolare, la condizione è soddisfatta per un galleggiante sferico avente il baricentro sull'asse di oscillazione passante per il centro della sfera e per un cilindro circolare, disposto con le generatrici orizzontali e avente del pari il baricentro sull'asse.

Premesse queste considerazioni per porre in evidenza il grado di attendibilità delle trattazioni esistenti sull'argomento, passiamo allo studio del moto. Quando la nave si trova inclinata trasversalmente dell'angolo generico θ, sia M il momento di stabilità, che tende a far ritornare la nave nella posizione dritta, cioè a far diminuire l'angolo θ; se I è il momento d'inerzia di massa della nave rispetto all'asse orizzontale baricentrico longitudinale, l'equazione del moto è:

Posto, in generale,

l'equazione si trasforma in:

e integrata fra l'angolo arbitrario iniziale θ0, cui corrisponda la velocità angolare ω0, e l'angolo generico θ, dà:

essendo F la funzione primitiva della f.

Se ne deduce l'intervallo di tempo corrispondente:

Secondo che per il momento di stabilità si assuma l'una o l'altra delle espressioni stabilite nella statica delle navi, si hanno leggi del moto più o meno complicate.

Se M si esprime con la formula generale P (h − a) sen θ, in cui h è data solo graficamente in funzione di θ, i due integrali che dànno ω e t in funzione di θ si devono calcolare con un metodo di quadratura approssimata; ma poiché le premesse, specialmente se θ non è piccolo, limitano, come si è detto, l'attendibilità dei risultati, si può senz'altro esprimere M col metodo metacentrico, o, ancora meglio, per le navi con evoluta metacentrica a rami ascendenti, ossia per la maggior parte delle navi, con la formula: M = P (r a) θ.

Col metodo metacentrico, essendo f(θ) = sen θ, si ha lo stesso moto di un pendolo semplice di lunghezza l = g/K, oppure di un pendolo composto avente lo stesso momento d'inerzia I della nave e la lunghezza eguale a r - a. Sicché, se, come posizione iniziale, si assume quella d'inclinazione massima θm, dove la velocità angolare ω0 è nulla, perché si è all'estremità dell'oscillazione, si ha:

in cui si è ritenuto il segno −, perché si è supposto θ decrescente al crescere di t. Il tempo che impiega la nave per passare dalla posizione di massimo sbandamento θm alla posizione dritta è quindi:

I termini che seguono l'unità nella parentesi, anche per angoli non molto piccoli, sono di lieve entità e praticamente trascurabili; così, per θ = 30°, il secondo termine è o,01674 e i successivi sono molto minori. Si itiene così l'espressione: t = π/2 K.

Se invece, per il momento di stabilità, si assume l'espressione:

l'equazione del moto assume allora la forma semplicissima:

che dà:

La legge del moto, se si contano i tempi dall'istante in cui la nave si trova al massimo sbandamento θm, è quindi: θ = θm cos Kt; mentre, se si contano i tempi dal passaggio per la posizione dritta, è: θ = θm sen Kt. L'angolo θm in funzione degli elementi iniziali θ0 e ω0 è

Il tempo che impiega la nave per passare dalla posizione di massimo sbandamento θm alla posizione dritta, risulta, con la presente espressione di M, esattamente π/2 K.

Periodo di oscillazione è il tempo Tn che la nave impiega per compiere una doppia oscillazione, cioè per ritornare alla posizione iniziale. Esso è il quadruplo del tempo t = π/2 K che si è finora calcolato; si ha cioè:

Quantunque, a rigore, questo soltanto sia il periodo, pure, più comunemente, si considera il periodo di oscillazione semplice della nave, cioè il tempo:

metà del precedente, che decorre tra l'istante della massima inclinazione su un lato e l'istante della massima inclinazione sul lato opposto.

Queste espressioni del periodo valgono per le navi che si trovano in condizioni ordinarie di stabilità iniziale, ma non per quelle che hanno altezza metacentrica piccolissima o nulla. Per le prime, cioè per la generalità delle navi, se d è il raggio d'inerzia, si ha: I = (P/g) d2 e risulta:

E poiché il raggio d'inerzia ha una lunghezza che oscilla, in media, fra 0,32 e o,36 della larghezza della nave, si ha il modo di calcolare approssimativamente il periodo di una nave di dato tipo di cui si conoscano la larghezza e l'altezza metacentrica. Nelle navi mercantili il periodo T può oscillare da un massimo di una decina di secondi, realizzato nei grandi piroscafi per passeggeri, fino a circa la metà, nei piccoli bastimenti; nelle navi da guerra, da un massimo di 9 ÷ 8 secondi, che si riscontra nelle grandi navi, si va gradatamente a 7 ÷ 6 o meno negl'incrociatori, 6 ÷ 5 negli esploratori, 5 ÷ 3,5 nei cacciatorpediniere, fino a 3 ÷ 2,5 nelle navi minori. Se invece l'altezza metacentrica è piccolissima e il bastimento ha le murate grossolanamente assimilabili al cilindro avente per sezione retta il galleggiamento normale, il periodo, che non è più dato dalla formula precedente, si può calcolare con la formula di Scribanti:

in cui:

Nel caso particolare di r - a = 0, e sempre se le murate hanno la forma sopra indicata, si ha: S = 0,83463 e quindi:

Rullio in mezzo naturale e calmo. - Nello studio del rullio in mezzo naturale, l'equazione del moto intorno al centro di gravità, con le stesse ipotesi premesse allo studio del rullio in mezzo perfetto, si può scrivere

in cui Mr è il momento resistente del fluido naturale. Sotto la forma più generale nella quale è stato considerato, questo momento è costituito da tre termini: uno proporzionale alla velocità angolare della nave, uno al quadrato di questa velocità e un terzo all'accelerazione angolare. I primi due rappresentano complessivamente la resistenza di forma e di attrito; col terzo si cerca di tener conto dell'influenza che la natura varia del moto oscillatorio ha sulla resistenza. Dette quindi A, B, C tre costanti positive, l'equazione del moto, per le oscillazioni semplici in cui "decresce al crescere di t, è:

mentre, per le altre oscillazioni semplici in cui la velocità angolare c positiva, anche il secondo termine, cioè quello proporzionale al quadrato della velocità angolare, ha il segno positivo.

Esprimendo il momento di stabilità con la formula M = P (r a). " e integrando questa equazione con criterî di approssimazione, il Froude perviene alla seguente espressione della riduzione di ampiezza Δθ da un'oscillazione alla successiva, in funzione della loro media aritmetica θm:

in cui Tr è il periodo di oscillazione semplice in mezzo resistente, poco diverso da quello T determinato con l'ipotesi del liquido perfetto.

Ritenendo invece nullo il termine proporzionale alla prima potenza della velocità angolare, si ha l'equazione considerata dal Bertin, la quale, posto:

diviene:

Da questa può dedursi l'espressione della velocità angolare in termini finiti, ma la quadratura per ottenere l'espressione di θ in funzione di t presenta difficoltà, che, se il risultato esatto fosse utile, si potrebbero del resto superare nelle applicazioni pratiche, servendosi di un metodo qualsiasi di quadratura approssimata. Ma poiché queste trattazioni sui moti oscillatorî delle navi non sono rigorose, perché fondate sopra ipotesi semplificative, conviene senz'altro effettuare l'integrazione col procedimento di approssimazione dovuto al Poisson: si suppone cioè di sviluppare l'angolo θ in serie di potenze dello sbandamento massimo iniziale θ0 e di poter ritenere trascurabili le potenze di θ0 superiori alla seconda, in modo da aversi semplicemente:

con f1 ed f2 funzioni del tempo. Sostituendo allora quest'espressione di θ e quelle delle due prime derivate di quest'angolo nell'equazione da integrare, essa si scinde in due altre che determinano f1 ed f2. Si ottiene così:

che vale naturalmente per angoli di moderata ampiezza. Il periodo di oscillazione risulta espresso da:

ed è quindi legato al T relativo al mezzo perfetto dalla relazione:

La differenza tra i valori assoluti θn e θn+1 delle ampiezze che la nave raggiunge in due oscillazioni semplici successive è:

In realtà, il Bertin, nelle esperienze eseguite a Cherbourg, trovò che, per ampiezze comprese fra 0° e 2,5°, Δθ è proporzionale alla prima potenza di θ, mentre, per ampiezze superiori, gli risultò Δθ = a + bθ2, con a e b costanti per ciascuna nave.

Ma, quando " non è molto piccolo, il termine costante diviene trascurabile rispetto al termine in θ2 e si usa quindi scrivere, per angoli superiori a 2,5°:

Il b di questa formula, che in tal caso rappresenta il

della precedente, si chiama coefficiente di estinzione del Bertin. Esso, nelle navi non munite di alette, oscilla tra 0,008 e 0,020, con una media di o,013 ÷ 0,014, per angoli espressi in gradi, mentre, se θ si esprime in radianti, i limiti di b sono 0,46 e 1,15 e la media è 0,75 ÷ 0,80.

Per le navi di una certa importanza, e specialmente per quelle militari, si esegue la prova di oscillazione, che ha per oggetto la determinazione sperimentale degli elementi del moto di rullio della nave in acqua calma. Essendo P in tonnellate il dislocamento della nave, si fa disporre in coperta un certo numero di uomini dell'equipaggio (secondo alcuni dovrebbe essere eguale almeno alla potenza due terzi di P, ma per alcuni dislocamenti può anche riuscire eccessivo), ripartendolo in due gruppi allineati a murata o in un sol gruppo al centro, in modo che il peso totale stia nel piano diametrale. Facendo passare tutti gli uomini da un lato, si produce una prima inclinazione della nave; indi, con successivi passaggi ritmici di essi da una murata all'altra, regolati mediante squilli di tromba, si mette la nave in oscillazione. In ogni corsa, l'equipaggio deve percorrere il ponte sempre in salita e deve aver terminato il suo spostamento allorché la nave passa per la posizione dritta e trovarsi in tale istante sulla murata che è stata l'ultima ad abbassarsi. Raggiunta l'inclinazione di 100 ÷ 150, secondo le condizioni di stabilità della nave, si fa disporre l'equipaggio nella posizione di riposo, in modo che il suo baricentro stia nel piano diametrale, e si cominciano le osservazioni. La determinazione del periodo richiede che sia misurato esattamente il tempo che la nave impiega per compiere un certo numero di oscillazioni semplici; conviene contare ad alta voce tali oscillazioni, p. es. dal termine della prima al termine della trentunesima e misurare con un contasecondi il tempo decorso; questo, diviso per trenta, darà il periodo. Se si vuol misurare anche l'ampiezza delle successive oscillazioni, si possono adoperare strumenti a traguardi; ma, per misure più accurate, conviene, se possibile, servirsi di oscillografi, che registrano le ampiezze e i tempi delle oscillazioni, nonché gli angoli d'inclinazione in ogni istante del moto, cioè anche nel corso e non soltanto al termine di ogni singola oscillazione. Se si sono misurate le sole ampiezze, si può tracciare la curva che le rappresenta in valore assoluto, in funzione dei numeri ordinali delle successive oscillazioni semplici, cioè la curva di decrescenza del rullio (fig. 119), nonché la curva di estinzione (fig. 120), che rappresenta i Δθ in funzione dei valori assoluti di θ. Queste denominazioni delle due curve sono le più comuni, ma talvolta sono scambiate l'una con l'altra.

Rullio in mezzo perfetto e ondoso. - Il rullio in mezzo ondoso non resistente viene studiato supponendo la nave disposta di traverso sopra onde trocoidali cilindriche, ossia col piano longitudinale parallelo alle generatrici delle onde, e considerando dapprima una nave di dimensioni trasversali assai piccole rispetto alla lunghezza dell'onda. Conviene distinguere (fig. 121) il rullio assoluto, misurato dall'angolo θ che il piano diametrale OD forma con la verticale OV, e il rullio relativo, misurato dall'angolo θ2 che lo stesso piano forma con la normale ON alla superficie libera dell'onda. Le tre rette OV, ON e OD della figura stanno nello stesso piano, e, se ϕ è l'angolo di ON con OV, si ha: θ = θr + ϕ, sempre che θ, θr, e ϕ siano misurati con lo stesso segno quando le rotazioni di OD rispetto a OV e a ON e quella di ON rispetto a OV avvengono nello stesso senso.

Indicando con L la lunghezza e con H l'altezza dell'onda, l'angolo Φ di massimo pendio è definito dalla nota relazione: sen Φ = πΗ/L; e, se ε è la velocità angolare orbitaria delle particelle liquide sulle loro traiettorie circolari, la tangente dell'angolo d'inclinazione ϕ in un punto qualsiasi individuato dall'angolo εt compreso fra il raggio della traiettoria passante per il punto e quello verticale diretto in basso, è dato da:

o anche dalla relazione: ϕ = Φ sen εt, che si deduce in linea di approssimazione dalla precedente, quando l'angolo Φ è abbastanza piccolo, come si suppone nella presente trattazione, in cui si considerano onde di altezza piccola rispetto alla lunghezza.

Per tale premessa, un arco del profilo trocoidale relativamente piccole rispetto alla lunghezza dell'onda, ossia paragonabile all'altezza di essa, potrà ritenersi rettilineo, e a maggior ragione potranno ritenersi tali tutti gli archi delle sottostanti trocoidi di livello, compresi fra le normali alla trocoide della superficie libera, passanti per i punti estremi dell'arco considerato; tutti questi archi inoltre, appartenendo a profili trocoidali molto allungati, e tanto più quanto più si procede verso il basso, sono sensibilmente paralleli. Risulteranno quindi tali anche i piani passanti per questi archi e per le generatrici delle superficie di livello, ossia le superficie di pressione costante saranno tanti piani paralleli a quello tangente all'onda in superficie. E allora, se la nave viene disposta a galleggiare secondo questo piano tangente, e quindi col suo piano diametrale normale al profilo dell'onda le pressioni esercitate dall'acqua in punti simmetrici della sua carena saranno eguali tra loro. Esse però non seguiranno la legge idrostatica, perché il loro valore non sarà quello che, nel liquido in riposo, corrisponderebbe alla stessa altezza d'acqua, contata lungo la normale alla superficie libera dell'onda e a partire da questa. Le superficie cilindriche trocoidali di livello sulle quali esiste la stessa pressione che c'è sui corrispondenti piani di riposo sono infatti più ravvicinate di tali piani (normalmente ai quali la pressione varia con legge idrostatica) nelle gole dell'onda; sono invece più allontanate nelle creste. Una stessa pressione si verifica quindi a profondità minore che in acqua calma, in corrispondenza dei cavi delle onde, a profondità maggiore in corrispondenza delle creste. Segue da ciò che, per un dato volume immerso, la spinta S1 nei cavi è maggiore di quella S che si ha in acqua calma; nelle creste è minore e varia gradualmente dagli uni alle altre. Indicando quest'ultima con S2, si ha, per un volume di carena molto piccolo:

lo stesso effetto produrrebbe una variazione del peso specifico dell'acqua da 1 + π H/L ed 1 − π H/L dai cavi alle creste, passando lungo il profilo per tutti gli altri valori intermedî. Nel presente studio, essendosi supposto H/L molto piccolo, si trascurerà π H/L rispetto all'unità e si ammetterà quindi senz'altro che la spinta S agente sulla nave disposta sull'onda nel modo indicato sia eguale a quella idrostatica P eguale al peso e passante per il centro di carena, tanto in tale posizione (θ2 = o), quanto nelle posizioni inclinate trasversalmente, cioè con rullio relativo diverso da zero, nelle quali la risultante delle spinte elementari, ossia la spinta totale, essendo sempre normale all'onda, fa si l'angolo ϕ con la verticale. E, trattandosi qui dello studio delle oscillazioni in mezzo ondoso non resistente, l'unica altra forza agente sulla nave è il suo peso P, secondo la verticale OV. Lo studio del moto comprende: il moto del centro di gravità; il moto relativo intorno al centro di gravità.

Essendo la S diretta come la spinta di una carena inclinata di θ2, essa farà l'angolo ϕ con la verticale e quindi le equazioni del moto del centro di gravità rispetto a due assi fissi OX e OZ, il primo orizzontale e diretto positivamente nel piano del moto dalla parte verso cui è rivolta la ON, il secondo verticale e diretto in basso, sono:

Avendo ammesso che S sia costante ed eguale a P, queste due equazioni possono senz'altro integrarsi, il risultato però non è utíle, perché, specialmente per il moto componente verticale, che è strettamente subordinato al vero valore incognito istantaneo della spinta, sarebbe del tutto diverso dal vero. I moti componenti del centro di gravità sono in realtà oscillatorî, tanto in senso orizzontale, quanto in senso verticale; e quest'ultimo è più o meno ampio, secondo che il periodo dell'onda è più o meno prossimo al periodo di oscillazione verticale della nave in acqua calma. Se invece della nave si considera una parte qualsiasi della massa d'acqua in moto ondoso, si trova che il suo centro di gravità descrive una circonferenza con moto uniforme e con la stessa velocità angolare e delle particelle di cui è costituita.

Venendo ora al moto relativo della nave intorno al centro di gravità, vediamo che il solo momento agente su essa è quello della spinta, e, per moderate inclinazioni θr, è: P(r a) sen θr, o meglio, come si è già osservato, P (r a) θr sempre che l'evoluta metacentrica sia a rami ascendenti. Con questa espressione del momento di stabilità, l'equazione del moto della nave avente il momento d'inerzia I rispetto all'asse baricentrico longitudinale parallelo al galleggiamento normale è quindi:

Esprimendo in essa θr in funzione di θ e di ϕ mediante la relazione già stabilita, si ha l'equazione differenziale del rullio assoluto:

e viceversa, esprimendo θ in funzione di θr e di ϕ, si ha l'analoga equazione differenziale del rullio relativo, che è inutile considerare direttamente, perché, quando si conosce, si ha senz'altro θr = θ − ϕ. Posto P (r a) I = K2, l'equazione del rullio assoluto diviene:

e l'analoga equazione del rullio relativo assume la forma:

che ci sarà utile aver presente nel corso della discussione.

Integrando la prima, l'ampiezza θ e la velocità angolare ω del rullio assoluto, quando K è diversa da ε, ossia quando il periodo della nave è diverso da quello dell'onda, risultano:

nelle quali θ0 e ω0 sono i valori di θ e di ω al tempo t = 0.

Se invece K2 − ε2 = 0, cioè K = ± ε, si ha il caso del sincronismo, per il quale:

Dalla formula che dà l'angolo di rullio assoluto per K diversa da ε, si vede che esso è la somma di un'oscillazione di periodo

che è rappresentata dai primi due termini ed è precisamente quella di rullio in acqua calma, e di un'oscillazione dovuta all'onda, che si può a sua volta scindere in due altre, aventi rispettivamente il periodo

dell'onda e quello Tn della nave.

Di particolare importanza è lo studio del comportamento della nave nei due casi limiti in cui si suppone il suo periodo molto grande o molto piccolo rispetto a quello dell'onda. La relazione: ϕ = Φ sen εt soddisfa all'equazione: ϕ??? + ε2 ϕ = 0, analoga a quella del rullio in mezzo calmo non resistente. Per mezzo di essa, l'equazione differenziale del rullio assoluto si può scrivere: θ??? + K2 + K2 ϕ???/ε2 = 0, ossia:

Posta l'equazione del rullio assoluto sotto questa forma, si vede che essa è tanto più prossima all'equazione θ??? + K2θ = 0 del rullio in acqua calma non resistente, quanto più piccolo è il termine

rispetto a θ e coincide al limite con questa equazione per K/ε = 0. Il moto di rullio assoluto di una nave in mare ondoso sarà dunque tanto più prossimo al moto di rullio della stessa nave in acqua calma, quanto più piccolo sarà il rapporto K/ε, ossia quanto maggiore sarà il rapporto tra il periodo della nave e quello dell'onda. Al limite, cioè per K/ε = 0, il moto della nave sarebbe quello stesso che essa assumerebbe in acqua calma, partendo dalle stesse condizioni iniziali d'inclinazione e di velocità; in questo caso ipotetico, non si avrebbe cioè alcun rullio se la nave, al passaggio delle onde, si trovasse dritta e senza velocità angolare iniziale. Nel fatto, una nave che si trovi dritta e senza velocità angolare allorché è investita da onde corte s'inclinerà tanto meno, cioè suoi ponti si scosteranno tanto meno dalla posizione orizzontale, quanto maggiore sarà il periodo della nave rispetto a quello dell'onda. Questa proprietà che le navi di lungo periodo, nelle condizioni ora accennate, manifestano sopra onde di breve periodo, si chiama stabilità di piattaforma e, per le grandi navi, è una delle più importanti qualità nautiche. Lasciando inalterato il momento d'inerzia di massa della nave e aumentandone il coefficiente di stabilità, il periodo diminuisce e la stabilità di piattaforma viene a risentirne; essa quindi non è da confondere con la stabilità statica, la quale anzi, se supera un certo limite, ne rende difficile o addirittura impossibile il conseguimento.

Se nell'equazione del moto: θ??? + K2 θr = 0, si sostituisce θ con θr + ϕ e al posto di ϕ si pone il suo valore − ε2 ϕ,, l'equazione diviene:

e sotto questa forma fa vedere che l'equazione del rullio relativo è tanto più prossima all'equazione del rullio in acqua calma, quanto più piccolo è il termine

rispetto a θr e coincide al limite con questa equazione per ε/K = o. Ciò appare ancora meglio se si considera l'espressione dell'angolo di rullio assoluto in termini finiti, ponendola sotto la forma:

da cui risulta che, se ε/K tende a zero, cioè se il periodo della nave è molto piccolo rispetto a quello dell'onda, come si verifica ordinariamente per piccole navi sopra onde lunghe, l'angolo di rullio assoluto tende a divenire la somma dell'angolo di rullio in mezzo calmo, rappresentato dai primi due termini, e dell'angolo d'inclinazione dell'onda ϕ = Φ sen εt. La nave compie quindi, rispetto alla normale all'onda, quelle stesse oscillazioni che compirebbe in acqua calma rispetto alla verticale. Sicché, se θ0 ed w0 sono nulli, ossia se la nave di breve periodo si trova dritta e senza velocità angolare allorché viene investita da una serie di onde lunghe, il suo rullio assoluto si riduce sensibilmente al valore Φ sen εt, ossia ha il periodo eguale a quello dell'onda, che, per ipotesi, è ben diverso dal periodo della nave. Essa compie quindi delle oscillazioni forzate, di periodo molto più lungo del periodo proprio di oscillazione.

Si possono egualmente avere oscillazioni forzate, se, nella precedente espressione generale di θ, i tre termini dipendenti dall'argomento Kt, per un particolare valore di ε, cioè per una particolare lunghezza d'onda e per le condizioni iniziali definite da θ0 e ω0, costituiscono una somma nulla e quindi indipendente da t. In tal caso, l'angolo di rullio assoluto si riduce al solo terzo termine, dipendente da ε, e quindi il periodo delle oscillazioni risulta indipendente dal periodo proprio di oscillazione della nave; l'ampiezza invece ne dipende, perché, come si vede, è funzione anche di K. L'annullarsi dei tre termini, al variare di t, richiede che sia nullo il termine in cos Kt e che sia del pari nulla la somma degli altri due. Per verificarsi tale stato di cose, occorre dunque che siano

Consideriamo infine il caso del sincronismo. Supponiamo che per t = o sia θ0 = 0 e ω0 = 0; allora il segno di E è indifferente. Prendendo ad esempio E = + K, risulta:

Quando Kt, ossia quando

con n intero, si ha: sen Kt = sen εt = ± 1 e cos Kt = cos εt = 0, sicché, per la prima delle formule precedenti, è

in cui il segno + è per n pari, ossia per

ecc.; in altri termini, per

ecc., cioè quando si è nei punti B1, B3 ecc. del profilo ondoso (fig. 122). Il segno meno si ha invece per n dispari, ossia per

ecc., cioè per

ecc., e quindi nei pimti B2, B4, ecc. Nei punti di massimo pendio dell'onda, la nave assume dunque un'inclinazione θ metà di quella Φ dell'onda (si ha ϕ = Φ perché sen εt = 1), cioè, quando la generatrice di massima pendenza del profilo ondoso passa sotto la nave, la pendenza degli alberi risulta metà della pendenza dell'onda.

Quando la velocità ω si annulla per cambiar segno, si hanno le massime ampiezze. Esse sono definite dall'espressione di θ quando vi si pone sen Kt = 0 e suno perciò date da

per Kt = nπ. Sicché, per n pari, si ha θ = 0, Φπ, − 2 Φπ, ecc., nei punti A1, A2, A3, ecc., in cui εt = 0,2 π, 4 π, ecc., cioè t = 0, T, 2 T, ecc.; mentre, per n dispari, si ha

nei punti C1, C2, C3, ... La nave si disporrà dunque rispetto all'onda nel modo indicato dalla figura. Si vede così che, al passaggio di ogni cresta o di ogni cavo, il valore assoluto di θ cresce di

verrebbe ΔΦ = ~ 140. Se quindi le ipotesi fatte nello stabilire l'equazione differenziale del moto non limitassero l'applicabilità dei risultati, ossia se la consentissero per angoli θ comunque grandi, si dovrebbe senz'altro dedurre da quel che precede che, nelle condizioni considerate, l'angolo di capovolgimento sarebbe ben presto raggiunto dalla nave. Ma ciò in generale non si verifica, non per la limitata applicabilità di questi risultati, perché, anche nell'impossibilità di trattare esaurientemente il problema, s'intuisce che, mancando le resistenze e sussistendo il sincronismo, le inclinazioni debbano crescere fino a raggiungere l'angolo di capovolgimento; ma perché invece le resistenze del mezzo esistono e crescono rapidamente col crescere della velocità angolare, che, essendo nel caso attuale costante il periodo, cresce a sua volta col crescere dell'ampiezza; perché, nella realtà, non sempre l'onda ha quel carattere di regolarità che si è ammesso nella trattazione; perché, infine, se si vede che la nave tende a raggiungere inclinazioni pericolose, si è costretti ad evitare il sincronismo, inclinando la rotta rispetto alla direzione delle generatrici dell'onda.

Abbiamo così veduto che possono aversi oscillazioni di rullio assoluto: risultanti da due moti aventi l'uno il periodo della nave, l'altro il periodo dell'onda (caso generale); aventi il periodo della nave (navi con forte stabilità di piattaforma sopra onde corte); aventi il periodo dell'onda (navi di periodo brevissimo, sopra onde lunghe, navi inizialmente dritte con particolare valore della velocità angolare iniziale); aventi a un tempo il periodo della nave e quello dell'onda (caso del sincronismo). Segue da ciò che, nel rullio in mare ondoso, il periodo di oscillazione, quando esiste, non ha un valore definito ed unico, come nel rullio in mezzo calmo, ma può variare al variare del rapporto tra il periodo proprio della nave e quello delle onde che essa incontra.

Tutto ciò si riferisce al rullio in mare ondoso di una nave avente le dimensioni trasversali assai piccole rispetto alla lunghezza dell'onda. Ma se, com'è necessario, si vuol tener conto della vera grandezza relativa della nave, non sussistono più le ipotesi che sono state poste a base della trattazione, le superficie di livello non possono più confondersi coi loro piani tangenti, né possono più ritenersi parallele; la spinta non agisce più normalmente alla superficie libera, non può ritenersi eguale al peso, non passa per il centro di carena, ecc. Riappaiono, in altri termini, tutte quelle difficoltà, dalle quali si è dovuto prescindere per abbozzare una trattazione e pervenire a qualche risultato che, se non serve per determinazioni di angoli e di velocità, dà almeno qualche lume sull'andamento qualitativo del fenomeno.

Sempre ammettendo che le diverse linee di livello siano quelle stesse trocoidi che si avrebbero senza la presenza della nave, che certo modifica in modo notevole il moto della massa liquida, vi è da osservare che la loro altezza decresce allorché si procede dalla superficie libera verso il fondo, per cui dal galleggiamento verso la chiglia s'incontrano trocoidi sulle quali il massimo pendio va continuamente decrescendo; che, l'arco di ciascuna trocoide estendentesi per la larghezza della nave non ha una pendenza unica, come poteva ammettersi allorché lo si considerava tanto breve da potersi confondere con un tratto della tangente; che le pressioni non sono distribuite con legge idrostatica e quindi non hanno una risultante passante per il centro di carena; ecc. Allora, non potendosi studiare il reale comportamento della nave sull'onda, si cerca di avvicinarsi alla realtà, studiando il moto di una nave di piccolissime dimensioni trasversali, quale si è finora considerata, avente lo stesso periodo e disposta su un'onda fittizia, di cui il pendio massimo Φ sia minore di quello Φ della vera onda. Posto Φ = ν•Φ, il fattore ν si chiama coefficiente riduttore del massimo pendio e viene determinato appunto in modo da tener conto - nei limiti di quel poco che è possibile - di tutte le differenze tra l'andamento probabile del fenomeno e quello che le precedenti equazioni dànno in base allo schema semplificato che si è considerato. Il coefficiente ν è tanto minore - ossia l'azione inclinante dell'onda è nella realtà tanto meno efficace - quanto più grandi sono la larghezza media (rapporto tra il volume di carena e l'area del piano di deriva) e la distanza del centro della carena dritta dal piano di galleggiamento in calma, rispetto alla lunghezza dell'onda, e quanto minori sono il massimo pendio di questa e l'altezza metacentrica della nave.

Rullio in mezzo naturale e ondoso. - In questo studio si ammette che l'ampiezza delle oscillazioni di una nave, sopra onde sincrone e in assenza di resistenza, cresca sempre di

anche quando l'inclinazione abbia raggiunto un valore θm paragonabile ai massimi che effettivamente si raggiungono in navigazione, e che, anche per tali inclinazioni, ma in mezzo calmo e resistente, la riduzione di ampiezza dall'oscillazione massima θm alla successiva si possa ritenere data dall'espressione b•θm2. L'ampiezza sopra onde sincrone e in mezzo naturale assumerà il valore massimo θm e lo conserverà, quando l'aumento dovuto all'onda eguaglierà la diminuzione di ampiezza di rullio assoluto, dovuta alle resistenze. Ora, poiché gli aumenti di ampiezza sopra indicati si riferiscono alla nave oscillante sulla cresta o sulla gola dell'onda, in cui la normale al profilo coincide con la verticale, le ampiezze di rullio assoluto e quelle di rullio relativo sono la stessa cosa: la diminuzione che subiscono le prime è dunque eguale alla diminuzione b•θm2 delle seconde e quindi si ha:

da cui:

Il fattore

fu detto coefficiente di clisità dal Bertin, che chiamò clisità l'angolo θm che segna il massimo sbandamento prodotto su una nave da onde sincrone e misura quindi la sua disposizione a inclinarsi.

Qualità oscillatorie delle navi. - Le qualità oscillatorie o qualità nautiche di una nave, relative al rullio, sono:

la stabilità di piattaforma o tranquillità, consistente nel valore piccolissimo o nullo delle ampiezze di oscillazione in condizioni ordinarie di navigazione, cioè sopra onde non sincrone e di periodo notevolmente minore di quello della nave. Il difetto opposto si chiama agitazione;

la lentezza del rullio, consistente nel compiere le oscillazioni con moderata velocità angolare, dalla quale dipende l'accelerazione normale. Il difetto opposto è la vivacità;

la dolcezza del rullio, consistente nel moderato valore dell'accelerazione tangenziale. Il difetto opposto è la durezza;

moderata clisità, ossia moderato valore dell'inclinazione massima sopra onde sincrone. La clisità non è da confondere con l'agitazione: anche navi grandi e molto tranquille compiono, in date circostanze, oscillazioni molto ampie.

Non tutte queste qualità sono egualmente desiderabili e realizzabili nelle navi dei diversi tipi.

Innanzi tutto, bisogna evitare le condizioni di sincronismo con le onde regolari che più frequentemente s'incontrano. Nelle grandi navi è agevole la realizzazione di un lungo periodo Tn notevolmente superiore a quello To delle onde ora considerate: la r a è moderata e I è grande nei grandi piroscafi da passeggeri; r - a è forte, ma 1 è grandissimo nelle navi da guerra, per la loro notevole larghezza, per l'esistenza della corazza a murata, per le pesanti artiglierie molto alte sull'asse di oscillazione, ecc. Si può quindi conseguire la stabilità di piattaforma, che è una delle qualità più importanti per i due tipi considerati. Anche per la lentezza e la dolcezza che risultano dal lungo periodo, restano in essi molto ridotte o eliminate le sofferenze dovute al cattivo tempo e le eccessive sollecitazioni del materiale dovute alle forze d'inerzia; inoltre, il tiro delle artiglierie non viene impedito col mare moderatamente agitato e le rollate non giungono a scoprire le parti non protette della carena, né a immergere le parti di murata soprastanti alla cintura corazzata e quindi più facilmente vulnerabili in combattimento. Essendo piccolo il rullio assoluto, il bordo libero deve essere sufficiente per evitare che la nave, quasi immobile fra le onde, abbia la coperta continuamente spazzata dai colpi di mare dovuti all'infrangersi delle onde contro le sue murate. Il grande bastimento deve dunque essere capace di affrontare il mare, conservando un buon comportamento, in condizioni burrascose che non siano di eccezionale violenza.

Il piccolo bastimento invece non può, né deve affrontare il mare nelle stesse condizioni; deve seguire l'onda nel suo movimento, ossia deve aver piccolo il rullio relativo e non il rullio assoluto. In tal modo, la sua coperta resterà sensibilmente parallela alla superficie dell'acqua inclinata all'orizzonte e sarà assai meno esposta ai colpi di mare, dai quali non potrebbe difenderla il bordo libero necessariamente limitato. Il breve periodo di oscillazione che può realizzarsi nel piccolo bastimento (I piccolo ed r a relativamente grande, per la necessaria riserva di stabilità) gli consente appunto un piccolo rullio relativo ed evita il sincronismo con le onde più grandi, e quindi più temibili, fra quelle che esso può incontrare. Al breve periodo corrispondono valori piuttosto forti per la velocità e per l'accelerazione angolare, ma, non essendo grandi le distanze delle masse dall'asse di oscillazione, le forze d'inerzia potranno essere moderate e quindi potrà essere dolce il rullio.

Tanto nei bastimenti grandi, quanto nei piccoli, occorre poi ridurre la clisità, aumentando il coefficiente di estinzione, con la sistemazione di uno o più mezzi (alette, casse Frahm, stabilizzatori girostatici) atti allo scopo; nei grandi bastimenti vi concorrono anche le dimensioni della nave, che abbassano il valore del coefficiente riduttore del massimo pendio.

Studio sperimentale del rullio. - Lo studio sperimentale del rullio di una nave, tanto in acqua calma, quanto in mezzo ondoso, si può eseguire mediante un modello, in una vasca sperimentale comune o in altre speciali, dove il moto ondoso è assicurato da ingegnosi apparecchi, come quella ideata da Gioacchino Russo (fig. 123). Ma si può anche effettuare senza un vero e proprio modello della nave e senz'acqua, mediante il navipendolo, che è un apparecchio ideato dai Russo (fig. 125). In esso si ha uno speciale pendolo (fig. 124), che equivale alla nave, dal punto di vista della realizzazione delle condizioni di similitudine meccanica, e una piastra piana, sulla quale esso poggia mediante una superficie cilindrica, avente per sezione retta la proiezione della curva dei centri di carena sul piano d'inclinazione trasversale, o una curva a essa parallela; in tal modo, le condizioni statiche del pendolo poggiato su un piano orizzontale coincidono - come fu accennato - con le condizioni statiche della nave immersa.

Tenendo la piastra ferma e col piano di appoggio orizzontale, si realizzano le condizioni del rullio in mezzo perfetto e calmo; frenando opportunamente il pendolo, si realizzano quelle del rullio in mezzo calmo e resistente; infine, ponendo in moto un congegno cinematico, il piano di appoggio si muove disponendosi in ogni istante secondo il piano tangente a un'onda trocoidale di date caratteristiche, sulla quale si voglia studiare il rullio della nave.

Il navipendolo è munito di un apparato registratore, che segna le ampiezze delle oscillazioni di rullio assoluto della nave e le oscillazioni della normale all'onda, in funzione del tempo. Si possono così, mediante una serie di esperienze, tracciare le curve delle ampiezze massime di rullio assoluto in funzione del periodo dell'onda e per diverse condizioni di carico, nonché per la nave munita o non di alette o di altri mezzi per aumentare la rapidità di estinzione del rullio (fig. 126).

Costruzione navale.

Il proporzionamento, il calcolo e l'esecuzione della nave in tutti i suoi differenti elementi (strutture) e servizî (allestimento) entrano nell'ambito della costruzione navale, disciplina assai complessa, che richiede l'ausilio di numerosi rami della tecnica: qui si accenna soltanto alla parte relativa alla costruzione dello scafo, e che costituirebbe un semplice ramo della meccanica applicata alle costruzioni, se le speciali e variabili condizioni nelle quali una nave è chiamata a navigare, rendendo difficili e incerte le previsioni del calcolo, non dessero grande importanza all'esperienza pratica, raccolta dai registri di classificazione e dalle marine da guerra, facendone quasi una disciplina a sé.

Essa comprende due grandi rami: costruzione degli scafi in legno, e costruzione degli scafi in ferro. Il primo, per la natura del materiale e per i particolari mezzi di collegamento, si presta difficilmente a uno studio metodico, anche di semplice confronto, e quindi è quasi completamente sperimentale, per non dire empirico. Il secondo invece, per l'omogeneità del materiale e per l'efficacia dei legamenti (chiodature e saldature) si può sottoporre a un'analisi metodica, che, partendo dall'esperienza, consente di proporzionare adeguatamente le strutture. La costruzione in legno è ormai limitata a naviglio d'importanza secondaria, per navigazione marittima di cabotaggio, di diporto e per navigazione interna; quindi limiteremo questo cenno alle costruzioni metalliche, oggi in prevalenza in acciaio, raramente in ferro o in leghe speciali.

Le azioni che il peso proprio, il carico, il mare agitato e i venti esercitano sullo scafo sono assai complesse come intensità, direzione, natura (statiche, ripetute, alterne, dinamiche), perciò complessa è la sua struttura, le cui varie parti, anche quelle apparentemente superflue, sono chiamate tutte a contributo in questa collaborazione, che deve essere: completa, consentire cioè di sfruttare al massimo ogni singolo elemento; adeguata alle varie circostanze, come quando, nelle sollecitazioni dinamiche, l'eccesso di materiale non significa aumento di sicurezza; mentre deve assicurare in ogni caso l'impermeabilità della nave all'acqua o, come si dice, la sua tenuta stagna.

Nonostante questa complessità, le azioni sullo scafo si possono distinguere nelle seguenti principali: 1. azioni flettenti nel piano longitudinale, dovute alla differenza, nel senso longitudinale, tra spinte e pesi, all'inerzia nel beccheggio, ecc., dando origine a momenti d'inarcamento (nave sulla eresta dell'onda) o d'insellamento (nave sul cavo dell'onda); 2. azioni flettenti nei piani trasversali, dovute ad analoghe cause nel senso trasversale (nave sulle taccate in bacino, nave nel rollio); 3. azioni torsionali dovute all'effetto combinato delle precedenti cause (nave con il mare al giardinetto, ecc.); 4. azioni locali dovute alla pressione idrostatica o idrodinamica, ai pesi, ai macchinarî, agli eventuali urti, ecc. Queste azioni debbono essere considerate nella loro speciale natu'a di azioni alternate, ripetute, anzi dinamiche o accompagnate da fenomeni dinamici, e quasi mai disgiunte.

A tali fondamentali azioni corrispondono altrettanti sistemi di strutture, o almeno quattro modi di funzionare delle principali, che sono: strutture longitudinali, adatte cioè a resistere contro la prima serie di azioni; sttutture trasversali, dirette contro la seconda; strutture diagonali, dirette contro la terza; strutture o meglio rinforzi locali, diretti contro la quarta serie. Anzi dal prevalere dell'una o dell'altra delle prime tre serie di strutture, naturalmente in rapporto all'importanza prevista delle corrispondenti azioni, l'intero scalo prende nome di scafo a struttura longitudinale, trasversale o diagonale, mentre dalla ragionata coesistenza dei primi due nasce lo scafo a struttura mista. Lo scafo presenta inoltre una caratteristica strutturale che lo distingue da qualunque altra costruzione, ossia il larghissimo, prevalente impiego di lamiere - circa il 70% del peso dello scafo - che costituiscono un elemento non solo necessario per assicurare la tenuta stagna, ma anche straordinariamente adatto a resistere a forze nel suo piano, dirette in sensi diversi, p. es. ad azioni longitudinali e trasversali insieme. Quindi la dicitura di struttura longitudinale, trasversale, ecc., si riferisce ai rinforzi dei fasciami, i quali per conto loro conservano tale adattabilità.

Le membrature longitudinali (chiglia e paramezzale centrale, paramezzali laterali, correnti, biccerie, ecc.), sono legate dalle membrature trasversali (madieri, ossature, bagli, ecc.) in maniera da formare una rete, sulla quale si stendono i fasciami metallici (fasciame esterno e interno, fasciami dei ponti, ecc.): le membrature assicurano la rigidezza dell'intero sistema contro le azioni più diverse, i fasciami contribuiscono indirettamente alla stessa indeformabilità. Longitudinalmente lo scafo si presenta come un lungo trave tubolare, di altezza quasi costante, a sezione variabile, inferiormente a doppio fasciame (doppio fondo), superiormente a molteplici strati (ponti), e lateralmente a fianchi semplici (murate). Trasversalmente lo scafo si presenta come tanti anelli (ossature e bagli), di forma quasi rettangolare o triangolare, ad angoli molto arrotondati. Un elemento efficace, qualche volta essenziale, è costituito dalle divisioni interne (paratie trasversali e longitudinali, copertini, casse, ecc.), soprattutto dal doppio fondo, che si trova in tutte le navi considerevoli, a eccezione dei soli petrolieri.

Negli scafi a struttura trasversale, ancora oggi i più diffusi nella marina mercantile, si hanno: 1. il doppio fondo cellulare, esteso nella parte orizzontale più bassa della nave, fino ai ginocchi, formato dal fasciame esterno (chiglia, torelli, ecc.), dal fasciame interno e dalle lamiere "marginali" laterali; sostenuto da elementi trasversali pieni o a traliccio, continui, collegati da leggieri paramezzali intercostali; diviso in un certo numero di cellule, a tenuta d'acqua, mediante madieri stagni e il paramezzale stagno centrale; 2. le murate, costituite dal fasciame esterno (cinta, sottocinta, ecc.) e dalle ossature trasversali, di vario tipo (oggi generalmente grossi trafilati semplici); 3. i ponti, costituiti da imbagliature trasversali, solidamente collegate con le ossature delle murate (braccioli), e generalmente coperti con fasciame metallico (ponti elevati) o con legno, salvo nelle stive, dove si possono avere imbagliature senza fasciami. In questi scafi trasversali il legamento longitudinale essenziale è costituito dal fasciame e le paratie costituiscono rinforzo utile, ma generalmente non fondamentale della struttura.

Negli scafi a struttura longitudinale, che sono largamente adottati per le navi cisterna per trasporto di petrolio, si hanno: 1. il fasciame esterno, rinforzato da numerosi correnti longitudinali (disposti a distanza circa 50 volte la grossezza del fasciame), 2. il fasciame dei ponti sostenuto alla stessa maniera; 3. poche robuste ossature trasversali e corrispondenti bagli rinforzati, che sostengono i correnti del fasciame esterno e dei ponti; 4. numerose paratie trasversali, che costituiscono elemento fondamentale di robustezza per l'insieme e di sostegno per i correnti e i fasciami.

Negli scafi a struttura mista, a cui si riportano molte navi militari e qualche recente nave mercantile e che rappresenta il futuro del disegno degli scafi, in genere si costruiscono a struttura longitudinale i fondi e i ponti, ossia gli elementi che più contribuiscono alla resistenza longitudinale, e invece a struttura trasversale le murate: giacché in tal modo si ha la migliore utilizzazione del materiale, almeno per la robustezza generale, salvo adeguati provvedimenti per la robustezza locale. Altre volte si sono costruite a struttura trasversale le parti centrali dello scafo e a struttura longitudinale le estremità o anche viceversa, ma la sistemazione più organica è la prima, integrata eventualmente, per facilità di costruzione, da una struttura completamente trasversale alle estremità.

Con questi sistemi il peso dello scafo si può ridurre anche a meno di 1/6 e del dislocamento massimo della nave, ossia a meno di 1/5 di tutti i pesi utili che porta: in navi lente (10 ÷ 12 nodi) a struttura mista il peso utile, esclusi cioè scafo e apparato motore, sale così ai 3/4 del dislocamento totale.

Generalmente le strutture delle navi si proporzionano in via preliminare, in base ad altre già favorevolmente sperimentate, applicando i noti principî della similitudine meccanica, tenendo conto delle sollecitazioni caratteristiche per ogni struttura, salvo opportuni margini per tener conto delle inevitabili ossidazioni e delle eventuali azioni locali: a questo risultato porta anche l'applicazione dei minuziosi e completi regolamenti dei registri di classificazione, che concretano il frutto, per così dire, dell'esperienza quasi secolare del naviglio mondiale riferito a scafi di determinati rapporti dimensionali. Ma è necessario, quando ci si allontana dalle forme tradizionali e dalle dimensioni ordinarie o quando si prevedono sollecitazioni eccezionali per carichi o per navigazioni speciali, controllare con il calcola le dimensioni, riportandosi naturalmente a sollecitazioni unitarie che si siano dimostrate soddisfacenti in casi analoghi. Giacché, occorre rilevarlo ancora, questi calcoli portano a valori relativi di confronto, piuttosto che a valori assoluti.

I calcoli riguardano essenzialmente la robustezza longitudinale e quella trasversale, mentre non si fanno generalmente computi per la robustezza alla torsione, la quale si ritiene soddisfatta quando lo siano le prime due.

Il controllo è limitato essenzialmente alle principali azioni statiche, in quanto le azioni dinamiche generali (inerzia, ecc.) non influenzano in misura molto sensibile (secondo F. Horn circa il 10%) i risultati dei calcoli eseguiti con i procedimenti ormai regolamentari da per tutto.

a) Per quanto riguarda la robustezza longitudinale si suppone la nave caricata nel modo più sfavorevole e ferma su un'onda - trocoidale o sinusoidale - lunga come la nave e alta da 1/10 a 1/20 della sua lunghezza, a seconda della minore o maggiore grandezza della nave. Dai diagrammi delle forze si deducono quindi per via grafica i valori delle forze di taglio e dei momenti flettenti nelle varie sezioni. I momenti massimi (inarcamento e insellamento) si riferiscono in generale al prodotto del dislocamento normale per la lunghezza della nave (al galleggiamento o tra le perpendicolari): il loro rapporto varia da 1:50 per le navi piene a 1:35 per le navi medie, a 1:20 per le navi molto fine. Considerando poi i legamenti longitudinali effiicienti e i fasciami sufficientemente rigidi (capaci cioè di resistere a carichi di punta), estesi adeguatamente (due terzi o una metà della lunghezza dello scafo) e ben collegati alle estremità (soprastrutture), tenendo conto dell'influenza delle chiodature (in corrispondenza delle paratie stagne), e del periodo di montaggio dei varî elementi, si calcola con sufficiente approssimazione il momento d'inerzia e il momento resistente delle varie sezioni dello scafo (metodi di calcolo J. H. Biles, A. Scribanti, F. Pietzker, W. Dahlmann, ecc.). In prima approssimazione si ritiene applicabile la legge di Hooke, e se ne deducono le sollecitazioni longitudinali principali, cui si aggiungono quelle locali dovute alle azioni idrostatiche, specie con le strutture longitudinali. Le sollecitazioni generali così calcolate oggi possono giungere verso i 15 e più kg/mmq., per le grandi costruzioni, quando s'impieghino acciai ad elevato limite elastico e quando si sia bene premuniti contro la pressioflessione.

Le sollecitazioni risultano maggiori per le navi molto lunghe rispetto all'altezza (fino a 15 volte circa), ossia per le navi di grande dislocamento, a causa della limitazione dei fondali dei porti.

Dalla conoscenza delle curve dei momenti flettenti e dei momenti d'inerzia si traggono, con l'integrazione grafica, le curve delle tangenti e delle frecce della curva elastica della nave, nelle condizioni anzidette, tenendo conto di un modulo di elasticità appropriato per l'insieme della costruzione, in genere alquanto inferiore a quello del materiale - fino a 16.000 kg/mmq. -, e funzione naturalmente del sistema di costruzione e dell'entità delle sollecitazioni, nonché del metodo seguito nel calcolo dei momenti d'inerzia dello scafo. Questo calcolo ha molta importanza in tutti quei casi nei quali occorre una grande rigidezza della nave, come avviene nelle unità fornite di linee d'assi molto lunghe oppure nelle navi militari.

Le sollecitazioni longitudinali statiche e le frecce calcolate con i metodi accennati, tenendo debito conto delle azioni locali e delle forze di taglio, dànno in genere risultati attendibili, come si è constatato nei rileiamenti sperimentali, moltiplicatisi negli ultimi anni, quale controllo del metodo ormai da parecchi decennî generalizzato: proie di J. H. Biles con lo scafo del C. T. inglese Wolf (1905); prove di W. Howgaard con i C. T. americani Bruce e Preston (1931). Ma importanza ancora maggiore ha lo studio delle vere sollecitazioni che si verificano in navigazione effettiva, con mare tempestoso e con sfavorevoli condizioni di carico. Alcuni registri fanno molto opportunamente una raccolta metodica di elementi relativi a questi fenomeni.

Si è rilevato che le sollecitazioni complete in mare sono sensibilmente inferiori a quelle calcolate con il metodo tradizionale, ma che le sezioni corrispondenti alle sollecitazioni massime possono essere sensibilmente spostate rispetto alla sezione maestra. Si sono così messe pure in evidenza l'importanza della continuità delle strutture, del passaggio graduale da uno a un altro momento d'inerzia, l'efficacia dei collegamenti, ecc., di tutti quegli elementi cioè che influiscono sulla resistenza alle azioni dinamiche e ripetute, e che del resto la pratica secolare aveva già indicato essere essenziali nella resistenza degli scafi al mare.

b) Per quanto riguarda la robustezza trasversale si suppone la nave disposta sulle taccate in bacino, eventualmente senza puntelli, caricata nel modo ordinario dei suoi pesi fissi e mobili, e si considera un anello isolato, costituito da un'ossatura e dal baglio, con il relativo fasciame esterno, interno e dei ponti, calcolandone le sollecitazioni con gli ordinarî metodi della meccanica applicata. Le sollecitazioni statiche che si troiano con questo procedimento, benché lontane dalla realtà, soprattutto perché non si tiene conto dell'azione reciproca dei varî elementi fra loro (paratie, ecc.), sono generalmente assai forti, ma si considerano soddisfacenti sempre che restino dentro il limite elastico del materiale, giacché anche qui le sollecitazioni rilevate in mare, nelle ordinarie condizioni di navigazione, sono molto inferiori a quelle così calcolate. Quando però si abbiano al vero azioni molto diverse da quelle corrispondenti all'immissione della nave in bacino, per es. quando le azioni dell'inerzia nel rullio celere assumono importanza prevalente in relazione alle azioni statiche anzidette, occorre calcolarle in modo diretto, così per le strutture dei grandi saloni disposti nelle soprastrutture dei transatlantici. Si osservi che mentre per il calcolo di controllo della robustezza longitudinale esistono metodi uniformi, accettati da tutti, per il calcolo della robustezza trasversale tale uniformità ancora manca.

c) Per quanto riguarda la robustezza torsionale, non si fanno generalmente controlli diretti, salvo opportune verifiche in corrispondenza delle grandi aperture dei ponti per l'accesso alle stive e salvo casi speciali di scafi particolari: meritano ricordo esperienze eseguite in proposito, con grandi modelli di navi, da G. Schnadel, in Germania.

d) Per quanto infine riguarda la robustezza locale, che per la sicurezza della nave presenta importanza non inferiore a quella generale, basta applicare i metodi ordinarî della meccanica, p. es. nelle zone prodiere, sottoposte all'azione violenta delle onde con mare di prora; nelle zone poppiere, sottoposte all'azione indiretta delle eliche, ecc.

Oltre al controllo delle strutture esterne (fasciami, ponti, ecc.) si esegue quello delle strutture che hanno funzione fondamentale nella sicurezza della nave, ossia delle paratie trasversali, le quali, insieme con un ponte "stagno" (ponte delle paratie), costituiscono il sistema di compartimentazione che affida della galleggiabilità della nave in caso di allagamento parziale. Mentre la distribuzione di queste paratie è studiata in base a norme ormai internazionali (Convenzione di Londra del 1929) e viene fatta in base al presupposto di mantenere la nave a galla, ossia con il ponte delle paratie ben alto sul mare, anche quando un certo numero dei grandi compartimenti di stiva (uno, due, fino a tre) siano in comunicazione permanente libera con il mare, la loro robustezza è calcolata in maniera da resistere alla corrispondente pressione idro-dinamica. È noto che questa compartimentazione stagna e robusta, severamente controllata e conservata in efficienza, costituisce la migliore garanzia "passiva" per la tutela della vita umana in mare, ma essa non sarebbe efficace se le chiusure delle aperture indispensabili nei ponti, nelle murate e nelle paratie non dessero affidamento eguale a quello delle strutture integre: di qui una serie di provvidenze intese a tale scopo, anch'esse rigorosamente controllate durante la vita del bastimento.

Meno importante per la sicurezza della navigazione, ma essenziale per il regolare funzionamento della nave, del suo apparato motore, dei servizî per i passeggeri, ed eventualmente dei servizî delle armi sulle unità militari, è la questione delle vibrazioni dello scafo, vibrazioni provocate da cause diverse (eliche, motrici principali, macchine ausiliarie, ecc.), ma che trovano la loro causa fondamentale nell'accordo tra la frequenza delle vibrazioni dello scafo e quella delle cause determinanti. In massima si deve tenere il periodo di vibrazioni proprio dello scafo lontano dal numero di giri delle eliche, pur calcolando l'influenza dell'acqua circostante, che partecipa alle vibrazioni, ecc., salvo adottare speciali dispositivi antivibranti (p. es., il sistema di U. Loser dei Cantieri Riunití dell'Adriatico).

Il periodo T fondamentale di vibrazioni longitudinali, di flessione dello scafo, ossia con due soli nodi, si può avere in prima approssimazione partendo dalle considerazioni relative a un trave liberamente vibrante e dalla relativa formula

che, presupponendo costante il rapporto μ/I, dà

dove D è il dislocamento in tonn., L la lunghezza della nave in m., E e I il modulo di elasticità e il momento d'inerzia della sezione maestra g l'accelerazione di gravità in m/sec2: secondo O. Schlick la costante nella formula di T sarebbe o,181. Sperimentalmente il numero di giri critico

è dato da

con C variabile da 2,8 × 106 a 3,4 × 106 per bastimenti pieni o fini. Si può avere più esattamente il valore di T partendo dalle curve della distribuzione dei pesi o masse (μ) e dei momenti d'inerzia (I) con il metodo di Kull.

I materiali impiegati negli scafi metallici sono:1. gli acciai dolci. cosiddetti "da Registri", in media R = 45 kg./mmq., A = 20%; 2. gli acciai ad elevato limite elastico, R = 55 kg./mmq., A = 10%, E = 25 kg./mmq.; 3. gli acciai duri R = 60 kg./mmq., A = 10%; 4. gli acciai tenaci R = 60 kg./mmq., A = 20%; 5. le leghe leggiere a base di Al (duralluminio, ecc.) o di Mg (elektron, ecc.). Gli acciai dolci, di facile lavorazione e di notevole resistenza dinamica, sono di gran lunga i più usati nella costruzione mercantile, nonostante i vantaggi degli acciai a elevato limite elastico, che cominciano a impiegarsi nelle costruzioni di maggiore importanza con notevole economia di peso. Gli acciai tenaci (al Ni, al Cr, al Vn, ecc.) sono largamente usati nelle marine militari, anche per vantaggi di ordine protettivo. Le leghe leggiere trovano per ora applicazione nelle strutture secondarie, a causa del loro basso modulo di elasticità, del loro comportamento all'acqua di mare, e del loro alto prezzo, ma sembrano destinate a estendersi nelle costruzioni di alta classe, dove ogni considerazione è subordinata alla leggerezza, specialmente nei paesi privi di ferro e ricchi di minerali adatti. Forse da una combinazione tra acciai ad elevato limite elastico e leghe leggiere (sistema Rougeron, ecc.), utilizzando al meglio le relative caratteristiche, si potranno raggiungere ulteriori progressi, per combattere l'aumento di peso morto connesso con l'incremento delle dimensioni assolute degli scafi.

Questi materiali si adoperano sotto forma di lamiere e di profilati, di adatte dimensioni, in maniera da ridurre al minimo le strutture complesse e quindi la lavorazione e il peso: i loro collegamenti, che hanno importanza fondamentale per le sollecitazioni statiche e soprattutto dinamiche alle quali lo scafo è sottoposto, sono ottenuti con chiodature e con saldature, considerando la necessità della tenuta stagna all'acqua o ad altri liquidi (nafta, olio, benzina, ecc.). Le chiodature, adottate universalmente fino all'ultimo decennio, cominciano a essere sostituite con vantaggio dalle saldature (saldatuta elettrica, autogena, ecc.), sebbene si abbiano ancora da superare alcune difficoltà per il controllo del lavoro e per l'unione di grandi elementi laminari. L'economia di peso e l'aumento di rigidezza raggiungibili con la saldatura indicano nuove possibilità di progresso.

Apparati motori.

Per le macchine in generale, e cioè le turbine a vapore e le motrici alternative a vapore o a combustione interna, vedi le voci relative; per le caldaie v. caldaia.

I tipi e le proporzioni delle macchine usate per produrre la potenza necessaria alla propulsione delle navi dipendono da diverse condizioni inerenti al loro funzionamento e, come non di rado avviene, in parte contraddittorie fra loro; dimodoché le soluzioni cui si giunge sono necessariamente dei compromessi che possono riuscire considerevolmente diversi secondo le circostanze delle singole applicazioni. L'ingegnere navale deve rispettare limitazioni precise di peso e d'ingombro, ma nel tempo stesso deve garantire un grado molto elevato di sicurezza di esercizio, poiché dalla continuità di funzionamento anche nelle peggiori traversie dipende la conservazione delle vite e dei beni che alla nave sono affidati; deve anche rispettare limiti molto stretti di consumi sia perché la dotazione di combustibile interessa l'esponente di carico non meno del peso dell'apparato motore, sia, nel caso della nave mercantile, perché questa come azienda commerciale non consente larghezza di margini nelle spese di esercizio.

Naturalmente le condizioni di leggerezza, sicurezza ed economia reagiscono in modo diverso sui varî tipi di apparati motori, da quello di una silurante a quello di una nave da carico, onde pur nelle stesse linee generali si ha una grandissima varietà di soluzioni.

Apparati motori militari e mercantili si differenziano poi anche per altre circostanze e soprattutto per l'elasticità di funzionamento e prontezza di messa in azione che è essenziale per i primi; di più questi solo di rado e per brevi periodi debbono sviluppare le potenze massime di cui sono capaci, mentre i secondi debbono di solito potere sviluppare ininterrottamente per periodi di settimane e spesso con solo brevi interruzioni nel corso dell'anno la loro potenza massima, o una potenza prossima a questa; le variazioni di potenza in relazione a condizioni diverse di carico della nave, o all'influenza di fattori esterni come vento, mare e correnti, sono piccole in confronto di quelle delle navi militari, ed è raro il caso che si debbano prevedere due distinte velocità di esercizio, con valori molto diversi della potenza.

La diversa larghezza di proporzionamento nelle due grandi famiglie di apparati motori dipende quindi non solamente dai maggiori rischi che è lecito affrontare, dall'uso più largamente consentito di materiali speciali di alta resistenza, quindi più dispendiosi, e infine dalle condizioni di necessità in cui ci si trova per risolvere il problema in dati tipi di navi militari, ma anche (particolarmente nelle motrici a stantuffo) da diversa misura di pericolo di fenomeni di fatica dei materiali soggetti a sollecitazioni alternate, onde in realtà nella nave militare fino a un certo punto si possono fare proporzionamenti più stringati con ugual misura di sicurezza e di durata. Naturalmente al di là di certi limiti l'alleggerimento è ottenuto a spese non della sicurezza immediata, ma della durata.

Altri elementi, non esclusivi delle motrici marine ma che hanno in queste importanza grandissima, sono la necessità di poter invertire il senso di rotazione entro brevissimi intervalli di tempo, e quella di potere sviluppare con ragionevole economia una scala abbastanza estesa di potenze. La regolazione della potenza è fatta sempre a mano; si usano in qualche caso dei regolatori, ma semplicemente come apparecchi di sicurezza per limitare la precipitazione della macchina quando la nave beccheggiando mette in parte l'elica fuori acqua.

Dal principio del secolo circa gli apparati motori marini vanno subendo grandiose mutazioni per l'introduzione e l'evoluzione della turbina a vapore e del motore Diesel. Un nuovo assetto, relativamente stabile, non è ancora raggiunto, e ci si avvia verso di esso piuttosto lentamente perché siamo ancora in una fase attivissima di trasformazioni e di perfezionamenti, di esperienze sulle quali troppo poco tempo è trascorso per giungere a giudizî definitivi e perché la vita abbastanza lunga delle navi conserva in servizio unità di tipi dei quali non si costruiscono più nuovi esemplari.

Nel naviglio da guerra di superficie, salvo casi molto speciali, prevale la turbina a vapore; nei sommergibili, per la navigazione alla superficie, il motore Diesel; nel naviglio mercantile, macchine a vapore a stantuffo, turbine e motori Diesel vanno dividendosi le applicazioni, e per molte condizioni estreme la scelta oramai è ovvia; ma vi sono vaste zone nelle quali essa è ancora controversa. Degli apparati motori marini mercantili in costruzione nel 1931 il 33% erano macchine a vapore a stantuffo, il 9% turbine a vapore e il 58% motori Diesel. Se le percentuali, anziché al numero di apparati motori, si riferiscono a quello dei cavalli da sviluppare, il predominio delle turbine a vapore per le grandi potenze cambia del tutto le proporzioni. Della potenza delle macchine in costruzione il 10% era delle macchine a vapore a stantuffo, il 48% della turbina a vapore, e il 42% del motore Diesel; le potenze medie sviluppate per ciascun apparato motore erano rispettivamente intorno a 1000, 19.000 e 2700 cavalli. Alla stessa data, di tutto il tonnellaggio di naviglio esistente nel mondo (tonnellaggio di stazza lorda, per unità da 100 tonn. in su) il 73% era ancora servito da macchine a vapore a stantuffo, il 13% da turbine a vapore ed il 14%, da motore Diesel. Le variazioni e, purtroppo, i regressi segnati da statistiche recenti sono troppo influenzati da circostanze esterne per consentire induzioni di carattere tecnico.

Diciamo anzitutto delle macchine a vapore alternative, con l'avvertenza che molte cose per esse accennate valgono anche ovviamente per gli altri tipi di apparati motori marini. Superate le perplessità e i tentennamenti del periodo delle origini e di quello della trasmissione dalla propulsione a ruote alla propulsione a elica, la macchina alternativa era giunta a una notevole uniformità di linee generali, e taluni dei suoi caratteri costruttivi sono passati in eredità al motore Diesel. Da lungo tempo per le navi a elica non si fanno più che macchine verticali e, come si dice, a cilindri capovolti, cioè col cilindro in alto e l'albero motore in basso, come si vede, per es., nella figura 127 relativa alle macchine motrici del vecchio Agordat.

Le macchine sono sempre a espansione multipla; doppia per piccole potenze, o talora quando s'impiegano macchine a valvole, triplice nel maggior numero dei casi, e qualche volta anche quadruplice. Molte volte per non arrivare a diametri eccessivi i cilindri a bassa pressione sono due, e qualche volta per opportunità di sistemazione è stato sdoppiato anche il cilindro ad alta pressione. Di solito si hanno tante manovelle quanti sono i cilindri, ma nella costruzione mercantile vi sono esempî di cilindri in tandem. E finalmente qualche volta per potenze grandissime si hanno due serie di cilindri che mettono in rotazione il medesimo albero, e così si arriva, per es., a macchine complete con 8 cilindri e 6 manovelle. Con diametri di cilindri a bassa pressione prossimi a 3 m. e corse dell'ordine di m. 1,80 si era arrivati a ottenere con due linee d'alberi apparati motori di 40.000 cavalli; ma oggi non vi è più occasione di ripetere tali ardimenti, perché potenze di quest'ordine (e molto maggiore) si sviluppano nel miglior modo con le turbine a vapore. I rapporti dei volumi dei cilindri sono usualmente grandi (fino a cilindri a bassa pressione decupli circa di quelli ad alta pressione) per ottenere rapporti di espansione sufficientemente estesi anche con gli ampî gradi di ammissione che bisogna adottare in queste macchine, dato il sistema di distribuzione e date le necessità della messa in moto e della manovra delle macchine. Vi sono spesso, almeno per qualche cilindro, camicie di vapore; nelle macchine recenti il vapore è surriscaldato, sebbene spesso moderatamente; vi è anche qualche applicazione di cilindri a corrente continua di vapore (sistema Stumpf). In sostanza i costruttori di macchine a vapore alternative non hanno abbandonato la lotta e vanno cercando di introdurre nella loro produzione tutti i miglioramenti di cui essa è suscettibile. Molte volte i cilindri sono disposti nel loro ordine naturale e le manovelle sono fra dì loro ugualmente spaziate, e disposte nell'ordine più opportuno per rendere minima l'irregolarità del momento motore. Su tali criterî però spesso prevale l'altro di bilanciare "come si dice, la macchina, per rendere minime le vibrazioni indotte nello scafo dalle forze d'inerzia delle parti mobili della macchina. Si hanno allora i pesi di queste parti artificiosamente modificati, contrappesi applicati alle manovelle, ordine e distanza dei cilindri, sequenza e angoli di calettamento delle manovelle determinati in modo che a prima vista può sembrare bizzarro in relazione a tale scopo.

Si mira a equilibrare le forze d'inerzia di frequenza pari e doppia di quella corrispondente alla velocità angolare dell'albero. Non si possono avere risultati perfetti in senso assoluto perché vi sono ancora componenti minori di frequenze più elevate e perché i calcoli implicano ipotesi non completamente realizzate (uniformità della velocità angolare della macchina, rigidità della struttura di questa, ecc.). Si determinerà a priori il periodo naturale di oscillazione dello scafo, in guisa da tenersi lontani da condizioni di risonanza. Si avverta in ogni modo che queste precauzioni non escludono completamente la possibilità di vibrazioni che possono essere dovute a cause completamente diverse, per es. a mancanza di bilanciamento delle eliche.

Il sistema di distribuzione più adoperato è quello a cassetto semplice; vi sono stati esempî di distribuzioni a doppio cassetto, ma il sistema non si è diffuso. Si hanno cassetti piani ove la pressione del vapore è scesa a valori abbastanza bassi (quasi sempre nei cilindri di bassa pressione, e qualche volta in quelli intermedî). Trovano largo uso i cassetti a doppia luce, per avere corse relativamente piccole, e i cassetti con condotto Trick. I cassetti sono abitualmente compensati per diminuire la pressione sullo specchio e la perdita per attrito corrispondente. Ove la pressione è alta si adoperano sempre cassetti cilindrici e l'ammissione si fa promiscuamente dagli spigoli interni e da quelli esterni secondo opportunità di sistemazione.

La disposizione con due distributori adiacenti con ammissione il primo dagli spigoli interni e il secondo da quelli esterni permette notevoli semplificazioni costruttive. Giova bilanciare il peso dei distributori (con appositi cilindretti ausiliarî nel caso generale, ma più semplicemente con una lieve differenza nel diametro del bossolo in alto e in basso quando si tratta di distributori cilindrici con ammissione dagli spigoli interni) e, nelle macchine celeri, le forze d'inerzia dei distributori stessi con i cosiddetti cilindri assistenti (Joy, Lovekin, ecc.). I distributori hanno in generale il piano medio verticale longitudinale in comune coi cilindri; non mancano esempî di distributori posti lateralmente per fare macchine più corte e guadagnare spazio di stive. Il comando dei cassetti è fatto in generale con l'apparecchio Stephenson nella sua forma primitiva; più comunemente a bielle aperte, ma anche qualche volta a bielle incrociate.

Rara è l'applicazione di altri sistemi, quali il Walschaerts, il Klug, il Marshall, il Joy. Con questi ultimi è più semplice il comando dei cassetti laterali; ma nel Marshall è grave l'inconveniente delle eccessive dimensioni degli eccentrici; nel Joy la molteplicità delle articolazioni oblitera il beneficio dell'assenza degli eccentrici.

Gli apparecchi relativi ai diversi cilindri sono comandati dallo spostamento angolare di un unico albero d'inversione del moto. Per modificare le distribuzioni dei singoli cilindri s'introducono, nelle costruzioni accurate, disposizioni che permettono di modificare la lunghezza del braccio di sospensione corrispondente. Il comando dell'albero d'inversione si fa a mano soltanto nelle macchine piccolissime; in tutte le altre per ottenere un'adeguata rapidità d'inversione di moto si ricorre sempre a un motorino a vapore ausiliario. Lo spostamento angolare dell'albero d'inversione (circa 90°) si può ottenere con una sola corsa dello stantuffo del motore ausiliario che è allora un motore asservito, spesso munito di cilindro-freno; oppure si può ottenere, attraverso una catena cinematica più complessa, con un motore ausiliario a uno o a due cilindri, di dimensioni molto minori, fornito di albero a manovelle, con 20 o 30 (e qualche volta fino a 50) giri di quest'ultimo che attraverso una coppia di vite perpetua e ruota elicoidale e un quadrilatero articolato comanda l'albero d'inversione di moto.

In taluni apparati motori recenti si sono ottenuti buoni risultati con distribuzioni a valvole comandate. Naturalmente il cambiamento del sistema di distribuzione e con esso, l'adozione di gradi di ammissione minori, importa estese modificazioni di tutto il proporzionamento della macchina. All'estero è ormai notevolmente diffuso anche per le applicazioni marine il sistema Lentz; in Italia, e anche fuori, si va usando il sistema Caprotti, del quale sono particolarmente interessanti applicazioni associate con l'uso di turbine a vapore di scarico secondo il sistema Bauer-Wach. Oltre ai benefici ovvî inerenti a una distribuzione a valvole e il facile adattamento all'impiego di vapore fortemente surriscaldato è da rilevare il basso valore della potenza assorbita dall'apparecchio di distribuzione, ciò che oltre a un miglioramento del rendimento organico consente la manovra a mano anche per macchine fornite di potenze rilevanti.

Ogni macchina marina è munita di un viratore, per farne rotare l'albero a freddo, per operazioni di manutenzione. Caratteristiche delle motrici marine sono le forme dell'incastellatura, che hanno poi trovato applicazione anche in altri campi. Pilastri di ghisa, spesso a forma di Y rovesciato, o colonne di acciaio sostengono i cilindri appoggiandosi alla piastra di fondazione in corrispondenza delle traverse della stessa a cui sono affidati i cuscinetti di banco, e servono anche di sostegno alle guide le quali, secondo la disposizione dell'incastellatura e la forma della testa a croce, possono essere quattro, o due, o anche una sola che naturalmente allora è fornita di bordi per reagire alla spinta durante la marcia indietro, o anche durante la marcia avanti quando la forza agente sullo stantuffo è negativa.

In molti bastimenti mercantili l'involucro esterno del condensatore è costruito in ghisa ed è solidale con la piastra di fondazione; in tale caso i pilastri posti a sostegno dei cilindri emergono dal cielo dell'involucro stesso.

Immediatamente a poppa dell'albero a manovella è collocato il cuscinetto di spinta, che è il punto di applicazione allo scafo della forza che lo propelle. È un punto delicato, perché per grosse navi veloci questa forza assomma a parecchie decine di tonnellate; i tipi classici (Penn, Maudsley), dalle superficie portanti amplissime perché poco caricabili per rispetto alle condizioni di lubrificazione, sono ormai superati con la comparsa di cuscinetti a settori automaticamente orientabili derivanti dal tipo Michell (fig. 128); e così il lavoro perduto per attrito in questa sede è ridotto a una quota ragionevole.

Dopo il cuscinetto di spinta l'albero di trasmissione traversa le stive in apposita galleria fino a una paratia stagna, oltre la quale esso passa dall'interno all'esterno dello scafo; in questo tratto esso è protetto da una camicia di bronzo e contenuto in un astuccio di bronzo, di acciaio o di ghisa, che alla sua volta è affidato alla struttura dello scafo. L'estremità prodiera dell'astuccio fa da cassa a un pressatrecce sistemato sulla paratia anzidetta, che impedisce che l'acqua del mare entri nella nave. Da questo pressatrecce fino all'elica l'albero lavora in acqua e quindi non può essere affidato a supporti ordinarî. Perciò all'entrata e all'uscita dall'astuccio e nei bracci porta-elica i cuscinetti sono guarniti con doghe di legno santo (lignum vitae, guaiaco) disposte longitudinalmente, e opportunamente spaziate in modo da lasciare libero l'accesso all'acqua marina che agisce anche come lubrificante. La difesa dalle corrosioni e le necessità della manutenzione impongono in tutta questa parte della macchina rigorosa cura di particolari troppo minuti per poter essere qui descritti.

La lunghezza complessiva dell'albero dal cuscinetto di spinta all'elica può essere molto grande: diverse decine di metri; onde l'albero si compone sempre di più tronchi uniti fra loro per mezzo di accoppiatoi fissi a briglie. Se per manutenzione l'albero portaelica deve essere sfilato verso l'esterno per poter passare attraverso l'astuccio, l'albero non deve avere espansioni oltre il proprio diametro; e in tal caso fra esso e il tronco successivo della linea di assi si adotta un accoppiatoio mobile che può avere forme diverse.

Le linee d'alberi sono sede di parecchi fra i disturbi più notevoli a cui vanno soggette le macchine marine. Si possono avere vibrazioni trasversali pericolose in dipendenza di forze centrifughe prodotte nella rotazione da eccentricità inevitabili anche nelle macchine più perfette, onde occorre evitare le velocità critiche alle quali questi fenomeni vibratori si esaltano. Parimenti in corrispondenza del fluttuare del momento motore può variare periodicamente l'angolo di cui si torce l'albero motore e in condizioni di risonanza quest'angolo, e con esso la sollecitazione del materiale, può aumentare in guisa da provocare immediatamente o a scadenza più o meno lunga la rottura. Questo fenomeno fu messo in evidenza dal Frahm, che aveva istituito anche semplici trattazioni approssimate sufficienti per lo studio della macchina a vapore. L'introduzione dei motori Diesel con più estese e violente fluttuazioni del momento motore ha reso necessario di riprendere a fondo lo studio del problema che è tuttora oggetto di laboriose ricerche.

Alla preoccupazione di eliminare remote possibilità di vibrazioni torsionali sono dovute, per es., in una recente nave a turbina, le inconsuete proporzioni di 625 e 440 mm. di diametro esterno e interno per gli alberi di trasmissione.

I primi apparati motori a turbine sono stati apparati motori a comando diretto, costituiti da una linea d'alberi con una turbina ad un capo e un'elica all'altro. La velocità angolare era quindi rigorosamente limitata dalle condizioni di funzionamento dell'elica e di gran lunga inferiore a quella più adatta al funzionamento della turbina. Si sono subito applicati, adattandoli faticosamente alle condizioni della propulsione marina, i diversi tipi primitivi di turbine a reazione e ad azione (Parsons, Rateau, Zoelly, Curtis, ecc.), talora seguendo gli sviluppi del tipo fisso, talora promovendone di proprî.

In particolare ben presto sono comparsi anche nelle applicazioni marine i tipi misti, con una parte ad alta pressione più o meno estesa ad azione, sorti come modificazioni sia della turbina primitiva a reazione sia di quella tutta ad azione.

La turbina è irrimediabilmente atta a rotare in un senso solo, quindi si sono dovuti escogitare espedienti per ottenere l'inversione di marcia. In realtà si hanno due turbine, una per ciascun senso di rotazione; ma di fronte all'impossibilità pratica di raddoppiare l'impianto ci si contenta di ottenere per la marcia indietro una frazione soltanto della potenza disponibile per la marcia avanti, impiegando per altro la stessa quantità di vapore, e quindi accettando un consumo unitario di vapore molto più elevato. In queste condizioni la turbina destinata per la marcia indietro si riduce a proporzioni relativamente modeste, e può associarsi a quella di marcia avanti di cui diventa una specie di appendice, e purtroppo anche di parassita, utilizzando quanto di essa è possibile per ridurre duplicazioni di organi e strutture. Abitualmente le due turbine sono montate sullo stesso albero, con lo scarico in comune in modo che quella delle due che non funziona ruoti in un ambiente ove la pressione è bassa e si riduca al minimo la resistenza passiva addizionale che essa genera.

Notevoli deviazioni dalle forme usuali negl'impianti fissi sono state imposte dalle modeste velocità angolari e più ancora, in particolare nelle navi da guerra, dalla necessità di contenere in limiti ragionevoli il consumo di vapore a carichi ridotti, con la grave complicazione che qui al diminuire della potenza diminuisce il numero dei giri e quindi la velocità periferica. Le differenze più radicali si sono avute naturalmente con le turbine a reazione, e in luogo del classico tamburo a gradini dei turboalternatori si sono avuti tamburi a diametro costante contenuti in involucri separati e montati su alberi distinti (due o tre secondo i casi). Per contenere in limiti ragionevoli il consumo a potenze ridotte e con velocità periferiche minori era necessario ridurre la velocità del vapore e quindi dividere in un maggior numero di parti il salto di pressione dalla caldaia al condensatore. Perciò nelle navi da guerra alle turbine principali si sono aggiunte una o due turbine ausiliarie dette turbine di crociera, corpi distinti montati sugli stessi alberi delle prime, che a tutta forza giravano nel vuoto senza ricevere vapore, ma che venivano successivamente inserite a funzionare fra le caldaie e le turbine principali mano a mano che la potenza da sviluppare diminuiva, creando la situazione paradossale che meno cavalli occorrevano più macchine si dovevano mettere in azione. Con due a quattro alberi motori, con un apparato motore unico o due apparati motori distinti, con la marcia indietro a tutte le turbine o soltanto a quelle di bassa pressione, con turbine di crociera distinte per ciascun apparato motore o con una sola serie di turbine di crociera inserita fra le caldaie e due apparati motori distinti o finalmente senza turbine di crociera è ovvio che è stato possibile creare una notevole varietà di disposizioni generali.

Negl'impianti più recenti sono di solito scomparse le turbine di crociera come corpi distinti, ma il principio della più o meno minuta divisione del salto di pressione rimane con la possibilità di ammettere vapore in diversi punti della turbina, escludendo dal circuito un certo numero di file di palette, di solito in testa alla turbina, per le potenze più elevate. Qualche volta tuttavia le file di palette che si rendono inerti sono in una zona intermedia che a tutta forza non viene percorsa dal vapore e quindi si trovano a rotare in un ambiente ove regna una pressione ridotta. In casi particolari anche oggi si dà tuttavia speciale sviluppo alle disposizioni per la crociera fino a creare un apparato motore apposito completamente distinto. Tale è il caso dell'incrociatore inglese Adventure, che ha un apparato motore principale a turbine di 40.000 cavalli e un apparato motore ausiliario Diesel elettrico di 3100 cavalli che gli consente un grandissimo raggio d'azione a piccola velocità. Analogamente gl'incrociatori tedeschi della classe Königsberg hanno un apparato motore principale a turbina di 65.000 cavalli-asse per la velocità di 32 nodi, e un apparato motore ausiliario composto di due motori Diesel leggieri da 800 cavalli ciascuno a 900 giri sufficiente per sviluppare una velocità di circa 10 nodi.

Nelle sue linee generali primitive la turbina non era certamente adattabile a tutti i tipi di navi. Essa è stata successivamente introdotta nei varî tipi di navi da guerra, nei transatlantici rapidi, nelle navi per servizî celeri e molto brevi, ecc., spossessandone rapidamente le macchine a stantuffo. Quelle prime turbine erano meravigliose costruzioni e ispirano alta ammirazione per gl'ingegneri a cui sono dovute, ma i loro rendimenti erano ben lontani da quelli che si possono ottenere in condizioni più confacenti al carattere della macchina; inoltre erano macchine di grande peso complessivo, composte di pezzi singoli molto pesanti e difficilmente maneggevoli, molto ingombranti, e tutto ciò creava difficoltà e fastidî notevoli, non soltanto in relazione all'esponente di carico, ma anche per il montamento e per l'esercizio degli apparati motori. La turbina consentiva di risolvere problemi che con le macchine a stantuffo non si sarebbero potuti affrontare, e per questo per un certo periodo di tempo ci si è rassegnati ad accettare inconvenienti che a nessun costruttore di macchine alternative sarebbero stati perdonati. Infine in quelle linee la turbina era del tutto inapplicabile alla grande massa del naviglio mercantile.

Il naturale desiderio di estendere in questo campo le applicazioni della turbina a vapore ha condotto a studiare e perfezionare i sistemi di riduzione, e i risultati sono stati tali da renderne generale l'uso anche nei tipi per i quali si era adottata da principio la trasmissione diretta che oggi è praticamente scomparsa, tanto che in tempi recenti non si ricorda che un piroscafo (Île-de-France, 1926) propulso in tal modo.

Con l'introduzione dei sistemi di riduzione la fisionomia della turbina marina è rimasta completamente trasformata. Poiché non solo è stato immediatamente elevato il rendimento della turbina, consentendo un migliore impiego dell'espansione del valore e una buona utilizzazione degli alti vuoti e riducendo in linea generale molte cause di perdita, ma si è anche aperta la via a tutti i progressi che maturavano intanto nelle applicazioni terrestri. Riportata alle sue condizioni naturali di funzionamento (e il perfezionamento delle strutture e dei materiali permette oggi velocità periferiche formidabilmente elevate), la turbina più piccola, più rigida, risulta meno esposta a inconvenienti termici e meccanici, ed è superiore a quella a trasmissione diretta per costo, peso e spazio. Conviene anche notare che è possibile portare la velocità massima di funzionamento al disotto della prima velocità critica dell'albero, condizione che negl'impianti marini è desiderabile soddisfare.

Dei sistemi di riduzione il più ovvio, il primo applicato e anche oggi il più diffuso è quello a ingranaggi. La sua introduzione si può far risalire circa al 1910 con le applicazioni sperimentali nei carbonai Neptune della marina americana (sistema Westinghouse, Melville e Macalpine "a telaio galleggiante") e Vespasian inglese, quest'ultima applicazione fatta direttamente dal Parsons per fornire la prova dell'accettabilità e della bontà del sistema. Intorno a questo gravi e non prive di buone ragioni erano le perplessità dei tecnici e soprattutto degli utenti, perplessità dissipate poi dall'esperienza, per l'adeguato proporzionamento degli apparecchi, per la scelta di materiali adatti a durare sufficientemente sotto gli sforzi a cui rocchetti e ruote vanno soggetti, e soprattutto per la perfezione raggiunta nell'arte del taglio degl'ingranaggi, che per le nuove necessità ha subito trovato nuovi metodi e nuove macchine e un grado altissimo di esattezza di lavorazione, che viene controllato con mezzi rigorosissimi, quali difficilmente si sarebbe pensato potessero trovare applicazione in questo campo.

I rocchetti presentano diversi problemi in relazione alla loro durata, al che si è provveduto col farli di acciai speciali, e al loro allineamento con le turbine, e per questo si sono introdotti accoppiati flessibili e inoltre, in taluni casi, la condotta per mezzo di un albero di minor diametro interposto fra la turbina e l'attacco del rocchetto. Facendo il rocchetto cavo, esso può essere attraversato longitudinalmente da tale albero e accoppiato con esso mediante un mozzo o mediante una briglia al suo estremo poppiero. Vi sono state preoccupazioni per la possibile deformazione di torsione del rocchetto, a cui avrebbe corrisposto una disuniforme distribuzione dello sforzo tangenziale. In taluni impianti (p. es. nel Bremen) questa possibilità viene resa più remota, facendo il rocchetto cavo come sopra è detto e collegandolo con una briglia all'albero di diametro ridotto nel suo punto di mezzo invece che ad una estremità. La deformazione per torsione è così ridotta a un arco di 1/100 di mm. misurato alla periferia del rocchetto.

La riduzione importa naturalmente una perdita, ma il rendimento di ingranaggi di queste proporzioni e così perfettamente lavorati è altissimo (prossimo a 0,99). Un certo aumento di perdita è dovuto alla necessità di raccogliere separatamente su assi distinti le spinte dell'elica e della turbina, mentre nella turbina a comando diretto queste si contrappongono l'una all'altra e il cuscinetto di spinta che prende posto a pruavia della turbina raccoglie soltanto la differenza con grande beneficio del rendimento organico. L'opportuna comparsa press'a poco contemporanea dei cuscinetti Michell o simili, che ha ridotto a una piccola frazione la perdita corrispondente, diminuisce assai tale inconveniente.

D'altronde queste perdite sono molto piccole in confronto alla diminuzione di consumo che si ottiene nella turbina passando dalle velocità angolari di centinaia a quelle di migliaia di giri. Né si deve dimenticare che esse trovano anche un'altra contropartita nel possibile maggivr rendimento dell'elica. Anche la composizione della turbina ne ha tratto beneficio e oggi vediamo spesso turbine frazionate su diversi rotanti, ciascuno animato dalla velocità angolare che meglio conviene alle sue proporzioni, che attraverso rocchetti di diverso diametro agiscono simultaneamente sulla medesima ruota calettata sull'albero dell'elica. Si realizzano anche differenze di giri considerevoli; per es., nell'italiano Nicoloso da Recco ai 400 giri dell'elica corrispondono 2750 giri della turbina ad alta pressione e 1980 di quella a bassa pressione.

Il minor diametro delle turbine e la possibilità di sistemarle più in alto rendono qualche volta possibile di collocare il condensatore sotto la turbina, come negl'impianti fissi, e quindi di aver condotti di scarico diritti e brevi e ridurre al minimo la perdita dallo scarico della turbina all'entrata nel condensatore e i pericoli di rientrata d'aria nel condotto stesso e semplificare le operazioni di apertura e chiusura per manutenzione. Però questo non è sempre possibile e anche negl'impianti a ingranaggi si riscontrano spesso scarichi dall'alto attraverso quel condotto ad arco che collega turbina e condensatore negl'impianti a comando diretto. Per es., di due grandi impianti italiani recentissimi (1932, transatlantici Rex e Conte di Savoia) uno ha lo scarico per l'alto e l'altro per il basso.

Le casse d'ingranaggi rappresentano grossi pesi: decine di tonnellate ma anche per questo verso nella turbina si risparmia tanto da lasciare un beneficio netto. Il progresso degl'ingranaggi naturalmente ha cambiato molte vecchie idee su quel che se ne può ottenere e i valori dei rapporti di riduzione che si realizzano sono molto più estesi di quanto una volta si ammetteva. Si sono fatte riduzioni dell'ordine di 1/28; ma usualmente si preferisce non andare oltre 1/20.

Attualmente la riduzione singola basta sempre per i bisogni delle navi da guerra e anche in molti casi per quelli delle navi mercantili. In molti altri, e segnatamente per le navi da carico, essa non basta più e allora si fa ricorso alla doppia riduzione, la messa a punto della quale è stata alquanto più laboriosa. Con questa si è arrivati a un rapporto di 1/64. Nei primi tempi diversi impianti a doppia riduzione hanno dato origine a fastidî piuttosto gravi, onde taluni costruttori li hanno abbandonati del tutto. Altri invece ne continuano l'uso e ormai con risultati soddisfacenti.

La trasmissione a ingranaggi è nel momento presente l'artificio più usato per passare dalle velocità angolari convenienti alle turbine a quelle convenienti alle eliche. Un riduttore idraulico ideato dal Foettinger e messo in servizio in alcuni esemplari venti anni fa non ha avuto larga diffusione. Grande importanza si deve invece attribuire alla trasmissione elettrica, con la quale si sono fra l'altro realizzati taluni fra i più grandi impianti propulsori esistenti (navi portaerei americane Lexington e Saratoga, con 180.000 HP ciascuna). I motori primi mettono in azione dei generatori (negl'impianti a turbine degli alternatori) e la corrente prodotta alimenta dei motori montati sugli alberi delle eliche. Quantunque recente, il sistema ha già dato luogo a una complessa varietà di soluzioni, specialmente in relazione ai tipi dei motori elettrici e alla regolazione della velocità. La doppia trasformazione implica perdite di energia più elevate che non la riduzione per ingranaggi; il triplice macchinario grava considerevolmente sul peso, sull'ingombro e sul costo d'impianto, onde per questi elementi e per il consumo di combustibile nelle andature a tutta forza il sistema non offre vantaggi. Ne presenta tuttavia altri diretti e indiretti che in condizioni particolari gli assicurano giustamente la preferenza.

La turbina gira sempre nel medesimo senso, onde si risparmiano il peso e l'ingombro delle turbine di marcia indietro e le perdite dovute alla palettatura di queste, si semplifica la costruzione della turbina e si eliminano occasioni e cause di avarie. Soprattutto si scioglie il rigido vincolo fra motore primo ed elica che esiste in tutti gli altri tipi di impianti di propulsione, nei quali le sorti di ciascuna elica sono invariabilmente connesse a quelle di un motore di un gruppo di motori; onde quella non può funzionare se questo non è in azione, e un'avaria a un capo dell'albero di trasmissione paralizza necessariamente anche l'altro. La trasmissione elettrica permette di alimentare i motori che mettono in azione le eliche con la corrente prodotta da un motore primo qualsiasi, onde l'eventuale avaria di uno di questi non mette eliche fuori servizio, e le potenze ridotte si possono ottenere facendo funzionare a pieno carico o a frazioni elevate del pieno carico, e quindi in condizioni di buon rendimento, una parte soltanto dei gruppi generatori. Per questo motivo la trasmissione elettrica è più economica di quella a ingranaggi per lo sviluppo di potenze notevolmente inferiori alla massima, e presenta vantaggi per le navi per le quali si prevedono lunghissimi periodi a moderata velocità, pur riservando la possibilità di realizzare occasionalmente velocità molto più elevate.

Va considerato come un distinto beneficio della propulsione elettrica quello di potere ottenere rapporti diversi di riduzione della velocità angolare dalla turbina all'elica, onde almeno per alcuni tipi ed entro certi limiti il numero di giri e la velocità periferica delle turbine si può mantenere costante anche per velocità ridotte della nave; e come un importantissimo vantaggio quello di potere ottenere in modo semplice per la marcia indietro una potenza pari a quella della marcia avanti e quindi eventualmente fermare la nave dopo un percorso molto più breve di quello ottenibile quando la potenza per la marcia indietro è press'a poco la metà che nella marcia avanti. Vi è inoltre, ma non nella misura che talvolta si dice, qualche vantaggio in relazione alla suddivisione della potenza in gruppi e delle stive in locali separati e stagni.

L'enumerazione dei vantaggi e degl'inconvenienti che il sistema presenta potrebbe essere di molto prolungata, e nelle laboriose discussioni a cui esso ha dato luogo sono stati toccati molti altri punti, ma non poche conclusioni sono valide soltanto in apparenza, o in circostanze eccessivamente limitate e talune caratteristiche sono valutabili contraddittoriamente secondo il punto di vista, tanto è vero che vengono alternamente presentate come danni e come benefici. In complesso finora la sola applicazione sistematica (ma non esclusiva) della propulsione turboelettrica è stata fatta dalla marina da guerra americana, ad essa si debbono aggiungere un gruppo molto interessante, ma non molto numeroso, di navi oceaniche (non solo in America, ma anche in Inghilterra e in Francia) e diverse navi fornite di apparati motori di piccola potenza e costruite per impieghi speciali.

La trasmissione elettrica si applica anche in unione col motore Diesel; anzi ha avuto origine in questo nelle sue primissime applicazioni (1904) quando non si era ancora risolto il problema della sua reversibilità.

Beninteso questa fase è completamente superata, se anche la soluzione è dal punto di vista costruttivo alquanto complessa e delicata.

Superato quest'ostacolo, il motore Diesel ha avuto il suo imponente sviluppo con la propulsione diretta, ma nell'ultimo quindicennio la trasmissione elettrica è tornata alla luce, di solito per risolvere problemi particolari, e ha avuto finora un numero abbastanza grande di applicazioni per apparati motori di potenze moderate. A differenza degl'impianti turboelettrici qui è impiegata quasi sempre la corrente continua. Il sistema presenta molti dei benefici e degl'inconvenienti sopra accennati in relazione alla sua applicazione alle navi a turbina e potrà essere una delle vie per lo sviluppo dei motori rapidi dei quali già comincia a delinearsi l'avvento. Esso si presenta poi specialmente adatto per navi nelle quali si abbia largo impiego di potenza estraneo alla propulsione per unificare la generazione della potenza stessa e per navi destinati a particolari servizî, quali rimorchiatori, draghe, navi-traghetto e simili. Sotto bandiera italiana esso è applicato nel Cristoforo Colombo, nave scuola della R. Marina (apparato motore ausiliario di 2300 cavalli in sussidio della propulsione a vela), in due navi-traghetto per lo stretto di Messina (4500 cav.) e in qualche unità minore per navigazione interna.

La propulsione elettrica fu applicata sin dall'origine nei sommergibili per le necessità della navigazione in immersione. Naturalmente questo non ha nulla a che fare coi sistemi di cui sopra si è accennato. Il sommergibile naviga in superficie nel maggior numero dei casi sotto l'azione di motori Diesel e in immersione sotto l'azione di motori elettrici alimentati da accumulatori. Opportuni giunti permettono di fare il servizio di carica degli accumulatori col motore elettrico funzionante da generatore e messo in azione dal motore termico.

Ricondotta mercé l'impiego dei riduttori a condizioni che, salvo alcune riserve, sono abbastanza paragonabili a quelle degl'impianti fissi, la turbina marina ha potuto seguire abbastanza da presso l'evoluzione di quella terrestre, e così da qualche anno si sono cominciati a fare impianti ad alta pressione e ad alto grado di surriscaldamento. Non è impossibile procedere molto avanti su questa via, tanto che si ha perfino un esempio di applicazione del processo Benson (piroscafo Uckermark della "Hamburg-Amerika"), ma in linea generale le condizioni di esercizio a bordo, il più alto grado di sicurezza richiesto in confronto di funzionamenti lunghissimi, i limiti d'ingombro e di peso che fra l'altro non consentono unità di riserva e alternazioni di funzionamento hanno ispirato criterî di prudenza e finora ci si ferma a pressioni e temperature assai più basse che a terra. Sono frequenti gl'impianti con pressioni fino a 40 atmosfere, con temperature finali del vapore fra 300° e 350°, con le cure e le precauzioni che in tali impianti sono necessarie in relazione alla purezza dell'acqua di alimentazione, ai metodi di lubrificazione, ecc. Anche per il vuoto le limitazioni inerenti agl'impianti navali costringono a contentarsi di valori più bassi che a terra (intorno a 0,95).

Si vanno introducendo almeno in parte negl'impianti marini gli espedienti coi quali si intende in quelli fissi a migliorare il ciclo e ad avvicinarne il rendimento a quello del ciclo del Carnot. Si hanno già esempi di applicazioni dei prelevamenti di vapore per il riscaldamento dell'acqua di alimentazione, in aggiunta all'impiego dei cascami di calore che forniscono gli scarichi degli ausiliarî, impiego da lungo tempo sistematico negli apparati motori marini.

A bordo delle navi hanno pertanto minore importanza gli economizzatori, che per altro hanno accompagnato varî tipi di caldaie. È stato invece usato molto prima che a terra e su più larga scala il riscaldamento preventivo dell'aria necessaria alla combustione. Infine si ritrovano nelle turbine marine quasi tutti quegli accorgimenti di disegno e di particolari costruttivi che hanno avuto così larga parte nel progresso della turbina per impianti fissi.

In Italia la costruzione della turbina a vapore ha raggiunto rapidamente un alto grado di perfezione, in parte con la riproduzione dei tipi primitivi stranieri e in parte con tipi italiani; cosicché gli stabilimenti meccanici italiani già molti anni or sono hanno potuto farsi esportatori. La fig. 129 rappresenta turbine del tipo Belluzzo, di cui la prima applicazione navale è del 1912 e che è presentemente il tipo più diffuso nella marina da guerra italiana del tipo Tosi si vedono varie rappresentazioni in disegno e in fotografia relative a impianti di navi militari e di navi da carico nella tav. LXXXIV e nella figura 130. La tav. LXXXIII riproduce la fotografia di uno dei gruppi principali del Conte di Savoia col relativo riduttore (Stabilimento tecnico triestino). Mancano gl'involucri superiori onde si vedono bene i tre rotanti e i relativi rocchetti. La turbina è interamente a reazione per la marcia avanti, mista ad azione e a reazione per la marcia indietro.

Fino quasi dagl'inizî della turbina a vapore il Parsons e altri avevano pensato ad associare turbina e macchina alternativa, per sfruttare la capacità della prima al buon impiego delle più estese espansioni del vapore e della seconda a fornire facilmente la marcia indietro e a bene utilizzare il vapore alle alte pressioni. L'idea non ha avuto subito largo sviluppo, ma in questi ultimi tempi il perfezionamento dei giunti e degl'ingranaggi l'ha fatta riprendere con maggiore successo.

Un sistema che ha attualmente larga voga e che serve bene a migliorare le condizioni di funzionamento e ad aumentare potenza e velocità di navi esistenti, ma che viene anche adottato di proposito in costruzioni nuove, è stato inventato e realizzato dagl'ingegneri Bauer e Wach (fig. 131). Nei vecchi impianti misti macchine alternative e turbine comandavano ciascuna un distinto albero d'elica; in questi l'albero d'elica comandato dalla macchina a stantuffo riceve il contributo della potenza sviluppata nella turbina a vapore di scarico attraverso una riduzione a doppio ingranaggio e una serie di apparecchi intesi a render possibile la comunanza d'azione fra due apparecchi, uno a momento motore costante e l'altro a momento motore variabile. A tal uopo in qualche punto della catena è inserito il giunto idraulico e inoltre l'ultima ruota che riceve lo sforzo tangenziale generato dalla turbina non è calettata sull'albero motore, ma su un manicotto cavo conassico, accoppiato all'albero stesso più a valle e abbastanza lungo in modo da rendere più elastico il collegamento e da preservare i denti degl'ingranaggi dagli urti che verrebbero prodotti per le variazioni di velocità angolare inerenti alle variazioni del momento motore della macchina a stantuflo.

Il giunto idraulico Vulkan (figg. 132 e 133) discende dal primitivo trasformatore Foettinger e trasmette il momento motore fra due guscì, conducente e condotto, fra i quali esiste un giuoco che li preserva da qualunque contatto diretto. Esso agisce in dipendenza del diverso valore della forza centrifuga che sollecita il fluido (acqua od olio) nei due gusci perché l'albero condotto ha una velocità angolare lievemente inferiore a quella dell'albero conducente. Ridotto alle funzioni di semplice giunto, l'apparecchio ha un rendimento molto elevato e permette un rapidissimo disaccoppiamento che si ottiene semplicemente scaricando il liquido che esso contiene; condizione rigorosamente necessaria per l'adozione in questa forma delle turbine a vapore di scarico. Il giunto Vulkan libera almeno in gran parte l'albero condotto dalle oscillazioni torsionali eventualmente esistenti nel tratto conducente. Per questo la sua applicazione ha particolare importanza in unione coi motori Diesel; onde se ne hanno esempî numerosi e per potenze cospicue. Questo sistema è oggi il più diffuso per la connessione delle turbine a vapore di scarico da macchine a triplice e anche a quadrupla espansione. Per rendere possibile l'impiego di alte temperature esso è stato associato con la distribuzione a valvole Caprotti.

Per la creazione d'impianti misti con turbina a vapore di scarico naturalmente si può ricorrere anche ad altre forme di giunti; a ordinarî giunti meccanici, a riduzione elettrica, e di tali applicazioni esistono esperienze in corso.

I condensatori delle macchine marine a vapore sono sempre a superficie per la necessità di ricuperare l'acqua dolce per l'alimentazione delle caldaie. Si adottano vuoti moderati per le motrici a stantuffo, alti per le turbine, quantunque non si giunga ai valori estremi che si ottengono negli impianti fissi. Anche i condensatori marini hanno seguito la stessa evoluzione che ha negl'impianti fissi elevato in misura così notevole l'efficienza di questi apparecchi; la razionale distribuzione della superficie di trasmissione va gradualmente eliminando le zone morte ed elevando il valore medio del coefficiente di trasmissione, col presentare direttamente al vapore che affluisce la maggior estensione di superficie possibile, limitando invece lo spessore dei banchi di tubi, col mantenere alta attraverso il condensatore la velocità del vapore, coll'evitare ristagni localizzati di aria o di acqua condensata, col condurre direttamente vapore al fondo del recipiente in modo da mantenere alta fin là la temperatura del fluido e pertanto quella del condensato, ecc.

Con le macchine a stantuffo e i vuoti moderati una pompa d'aria unica condotta dalla motrice principale è sufficiente. Con le turbine la pompa d'aria deve avere motore indipendente e in generale si sdoppia in due, per il condensato e per l'aria. Si adotta allora in generale un raffreddatore d'aria per diminuire il lavoro di compressione e la perdita di acqua dolce, e abitualmente questo fa corpo col condensatore. Per la pompa d'aria secca si trovano a bordo press'a poco tutte le varietà di disposizioni che sono state sperimentate a terra.

La pompa di circolazione negl'impianti recenti è a comando indipendente anche con le macchine a stantuffo. Con le turbine, data la temperatura più bassa del condensato corrispondente al vuoto più spinto e quindi la più limitata escursione di temperatura dell'acqua di circolazione, occorre di questa una quantità proporzionalmente maggiore, dai 60 ai 75 litri per kg. di vapore nei casi ordinarî. In complesso, in un apparato motore di grande potenza circolano quantità d'acqua formidabili (l'Europa ha 4 pompe di circolazione da 8000 tonnellate l'ora ciascuna), e le pompe relative sono accessorî importanti e assorbono potenze notevoli, ché se la prevalenza topografica da vincere è insignificante, le resistenze nei condotti e nei tubi ne creano una abbastanza considerevole. Il funzionamento dei condensatori nelle navi può presentare qualche singolarità per variazioni estese di latitudine per la diversa temperatura dell'acqua marina.

Dal punto di vista dei materiali l'argomento di maggiore interesse, origine di continue preoccupazioni e di continue ricerche, è quello delle corrosioni che si manifestano specialmente nei tubi. Oltre a svariate cure ed artifici per eliminare ogni possibile causa di corrosione, particolare attenzione è stata sempre rivolta alla composizione dei tubi, e mentre finora l'ottone (70-30 oppure 70-29-1) ha sempre prevalso sopra i sostituti proposti, ora si va diffondendo con buone prospettive l'impiego delle leghe di rame e nichel.

Per sopperire alle inevitabili perdite di acqua dolce, vi sono sempre degli evaporatori per ricavarne dall'acqua di mare, mentre per gli usi della nave vi sono separati distillatori.

Nel locale delle macchine, sono sistemate le pompe principali di alimentazione delle caldaie; pompe ausiliarie che prelevano un supplemento di acqua dai depositi nei doppî fondi sono invece sistemate nei locali caldaie.

Nei locali macchine trova luogo un'elaborata sistemazione di pompe per gli svariati servizî di esaurimento dagli stessi locali dell'apparato motore e dalle altre stive, e per render disponibili le quantità di acqua dolce o salata occorrenti per i servizî d'incendio e di pulizia e per i varî bisogni della vita e dell'igiene della nave.

Tutti questi macchinarî ausiliarî sono stati per molto tempo condotti esclusivamente da macchine a vapore a stantuffo; molti ora sono condotti da turbine e si va estendendo, per ovvie ragioni di economia, il comando per mezzo di motori elettrici.

Non si farà cenno qui dell'uso per la propulsione di motori a scoppio, che è riservato a casi molto particolari, e per i quali v. motore.

I motori Diesel, per il loro altissimo rendimento termico, appena raggiunto un grado adeguato di sicurezza di esercizio, dovevano essere destinati a un larghissimo sviluppo anche per la propulsione navale, nonostante talune difficoltà, quali il maggior costo unitario del combustibile che almeno attualmente occorre impiegare, il più grande consumo di lubrificanti, la maggiore spesa d'impianto e il peso considerevole specialmente nelle unità di grande potenza, e talune limitazioni che circoscrivono il campo della loro applicabilità; di modo che anche oggi, pure dopo aver di molto allargato questi confini e creata la macchina di 15.000 cavalli, per i grandissimi apparati motori prevale pur sempre la turbina a vapore. Estesissimo invece è l'impiego del Diesel per le potenze piccole e medie nella marina mercantile e quasi esclusivo nella marina da guerra per i sommergibili, poiché esso è il motore termico meglio adatto alle speciali esigenze di tali navi. L'applicazione del Diesel è cominciata col motore a semplice effetto e a quattro tempi, che pertanto ha a suo beneficio i perfezionamenti e l'esperienza di un più lungo periodo di esercizio oltreché un consumo leggermente minore; ma sono arrivati a completa maturità anche i motori Diesel a due tempi a semplice effetto, e più faticosamente, per le ovvie difficoltà del problema, quelli a doppio effetto di entrambi i tipi. L'aumento progressivo delle dimensioni dei cilindri, delle velocità medie degli stantuffi e delle pressioni medie, hanno a mano a mano consentito di raggiungere potenze totali più elevate e pesi unitarî più bassi, e contemporaneamente si andavano eliminando o riducendo gli inconvenienti di carattere meccanico o termico che nei disegni primitivi erano numerosi.

Si accennerà all'importanza crescente che vanno assumendo i motori a iniezione meccanica, e quelli a camera di iniezione, alla possibilità di aumentare entro certi limiti la pressione media e quindi la potenza col sopralimentare i motori, cioè con l'introdurre un peso maggiore di aria a ogni colpo di stantuffo, aumentando artificialmente la pressione dell'aria, ciò che si può fare con metodi diversi; in taluno dei quali s'impiega l'energia dei gas di scarico per mantenere in azione la soffiante di sovraccarico. Nei motori a due tempi si sono viste applicare press'a poco tutte le sistemazioni adottate per il lavaggio sia con valvole in testa, sia con orifici nel cilindro, e in quest'ultimo caso con le svariate distribuzioni che questi orifici hanno avuto per assicurare il completo adempimento del lavaggio stesso, su tutta la circonferenza del cilindro o su parte soltanto, affiancati od opposti agli orifici di scarico, in una sola fila o in due, con o senza valvole ausiliarie attraverso i condotti del lavaggio o quelli dello scarico; col contributo o meno della forma dello stantuffo ad avviare le correnti nell'interno del cilindro. Sono state applicate alla marina anche le macchine a stantuffo contrapposti, come le Junkers originali o le Doxford, le Fullagar, ecc.

Si fanno sforzi per migliorare ancora i risultati economici e uno degli espedienti che si vanno introducendo a tal uopo nelle applicazioni navali è la produzione per mezzo del calore dei gas di scarico in speciali caldaie di vapore utilizzabile per i varî servizi di bordo.

Le limitazioni di peso e di spazio inerenti al servizio dei sommergibili hanno richiesto numero di giri elevati, alte velocità di stantuffo, forti pressioni medie. Molti di questi motori avevano stantuffi a fodero, e si sono alternati funzionamenti a due e a quattro tempi, né fra i due sistemi si è ancora arrivati a una decisa preferenza; anche da noi vigono i due tipi nelle costruzioni della Fiat e di Tosi. L'aumento nelle dimensioni della nave ha reso possibile sistemare motori con teste a croce e motori a doppio effetto. L'iniezione meccanica, ulteriori aumenti nella velocità media degli stantuffi e raffinamenti costruttivi hanno consentito di arrivare a cospicue riduzioni effettive di pesi, oltre quelle apparenti che risultano dal mettere in comune il servizio dell'aria compressa per i bisogni della macchina e per quelli della nave. Pure nelle motonavi troviamo stantuffi a fodero anche per potenze rilevanti, e motori con testa a croce. Finora sono prevalse le trasmissioni dirette con motori a due e a quattro tempi, e per le potenze cospicue si diffonde rapidamente l'impiego dei motori a doppio effetto. Ma anche con questi si arriva presto al limite della possibilità del sistema.

Alla realizzazione con motori Diesel di potenze elevate con pesi unitarî moderati si può arrivare con cilindri relativamente piccoli, corse moderate e forti numeri di giri; occorrono allora numerose unità con molti cilindri ciascuna, e l'alta velocità angolare dell'albero fa ripresentare l'opportunità di metodi di riduzione. Della riduzione elettrica abbiamo già accennato. È altresì abbastanza diffusa la riduzione per ingranaggi, con o senza l'interposizione di un giunto idraulico, e queste sistemazioni presentano anche il beneficio (in taluni casi essenziale) di ridurre di molto l'ingombro del motore in altezza.

Questi procedimenti aprono nuove possibilità di espansione alle applicazioni del Diesel, e si sono redatti e pubblicati piani concreti e perfettamente attendibili, estremamente ambiziosi. Ma già anche i risultati effettivamente conseguiti, se pure riferibili a casi piuttosto speciali, sono molto notevoli.

L'esempio più cospicuo di questa tendenza è fornito sin oggi dall'apparato motore del Deutschland della marina militare germanica, che è composto di 8 motori Diesel M.A.N. a due tempi, a doppio effetto e senza compressore, con 9 cilindri ciascuno, di 420 mm. di diametro e 580 di corsa. A 450 giri (cioè con m. 8,70 di velocità media dello stantuffo) e con una pressione media indicata di 5,2 kg. per cmq. questi motori forniscono 7100 cavalli asse ciascuno. Attraverso giunti Vulkan e riduttori la potenza è trasmessa a due alberi d'elica, che in corrispondenza vanno a 250 giri e ricevono circa 54.000 cavalli. I motori soli pesano 8 kg. per cavallo asse; l'intero apparato motore circa 22. I motori ausiliarî hanno cilindri delle stesse dimensioni; ma fanno solo 425 giri e hanno una pressione media minore. Ve ne sono 4 con 5 cilindri ciascuno, e mandano le soffianti per l'aria di lavaggio (a 0,35 kg. per cmq.) e le pompe dell'acqua e dell'olio. Il consumo di nafta alle prove viene dichiarato in 153,5 grammi per cavallo asse e per ora, oltre quello degli ausiliarî; col quale sale a 176 grammi. Per i servizî della nave vi sono 8 gruppi Diesel con dinamo di 250 kW ciascuno. I motori sono a 4 tempi a semplice effetto con 6 cilindri ciascuno (220 × 280 − a 1000 giri al minuto).

Velocità angolari di quest'ordine di grandezza si sono impiegate d'altronde anche per la propulsione, come si è accennato incidentalmente più sopra.

Le figg. 134-136 e la tav. LXXXIII (in alto) sono relative ai motori Diesel-Savoia-M.A.N. della motonave italiana Augustus; la fig. 135 mostra la sezione trasversale del locale dell'apparato motore e la fig. 136 la sistemazione generale dell'apparato motore. A prua del locale delle motrici principali si vedono altri due locali per macchinarî, in parte per i servizî della macchina e in parte per quelli della nave. La fig. 137 con una sezione trasversale dà un'idea della costru̇zione Tosi, le figg. 138 e 141 dei motori costruiti dallo Stabilimento Tecnico Triestino quali sono stati usati per la propulsione del Saturnia, la tav. LXXXIII (in basso a destra) dei motori Fiat da propulsione. Le figg. 139 e 140 mostrano i piani generali dei locali delle motrici e delle caldaie del transatlantico Conte di Savoia.

Etnologia.

Per quanto possa sembrare strano, esistono popolazioni rivierasche che non conoscono alcun sistema di trasporto sull'acqua. Sono fra queste i Boscimani e altri gruppi affini insediati in passato sull'estrema costa sud-occidentale dell'Africa, gli Australiani del sud, gli Eschimesi del distretto di Smith, gli Yuki della costa californiana, i Botocudo del Brasile sud-orientale, i Puelche e Tehuelche della Patagonia, gli Ona e Haush della Terra del Fuoco. Ma le cause della mancanza di ogni forma di navigazione presso queste popolazioni non sono le stesse per tutte e sono in relazione a varî fattori.

Gli Eschimesi, che sono ottimi navigatori, non hanno nel distretto di Smith a loro disposizione nemmeno il legno necessario per costruire l'ossatura di un caiak. Per i Patagoni, la pampa assorbe talmente ogni loro attività che essi non pongono alcun interesse al mare. Gli Yuki, i quali abitano una costa pericolosa i cui fiumi non sono navigabili, i Boscimani, attualmente ritiratisi nel deserto, e i Botocudo, insediati in un altipiano dove lo sfruttamento dei fiumi (come vie di comunicazione) non è necessario, presentano la doppia condizione di appartenere a culture primitive e di abitare regioni sfavorevoli alla navigazione; è difficile quindi determinare quale sia stato per essi il fattore principale cui si debba imputare la mancanza di quest'attività.

Per gli Ona, invece, e per gli Australiani l'ignoranza della navigazione sembra essere originaria. Gli Ona e Haush si collegano, linguisticamente, ai Patagoni, ma non hanno con questi la minima relazione poiché non possono traversare lo stretto di Magellano. Si è quindi costretti ad ammettere che la separazione degli Ona dal gruppo patagone si sia potuta effettuare grazie alle barche di altri Fuegini e specialmente degli Alakaluf, sebbene questi appartengano a un altro gruppo linguistico e vivano oggi del tutto separati dagli Ona.

Anche presso gli Australiani del sud, sebbene la costa da essi abitata sia inospitale, la mancanza d'imbarcazioni si deve principalmente al livello culturale delle popolazioni stesse. Infatti, un'imbarcazione primitiva non serve in principio alla navigazione in mare aperto, ma è usata principalmente per traversare i bracci di fiume che in esso sboccano; ora il tratto di costa privo di qualunque imbarcazione che va da Adelaide al fiume Gascoyne è troppo esteso (v. la fig. 142) perché quest'assenza non debba attribuirsi a deficienza culturale. È d'altronde logico che la civiltà, nei suoi primi stadî, non possedesse alcuna imbarcazione, è da verificare soltanto se questa fase culturale sia ancor oggi rappresentata e pare che ciò sia effettivamente nell'Australia meridionale.

A questo proposito è opportuno osservare che la Tasmania, dominio della cultura primitiva quasi pura, non era del tutto sprovvista d'imbarcazioni; vi sono stati segnalati esemplari di zattera semplice, di catamaran (zattera leggermente incavata nel centro, primo accenno della piroga), di piroghe composte di legname marcito e legato insieme e anche un caso di piroga costruita con scorza d'albero; quest'ultima però doveva provenire (direttamente o per imitazione) dalla costa opposta dall'Australia, e le piroghe di legno marcito possono essere state un'imitazione di quelle australiane fatte di pezzi di corteccia legati o cuciti insieme.

Secondo la logica e senza tener conto del tronco d'albero occasionale sul quale anche un animale può galleggiare, la prima forma d'imbarcazione è la zattera. Essa infatti accompagna gli stadî culturali più antichi. La zattera s'incontra, oltre che nella già menzionata Tasmania, nell'Australia nord-occidentale, dal fiume Gascoyne a Port Darwin, nell'America Settentrionale lungo la costa californiana, in quella Meridionale sulla costa del Pacifico e sui laghi interni, e su alcuni laghi e fiumi dell'Africa. Altrove s 'incontra accanto ad altri mezzi di navigazione. Tanto per la forma, quanto per il materiale di cui sono formate, possiamo distinguere rispettivamente due specie di zattere, le caratteristiche delle quali si possono trovare combinate in uno stesso esemplare. In quanto alla forma si distinguono la zattera piatta e quella a leggiera depressione centrale o catamaran. In relazione al materiale, si hanno la zattera di legno e quella formata da fasci di giunchi: quest'ultima s'incontra specialmente sulla costa americana del Pacifico, sui laghi del suo retroterra e inoltre su alcuni laghi e fiumi africani.

In alcune regioni nelle quali sono in uso anche imbarcazioni di tipo superiore, può accadere che il catamaran sia fornito di bilanciere (isola Frankland, presso Cairns, Queensland settentrionale) oppure sia munito di una vela, come avviene sulla costa di Madras; quivi, anzi, i catamaran permettono di superare i frangenti con qualunque tempo, il che non è possibile alle imbarcazioni a chiglia. La zattera appartiene ai cicli di cultura primitiva.

La piroga più semplice è quella monoxila (fatta di un sol pezzo di legno), di legno o di scorza. La rispettiva fabbricazione, come la distribuzione, di questi due tipi c'indicano che la piroga di un sol pezzo di scorza è, cronologicamente, anteriore all'altra. Mentre lo svuotamento di un tronco d'albero può richiedere settimane e anche mesi di tempo, per la piroga fatta di scorza basta tagliare un pezzo di corteccia da un albero di dimensioni adeguate (in Australia l'Eucalyptus), e sottoporlo leggermente al fuoco; i margini della piroga sono tenuti discosti da bacchette trasversali e le loro estremità vengono legate insieme in modo da formare una punta. Il dominio di questa piroga si estende, nell'Australia del SE., da Adelaide a Port-Macquaire, cioè in continuazione del dominio della zattera. Piroghe costruite con lo stesso principio si trovano nella Siberia orientale (Goldi dell'Amur) e nelle foreste del Brasile (Bacairi). La piroga di un solo pezzo di scorza sembra appartenere al ciclo culturale detto del bumerang (v. culturali, cicli).

Più complessa è la piroga fatta di pezzi di scorza cuciti. Nell'Australia essa si trova a nord della zona di diffusione del tipo precedente, cioè lungo la parte centrale della costa meridionale, da Port Macquarie a Port Douglas e, nell'interno, fin fra gli Arunta. Poiché questa zona corrisponde all'area della cultura delle due classi in Australia, è probabile che tale forma di piroga debba collegarsi a questo complesso culturale. La piroga di più pezzi di scorza cuciti è più frequente di quella fatta di un sol pezzo di scorza: la s'incontra in Siberia, nella zona sub-artica nord-americana, dalla costa del Pacifico sino ai grandi laghi, e nella Terra del Fuoco presso gli Alakaluf e gli Yahgan. Vi sono, d'altronde, forme intermedie fra queste due forme di piroghe, come la barca yahgan del Museo etnografico Pigorini a Roma, che è fatta principalmente di un gran pezzo di scorza al quale sono cuciti dei pezzetti accessorî.

La vera piroga monoxila, quella cioè scavata in un tronco d'albero, è l'imbarcazione propria del terzo ciclo culturale, o ciclo del totem. Essa s'incontra in Australia sulla costa settentrionale dall'isola Bathurst alla baia di Arnhem, in varî punti dell'America, nell'Asia settentrionale, e particolarmente presso gli Ainu, in diverse regioni dell'Asia meridionale e dell'Africa tropicale, infine nell'Europa preistorica (popolazioni neolitiche dei laghi svizzeri). La coincidenza col ciclo del totem non è quindi sempre evidente. E vero però che in quest'ultimo caso, quello cioè delle imbarcazioni preistoriche, siccome i pezzi ritrovati sono molto piatti, potrebbe trattarsi di piroga a fondo monoxilo e a fianchi di tavole applicate sopra, che è la prima tappa della forma seguente.

La piroga di tavole sembra appartenere al ciclo dell'arco piatto. Essa, oltre che nella Melanesia, s'incontra in varî punti della Polinesia, per es. nella Nuova Zelanda, combinata o no ad altri elementi delle imbarcazioni propriamente polinesiane; ma il principio della piroga di tavole è anteriore al ciclo polinesiano. In seguito questo principio ha avuto uno sviluppo formidabile ed è rimasto la base delle grandi imbarcazioni delle civiltà superiori.

Se la piroga fatta con un tronco scavato è superiore a quella fatta di scorza, essendo meno fragile e avendo durata molto maggiore di questa, non ne ha però minori inconvenienti: prima di tutto la sua fabbricazione esige un lavoro notevole, poi, essendo essa troppo stretta, non presenta sufficiente stabilità per permettere di allontanarsi dalle coste con sicurezza. Nel VI ciclo culturale, e precisamente nel ramo polinesiano di tale ciclo, troviamo superate queste difficoltà e raggiunta un'abilità nautica veramente impressionante. Se escludiamo infatti la nostra civiltà occidentale, nessuna cultura ha sviluppato l'arte navale a tal punto. I saggi prodotti dalla cultura malese-polinesiana in questo dominio non sono posteriori alle antiche produzioni delle culture occidentali (mediterranee), poiché si ritiene che il popolamento della Polinesia sia avvenuto al più tardi 2000 anni avanti la nostra era, ed è evidente che l'arte navale doveva già aver raggiunto uno sviluppo adeguato, acquistato a poco a poco nelle isole dell'Insulindia. Sarebbe del resto impossibile, per quelli che volessero far derivare ogni cultura dall'antico Egitto, trovare in questo, relativamente alla navigazione, la ricchezza di produzioni originali offerta dalla cultura polinesiana.

Per risolvere il problema di una maggiore stabilità era necessario allargare il piano di appoggio del canotto sull'acqua: i Malesi-Polinesiani raggiunsero tale scopo disponendo parallelamente due galleggianti e riunendoli in un sistema rigido con un pezzo di legno trasversale, perpendicolare ai due galleggianti. Questi potevano essere costituiti sia da due piroghe sia da una piroga e un pezzo di legno o di bambù detto galleggiante. Questo e le assi trasversali che lo uniscono alla piroga, dette buttafuori, formano il bilanciere (v. culturali, cicli, XII. tav. XXXVI). Quando la piroga è in acqua il bilanciere le impedisce di capovolgersi per il vento. Per principio esso dovrebbe essere posto dalla parte del vento, poiché questo incontra maggiore resistenza a rovesciare la piroga sollevandone il bilanciere, che a spingerla a fondo sotto la sua azione diretta. Inoltre, quando il vento è più forte, alcuni uomini dell'equipaggio montano sul bilanciere per renderlo più pesante. Tuttavia, salvo in qualche esemplare nel quale il bilanciere, attaccato assai semplicemente, può essere spostato con facilità da un lato all'altro dell'imbarcazione (Giava), il bilanciere è fissato stabilmente all'imbarcazione a babordo o a tribordo secondo le regioni; ciò richiederebbe in principio che le due estremità del canotto potessero indifferentemente servire da prua o da poppa; e questo infatti avviene in alcuni luoghi (Ceylon, Micronesia), ma altrove l'ufficio delle estremità rimane fisso tanto in canotti a estremità disuguali (Raiatea nelle Isole della Società: bilanciere a babordo), quanto in canotti a estremità uguali (costa NO. di Madagascar: bilanciere a tribordo); bisogna concludere che gl'indigeni hanno costruito le loro imbarcazioni secondo quel sistema che è loro parso più favorevole per la navigazione nelle rispettive regioni. Tali questioni non sussistono per le piroghe a due bilancieri, uno a babordo, l'altro a tribordo; per questi canotti a bilanciere doppio, come pure per le piroghe doppie, non solo la stabilità è maggiore che nei canotti a un solo bilanciere, ma per essi è indifferente che il vento venga da babordo o da tribordo.

Le imbarcazioni caratteristiche della cultura malese-polinesiana sono dunque la piroga dopoia e la piroga a bilanciere (semplice o doppio). Ma quale di queste due forme ha dato origine all'altra? A tale proposito vi sono due teorie opposte. Secondo una di esse (teoria della zattera) la prima, in ordine di data, di queste tre imbarcazioni sarebbe la piroga a bilanciere doppio, derivata dalla zattera: un'asse centrale di questa si sarebbe trasformata in canotto, mentre le assi laterali con il loro sistema di collegamento sarebbero divenute i due bilancieri. Col progredire dell'arte nautica si sarebbe passati alla piroga a un bilanciere, più instabile e più difficile a manovrare, poi ai canotti doppî per la sostituzione di un bilanciere con un secondo canotto. Sembra tuttavia una cosa forzata il derivare la piroga a due bilancieri dalla zattera, data la grande diversità di struttura e la mancanza di forme intermedie. In favore di questa teoria depone specialmente quanto è avvenuto a Madagascar e sulla costa dell'Africa. In passato non si trovavano in questa regione che piroghe a due bilancieri, mentre più tardi esse sono state a mano a mano sostituite, sulla costa di Madagascar, da quelle a un solo bilanciere; inoltre le piroghe ancora esistenti a due bilancieri sono spesso assai più rozze di quelle con uno solo. Perciò nella regione più occidentale del dominio malese-polinesiano la forma a due bilancieri pare anteriore all'altra; e siccome, inoltre, gli elementi più primitivi di un'area culturale si trovano spesso ai margini di questa, si sarebbe raggiunta la soluzione del problema, soluzione che, d'altra parte, pare confermata dallo sviluppo preso nella Micronesia dalla navigazione con piroga a un solo bilanciere. Infine, l'ultimo stadio sarebbe rappresentato dalla piroga doppia della Polinesia propriamente detta, la cui alta capacità risulta dalla descrizione fatta da J. Cook (1772) della flotta di Tahiti. "Le imbarcazioni da guerra consistevano in 160 piroghe doppie lunghe da 40 a 50 piedi. bene equipaggiate e ben armate; i comandanti e gli altri uomini che occupavano la piattaforma di combattimento indossavano i loro costumi da guerra, cioè una quantità di vesti, turbanti, corazze e caschi. Oltre a queste vi erano 170 piroghe doppie, meno grandi, provviste tutte di una piccola cabina e di vele: queste mancavano alle piroghe da guerra. Stimai tale flotta dovesse contare non meno di 7600 uomini". Alla fine del sec. XIX, vi erano ancora nelle Isole della Società non meno di sette specie d'imbarcazioni, ognuna dovutamente catalogata dagl'indigeni e designata con un nome speciale: "piroga semplice, piroga doppia, piccolo canotto doppio, grande piroga dall'orlo arrotondato a un'estremità, piccola piroga dalle due estremità a punta, piroga reale, piroga sacra" (Huguenin); le imbarcazioni non doppie erano di uso personale, e avevano piccole dimensioni e un bilanciere solo, o servivano a scopi speciali. Le imbarcazioni doppie non sono ancora sparite, malgrado la decadenza della cultura polinesiana.

Secondo l'altra teoria, teoria della piroga doppia, questa forma di imbarcazione avrebbe dato origine alla piroga a bilanciere. Tale teoria ha il vantaggio di presentare effettivamente una forma di transizione fra la piroga senza bilanciere e quella fornita di bilanciere. Non tutte le piroghe doppie presentano una fabbricazione così progredita come quelle descritte da Cook nella sua narrazione: ve ne sono di assolutamente semplici a due canotti monoxili, tanto ai margini dell'area (Hawaii) come nel suo interno (Isole della Società). La Polinesia propriamente detta, malgrado lo sviluppo ivi raggiunto dall'arte nautica, non è il centro del dominio della navigazione malese-polinesiana, ma si trova al margine dell'area di origine, costituita necessariamente dall'Indonesia, da dove si è effettuato il popolamento della Polinesia. Canotti doppî sono stati osservati fuori della Polinesia, sebbene in esemplari assai rari, nel dominio primitivo della navigazione malese-polinesiana, cioè nelle isole Nenusa (presso l'isola Salibabu a NE. di Celebes), a Ceylon, sulla costa di Malabar e a Mirzapur (medio Gange). La forma di transizione fra il canotto doppio e la piroga a un bilanciere è fornita (ma il fatto non costituisce una prova per l'una più che per l'altra teoria) dalla piroga doppia con un canotto più piccolo dell'altro, forma che si trova specialmente nell'isola Tonga e nella Nuova Caledonia, cioè ai limiti dei due dominî del canotto doppio e del canotto a un bilanciere. La Micronesia e la maggior parte della Papuasia sono il dominio principale del canotto a un bilanciere, ma vi s'incontrano già le forme di transizione verso l'imbarcazione a due bilancieri. Quivi, infatti, viene data grande importanza al controbilanciere costituito da un prolungamento dei buttafuori dalla parte opposta del bilanciere; vi è inoltre una piattaforma sui bastoni del bilanciere, un'altra ne è collocata sul controbilanciere e rimane sospesa a mezz'aria. Ambedue le piattaforme sono spesso fornite di piccole cabine. Non bisogna credere che tali imbarcazioni siano, per merito del bilanciere, sicure dai naufragi; per evitare questi è anzi necessaria una manovra delicata, più delicata di quella dei canotti doppî o a due bilancieri. Del resto, allorché il canotto si capovolge l'indigeno non si preoccupa eccessivamente: si getta in acqua e rimette il canotto per il suo verso. Il controbilanciere essendo stato trasformato in un bilanciere, possiamo dire che l'Indonesia sia divenuta il dominio proprio della piroga a due bilancieri, sebbene questa la s'incontri, come si è detto, anche nel Madagascar e sulla costa dell'Africa, come pure in varî punti a oriente dell'Indonesia fino all'isola di Pasqua. Ma nel dominio di origine, che può essere considerato come il centro dell'espansione malese-polinesiana, cioè nell'Indonesia, la stabilità di quest'imbarcazione ha permesso saggi costruttivi che eguagliano o sorpassano quelli ottenuti nella Micronesia e nella Polinesia. Le imbarcazioni a due bilancieri possono essere sia a vela (v. sotto) sia a remi. Fra queste ultime ve ne sono di grandi dimensioni e fornite anche di tre ordini sovrapposti di remi come nelle triremi mediterranee. Si aggiunge anche, talvolta, una fila o due di rematori supplementari su uno dei galleggianti (o su ambedue) aumentando, secondo il vento, il numero di uomini su uno o sull'altro dei galleggianti. La piroga a due bilancieri sarebbe dunque la forma superiore della serie

Se consideriamo la velatura delle imbarcazioni sopra descritte, viene a trovarsi in vantaggio l'ipotesi che ammette la piroga doppia come punto di partenza. La Polinesia ha infatti la velatura più primitiva non solamente sui canotti doppî a vela, ma anche sui canotti di tavole della Nuova Zelanda, che, per quanto raggiungano grandi dimensioni, non sono mai doppî e non hanno mai bilanciere, e conservano quindi il principio primitivo di costruzione delle barche. La vela polinesiana è triangolare, fissata da due pani a due antenne, una delle quali, verticale, costituisce l'albero ed è posta anteriormente all'imbarcazione, o avanti alla piattaforma che unisce i due canotti, la punta della vela è dunque ai piedi dell'albero e il solo giuoco possibile consiste nello spostare il secondo palo con la vela, girando intorno all'albero. Poiché la vela è generalmente disposta in avanti, l'imbarcazione polinesiana ha di solito le estremità diverse, prua verticale e poppa a punta; ma questo avviene, d'altronde, tanto nelle imbarcazioni a vela, quanto in quelle senza vela. Siccome i Polinesiani ignorano la tessitura, le vele sono fatte di fibre intrecciate. Il giuoco delle vele è più ampio nell'imbarcazione della Micronesia a un bilanciere. La vela è qui pure triangolare ed è sostenuta da due pali, ma né l'uno né altro di questi funzionano come albero fisso; la punta del triangolo formata dalle due antenne convergenti fa da pernio intorno al quale la ve a può girare completamente; inoltre, essendo prua e poppa identiche, il pernio della vela può essere fissato sia sul davanti sia sul dietro dell'imbarcazione; infine la vela è disposta in modo che non vi siano alberi, oppure ve ne è uno verticale o inclinato, lungo o corto, al quale è legato, in maniera mobile, uno dei pali. Quest'ultimo sistema corrisponde alla forma primitiva della vela latina, la quale, tuttavia, non ha che un'antenna superiore disposta obliquamente. Nel dominio malese-polinesiano, cioè unita al canotto a bilanciere, la vela latina si trova nel Madagascar e sulla costa dell'Africa dove fu introdotta probabilmente dagli Arabi. Alla navigazione della Micronesia si ricollega quella della maggior parte della Nuova Guinea e della Melanesia, ma la vela ha forma assai speciale, a chele di gambero, con le due antenne ricurve a convessità esterna e la vela formante un arco concavo fra le due antenne. Infine la vela dell'Indonesia, cioè quella eventuale della piroga a due bilancieri, è quadrangolare.

La distribuzione delle forme indicata dalla cartina a p. 428, se ammettiamo la successione delle forme a partire dalla piroga doppia, sarà la seguente. Il dominio della forma più elevata, la piroga a due bilancieri, è situato nel centro, cioè nell'Indonesia; in esso vanno compresi anche lo stretto di Malacca, Sumatra e Giava, poiché talvolta vi s'incontrano ancora canotti a bilanciere, i quali per contro sono da lungo tempo spariti completamente da Borneo, al contatto forse delle giunche cinesi. Da una parte e dall'altra si estende un doppio dominio della forma intermedia, la piroga a un bilanciere, ma diverso nelle due regioni: nella regione indiana, che si estende dalle isole Nias, Nicobare e Andamane, sino a Ceylon, alla costa di Coromandel e di Malabar e alle isole Maledive, la navigazione ha caratteri primitivi, mentre nella Micronesia-Papuasia la costruzione e l'arte nautica si sono in un secondo tempo altamente raffinate. Infine in margine al dominio del canotto a un bilanciere, ma soltanto a E., si ha la forma geneticamente inferiore, la piroga doppia, giunta anch'essa, in seguito, a uno sviluppo notevole. Per quello che riguarda l'isola di Pasqua, ove la cultura era già in decadenza al tempo della scoperta europea, i navigatori bianchi vi osservarono canotti a uno e a due bilancieri, ma è probabile che vi esistessero anche canotti doppî. Infine, relativamente al dominio malgascio-africano, fa meraviglia, a prima vista, constatare che la piroga a bilanciere manca sulla costa orientale del Madagascar, cioè sulla costa ove si trovano popolazioni di origine indonesiana, mentre essa si trova lungo tutta la costa occidentale abitata da popolazioni di razza nigritica: infatti la piroga a bilanciere è sparita dalla costa orientale, poco ospitale, mentre si estendeva sulla costa occidentale che offre ripari migliori. Fra il Madagascar e l'Africa il canotto a bilanciere si trova alle Comore e a Zanzibar, poi sulla costa africana di fronte a Zanzibar, da Dar es-Salām fino a Lamu. La prevalenza generale in questo dominio malgascio-africano della piroga a due bilancieri si spiega come prodotto di una colonizzazione relativamente tardiva, proveniente direttamente dal dominio indonesiano, già in possesso della piroga a due bilancieri, e più precisamente da Giava; lo sviluppo delle piroghe a un bilanciere e la rozza fabbricazione di quelle a due si possono interpretare come processi di sviluppo o di regressione locali, non essendo del tutto sconosciuti in origine gli esemplari a un bilanciere solo. È infine da rilevare che imbarcazioni con doppio bilanciere di dimensioni ridotte (di bambù) e barche doppie vengono usate anche su alcuni fiumi dell'Indocina.

Nel ciclo culturale detto pastorale s'incontrano imbarcazioni molto più primitive. Esso ha, come imbarcazioni proprie, otri di pelle, usati come galleggianti per traversare i fiumi a guado (‛Irāq, XIX, tav. LXXXIX, in basso) o con zattere (Cina), e barche di pelle a forma di ciotola. Con queste gl'indigeni traversano ancora il Tigri e l'Eufrate e nulla può mostrare la persistenza di certi costumi meglio del fatto che questo mezzo di navigazione esisteva già identico al tempo di Erodoto (I, 194). "I battelli usati nel viaggio da Babilonia sono fatti di pelle e hanno forma rotonda; vengono fabbricati nella parte dell'Armenia a nord dell'Assiria, la carena è fatta con salci ed è poi rivestita all'esterno di pelli. Si arrotondano queste imbarcazioni come scudi, senza distinzione di prua e di poppa, e si riempie il fondo di paglia. Questi battelli vengono abbandonati alla corrente del fiume, carichi di mercanzie e soprattutto di vino di palma; si può trasportare un asino in ogni battello e anche più nei grandi. Allorché i mercanti sono arrivati a Babilonia vendono i loro carichi, le carcasse dei battelli e la paglia, poi caricano le pelli sugli asini e ritornano così in Armenia, poiché il fiume è troppo rapido perché essi ne possano risalire il corso". Barche analoghe sono usate nel dominio pastorale africano (Sudan), nell'India e nell'arcipelago britannico (coracle). Canotti di pelle rotondi per traversare i fiumi erano in uso, poi, nell'America Settentrionale, Meridionale, specie nelle regioni povere di alberi (praterie del nord, steppe della Patagonia). Questo tipo d'imbarcazione può essere messo in relazione con quelli delle popolazioni artiche, specie degli Eschimesi, sebbene la forma se ne sia differenziata: il caiak e l'umiak. Infatti la cultura artica sembra essere principalmente una derivazione della cultura pastorale modificata dall'ambiente e da altre cause.

La cultura indiana non ha dato, relativamente alla navigazione, alcun prodotto particolare. Le sue imbarcazioni appartengono a culture primitive, o alla cultura malese-polinesiana, o alla cultura araba derivata in parte dalla cultura mediterranea o occidentale. Non è così per la cultura cinese la quale, come in tanti altri elementi, ha conferito uno sviluppo speciale ai suoi strumenti di navigazione. L'imbarcazione cinese corrente è chiamata giunca. Essa presenta una forma assai tozza; prua e poppa sono arrotondate e la poppa è sormontata da una pesante terrazza; inoltre la sezione trasversale di esse invece di essere arrotondata ha spesso un profilo poligonale. Quello che fa riconoscere la giunca cinese a grande distanza è la sua velatura, quadrata, come la vela indonesiana, la vela cinese presenta una serie di stecche orizzontali a una certa distanza l'una dall'altra, delle costole, diciamo così, che impediscono al vento di gonfiarla come una vela ordinaria; per ammainare la vela questa viene mollata man mano dall'alto per mezzo di una puleggia collocata in cima all'albero: le costole vengono a posarsi una sull'altra e la vela si piega su sé stessa. Questo sistema è favorevole per lo sfruttamento del vento, ma è estremamente pesante. Le imbarcazioni cinesi presentano dalle caratteristiche tradizionali dalle quali i costruttori non si allontanano mai: così, p. es., il timone presenta dei fori a losanga, i quali non possono che nuocere all'azione del timone stesso.

La cultura messico-andina non ha prodotto nulla di speciale per la navigazione. A parte alcune influenze dell'Asia continentale, gli elementi della navigazione delle coste americane hanno continuato a derivare dalle culture inferiori sopradescritte. Nemmeno la cultura islamica, la quale non rappresenta del resto che un ramo aberrante moderno della cultura occidentale, ha prodotto alcunché di speciale. Il fatto che gli Arabi, già avanti l'era islamica, si servissero della vera vela latina è stato già notato a proposito della navigazione malese-polinesiana. Si noterà che nel dominio della cultura islamica, tanto nelle velature arabe quanto nelle barche turche di Costantinopoli dette caicchi, l'aggetto di prua, cioè il prolungamento anteriore della chiglia sopra l'acqua, è particolarmente allungato.

La cultura occidentale ha costruito ogni sorta d'imbarcazioni a partire dalla piroga monoxila di legno scavato, e dalla barca di tavole delle culture inferiori. In fatto di forme semplici ha prodotto poi varî tipi locali, com'è, ad es., quello della gondola veneziana. La cultura occidentale ha usato e usa tuttora la vela triangolare detta latina, alfine alla vela polinesiana, ma d'altra parte è giunta al suo attuale sviluppo senza passare per la piroga doppia o a bilanciere.

Come riepilogo è riportato qui il quadro genealogico probabile delle diverse forme d'imbarcazione. Fra parentesi sono segnati i cicli culturali (v. culturali, cicli) nei quali esse sembrano aver avuto origine.

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Diritto.

Diritto privato. - In mancanza di una definizione legislativa, il concetto di nave nel nostro sistema giuridico va desunto da un esame delle singole disposizioni. Secondo la più autorevole dottrina è nave "ogni galleggiante atto a muoversi da un luogo all'altro mediante un qualsiasi mezzo di propulsione o di trazione e destinato normalmente al servizio della navigazione" (A. Scialoja); ma tale concetto non è unanimamente accolto, adottandosi da alcuni un criterio ancora più ampio, per il quale sarebbe sufficiente a caratterizzare la nave l'attitudine a galleggiare, ancorché manchi quella a navigare (A. Bruschettini). Certo è che non si può considerare elemento essenziale del concetto di nave che essa sia munita di mezzi proprî di propulsione; né il maggiore o minor tonnellaggio, rilevante per l'applicazione di particolari norme specialmente di diritto amministrativo, ha efficacia ad attribuire o togliere a un galleggiante la caratteristica di nave.

Il criterio seguito dal nostro legislatore è dunque dei più ampî: più ristretti per contro sono quelli seguiti da altri sistemi; così nel sistema francese è richiesta per la nave la destinazione alla navigazione marittima; nel sistema belga è richiesto un minimo tonnellaggio (25 tonnellate di stazza). Nel progetto italiano di codice marittimo (1931) "per nave s'intende qualunque costruzione atta a correr le acque, normalmente mossa da apparecchio a propulsione meccanica o a vela e destinata al trasporto di persone o di cose, alla pesca, al rimorchio o ad altri servizî marittimi" (art. 38).

Nella categoria delle navi, vengono però nel sistema italiano distinte le navi minori, non destinate a uscire dai porti, dalle rade, dai fiumi, dai canali o dai laghi e non munite di atto di nazionalità e di ruolo di equipaggio (art. 490 cod. comm.). La distinzione è rilevante in quanto le navi minori non sono sottoposte a una serie di norme dettate per le navi in genere; ma, come è stato giustamente notato (A. Scialoja), è da avvertire che una nave può passare dalla categoria delle maggiori a quella delle minori e viceversa per destinazione del proprietario.

La nave, per espressa disposizione legislativa (art. 480 cod. comm.), è un bene mobile.

La dichiarazione trova la sua giustificazione in ragioni storiche, dati i secolari dibattiti che si svolsero tra i giuristi per assegnare la nave alla categoria delle cose mobili o immobili; e ha altresì una ragione dogmatica nel sistema del codice italiano, dato che alla disciplina giuridica della nave, sia per quanto concerne i trasferimenti di proprietà sia per quanto concerne la costituzione dei diritti reali di garanzia, si applicano principî simili (non identici) a quelli che regolano i beni immobili. Così il trasferimento di proprietà della nave non ha effetto rispetto ai terzi se non in seguito all'effettuazione della prescritta pubblicità; così il diritto reale di garanzia sulla nave (ancora denominato pegno, negli articoli 485 e segg. del cod. di comm.; ma qualificato più rettamente ipoteca nella legge modificatrice del 5 luglio 1928, n. 1816) si costituisce non mediante lo spossessamento da parte del debitore della cosa data in garanzia, ma mediante l'iscrizione in appositi registri. La dichiarazione legislativa della natura mobiliare della nave non si ritrova nel progetto di codice marittimo; ma ciò, mentre non muta in alcun modo la situazione giuridica, trova la sua spiegazione nel fatto che il sistema pubblicitario, dapprima riservato ai beni di natura immobiliare, va man mano estendendosi a beni mobili diversi dalla nave, come l'aeromobile e l'automobile, onde la sottoposizione di un bene al sistema pubblicitario non induce più alcuna presunzione circa la natura immobiliare del bene stesso.

La nave è di per sé cosa composta (corpus ex pluribus inter se cohaerentibus); per disposizione legislativa poi "fanno parte della nave le imbarcazioni, gli attrezzi, gli arredi, le armi, le munizioni, le provviste, ed in generale tutte le cose destinate all'uso permanente di esse, ancorché ne siano temporaneamente separate".

Tale disposizione, che, con terminologia alquanto impropria, pone in risalto il rapporto di pertinenza delle cose in essa menzionate con la nave, ha carattere non tassativo, ma dimostrativo; si dovranno quindi considerare pertinenze della nave tutti quegli oggetti, ancorché non elencati nell'art. 480, i quali si trovino con la nave in rapporto di destinazione permanente e necessaria all'uso di essa. Giova inoltre l'elencazione contenuta nell'art. 480 a eliminare alcune controversie dibattutesi a lungo in dottrina, e particolarmente quella concernente le imbarcazioni; risolta dalla nostra legge affermativamente. Deve per contro ritenersi escluso dalla categoria degli accessorî della nave il nolo.

La nave con i suoi accessori viene da un'autorevole corrente dottrinale considerata come una universitas facti (A. Brunetti); e con tale concezione si giustificano le deviazioni dalle norme fondamentali in materia di cose mobili e particolarmente l'inapplicabilità alle navi del principio "possesso vale titolo" (art. 707 cod. civ.) e la concessione dell'azione di manutenzione a tutela del possessore della nave (art. 694 cod. civ.).

Contro questa concezione peraltro è stato obiettato (F. Ferrara jun.) che essa, mentre spiega solo incompletamente il regime giuridico della nave, scambia gli accessorî della nave con gli elementi dell'universitas. Gli accessorî, nel loro insieme, costituiscono una universitas, ma non insieme alla nave, nei confronti della quale hanno una posizione dipendente e subordinata; mentre gli elementi dell'universitas sono di regola omogenei, e comunque tali che non si può tra di essi istituire un rapporto di subordinazione. Si osserva infine, e giustamente, che la nave, ancorché senza accessorî (quando cioè non è da parlarsi, nemmeno secondo la combattuta dottrina, di universitas), è sottoposta al particolare regime derogante a quello applicato in materia di cose mobili. Onde tale particolare regime non può mai farsi derivare dal preteso carattere di universitas. A. Gr.

Diritto amministrativo. - Il regime pubblicistico della nave ha per fine in parte la tutela della vita umana attraverso quella della sicurezza della navigazione, in parte la formazione di attestazioni pubbliche di ogni elemento materiale e giuridico concernente la nave e i suoi accessorî. Essendo la nave oggetto principalmente di proprietà privata e di rapporti giuridici privati, quest'ingerenza dell'ordinamento pubblico dello stato rientra nel campo delle limitazioni amministrative al diritto di proprietà: tuttavia, per quanto riguarda l'azione certificativa e la pubblicità dei diritti, l'opera dell'amministrazione è stabilita nell'interesse altresì dell'autonomia privata e perciò entra in quella che è stata detta l'amministrazione pubblica del diritto privato. Nel suo complesso, l'azione di cui parliamo si riferisce a tre momenti, o aspetti, principali della vita della nave: la costruzione e la conservazione; l'individuazione; la costituzione e il trasferimento della proprietà e di qualunque altro diritto reale.

La costruzione delle navi è regolata dagli articoli 25-35 del cod. per la mar. merc. 15 ottobre 1877, n. 4146, dagli articoli 214-340 del relativo regolamento 20 novembre 1879, n. 5166, e da numerose altre norme regolamentari, fra cui di speciale importanza quelle approvate col r. decr. 23 maggio 1932, n. 719, sulla sicurezza delle navi mercantili e della vita umana in mare. Nessuno può costruire navi di stazza lorda superiore alle 50 tonnellate, se non sia munito di patente che lo abiliti ingegnere o costruttore navale: gl'ingegneri navali possono costruire navi di qualunque portata, in legno o in ferro; i costruttori soltanto le navi in legno. Alla costruzione di quelle di stazza non superiore alle 50 tonnellate sono abilitati anche i maestri d'ascia, cioè i carpentieri che, dopo tre anni di esercizio, abbiano ottenuto speciale certificato d'idoneità. L'esercizio della professione di costruttore da parte di persona priva del necessario titolo di abilitazione non solo è perseguibile penalmente, ma importa anche la nullità dei contratti rivolti ad affidare al trasgressore qualunque costruzione di nave per la quale non sia abilitato. Le imprese di costruzione si svolgono nei cantieri navali, costruiti sopra tratti di spiaggia per tale uso concessi dall'autorità marittima per un periodo non superiore ai trent'anni. L'inizio di ogni costruzione deve essere preventivamente denunziato all'ufficio del porto, con l'indicazione degli estremi riguardanti la nave e la ditta per la quale viene costruita. Le norme tecniche da osservarsi nella costruzione e nell'attrezzamento della nave sono minutamente stabilite nel citato regolamento del 1932 (articoli 32-49): alla rigorosa osservanza di esse vigilano durante la costruzione gli organi del registro italiano. Ultimata la costruzione, la nave non può essere messa in esercizio prima che siano stati rilasciati i documenti comprovanti la sua idoneità, fra cui è fondamentale la licenza di navigazione, rilasciata dall'autorità marittima in base alla documentazione tecnica fornita dal registro italiano, il quale deve inoltre procedere ad apposita visita di collaudo, detta prima visita, alle cui operazioni possono assistere i funzionarî incaricati dalla autorità marittima. Anche durante l'esercizio, l'efficienza della nave e la sua rispondenza alle norme del regolamento deve essere costantemente controllata mediante visite periodiche, che possono essere, per gli elementi a cui si estendono, ordinarie e speciali; nel caso di subita avaria o altro incidente della navigazione, si deve far luogo ad apposite visite occasionali. La procedura e ogni elemento tecnico e giuridico di questi accertamenti sono determinati dal regolamento citato (art. 26-31). La competenza, ove non sia disposto altrimenti, appartiene agli organi del registro italiano, contro i cui giudizî è consentito il ricorso all'amministrazione centrale della marina mercantile.

Gli elementi d'individuazione di ogni nave sono: il nome, la stazza e la nazionalità. a) Ogni nave deve avere un nome, approvato dal Ministero delle comunicazioni e dipinto a poppa insieme col nome del porto nel quale la nave è iscritta (cod. mar. merc., art. 30); non può essere imposto un nome ritenuto sconveniente dall'autorità; né un nome che sia identico o somigliante a quello di altre navi dello stesso compartimento marittimo e, se trattisi di nave di oltre 500 tonnellate, di qualunque compartimento del regno (decr. legge 7 giugno 1923, n. 1325). b) La stazza indica la capacità interna della nave. Si distingue una stazza lorda, che rappresenta la capacità totale, dalla quale tuttavia deve essere fatta la detrazione dei due decimi per lo spazio occupato da elementi accessorî della nave stessa, e una stazza netta, che è la capacità realmente utilizzabile per il carico delle merci e dei passeggeri, detratto cioè lo spazio occupato dalle macchine, dagli attrezzi, dai depositi di combustibile, dagli alloggi dell'equipaggio, ecc. L'unità di misura della stazza è la tonnellata, da non confondersi con la misura di peso dello stesso nome ed equivalente a mc. 3,831,685. Il procedimento della stazzatura, così in Italia come in Francia, è modellato su quello inglese, in modo che i tre paesi presentano un sistema comune. Le operazioni devono essere eseguite da periti stazzatori, dipendenti dal registro italiano e muniti di autorizzazione governativa. c) La nazionalità della nave è determinata dalla cittadinanza del relativo proprietario e, se più sono i proprietarî, dalla cittadinanza dei due terzi di essi: a tale effetto, ai cittadini italiani sono equiparati i sudditi coloniali e anche gli stranieri residenti in Italia da non meno di cinque anni. Le società anonime sono considerate nazionali quando hanno nel regno la loro sede principale e tengono ivi le assemblee sociali (cod. mar. merc., art. 40). Principî analoghi valgono nel diritto francese, belga, iugoslavo, greco e svedese; altri sistemi, come quelli inglese, americano e norvegese, esigono la cittadinanza nella totalità dei proprietarî. Quanto al diritto italiano, le riferite norme su questo punto risultano notevolmente modificate nel progetto del cod. marittimo 1931 (art. 62). Quanto alla procedura, l'atto di nazionalità, sopra domanda dei proprietarî, viene rilasciato in nome del re dalle autorità marittime locali. Giuridicamente, esso ha il valore di un accertamento costitutivo: perciò, chi presenti i documenti e dimostri di avere adempiuto alle altre condizioni richieste dalla legge, ha un vero diritto al rilascio. Dall'atto, oltre la nazionalità vengono fatti risultare tutti gli altri elementi concernenti lo stato materiale e giuridico della nave; sul tergo di esso devono, in seguito, essere annotate tutte le successive variazioni relative a tali elementi.

La classificazione della nave consiste nell'assegnazione di essa a una classe determinata in base al suo valore e alla sua capacità nel traffico commerciale: essa ha il carattere di una stima peritale e costituisce il compito principale e originario del registro italiano, che provvede anche ad iscrivere la nave così classificata nei suoi libri pubblici. È in facoltà del proprietario, se lo ritenga utile per i suoi interessi internazionali, di fare iscrivere la nave anche in altri registri di particolare credito all'estero quali quello inglese (Lloyd's register) e quello francese (Bureau Veritas). Il registro italiano è costituito in ente morale con numerose funzioni pubbliche, già in parte ricordate; è retto da un presidente e da un direttore di nomina governativa, con un consiglio di amministrazione le cui deliberazioni sono soggette all'approvazione del Ministero delle comunicazioni (decr. legge 11 novembre 1926, n. 2138).

L'appartenenza della nave, la costituzione e il trasferimento di qualunque diritto su di essa sono oggetto di un particolare sistema di pubblicità, analogo a quello vigente per la costituzione e il trapasso dei diritti sui beni immobili. Deve essere, in primo luogo, resa pubblica mediante la trascrizione in apposito registro, istituito in ogni compartimento marittimo, la denunzia del contratto di costruzione; mediante annotazione sullo stesso registro, può essere costituita ipoteca sulla nave da costruire. Le navi già costruite e munite dell'atto di nazionalità sono iscritte nella matricola dell'ufficio del compartimento marittimo, nel quale ha domicilio il proprietario o il maggiormente interessato dei proprietarî o l'armatore della nave. Con l'immatricolazione, l'appartenenza della nave diviene pubblica ed efficace rispetto ai terzi; ogni successivo trasferimento di proprietà, ogni costituzione di usufrutto o d'ipoteca devono essere annotate sulla matricola: la pubblicità di tali atti deve essere integrata con la trascrizione nel registro giornaliero dell'ufficio e con l'annotazione a tergo dell'atto di nazionalità che accompagna costantemente la nave (reg. del cod. mar. merc., art. 241, 382, 283; decr. legge 5 luglio 1928, n. 1816, art. 17). Questo ordinamento si riferisce alle navi mercantili. Le navi della marina militare, appartenenti esclusivamente allo stato, vengono costruite a cura del Ministero della marina e secondo le norme tecniche da esso impartite. Tali navi fanno parte del patrimonio indisponibile: i relativi elenchi ed inventarî, formati e conservati a cura del ministero, non vengono resi pubblici. Le navi militari non più adatte all'uso possono essere alienate; il relativo contratto, che in passato doveva essere autorizzato con atto legislativo, in forza dell'art. 2 della legge 31 gennaio 1926, n. 100, è autorizzato dal governo stesso con decreto reale, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di stato.

Diritto internazionale. - Ogni nave, per poter percorrere liberamente i mari, godervi delle garanzie assicurate dal diritto internazionale, essere protetta nel godimento stesso, deve possedere un'individualità ben definita, determinata dalla sua nazionalità. Se si tratta di navi da guerra oppure di altre navi di proprietà di un dato stato e da questo adibite generalmente a un pubblico servizio, l'appartenenza della nave è determinata senz'altro dal fatto che essa batte la bandiera di quello stato. Se invece la nave è di proprietà privata, essa possiede, per così dire, uno stato civile, mediante il quale essa viene caratterizzata e distinta dalle altre e che è il complesso delle condizioni richieste per la sua nazionalità. La determinazione di tali condizioni appartiene alle singole legislazioni. Esse sono sostanziali e formali. Per quanto riguarda le prime, i criterî prevalenti sono determinati dalla nazionalità dei proprietarî; dalla nazionalità del capitano e dell'equipaggio (nella maggior parte degli stati si vuole che il capitano e la totalità, o almeno una forte maggioranza dell'equipaggio, siano cittadini del paese); infine talvolta dal luogo di costruzione della nave (Stati Uniti). La nave che possiede i requisiti sostanziali per avere la nazionalità di un dato stato deve poi adempiere le condizioni formali connesse alla sua regolare iscrizione nei pubblici registri. Dopo di che, essa riceve dallo stato stesso l'atto di nazionalità che le conferisce il diritto di inalberarne la bandiera e di avere un documento comprovante in ogni occasione il suo stato civile.

Di regola il diritto di possedere una bandiera marittima e di farla portare alle navi nazionali spetta soltanto agli stati il cui territorio confina col mare. Nella conferenza di Barcellona del 1921 è stato tuttavia riconosciuto tale diritto anche agli stati non aventi coste marittime, purché le navi, aventi la loro nazionalità, siano iscritte in un luogo unico situato nel loro territorio, che costituirà per tali navi il porto di origine.

Il criterio della nazionalità è suscettibile per le navi di molteplici conseguenze e applicazioni giuridiche, sia nel campo del diritto internazionale pubblico, sia in quello del diritto internazionale privato. Per quanto riguarda i rapporti di diritto privato, pertinenti alla nave, prevale nella dottrina e nella giurisprudenza l'adozione del criterio della legge della bandiera (loi du pavillon).

Benché non si possa, dal punto di vista del diritto positivo attuale, accettare tale criterio nella forma assoluta e generale sostenuta da certi scrittori, non v'ha dubbio che i rapporti giuridici, collegati con una nave, data la loro importanza e delicatezza, hanno bisogno di essere regolati in modo certo e costante. Tale esigenza è felicemente soddisfatta dall'assoggettamento della nave, dovunque materialmente si trovi, all'unico regime a tutti noto o facilmente conoscibile dell'applicazione della legge della bandiera, mercé la quale si evita il grave inconveniente che i diritti degl'interessati siano alla mercé delle variabili leggi dei paesi che la nave attraversa nei suoi viaggi. Poiché anche le navi possono essere, in forza della legge competente, oggetto di sequestri e di altre procedure coattive da parte dei creditori, una speciale convenzione, conclusa a Bruxelles il 10 aprile 1926 tra parecchi stati, fra cui l'Italia, ha esentato da tali provvedimenti le navi da guerra, le navi ospedale, le navi ausiliarie e, in genere, le navi di stato destinate a un servizio pubblico e non avente carattere commerciale.

Ma è nel campo del diritto internazionale pubblico che il principio della nazionalità della nave ha le sue applicazioni più notevoli. Conviene distinguere la condizione giuridica delle navi nell'alto mare e nelle acque territoriali degli altri stati. Poiché l'alto mare è res communis omnium e come tale sottratto alla sovranità di singoli stati, non è lecito alle navi di uno stato esercitare qualsiasi atto di giurisdizione, di controllo, di visita su navi di altra nazionalità. Qualsiasi pretesa di questo genere costituisce una grave violazione di diritto internazionale, a meno che tra i due stati non sia in vigore qualche norma giuridica (come quelle dirette alla repressione della pirateria) o qualche speciale trattato (come quelli diretti a impedire e reprimere il traffico marittimo di armi e munizioni lungo certe coste dell'Africa), che autorizzi eccezionalmente, e dentro i limiti convenuti, atti di giurisdizione su navi di diversa bandiera. Consegue dal principio posto che ogni nave è in alto mare considerata, secondo la tradizionale caratteristica espressione, come una "porzione galleggiante del territorio dello stato, di cui porta la bandiera. Quindi tutti gli atti posti in essere e i fatti avvenuti a bordo cadono sotto l'intera giurisdizione dello stato stesso, sotto la potestà delle sue leggi e dei suoi organi. Tale giurisdizione è assoluta, qualunque sia la nazionalità della persona, trovantesi a bordo, su cui essa si esercita. È evidente dunque di quale importanza sia il possesso, da parte di ogni nave, di una nazionalità regolare e ben definita.

Già in tempo di pace è riconosciuta dal diritto internazionale alle navi da guerra di tutti gli stati una funzione di polizia sull'alto mare, la quale si esplica precisamente nel diritto di inchiesta e di verifica della bandiera, per accertare l'effettiva nazionalità di una data nave e il suo diritto d'inalberare la bandiera di uno stato. Si rende così più difficile a una nave, che non appartenga ad alcuna nazionalità e voglia approfittarne per compiere atti vietati (come il reato di pirateria), di sfuggire a ogni controllo, alzando abusivamente una bandiera che non abbia il diritto di portare o cambiandola arbitrariamente.

Nelle acque territoriali e nei porti degli altri stati, la condizione giuridica delle navi mercantili è profondamente diversa da quella delle navi da guerra. Queste ultime sono soggette alle norme locali per quanto riguarda il diritto di passaggio e di soggiorno, la polizia, gl'interessi fiscali, la sicurezza dello stato; ma all'infuori di ciò, godono della cosiddetta condizione di extraterritorialità, per cui rimangono soggette alle leggi e agli organi dello stato estero a cui appartengono. Le autorità territoriali non possono compiere alcun atto di autorità a bordo delle navi da guerra straniere, né esercitare alcuna giurisdizione sulle persone che vi si trovano. Qualunque fatto, suscettibile di conseguenze giuridiche, avvenga a bordo, sfugge alla competenza delle leggi e dei tribunali locali.

Invece le navi mercantili straniere non godono di alcuna esenzione dal punto di vista dei principî generali del diritto internazionale. Esse sono di regola sottoposte alle leggi e alla giurisdizione dello stato nelle cui acque si trovano.

Quindi i fatti avvenuti e gli atti giuridici posti in essere a bordo di tali navi vanno considerati alla stregua delle leggi locali e a giudicare dei reati, commessi a bordo, sono competenti i tribunali territoriali. I notari, ufficiali di stato civile, ecc. dello stato nelle cui acque la nave si trova, prestano l'opera loro a bordo, conformandosi in tutto alle leggi locali. Una limitazione in proposito è stata accolta dalla pratica e dalla giurisprudenza di varî paesi nel senso che lo stato locale si astenga dall'intervenire, quando si tratti di fatti interni della nave, a meno che non si tratti di fatto che abbia turbato l'ordine pubblico del porto oppure riguardi in qualche modo un cittadino dello stato stesso. Tale astensione non è però imposta da alcun principio di diritto internazionale. Si tratta di una limitazione puramente volontaria, a cui lo stato territoriale è arbitro di rinunciare ogniqualvolta lo creda opportuno, intervenendo con le sue leggi e i suoi organi, anche se si tratti di fatto interno della nave, mentre la sua astensione, nella maggior parte dei casi, dipende dalla ragione che esso non ha alcun interesse a ingerirsi in ciò che avviene a bordo della nave estera senza alcuna ripercussione al di fuori di essa.

In tempo di guerra la nazionalità delle navi ha importanza fondamentale, in quanto le navi di bandiera neutrale, salvo il caso che portino a bordo contrabbando di guerra o prestino altre forme di assistenza al nemico, sono esenti da ogni provvedimento di cattura e di confisca, il quale colpisce invece indistintamente le navi di bandiera nemica. A tale effetto è riconosciuto alle navi da guerra degli stati belligeranti il diritto di fermare, accertare la nazionalità e perquisire tutte le navi che incontrano.

Bibl.: Diritto privato: A. Bruschettini, La nozione di nave secondo il cod. di comm. it., in Riv. dir. comm., II (1904), p. 52; A. Brunetti, Del comm. maritt. e della navig., Commentario, Milano 1920, art. 480; H. Wüstendörfer, Das Seeschiffahrtsrecht, in Ehrenbergs Handbuch des gesammten Handeslerchts, VII, ii, Lipsia 1923, p. 199 segg.; A. Brunetti, Dir. maritt. priv. it., Torino 1929, I, p. 271 segg.; G. Ripert, Droit maritime, 3ª ed., Parigi 1929; A. Scialoja, Sistema del diritto della navigazione, 3ª ed., Roma 1933, p. 216 segg.

Diritto amministrativo: F. Perels, Das allgemeine öffentliche Seerecht, Berlino 1901; D. Maiorana, Navigazione, in V.E. Orlando, Trattato di dir. amm., VII, Milano 1914, pp. 76-156; A. Wahl, Précis théor. et pratique de droit marit., Parigi 1926, p. 19 segg.; A. Scialoja, Sistema del diritto della navigazione, 2ª ed., Roma 1929, pp. 94-175.

Diritto internazionale: F. Ortolan, Règles et diplomatie de la mer, 4ª ed., Parigi 1864; L. Hautefeuille, Hist. des origines, des progrès et des variations du droit marit. int., 2ª ed., Parigi 1869; F. Perels, Das int. öffent. Seerecht der Gegenwart, Berlino 1903; P. Fauchille, Traité de droit int. public, 8ª ed., Parigi 1921 segg.; P. Fedozzi, La condition juridique des nav. de commerce, in Recueil Académie de La Haye, X; Pearce Higgins, ibid., XXX; Bustamante, La mer territoriale, Parigi 1930.

Medicina e igiene navale.

Le affezioni che colpivano gli equipaggi, un tempo formavano un capitolo speciale di patologia sotto il titolo di "malattie dell'uomo di mare"; col progresso della scienza le malattie, ritenute un tempo proprie dell'uomo di mare, sono rientrate nella patologia comune e la patologia nautica si compendia in una sola affezione: il mal di mare. Tuttavia, la morbosità della popolazione navale presenta un aspetto speciale, per quanto riguarda le malattie infettive, e consiste in ciò, che il genere di malattia sta in rapporto con la località dove si trova la nave e la frequenza delle affezioni è varia nei diversi gruppi che compongono la popolazione di bordo. Nelle città i morbi endemici sono costantemente gli stessi e si ripetono con un ciclo regolare ogni anno od ogni serie di anni. Il primo carattere della patologia navale è invece che, a causa della mobilità delle navi, la frequenza delle malattie varia con gli spostamenti di esse modellandosi su quella delle regioni visitate.

Il secondo carattere della patologia navale è che i varî gruppi di popolazione presentano una differente morbosità. La popolazione delle navi da guerra e delle mercantili da carico è permanente e fa della nave la sua dimora abituale. La popolazione dei piroscafi per passeggeri si compone di una parte stabile rappresentata dall'equipaggio e di una temporanea rappresentata dai passeggeri.

Gli equipaggi militari formano un gruppo omogeneo per età e composto di persone di buona costituzione fisica e in buona salute per la rigorosa selezione praticata all'atto dell'arruolamento. Sono sottoposti a condizioni di vita identiche, per cui sottostanno a uguali fattori di predisposizione ai morbi infettivi.

Dalle statistiche dell'armata risulta che tra gli equipaggi predominano le malattie veneree, seguono per ordine di frequenza le affezioni dell'apparato digerente, dell'albero respiratorio, i morbi cutanei e le infezioni. Le forme morbose sono quasi esclusivamente acute, giacché i malati cronici sono prontamente allontanati dal servizio mediante il provvedimento di riforma. L'influenza nelle espansioni pandemiche non risparmia gli equipaggi e nel 1918 cagionò una mortalità del 9,27 per mille uomini. Le affezioni da carenza di vitamine (beri-beri e scorbuto), un tempo comuni, sono scomparse.

I numerosi e complicati meccanismi per la propulsione della nave e per gli altri servizî (vi sono a bordo oltre un centinaio di macchine) spiega il numero notevole di lesioni violente, frequenti specialmente negli uomini non addestrati ai lavori e nuovi agli ambienti di macchina. Tra gl'infortunî professionali bisogna ricordare il colpo di calore, frequente nei mari tropicali e principalmente nel Mar Rosso e nel Golfo Persico. La morbosità e mortalità nell'armata presentano medie complessive inferiori in confronto con una comunità affine qual'è l'esercito. La differenza in meno riguarda tutte le malattie, a eccezione della tubercolosi polmonare e delle affezioni veneree e sifilitiche, le cui medie sono più elevate nei marinai. La tubercolosi trova a bordo il massimo fattore di predisposizione nell'addensamento della popolazione che supera quello delle comunità più affollate.

Gli equipaggi del naviglio mercantile comprendono uomini di tutte le età, all'arruolamento non sono sottoposti a scelta dal punto di vista dello stato di salute, né quelli tra essi divenuti non più atti al mestiere sono eliminati.

Per questi equipaggi mancano statistiche di morbosità. Da studi parziali risulta che l'affezione più frequente è il reumatismo articolare, spesso seguito da complicazioni cardiache; seguono, per ordine di frequenza, le bronchiti e la polmonite. Pure in questi equipaggi predominano le forme acute, sono però meno rare le affezioni croniche.

I passeggeri formano un gruppo di popolazione eterogeneo, la cui composizione è dovuta puramente al caso: la morbosità e mortalità di questo gruppo risulta avere notevole analogia con la popolazione del regno.

L'igiene navale applica i principî dell'igiene generale alle condizioni di ambiente e di vita della popolazione navale, in quanto esse differiscono da quelle di terraferma. Come abitazione collettiva corrisponde alle caserme, se militare, agli alberghi, se mercantile. L'ambiente esterno, rappresentato dal mare e dall'atmosfera marina, è relativamente più salubre dell'ambiente tellurico e atmosferico delle abitazioni urbane. Nell'ambiente interno il fattore più importante è la densità della popolazione, soprattutto nei dormitorî collettivi. Le aperture per l'aereazione e l'illuminazione dei locali interni sono in numero e di dimensioni limitate e sono aperte soltanto nella parte dello scafo emersa sul mare; per conseguenza, per provvedere aria luce agli ambienti situati sotto la linea di galleggiamento sono necessarî i mezzi di ventilazione e illuminazione artificiali.

La nave, essendo costruita di metallo che è buon conduttore del calorico, risente prontamente e fortemente le variazioni di temperatura dell'ambiente esterno; onde, per attenuare la perdita di calore nei locali interni, nella stagione fredda si rende indispensabile l'applicazione del riscaldamento artificiale.

Sulle navi il problema del rifornimento idrico risorge a ogni approdo e si ricorre alla depurazione ogni qualvolta l'acqua imbarcata sia sospetta.

L'allontanamento dei rifiuti della vita domestica e industriale presenta particolari difficoltà, dipendenti dal fatto che la nave è soggetta ai movimenti delle onde e che la forza di gravità si può utilizzare pei pochi materiali, mentre per gli altri, come le ceneri, l'espulsione si deve affidare a macchine.

L'alimentazione della popolazione navale subisce alcune restrizioni, in quanto che la scelta degli alimenti è subordinata alle sistemazioni per la conservazione delle sostanze alimentari e alla conservabilità di queste. Sui transatlantici forniti di celle frigorifere il vitto può essere composto per tutta la traversata con viveri freschi. Sui piroscafi senza frigoriferi, nei primi giorni di navigazione si consumano viveri freschi e, esauriti questi, conserve alimentari. Sui velieri, le traversate essendo lunghe, l'alimentazione, basata sugli alimenti in conserva, si può prolungare per settimane e mesi, sicché possono affacciarsi le malattie da carenza di vitamine (scorbuto e beri-beri).

La nave, per i numerosi e possenti macchinarî che contiene, si può considerare come una grande officina industriale. I comuni fattori del lavoro a bordo (materiali, utensili, movimenti muscolari) sono identici a quelli studiati dall'igiene industriale; i caratteri che distinguono i mestieri nautici sono l'ambiente di lavoro e i traumi. I lavori dell'equipaggio, secondoché si eseguono all'aria aperta, in locali caldo-umidi, polverosi, confinati o con gas e vapori irrespirabili, esercitano un'influenza diversa. Del pari, ogni specie di lavoro (governo dei forni, stivamento del carico, lavaggio, ecc.) espone gli equipaggi a un genere determinato d'infortunio professionale.

Infine, la nave, come mezzo di trasporto, sottopone la populazione all'influenza della navigazione. I movimenti della nave, prodotti dagli urti del mare, affaticano e disturbano il sonno, provocano lesioni violente e sono la causa del mal di mare. Per la rapidità delle traversate sulle navi non vi ha successione regolare delle stagioni. La popolazione navale può passare in pochi giorni da un estremo caldo a un estremo freddo o viceversa, senza che l'organismo abbia tempo di adattarsi a un cambiamento tanto rapido di clima. E, come l'influenza del clima, subisce quella dello stato sanitario del porto d'approdo.