Mutamento giurisprudenziale e processo penale

Libro dell'anno del Diritto 2014

Mutamento giurisprudenziale e processo penale

Francesco Mazzacuva

La considerazione del diritto “vivente” come “legge” da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condotto alcuni giudici italiani a riconoscere ai mutamenti giurisprudenziali conseguenze sul procedimento penale analoghe a quelle prodotte dalle innovazioni legislative. Tale processo è culminato nella proposizione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. nella misura in cui non prevede la revoca della condanna nei casi di cd. abolitio criminis giurisprudenziale. Rigettando la questione, tuttavia, la Corte costituzionale ha escluso in maniera perentoria ogni possibile equiparazione tra produzione legislativa e formante giurisprudenziale, con una pronuncia di ampio respiro che, d’altra parte, non è andata esente da critiche.

La ricognizione

Nell’interpretazione evolutiva data dalla Corte di Strasburgo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la costante riconduzione degli orientamenti giurisprudenziali al concetto di “legge” (law) rappresenta indubbiamente uno degli approdi di maggiore impatto culturale rispetto agli ordinamenti nazionali1. Da tale peculiare inquadramento del diritto cd. “vivente”, la Corte europea trae decisive conseguenze in ordine al problema degli effetti dei mutamenti giurisprudenziali il quale, noto da tempo anche alla riflessione giuridica continentale, si è riproposto di stretta attualità soprattutto in ambito penalistico2, in una fase storica caratterizzata da profonde trasformazioni del processo penale su impulso delle fonti sovranazionali.

L’equiparazione tra law in action e law in the books è così affiorata in maniera importante, anzitutto, nella pronuncia delle Sezioni Unite del 21.1.2010 con la quale, sulla base di un’interpretazione conforme alla giurisprudenza di Strasburgo, è stato individuato nell’overruling “qualificato” del Massimo Collegio un autentico ius novum in grado di superare la preclusione di cui all’art. 666, co. 2, c.p.p. (talvolta indicata come “giudicato esecutivo”)3.

Sulla scia di tale presa di posizione – e della parallela valorizzazione del rango sovralegislativo del canone della lex mitior4 – alcuni giudici si sono quindi spinti fino a prospettare l’abbattimento del “muro” del giudicato di cognizione, almeno nell’ipotesi di revirement “qualificato” delle Sezioni Unite che comporti una cd. abolitio criminis giurisprudenziale parziale, ossia una reinterpretazione riduttiva dei contorni di una fattispecie penale. L’itinerario ipotizzato, nello specifico, è stato quello dell’estensione dello spettro operativo dell’istituto della revoca della condanna (art. 673 c.p.p.), prospettata in una questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Torino volta ad ottenere una pronuncia “additiva” da parte della Corte costituzionale5 ma anche (nell’ambito della medesima sede giudiziaria) ritenuta già percorribile in via ermeneutica alla luce dell’obbligo di interpretazione conforme alla giurisprudenza di Strasburgo6.

È evidente, d’altra parte, che in tali proposte di dilatazione di un istituto processuale apparentemente periferico si scorgono più nitidamente tutte le implicazioni sostanziali e “di sistema” correlate all’equiparazione tra giurisprudenza e legge, con le quali non ha potuto che confrontarsi la stessa Corte costituzionale nella sentenza di rigetto 8.10.2012, n. 230.

La focalizzazione

La “tensione” tra diritto giurisprudenziale e principio di legalità emerge chiaramente nel confronto tra gli argomenti delle Sezioni Unite penali e quelli della Corte costituzionale nei quali, peraltro, si riflette una contrapposizione che si registra, con diversi accenti (e, talvolta, anche sulla base della condivisa “tradizionale” distinzione tra disposizione e norma), nel dibattito dottrinale.

L’intervento nomofilattico sull’art. 666 c.p.p., evidentemente, è quello che presenta la maggiore valorizzazione della prospettiva di Strasburgo, dato che si riconosce una vera e propria «relazione di tipo concorrenziale tra potere legislativo e potere giudiziario», nonché una «componente limitatamente creativa della interpretazione», e si conclude per la possibilità di individuare nel revirement un vero e proprio “nuovo elemento di diritto” e non soltanto (come pure era stato prospettato) una diversa situazione di fatto originata da un sopravvenuto “argomento di diritto”. La pronuncia, in effetti, segna una “svolta” anche rispetto alla precedente giurisprudenza di legittimità con la quale il giudicato “cautelare” era stato ritenuto superabile in presenza di un mutamento giurisprudenziale ad opera del Massimo Collegio (qualificato come nuovo “fatto interpretativo”)7, così come è evidente la distanza rispetto alla posizione espressa di recente dalle Sezioni Unite civili che, pur riconoscendo precisi effetti intertemporali all’overruling, rimangono ancorate al presupposto della natura “dichiarativa” del precedente giudiziale8.

Proprio tale innovativa impostazione ha finito per ispirare la questione di legittimità sollevata dal giudice torinese, il quale dichiaratamente ricalca il ragionamento delle Sezioni Unite penali e lo traspone sul piano del giudicato di cognizione, trovandosi al cospetto di un mutamento giurisprudenziale favorevole che aveva inciso sull’estensione applicativa di una fattispecie incriminatrice, ponendo il problema delle sorti di quei soggetti già condannati in via definitiva sulla base del precedente e più rigoroso orientamento interpretativo9.

Pronunciandosi sulla questione, la sentenza della Corte costituzionale non si rifugia in quella che sarebbe potuta essere una sentenza di inammissibilità per assenza di “rime obbligate”10 e si confronta apertamente con le sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza europea nell’evidente consapevolezza, come detto, delle implicazioni “di sistema” ad esse sottese. Nella valutazione positiva circa l’ammissibilità e la rilevanza, infatti, la Consulta aderisce ai rilievi del giudice a quo in ordine alla non configurabilità di una abolitio criminis legislativa, all’impossibilità di ricorrere ad un’interpretazione conforme dell’art. 673 c.p.p. (in quanto norma eccezionale e, pertanto, insuscettibile di estensione analogica) ed alla scelta dei parametri costituzionali invocati tra i quali, in particolare, l’art. 117 Cost., pietra angolare nell’attribuzione di rango “costituzionalmente interposto” alla giurisprudenza di Strasburgo sin dalle celebri sentenze “gemelle” (C. cost. 22.10.2007, nn. 348 e 349).

Entrando nel merito, invece, la Corte sviluppa due ordini di idee complementari sui diversi piani dei parametri di legittimità invocati. Quanto alla dimensione sovranazionale della questione, anzitutto, si osserva come, nelle stesse pronunce di Strasburgo, la sostanziale equiparazione tra legge e giurisprudenza abbia preso forma esclusivamente in riferimento al problema della preesistenza di una base legale e mai, anche dopo la sentenza Scoppola, su quello della lex mitior. Viene rimarcato, inoltre, come proprio in quest’ultima pronuncia i giudici di Strasburgo non manchino di suggerire la perdurante validità del limite del giudicato, la cui intangibilità sarebbe stata già avvalorata in altra precedente decisione.

È soprattutto sotto l’angolo dell’art. 3 Cost., d’altra parte, che la Corte si spinge ad apprezzare la ragionevolezza del limite del giudicato in presenza di un mutamento giurisprudenziale ad opera delle Sezioni Unite. La considerazione circa il carattere non assoluto del principio della lex mitior, in effetti, non si rivela dirimente, dato che il fatto che il giudicato ceda in presenza di una abolitio criminis legislativa (art. 2, co. 2, c.p.) impone inevitabilmente alla Corte di giustificare la distinzione tra legge e giurisprudenza, tra condere e abrogare. È a questo punto che il Giudice costituzionale illustra le ragioni decisive della scelta di rigettare la questione, non solo evidenziando che la questione di legittimità tende ad un riconoscimento dell’efficacia intertemporale del precedente delle Sezioni Unite “foriero di aporie” ed incongruente con l’assenza di ogni valore vincolante dello stesso (dato che si creerebbe una sorta di stare decisis “obliquo”, valevole per il solo giudice dell’esecuzione), ma altresì concludendo, in maniera perentoria, che l’equiparazione tra legge e giurisprudenza risulta in ogni caso preclusa dall’art. 25, co. 2, Cost. e, soprattutto, dal principio di separazione “riflesso” nel precetto della soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.)11.

I profili problematici

Il vivace dibattito dottrinale animatosi all’indomani della pubblicazione della sentenza n. 230/2012 dimostra che, nonostante la fermezza dei termini utilizzati dalla Corte costituzionale, la discussione circa la possibilità di considerare, almeno a determinati effetti, la giurisprudenza come fonte non sia realmente conclusa e, anzi, possa ripartire proprio dai passaggi meno convincenti della motivazione.

Anzitutto, gli argomenti esposti sotto il profilo dell’art. 117 Cost. non sembrano decisivi: se è certamente vero, infatti, che ad oggi manca una pronuncia in cui l’equiparazione tra giurisprudenza e legge sia stata riproposta dalla Corte europea sul terreno della lex mitior, tale soluzione pare rappresentare il naturale sviluppo della consolidata ricostruzione evolutiva del termine “law” con riguardo al “nuovo” contenuto ricondotto all’art. 7 CEDU nella sentenza Scoppola. Anche il limite del giudicato apparentemente richiamato in quest’ultima pronuncia, in effetti, non sembra d’ostacolo rispetto al riconoscimento di un vero diritto fondamentale alla retroattività dell’overruling favorevole, tanto più che il precedente di Strasburgo citato dalla Corte costituzionale si riferisce ad una vicenda civilistica12, mentre le esigenze di certezza sottese all’istituto del giudicato sembrano meritare diversa considerazione all’interno dei vari settori dell’ordinamento13.

È proprio sul terreno dei parametri costituzionali interni, in effetti, che in materia penale si deve registrare il maggior spessore delle esigenze di “giustizia sostanziale” promananti dal principio di uguaglianza (tali appunto da comportare il cedimento del giudicato nelle ipotesi di abolitio criminis legislativa), nonché la sussistenza di specifici referenti costituzionali del canone della lex mitior14. Ora, l’osservazione della Corte secondo la quale, in assenza di un riconoscimento formale della vincolatività (almeno) degli arresti delle Sezioni Unite, risulta arduo accordare agli stessi quell’efficacia “dirompente” sul piano intertemporale propria della abrogazione legislativa, può essere senz’altro condivisa. Maggiori perplessità desta, tuttavia, la chiusura tranchant ad ogni possibile “equazione” tra legge e giurisprudenza sulla base di un art. 101 Cost. che, eppure, ha assistito anche di recente (e proprio sulla base della giurisprudenza europea) a riletture dottrinali non preclusive rispetto alla regola dello stare decisis che di quell’accostamento viene spesso indicata come condizione15.

Peraltro, un’estensione dei principi di diritto intertemporale non pare subordinata in tutte le ipotesi al riconoscimento della vincolatività del precedente ovvero alla totale equiparazione tra legge e giurisprudenza, come dimostra la posizione delle Sezioni Unite civili ma, altresì, la stessa sentenza n. 230/2012 nel momento in cui “apre” alla soluzione dell’irretroattività del revirement giurisprudenziale sfavorevole (sul modello del prospective overruling statunitense)16, che supererebbe quella impostazione “compromissoria” individuata, sin dalla storica sentenza 24.3.1988, n. 364, nell’ambito del giudizio di colpevolezza e della scusante di cui all’art. 5 c.p.17

Che la parola della Corte costituzionale possa non rivelarsi l’ultima, in fondo, è dimostrato proprio dalla parallela emersione di un’interpretazione estensiva dell’art. 673 c.p.p., la quale è stata salutata con favore da alcuni settori della dottrina18, ma anche ritenuta espressiva di una tendenza capace, proprio in nome delle istanze egualitarie sottese al riconoscimento della giurisprudenza come fonte, di pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto19.

Note

1 In particolare, sin dal celebre caso C. eur. dir. uomo, 26.4.1979, Sunday Times c. Regno Unito, la Corte europea considera costantemente il cd. diritto “vivente” al fine di valutare la sussistenza di quella “previsione legale” che è condizione di legittimità di ogni ingerenza pubblica nell’esercizio di diversi diritti previsti dalla Convenzione. Tale approccio, peraltro, è stato significativamente trasposto sul terreno del principio di legalità penale sancito dall’art. 7 CEDU.

2 Anche se la dottrina penalistica pare essersi mossa “con ritardo” rispetto agli studi civilistici sul precedente giurisprudenziale (e sul relativo mutamento), un’inversione di tendenza si è potuta apprezzare negli ultimi anni grazie soprattutto agli approfondimenti di Cadoppi, A., Il valore del precedente nel diritto penale, Torino, 1999; Fiandaca, G., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002; Di Giovine, O., L’interpretazione nel diritto penale, Milano, 2006; Donini, M., Europeismo giudiziario e scienza penale, Milano, 2011, 63 ss.

3 Cfr. Cass. pen., S.U., 21.1.2010, n. 18288.

4 Anche in questo caso, sin dalle sentenze C. cost., 23.10.2006, n. 393 e C. cost., 8.11.2006, n. 394, sollecitata dalle fonti sovranazionali e, in particolare, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dal disposto dell’art. 49 della Carta di Nizza. È stata poi la sentenza C. eur. dir. uomo, 17.9.2009, Scoppola c. Italia, con la quale per la prima volta è stato ricondotto all’art. 7 CEDU anche il diritto alla legge sopravvenuta più favorevole, a permettere quell’ulteriore valorizzazione del principio (sebbene tuttora ritenuto derogabile in presenza di contro-interessi prevalenti, come da ultimo ribadito nella sentenza C. cost., 19.7.2011, n. 236) particolarmente rilevante nelle vicende in commento.

5 Trib. Torino, 27.6.2011, in www.penalecontemporaneo.it, 26.7.2011.

6 Trib. Torino, 30.1.2012, in www.penalecontemporaneo.it, 19.10.2012.

7 Cfr. Cass. pen., 6.5.2010, n. 19716, che si distaccava dall’orientamento affermato con la sentenza Cass. pen., S.U., 19.12.2006, n. 14535, proprio alla luce della provenienza qualificata del nuovo orientamento interpretativo.

8 Nella sentenza Cass. civ., S.U., 11.7.2011, n. 15144, infatti, è ricorrente il tema della dimensione esclusivamente “accertativa”, invece che creativa, della giurisprudenza rispetto al significato di una disposizione.

9 In particolare, a seguito dell’intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la contravvenzione di omessa esibizione dei documenti di identificazione e di soggiorno prevista dall’art. 6, co. 3, d.lgs. 25.7.1998, n. 286 (t.u. imm.), come riformata dalla l. 15.7.2009, n. 94, veniva ritenuta non integrabile da parte degli immigrati irregolari con la sentenza Cass. pen., S.U., 24.2.2011, n. 16453.

10 Tale “merito” della Corte è sottolineato nella ricca nota di Napoleoni, V., Mutamento di giurisprudenza in bonam partem e revoca del giudicato di condanna: altolà della Consulta a prospettive avanguardistiche di (supposto) adeguamento ai dicta della Corte di Strasburgo, in www.penalecontemporaneo.it, 2012. Critico sui profili di rilevanza della questione, invece, Mazza, O., Il principio di legalità nel nuovo sistema penale liquido, in Giur. cost., 2012.

11 Così recependo la posizione dottrinale elaborata soprattutto da Guastini, R., Teoria e dogmatica delle fonti, Milano, 1998, 467 ss., e richiamata specificamente a commento della questione di legittimità, da Gambardella, M., Eius est abrogare cuius est condere, in www.penalecontemporaneo.it, 14.05.2012.

12 C. eur. dir. uomo, 28.6.2007, Perez Arias c. Spagna, richiamata dalla Corte costituzionale al punto 7 della parte motiva in diritto.

13 Come sottolineato nelle note critiche alla sentenza C. cost. n. 230/2012 di Ruggeri, A., Penelope alla Consulta: tesse e sfila la tela dei suoi rapporti con la Corte EDU, con significativi richiami ai tratti identificativi della struttura dell’ordine interno e distintivi rispetto alla struttura dell’ordine convenzionale, in Consulta online, 2012, e Id., Ancora a margine di Corte cost. n. 230 del 2012, post scriptum, in ibidem, 2012.

14 Cfr. in particolare Cadoppi, A., Il principio di irretroattività, in AA.VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 1997, il quale individua un fondamento della lex mitior anche nel fine rieducativo accordato alla pena dalla Costituzione, secondo una prospettiva richiamata nell’ordinanza del Tribunale di Torino ma ritenuta “assorbita” dalla Corte costituzionale.

15 Tra i tanti, in particolare, si consideri l’approfondimento monografico di Bifulco, D., Il giudice è soggetto soltanto al «diritto», Napoli, 2008. Con specifico riferimento critico alla sentenza C. cost. n. 230/2012, cfr. ancora Ruggeri, A., Penelope, cit., 4.

16 Facendo l’esempio del giudice di cognizione che si discosti dall’orientamento favorevole delle Sezioni Unite (proprio per l’assenza di ogni stare decisis), infatti, la Corte osserva che l’estensione del principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole potrebbe risultare appropriata in caso di fatti commessi dopo la decisione del Massimo Collegio (§ 10 della parte motiva in diritto). Sul punto cfr. Manes, V., Prometeo alla Consulta, in Giur. cost., 2012, 3481, secondo il quale la ritenuta non equiparabilità dell'overruling favorevole all'abolitio criminis non implichi negare le esigenze garantistiche che il mutamento giurisprudenziale in malam partem deve trascinarsi dietro.

17 Come noto, infatti, uno dei casi di ignorantia legis inevitabile ipotizzati dalla Corte costituzionale nella storica sentenza è rappresentato proprio da «un gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari». Per una critica all’ambiguità della riconduzione di un fattore “oggettivo” di irriconoscibilità della legge penale al piano “soggettivo” del giudizio di colpevolezza, cfr. Cadoppi, A., Il valore, cit., 318 ss., e Vogliotti, M., Penser l'impensable: le principe de la non-rétroactivité du jugement pénal in malam partem. La perspective italienne, in Diritto & questioni pubbliche, 2003.

18 Cfr. Viganò, F., Mutamento in bonam partem del diritto giurisprudenziale e revoca del giudicato: la palla torna al giudice ordinario?, in www.penalecontemporaneo.it, 19.10.2012.

19 Su tale eterogenesi dei fini, cfr. Epidendio, T., Brevi impressioni e spunti a margine del dibattito su mutamento giurisprudenziale “in bonam partem” e giudicato, in www.penalecontemporaneo.it, 14.12.2012, 5 s.

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