Musicologia

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Musicologia

Mario Baroni
Giovanni Giuriati
Antonio Serravezza
Franca Trinchieri Camiz

Definizione, origini e sviluppi istituzionali

di Mario Baroni

In prima approssimazione la m. può essere definita lo studio scientifico della musica; tuttavia, qualora si volesse indicare con maggior precisione in che cosa consista la scientificità della disciplina, sarebbe difficile offrire indicazioni non provvisorie: i contenuti e i metodi della m., infatti, sono sempre dipesi da un lato dai suoi interni livelli di sviluppo, dall'altro dal contesto culturale in cui essa di volta in volta ha avuto modo di esplicarsi.

La concezione della musica come disciplina scientifica, soprattutto matematica, risale all'antica Grecia ed è stata ripresa in epoca medievale e rinascimentale (La musica nella rivoluzione scientifica, 1989). Ma accanto alla scienza in senso matematico (che s'interessava, per es., al calcolo delle altezze legato alla lunghezza delle corde, oppure al calcolo delle proporzioni ritmiche) esisteva anche una tradizione scientifica che riguardava la tecnica compositiva: per es. era considerata una scienza la trattazione approfondita delle leggi armoniche oppure l'esposizione dei modi di comporre fughe o canoni. Tutta la trattatistica musicale dal Medioevo in poi, anche quella legata alla didattica della composizione, quando raggiungeva livelli particolari di astrazione o di completezza, veniva considerata in genere come attività scientifica.

Ma il termine tedesco Musikwissenschaft (da cui deriveranno in ordine di tempo il francese musicologie, l'inglese musicology e l'italiano musicologia) nasce soprattutto dalla cultura ottocentesca. La 'scientificità' delle conoscenze musicali si lega in questo caso alla particolare situazione della musica tedesca di quell'epoca: da un lato si stavano riscoprendo i patrimoni musicali del passato, e questo rendeva necessario uno studio basato su una relativamente nuova 'scienza' storico-filologica; dall'altro lato il prestigio culturale cui la musica tedesca era improvvisamente assurta nei primi anni dell'Ottocento aveva spinto la stessa tradizione 'scientifica' della filosofia a interessarsi (per es. con Hegel e con Schopenhauer) dei problemi dello statuto estetico della musica. Il termine Musikwissenschaft si afferma nella seconda metà dell'Ottocento, quando vengono pubblicate riviste come lo Jahrbuch für musikalische Wissenschaft nel 1855 o come la Vierteljahrsschrift für Musikwissenschaft nel 1885, cui collaborarono studiosi come F. Chrysander, Ph. Spitta, G. Adler. Anche la m. ottocentesca, secondo una tradizione positivistica assai viva, coltivò legami con le scienze esatte o con le scienze naturali (Serravezza 1996), ma il suo corpo dottrinario si appoggiò in modo predominante ai modelli delle scienze filologiche ed ermeneutiche, cioè a quei modelli che qualche decennio dopo avrebbero trovato assetto nelle Geisteswissenschaften, o 'scienze dello spirito'. I grandi musicologi tedeschi del secondo Ottocento assunsero tuttavia atteggiamenti epistemologici riconducibili via via all'una o all'altra delle matrici qui indicate.

Le prime esperienze pionieristiche (riviste, o ripubblicazioni di testi antichi) si moltiplicarono gradualmente costituendo una rete sempre più fitta di attività fra loro connesse. Si può dire che nel corso del Novecento la m. si sia strutturata in canali istituzionali diversi, tutti ugualmente necessari allo sviluppo scientifico della disciplina: in cattedre di università e conservatori; in centri di ricerca; in società musicologiche; in convegni e riunioni scientifiche; in pubblicazioni, sia isolate, sia raccolte in collane dedicate a specifici campi d'interesse; in edizioni critiche di musica del passato; in collezioni specialistiche di dischi; in enciclopedie, riviste, cataloghi e strumenti di ricerca bibliografica; in pubblicistica di qualificata divulgazione; in istituzioni educative e formative. Si può parlare dell'esistenza di una vera e propria m. solo quando esiste in un dato paese un'attività integrata come quella ora indicata, basata su una molteplicità di istituzioni e di tradizioni di studio capaci di interagire stabilmente fra loro. A partire dalla loro presenza si può tracciare abbastanza agevolmente una mappa dello sviluppo della m. nelle diverse situazioni nazionali dall'Ottocento a oggi. Per es., si può constatare come le prime cattedre universitarie di natura anche musicologica (come quella che A.B. Marx ricoprì a Berlino dal 1830), le prime grandi collezioni di capolavori antichi (per es. i Denkmäler der Tonkunst in Österreich iniziati nel 1888, o i Denkmäler deutscher Tonkunst, dal 1890), i primi centri di ricerca nel campo della fisica e della psicologia musicali (come quello in cui lavorò H. von Helmholtz a Berlino negli anni Settanta, e quello fondato da C. Stumpf sempre a Berlino nel 1893), le prime riviste (per es. quelle prima citate) siano nate appunto in Germania e in Austria. Ma anche la Francia, che aveva già avuto grandi tradizioni di studio filosofico risalenti a Rousseau e all'Encyclopédie, annovera nell'Ottocento studiosi come F.-J. Fétis, musicologo franco-belga a cui dobbiamo la monumentale Biographie universelle des musiciens in 8 voll. (iniziata nel 1835) e i 5 volumi di una Histoire générale de la musique (iniziata nel 1869), o come Ch. de Coussemaker o l'altro belga F.-A. Gevaert, che furono fra i pionieri della storiografia musicale medievale, o come i gregorianisti di Solesmes. Alla Gran Bretagna si devono iniziative di studio altrettanto significative, per es. la pubblicazione del Grove's dictionary of music and musicians (1879-89), che è l'illustre antenato dell'attuale New Grove (ed. in 20 voll., nel 1980). Per quanto riguarda l'Italia, ricorderemo solo che la Rivista musicale italiana, l'organo su cui si cimentò la prima generazione dei nostri musicologi, risale al 1894. Ma la m. italiana, da intendersi nel senso 'integrato' del termine cui si è accennato, ha avuto inizio solo nella seconda metà del 20° secolo, cioè quando cattedre universitarie, pubblicazioni di più riviste specializzate, enciclopedie e collane di libri, edizioni critiche di testi antichi, società musicologiche e iniziative di convegni di vario tipo e tendenza, hanno cominciato a convivere e a potenziarsi a vicenda.

Negli ultimi decenni del Novecento il quadro internazionale si è enormemente ampliato. La m., come tutti gli altri settori del sapere scientifico, è diventata un campo di scambio eminentemente internazionale. Alle culture locali è riservato soprattutto, anche se non ancora esclusivamente, il compito di divulgare socialmente i risultati più significativi delle ricerche musicologiche e di contribuire alla crescita culturale collettiva della popolazione; ma gli scambi e i confronti scientifici più importanti avvengono al livello relativamente ristretto degli esperti del settore, e la letteratura relativa ha una circolazione sufficientemente ampia e qualificata solo se è divulgata sul piano internazionale e se utilizza le lingue internazionalmente diffuse.

La m. tedesca, nonostante presenze importanti come, per es., quella di C. Dahlhaus, ha perso nel secondo dopoguerra il prestigio altissimo di cui godeva nella prima metà del 20° secolo. Attualmente la lingua più diffusa nel campo musicologico è l'inglese, e la m. trainante è quella anglo-americana, grazie anche al grande numero di università e di sedi di ricerca, a biblioteche ricche e attrezzate e a un'editoria che può disporre di un mercato assai esteso.

La diffusione della m. ha prodotto conseguenze sullo stesso mondo musicale: un musicista di oggi non può più permettersi di rimanere il bravo artigiano che poteva essere ancora pochi decenni fa. La musica tende oggi a venir considerata come uno dei settori importanti della cultura umanistica, e di conseguenza il musicista tende ad aggiornarsi su quegli aspetti del sapere musicologico che si riferiscono alla sua professione. Ciò non avviene sempre: esistono ancora, per es. in Italia, carenze culturali vistose nella preparazione dei musicisti, ma è in atto anche una diffusa volontà di recuperarle. Questo accade persino nel campo della musica leggera, come dimostra la fortuna della IASPM (International Association for the Study of Popular Music).

Sebbene sempre provvisoria, l'articolazione interna degli studi musicologici presenta alcune partizioni fondamentali che si esamineranno brevemente prima di descrivere l'apporto di singole discipline.

Musicologia storica. - Sull'onda dell'estetica romantica, la m. del 19° secolo è nata soprattutto come m. storica, come raccolta e studio filologico del documento scritto, e si è ispirata a due concetti filosofici portanti: quello di opera (le grandi opere del passato, i capolavori di durata eterna) e quello di individuo (l'individuo geniale, l'eroe nel campo della creatività artistica).

A questo insieme di principi si deve la nascita di alcuni dei grandi classici della m. ottocentesca: per es. gli studi di O. Jahn (1856-59), F. Chrysander (1858-67), Ph. Spitta (1873-80), rispettivamente dedicati a Mozart, Händel e Bach. Ma gli interessi non si limitavano a questo: per es., alla fine del secolo fu pubblicato un altro dei grandi classici della m. tedesca (Riemann 1898) dedicato alla storia delle teorie musicali, e agli inizi del Novecento nacque una collana diretta da H.A.F. Kretzschmar e dedicata ai 'generi' musicali (il mottetto, l'oratorio, la cantata, l'opera, e così via). Ma ben più vasta e multiforme è la produzione musicologica che negli ultimi decenni dell'Ottocento venne pubblicata soprattutto in Germania. Nel corso del 20° secolo l'impronta di tale modello è rimasta ancora ben visibile, ma altri interessi e prospettive culturali si sono gradualmente aggiunti a quelli iniziali. Sono nati così settori specialistici, che si sono organizzati come specifiche sottodiscipline: ne costituiscono esempio l'iconografia musicale (v. oltre), lo studio della prassi esecutiva (dall'epoca di Aufführungspraxis der Musik di R. Haas, 1931, la disciplina si è enormemente sviluppata e ha profondamente influenzato la vita concertistica e il gusto musicale diffuso), la filologia della musica. Gli stimoli provenienti da nuove concezioni storiche come quelle delle Annales hanno anche prodotto interessi meno legati alle grandi individualità e più attenti ai problemi della vita musicale quotidiana. Ne sono esempio la storia della ricezione (L'esperienza musicale, 1989; Rezeptionsästhetik und Rezeptionsgeschichte, 1991), la ricostruzione dei rapporti economici e sociali legati alla musica (uno fra i tanti: La musica e il mondo, 1993), la ricostruzione di eventi sociali complessi, come riti e feste (Nagler 1964). Inoltre le opere musicali sono state osservate nelle loro relazioni con il contesto culturale della loro epoca, per es. nei rapporti con la cultura letteraria (Il madrigale, 1988), con le arti figurative (Arnold Schönberg, Wassily Kandinsky, 1980), con la vita politica (Brévan 1980), con le tendenze ideologiche (Donakowsky 1977; McGrath 1974). Né mancano riflessioni filosofiche sul concetto stesso di storia della musica (Dahlhaus 1977).

In sintesi si potrebbe dire che la storiografia musicale più qualificata richiede oggi allo studioso responsabilità nuove e più complesse, sia perché impone la confidenza con una bibliografia internazionale sterminata e in continua espansione, sia perché la cultura di oggi invita e stimola a conoscenze interdisciplinari da applicare al campo musicale: proprio per questo la natura stessa della m. è stata più volte oggetto di attente riflessioni (Harrison, Hood, Palisca 1963; Kerman 1985). Inoltre lo storico non può più permettersi oggi di ignorare, come talora faceva in passato, le tecniche analitiche necessarie per descrivere l'evolversi degli stili che sono oggetto precipuo della sua attenzione. Queste tecniche si sono sviluppate al punto da richiedere sottili competenze specialistiche; per tali ragioni pubblicazioni recenti (Music theory, 1993) hanno posto seriamente l'accento sui complessi incroci di sapere che si richiedono al musicologo di oggi.

Musicologia sistematica

L'aggettivo sistematica, usato per indicare quel tipo di m. che pone l'accento non su contesti o epoche particolari della storia musicale, ma sul fenomeno musica in quanto tale, è ancor oggi abbastanza controverso. La sua origine risale a uno scritto di G. Adler (1885), e la sua presenza è attestata nella m. tedesca fino a tempi recenti (è del 1993 la fondazione di una rivista intitolata appunto Systematische Musikwissenschaft, pubblicata a Bratislava in collaborazione con l'università di Amburgo). Il suo uso si è anche parzialmente affermato in lingue diverse, come l'italiano o l'inglese. Il significato del termine è assai ampio, e anche poco definito: si riferisce all'analisi delle strutture, ai fenomeni psicologici dell'ascolto, allo studio sociologico della musica, nonché alla riflessione estetica.

In alcuni casi, per indicare questi temi non specificamente storici, si sono adottate terminologie diverse legate a particolari situazioni culturali: l'esempio più tipico è quello dell'americana Society for Music Theory, i cui interessi inizialmente scaturirono dai problemi di tecnica e analisi presenti nelle classi di composizione delle università statunitensi. Forse a questa circostanza si deve il nome di teoria musicale che per tradizione, come si usa anche oggi nei conservatori italiani, è riservato alla conoscenza degli aspetti tecnici del linguaggio musicale. Tuttavia, negli Stati Uniti, questi interessi si sono gradualmente allargati a temi più ampi, soprattutto a ricerche di natura psicologica. Il Journal of music theory ha rappresentato per anni questo tipo di interessi. Al principale animatore di questa rivista, A. Forte, va ascritto in buona parte il lancio e lo sviluppo di due dei filoni culturali più fortunati nel campo dell'analisi musicale anglosassone: la riscoperta delle teorie schenkeriane e l'elaborazione della cosiddetta set-theory (v. oltre: Analisi musicale).

Al di là dei problemi terminologici, diremo che oggi il campo della m. che qui chiamiamo sistematica concerne tutto quanto si riferisce ai processi di produzione e di ricezione in quanto distinti dai prodotti musicali: quando si parla di questi ultimi (e questo è tema precipuo della m. storica) l'accento cade di solito sulla loro specificità culturale, mentre nello studio dei primi esso si sposta piuttosto sui meccanismi che sottostanno ai fenomeni indagati o sui problemi metodologici della ricerca. Ma certamente fra l'uno e l'altro settore le interrelazioni sono così strette che una divisione netta non è agevole.

Sottosettori specifici della m. sistematica sono emersi con particolare vivacità negli ultimi anni: per es. quelli dell'analisi musicale, della semiologia musicale (v. oltre), della psicologia cognitiva della musica (un'associazione europea fondata a Trieste nel 1991, la European society for the cognitive sciences of music, ESCOM, pubblica in questo settore la rivista Musicae scientiae). Vicini a questi studi sono anche quelli di orientamento psicanalitico (per es. Ehrenzweig 1953, o Psychoanalytic explorations in music, 1993) e quelli dedicati all'intelligenza artificiale applicata alla musica (uno dei più recenti e significativi è Kansei. The technology of emotion, 1997). Il ricco settore degli studi sull'esecuzione musicale (per es. Battel 1995) è nutrito sia di interessi analitici, sia di applicazioni della tecnologia informatica, sia di problemi di psicologia cognitiva e di psicologia delle emozioni. Un altro settore sistematico emergente è quello degli studi sul rapporto fra stili musicali e valori sociali, in gran parte legato al fenomeno delle musiche 'giovanili' (Frith 1978; Tagg 1994). In sintesi, si può dire che il campo della m. sistematica abbia avuto una particolare espansione negli ultimi decenni e sia tuttora in via di sviluppo. Da qui nascono nuovi problemi di equilibrio con la tradizione degli studi storiografici, che per oltre un secolo è stata considerata, e viene tuttora di norma considerata, come via maestra e come settore trainante delle scienze della musica.

Etnomusicologia

Come premessa alla trattazione specifica della etnomusicologia (v. oltre), accenneremo ad alcuni aspetti del rapporto fra la m. in senso lato e l'etnomusicologia come suo settore specifico. C'è da tener presente anzitutto che la pratica musicale sta alla base dell'una e dell'altra: lo sviluppo dell'etnomusicologia, infatti, è andato di pari passo con la graduale accettazione e circolazione delle musiche relative. La fortuna delle cosiddette scuole nazionali ottocentesche, per es., è contemporanea al primo sviluppo degli interessi etnomusicologici e al fatto che alcuni tipi di musica popolare acquistassero allora cittadinanza culturale. Così l'interesse delle avanguardie novecentesche per il primitivismo africano o per l'esotismo orientale è andato di pari passo con lo studio 'comparato' delle culture musicali non europee. In paesi di antica tradizione coloniale, come l'Inghilterra e la Francia, o in luoghi di accentuata mescolanza etnica come gli Stati Uniti, quel settore dell'etnomusicologia occidentale che s'interessa in particolare delle culture non europee ha avuto modo di svilupparsi più precocemente che non in Italia, dove il contatto con culture lontane ha radici meno profonde e dove l'etnomusicologia è nata soprattutto come studio della tradizione contadina.

Al di là di queste circostanze, la presenza e lo sviluppo della disciplina etnomusicologica ha avuto nel contesto delle scienze della musica conseguenze di rilievo. Ha introdotto nella ricerca concetti legati alla nozione antropologica di 'cultura': per es. ha stimolato studi sulle funzioni sociali del far musica e sul concetto stesso di musica (Giannattasio 1992) che la tradizione storiografica non aveva precedentemente messo a fuoco. Ha suscitato un rinnovato interesse per il problema degli universali in musica (Blacking 1973; La musica come linguaggio universale, 1990) a cui recenti scoperte in campo cognitivo hanno aggiunto ulteriori argomentazioni (Narmour 1990).

Queste considerazioni mettono in evidenza che la m. odierna si ritaglia i suoi spazi all'interno di un contesto pluridisciplinare assai ricco. Oggi la quantità e l'ampiezza dei problemi, oltre che il numero delle pubblicazioni che l'editoria di tutto il mondo mette in campo quotidianamente, impediscono a chiunque di qualificarsi come il musicologo 'totale' che era ai suoi tempi, per es., H. Riemann. Oggi ogni musicologo (come del resto qualsiasi altro scienziato) deve necessariamente scegliere il suo campo o i suoi campi di specializzazione.

Musicologia 'applicata'

Si è precedentemente affermato che un musicista di oggi, se vuol essere all'altezza della sua professione, deve tenersi al corrente, entro certi limiti, dei vari settori dello studio musicologico. Quest'affermazione apre un nuovo problema, quello del rapporto fra la m. come disciplina scientifica e la divulgazione musicologica. Se effettivamente la m. è scienza, allora il suo sapere dev'essere considerato, come tutti i saperi scientifici, campo specialistico per esperti non necessariamente aperto a tutti, anzi di solito proibito a chi non possiede le necessarie chiavi d'accesso concettuali e lessicali. Questa situazione può essere meno drammatica nella tradizione delle scienze umane che in quella delle scienze naturali, ma resta vero che gli articoli di una rivista musicologica non sono di solito accessibili o appetibili per un lettore medio.

Compito della m. è fornire a tutti informazioni aggiornate e strumenti di riflessione per conoscere il campo musicale nella sua varietà, per capire le musiche che interessano e per discuterle con competenza e senso critico; i risultati conseguiti riguardano non solo i musicisti di professione, ma tutti quanti ascoltano musica. Esiste un settore specificamente orientato a questi compiti, quello della critica musicale, in cui la m. non ha ancora messo a punto un sistema di interventi specifico, né metodi di lavoro adeguati e apparati istituzionali efficienti, anzi spesso sembra dimenticarsi del problema o sottovalutarlo. Dall'epoca delle divulgazioni di Kretzschmar (1898), il problema ogni tanto torna in primo piano, ma una sua riflessione ordinata è ancora di là da venire. Esistono nell'editoria anglosassone eccellenti opere orientate in questa direzione (per es. le collane Cambridge music handbooks, o Norton critical scores), tuttavia si tratta di casi ancora abbastanza sporadici.

Il campo più importante e più specifico in cui la divulgazione musicologica trova applicazioni utili alla cultura musicale dell'intera società è quello dell'educazione musicale (v. musica: Educazione musicale, in questa Appendice), intendendosi con questo termine non tanto la formazione del musicista professionista, quanto quella del cittadino che viene educato alla musica nella scuola di tutti. C'è tuttavia una differenza importante fra la divulgazione musicologica e l'educazione musicale: questa si basa infatti non solo sul sapere musicologico ma anche su quello pedagogico e psicologico. In secondo luogo, essa non si risolve solo nella prassi educativa: come dimostrano alcune pubblicazioni specialistiche (per es. il Journal of research in music education o la Serie ricerca dei Quaderni della SIEM), essa è anche un campo specifico di attività di ricerca. Per entrambe queste ragioni, l'educazione musicale non può essere considerata un sottosettore della m., ma piuttosto una disciplina autonoma all'interno della quale la m. può trovare 'applicazioni' utili.

A fianco di questo, va segnalato un altro settore al tempo stesso pratico e scientifico: quello della musicoterapia, in cui pure molte 'applicazioni' musicologiche (in questo caso principalmente di m. sistematica) hanno un peso determinante. Anche nel campo della musicoterapia esistono scuole, si organizzano convegni e si pubblicano libri e riviste (per es. la rivista Musica & terapia, che si stampa in Italia dal 1993). Una precisazione tuttavia è necessaria: la ricerca in educazione musicale e in musicoterapia è ben distinta da quella musicologica, in quanto quest'ultima ha per oggetto la musica (il prodotto o i processi di produzione e ricezione musicale), mentre le altre hanno per oggetto l'uomo: il bambino o il ragazzo nel primo caso, il malato nel secondo. In questo senso si può affermare che entrambe utilizzano ampiamente i risultati della m., ma non appartengono propriamente al suo campo.

bibliografia

O. Jahn, Wolfgang Amadeus Mozart, 4 voll., Leipzig 1856-59.

F. Chrysander, Georg Friedrich Händel, 3 voll., Leipzig 1858-67.

Ph. Spitta, Johann Sebastian Bach, 2 voll., Leipzig 1873-80.

G. Adler, Umfang, Methode und Ziehl der Musikwissenschaft, in Vierteljahrschrift für Musikwissenschaft, 1885, 1, pp. 5-20.

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H. Riemann, Geschichte der Musiktheorie im ix-xix Jahrhundert, Leipzig 1898.

R. Haas, Aufführungspraxis der Musik, Potsdam 1931.

A. Ehrenzweig, The psychoanalysis of artistic vision and hearing, London 1953, 1975³ (trad. it. La psicoanalisi della percezione nella musica e nelle arti figurative, Roma 1977).

F.L. Harrison, M. Hood, C.V. Palisca, Musicology, Englewood Cliffs 1963.

A.M. Nagler, Theatre festivals of the Medici, 1539-1637, New Haven 1964.

J. Blacking, How musical is man?, Seattle 1973 (trad. it. Milano 1986).

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C. Dahlhaus, Grundlagen der Musikgeschichte, Köln 1977 (trad. it. Fondamenti di storiografia musicale, Fiesole 1980).

C.L. Donakowsky, A Muse for the masses. Ritual and music in an age of democratic revolution: 1770-1870, Chicago 1977.

S. Frith, The sociology of rock, London 1978 (trad. it. Milano 1982).

Arnold Schönberg, Wassily Kandinsky, hrsg. J. Hahl-Koch, Salzburg-Wien 1980.

B. Brévan, Les changements de la vie musicale parisienne de 1774 à 1799, Paris 1980 (trad. it. Musica e rivoluzione francese. La vita musicale a Parigi dal 1774 al 1799, Milano 1986).

J. Kerman, Musicology, London 1985.

Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna 1988.

L'esperienza musicale. Teoria e storia della ricezione, a cura di G. Borio, M. Garda, Torino 1989.

La musica nella rivoluzione scientifica del Seicento, a cura di P. Gozza, Bologna 1989.

La musica come linguaggio universale. Genesi e storia di un'idea, a cura di R. Pozzi, Firenze 1990.

E. Narmour, The analysis and cognition of basic melodic structures: the implication-realization model, Chicago 1990.

Rezeptionsästhetik und Rezeptionsgeschichte in der Musikwissenschaft, hrsg. H. Danuser, F. Krummacher, Laaber 1991.

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Music theory and the exploration of the past, ed. Ch. Hatch, D.W. Bernstein, Chicago 1993.

La musica e il mondo: mecenatismo e committenza musicale in Italia fra Quattro e Settecento, a cura di C. Annibaldi, Bologna 1993.

Psychoanalytic explorations in music. Second series, ed. S. Feder, R.L. Karmel, G.H. Pollock, Madison (Conn.) 1993.

Ph. Tagg, Da Kojak al rave, analisi e interpretazioni, a cura di R. Agostini, L. Marconi, Bologna 1994.

G.U. Battel, Un progetto per l'analisi dell'esecuzione pianistica, in Rivista musicale italiana, 1995, 2, pp. 419-52.

A. Serravezza, Musica e scienza nell'età del positivismo, Bologna 1996.

Kansei. The technology of emotion, Atti del convegno, Genova 3-4 ottobre 1997, a cura di A. Camurri, Genova 1997.

Semiologia musicale

di Mario Baroni

Definizione, origini e sviluppi

Per semiologia della musica si può intendere semplicemente, in prima approssimazione, il sottocampo della teoria generale del segno che concentra la sua attenzione sulla musica (v. semiotica, App. III; semiologia, App. IV e in questa Appendice). Il termine segno (Eco 1973) ha dietro le spalle una tradizione antichissima e un complesso di teorizzazioni che la semiologia ha ripreso nel 20° secolo in forme diverse.

La semiologia musicale ha ereditato i concetti e le controversie del campo semiologico; la sua prassi costante tuttavia è stata soprattutto quella di adattare volta per volta alcuni suggerimenti della semiologia generale ai problemi specifici della musica. Quasi mai ha affrontato direttamente il problema di costruire una compiuta teoria semiologico-musicale paragonabile a quella generale, od organicamente inquadrabile in essa. In altri termini si può dire che il contesto consueto della semiologia musicale sia quello dello studio delle modalità di reciproco rinvio fra un'entità fisica significante (la struttura musicale) e un'entità mentale significata (il 'contenuto' dell'esperienza musicale), ma che non sempre e non necessariamente a questo studio si sono richiesti caratteri di compiutezza teorica: per es. molte indagini puramente strutturali (sul 'significante') sono state ascritte alla ricerca semiologica, purché si ispirassero in forma più o meno dichiarata a modelli linguistici. In altri termini, la semiologia musicale si è sempre caratterizzata non tanto come una disciplina compatta, quanto piuttosto come un campo di ricerca aperto e ricettivo, disposto ad accogliere, discutere e mettere a fuoco un apparato concettuale e metodologico inedito, ma assai variegato.

Anche le fortune della semiologia musicale hanno avuto destini in gran parte dipendenti dalle fortune della semiologia generale: uno sviluppo impetuoso negli anni Settanta e una successiva graduale involuzione. Nel campo della disciplina-guida, alcuni grandi protagonisti, come A.-J. Greimas o R. Barthes, sono scomparsi senza lasciare successori, altri come U. Eco si sono allontanati dalla via maestra da essi tracciata in anni precedenti e hanno cominciato a interessarsi a problemi di altra natura. È probabile che l'attuale fase di silenzio della ricerca semiologica derivi dal fatto che per qualche ragione la teoria, dopo i suoi primi sviluppi, non ha messo ordine nelle proprie contraddizioni interne, non ha trovato vie d'uscita a percorsi ostruiti, non ha indicato applicazioni empiriche sufficientemente concrete. In ogni caso, questa fase involutiva sembra avere influito anche sui destini della semiologia musicale rallentandone l'attivismo.

Negli anni Sessanta i contributi musicali sono ancora rari: si possono ricordare quelli di Ch. Seeger (1960), di C. Deliège (1966), di N. Ruwet (1966), o degli etnomusicologi W. Bright (1963), V. Chenoweth (1966) e Ch. Boilès (1967). Negli anni Settanta gli studiosi che con maggiore tenacia e sistematicità si sono dedicati alla promozione della disciplina sono stati senza dubbio J.-J. Nattiez e G. Stefani. Il primo curò nel 1971, nel 1973 e nel 1975 tre numeri monografici di Musique en jeu (che in quegli anni aveva assunto il ruolo di rivista di punta nel rinnovamento della cultura musicale europea), il secondo organizzò a Belgrado nel 1973 il primo congresso di semiotica musicale. In tutte queste occasioni si fecero utili bilanci della situazione e si indicarono alcuni dei punti fermi dell'edificio teorico da costruire.

In seguito Nattiez sviluppò le sue tesi in uno studio (1975) che si ispirava a modelli semiologici volutamente eccentrici rispetto alle tendenze dominanti in quegli anni a Parigi. Più che dalla capitale i suggerimenti gli provennero da studi, da lui considerati assai più significativi e rigorosi, condotti nell'università di Aix-en-Provence da G.-G. Granger (1960), da J.-C. Gardin (1965) e soprattutto da J. Molino (1975). A quest'ultimo Nattiez è debitore di uno schema tripartito che egli considera fondamentale per la disciplina semiologica e che riprende e amplifica anche in un successivo volume pubblicato alcuni anni dopo (Nattiez 1987). Secondo tale schema i processi di produzione segnica (processi 'poietici') sono diversi da quelli della ricezione (processi 'estesici'): gli uni conducono a una traccia fisica, a un testo (non importa se scritto o sonoro), gli altri partono da questa traccia per trarne interpretazioni che non necessariamente corrispondono a quelle eventualmente presupposte dalla poiesi. La natura di fondo del testo infine non è né poietica né estesica, ma 'neutra'.

A sua volta Stefani pubblicava negli stessi anni una raccolta di saggi (1976) che aveva come punti di riferimento principali una teoria dei codici ispirata alla semiotica di Eco (secondo la quale esiste sempre un rapporto codificabile fra una struttura sonora e la produzione di senso a cui essa può dar luogo in musica) e una teoria della pertinenza ispirata alla semiotica di L. Prieto (un oggetto musicale non è mai neutro: diventa appunto musicale solo in quanto vi si possano selezionare tratti capaci di significazione). A questi aspetti si aggiungeva la precisazione che la semiosi musicale non caratterizza solo i grandi eventi estetici, ma anche l'attività di ogni giorno: esiste per es. una competenza diffusa e 'comune' (acquisibile, come quella della lingua, per semplice esposizione all'ascolto) che viene messa in atto quotidianamente, per es. nei fenomeni di comunicazione di massa. Una più compiuta elaborazione del modello di competenza musicale e della relativa teoria dei codici venne elaborata da Stefani in anni successivi e poi ripresa in ulteriori volumi di saggi (1982, 1987).

Alle teorizzazioni di Nattiez e di Stefani, cronologicamente parallele anche se molto diverse, non sono seguiti molti contributi altrettanto articolati e complessi: forse solo quelli di Ph. Tagg e di E. Tarasti hanno avuto ambizioni altrettanto globalizzanti. Il primo ha esordito (1979) con un dettagliatissimo studio sulla musica di un programma televisivo (Kojak) in cui egli rivalutava e applicava empiricamente con sottigliezza metodologica il concetto di musema già enunciato da Seeger (1960), intendendolo come unità primaria di significazione. A questo iniziale contributo hanno fatto seguito diversi articoli di approfondimento, poi raccolti in un volume in traduzione italiana (1994). Tarasti ha lanciato nel 1987 un vasto progetto internazionale (Concetti di base per lo studio della significazione musicale), ha organizzato alcuni convegni sul tema della significazione e successivamente ha pubblicato una raccolta di saggi (1994) in cui ha tentato di applicare alla musica in chiave di narratologia suggerimenti desunti da teorie di Greimas.

Altri contributi di discussione critica sulla semiologia musicale nella sua globalità sono stati proposti in anni diversi da altri autori, per es. da R. Schneider (1980) e da R. Monelle (1992). Ma, come si diceva inizialmente, il più significativo contributo dato dagli studi di semiologia musicale è da individuare non tanto nella proposta di ampi e sistematici paradigmi teorici, quanto piuttosto in una serie non sistematizzata di suggerimenti settoriali capaci di offrire agli studiosi nuove e a volte stimolanti categorie concettuali. Di questi ultimi si darà ora qualche esempio.

I processi di significazione in musica

Il problema di fondo a cui la dottrina del segno si dedica ha ridato attualità a un'antica controversia estetica: quella sulla semanticità del linguaggio musicale. La problematica definizione dei contenuti a cui la musica può rinviare, del suo 'stare per', ha avuto da secoli esplicazioni diverse nella cultura occidentale: l'antichità ha proposto l'ancor oggi parzialmente misteriosa dottrina dell'éthos, l'intellettualità medievale ha offerto allegorie metafisiche come quella della musica delle sfere, l'età barocca ha puntato sull'analisi, ampiamente rivalutata nel 20° secolo, degli strumenti retorici e della corrispondente teoria degli affetti. In epoche più vicine alla nostra, le oscure profondità della Tondichtung (poesia del suono) romantica, con le meno oscure ma più controverse propaggini del descrittivismo musicale, hanno suscitato le penetranti reazioni di E. Hanslick, che a tutt'oggi costituiscono (cfr. per es. Nattiez 1986) una lettura piena di suggestive provocazioni. Da quest'ultimo sfondo filosofico sono nate le poetiche delle avanguardie. La ritrosia dei compositori del Novecento nel concedersi troppo facilmente alle insidie dell'ascolto di massa ha messo in moto quei meccanismi ideologici di difesa che vanno sotto il nome di formalismo e che tendono a porre il massimo accento su quello che i semiologi chiamerebbero il significante musicale, cioè i problemi di struttura e di tecnica compositiva, trascurando, quando non esplicitamente negando, l'esistenza dei processi di significazione.

Su questa base di pensiero, che ha profondamente permeato la critica musicale e la musica della nostra epoca, la ricerca semiologica ha agito come benefico stimolo rinnovatore. Fin dagli anni Cinquanta alcuni studiosi attenti come L.B. Meyer (1956) e R. Francès (1958) avevano profeticamente anticipato, ancora in epoca presemiologica, concetti che sarebbero poi stati al centro dell'attenzione nei successivi decenni. Ciascuno di essi mette sul tappeto a modo suo un problema centrale per la semiologia: quello che poi avrebbe preso il nome di semantica musicale, nome evidentemente ereditato dalla linguistica. È interessante anche il fatto che nella differenza fra le posizioni di questi due studiosi si delinei, se pure in maniera non intenzionale, la contrapposizione fra endo- ed eso- semantica che sarebbe poi diventata centrale in alcune teorizzazioni semiologiche. Con il primo termine (o con i termini analoghi di rinvio intrinseco o di semiosi introversiva) si è indicata per anni l'idea 'formalistica' secondo la quale, non essendovi in musica un lessico definito, un codice stretto di rinvio fra significanti e significati, l'unico 'significato' musicale possibile sarebbe costituito dalla forma assunta dalle strutture musicali stesse. Con il secondo termine (o con quelli di rinvio estrinseco o semiosi estroversiva) si è indicata invece l'idea secondo la quale, anche in assenza di lessico, la musica di fatto poteva comunicare e aveva sempre comunicato immagini del mondo e vissuti emozionali. Francès aveva appunto studiato, con procedimenti empirici di psicologia sperimentale, quest'ultimo fenomeno, mentre Meyer, basandosi su procedimenti di analisi musicale, aveva proposto l'ipotesi secondo la quale le tensioni che ciascun ascoltatore percepisce in musica derivano dalla dialettica fra attese (o 'implicazioni') ed esaudimenti (o 'realizzazioni') che la sintassi musicale da secoli ha imparato a gestire. Già tali teorie ponevano su basi nuove la storica diatriba fra formalisti e contenutisti, dimostrando come le due posizioni radicalizzassero principi che in realtà erano fra loro compatibili e non contraddittori.

In base a questi primi elementi la discussione veniva dunque assestandosi su un problema centrale: la possibilità della musica di suggerire significati nonostante la sua apparente asemanticità. Qui la semiologia della musica ha giocato le sue carte più difficili sul più insidioso dei terreni. Una delle ipotesi avanzate era quella che, anche in assenza di lessico, esistesse comunque una convenzione o codice che assicurava la saldatura fra le strutture musicali e i significati a cui esse rinviavano. L'idea di codice corrispondeva a uno dei punti forti della semiologia generale, proposto in questo caso da Eco (1975). Sul principio dell'esistenza di un rapporto codificato fra il piano dell'espressione (o dei significanti) e il piano del contenuto (o dei significati) si è comunque fondata l'ipotesi strutturalistica degli anni Settanta. Ridotta nei suoi termini più elementari, e fondamentalmente riferita al modello dei linguaggi naturali, tale ipotesi era la seguente: come era stato possibile definire un'organizzazione ben formata del piano dell'espressione (cioè dei significanti) e stabilire regole precise, sia nel campo della fonologia sia in quello della sintassi, così era possibile ipotizzare che anche il piano del contenuto (o dei significati) potesse essere organizzato strutturalmente, per es. mediante opposizioni binarie o strutture ad albero. Sulla base di questa organizzazione formale, e solo su questa base, si sarebbe potuto stabilire un codice preciso di rinvio fra singoli aspetti del piano del significato e singoli aspetti del piano del significante. Ma a questo punto il compito di una semantica strutturale così concepita si rivelava quello di mettere in forma l'intero sistema della cultura o enciclopedia del sapere. Sui confini di questa impresa ciclopica il percorso della semiotica generale parve gradualmente arenarsi: nessuna precisazione più dettagliata e nessun tentativo di applicazione fecero seguito al primo importante sforzo (Eco 1975) in cui l'ipotesi era stata formulata. Secondo una diagnosi di Nattiez (1987, cap. , par. 4), ciò fu dovuto soprattutto a una contraddizione interna fra il principio razionale di un ordine globale e definito che si identificava con l'idea di struttura e il principio destrutturante della cosiddetta semiosi illimitata, formulato da Ch.S. Peirce e accettato da Eco stesso.

La trasposizione dell'ipotesi strutturalistica in termini musicali è stata solo abbozzata: il suo esempio più avanzato è quello del 'modello di competenza' di Stefani, in cui appunto la competenza viene definita come "insieme di codici" che correlano il piano della forma musicale a quello del contenuto (1982, pp. 10-12). Il codice viene a sua volta definito sia come regola di strutturazione, ossia di pura e semplice organizzazione interna propria di ciascuno dei due campi, sia come correlazione fra unità ben definite dell'uno e dell'altro quando questa è possibile, sia come correlazione strutturante fra un campo già strutturato e un altro campo ancora informe, sia infine come strutturazione correlante fra due campi ancora informi ma capaci di strutturarsi reciprocamente grazie al loro accostamento. Così definito (o per meglio dire così volutamente aperto e indefinito) il concetto di codice indica in questo caso qualsiasi possibilità di relazione si voglia applicare ("uso di codici già costituiti") o si voglia inventare ("invenzione di nuovi codici") nell'uso della propria competenza. Di fatto, esso indica semplicemente che esiste sempre qualche identificabile forma di rinvio fra significante e significato, ma non dà alcuna regola per identificare unità nell'uno e nell'altro. Nei suoi scritti successivi, Stefani fornisce innumerevoli esempi di codice, tentando inoltre una categorizzazione dei contenuti codificati, ma evita sempre regole che precisino ulteriormente il concetto di codice.

In effetti, il problema della definizione o segmentazione delle unità strutturali portatrici di senso, così come quello corrispondente delle unità di contenuto a cui le unità strutturali rinviino, è tuttora irrisolto nella teoria semiotica, nonostante alcuni tentativi in proposito. Fra questi citiamo anzitutto il concetto di musema come unità portatrice di senso, nell'accezione di Tagg (1994, pp. 52 e segg.). Ciò che distingue il tentativo di Tagg è soprattutto lo sforzo di individuare modalità operative il più possibile rigorose e tendenti all'oggettività, cioè alla ripetibilità da parte di più soggetti con gli stessi risultati. Esistono tuttavia anche nel suo modello ampi limiti di arbitrarietà, e comunque mancano ancora verifiche all'oggettività ipotizzata. Un altro tentativo, compiuto da R. Dalmonte (1998) e M. Baroni (1998), è quello di sperimentare la possibilità di un'analisi 'componenziale' del senso culturalmente attribuito ai tratti minimi e indivisibili di ogni nota e alle loro relazioni di successione (per es., a successioni di altezze, di durate, di accenti ecc., considerate indipendentemente le une dalle altre). Ma qui il problema non risolto è quello di capire se l'interpretazione globale del frammento a cui quelle note appartengono possa essere ascritta alla somma delle sue componenti elementari o a qualche cosa di diverso. Un altro approccio allo stesso problema è quello proposto da R. Hatten (1994), il quale utilizza nelle sue analisi il concetto di markedness, inteso come emergenza di scelte strutturali relativamente infrequenti in un determinato stile, che un ascoltatore è inconsciamente indotto a evidenziare, offrendone un'interpretazione. Ma anche in questo caso la precisazione delle strutture 'marcate' e dei relativi codici interpretativi è largamente lasciata all'intuizione.

Il problema della segmentazione in unità dei due piani della forma e del contenuto è dunque tutt'altro che risolto. Rimane inoltre aperto il problema della natura stessa del codice, o, in altri termini, della correlazione o rapporto di rinvio fra i due piani. Si potrà qui solo accennare alla complessità della questione e a questo scopo si prenderanno in considerazione due aspetti caratterizzanti: il primo è l'analisi delle ragioni o motivazioni del rinvio, il secondo riguarda la possibilità di ipotizzare correlazioni fra elementi ben definibili.

Per 'ragioni del rinvio' si intende qui l'insieme delle motivazioni convenzionali in base alle quali a un certo evento strutturale una cultura attribuisce un determinato significato. Nel linguaggio verbale si parla a tal proposito di 'arbitrarietà', quando non esiste nessun legame apparente fra la struttura fonetica di una parola e la categoria concettuale a cui essa rimanda; si parla invece di 'motivazione' quando (come avviene per es. per le onomatopee) esistono rapporti di simiglianza fra significante e significato. In musica sembrano predominare i rapporti motivati. N. Ruwet, per es., richiamandosi al paradigma 'endosemantico', definisce tali rapporti in termini di 'omologia', cioè di parallelismo strutturale fra i due poli del rinvio: un ascoltatore è indotto a comprendere il significato di una certa musica proprio da questi fenomeni di omologia strutturale (Ruwet 1972, p. 14). In altri casi invece (Nattiez 1987; trad. it. 1989, pp. 93 e segg.), più vicini alla 'esosemantica', si parla piuttosto di rapporti analogici, nei quali basta a volte un qualsiasi richiamo di somiglianza, anche minima, per motivare la relazione. Ma esistono anche altre possibilità di motivazione: per es. le connotazioni d'uso a cui fa appello K. Agawu (1991) quando ricorda che strutture di stile provenienti da altri contesti e utilizzate come citazione in un nuovo contesto immettono in quest'ultimo significati che richiamano la loro origine. Comunque sia, il problema delle motivazioni non è ancora stato affrontato sistematicamente: la semiologia l'ha posto ma non l'ha chiaramente risolto.

Per quanto riguarda la definibilità degli elementi correlati, il problema è chiaro nella sua formulazione, ma provvisorio nelle soluzioni finora proposte, soprattutto per gli aspetti 'significati'. Anche in questo caso, come in altri analoghi, il paragone con la linguistica è determinante. Nel linguaggio verbale esiste infatti una proposta classica di definizione delle unità significate: quella che distingue le denotazioni dalle connotazioni semantiche, attribuendo alle prime un significato per così dire primario (che qualche linguista, come A. Martinet, identificava con quello fornito dai dizionari) e alle seconde un significato secondario con accezioni 'marginali' rispetto a quelle primarie. Questa nozione di semantica non si adatta bene al campo musicale: anche nel caso più clamoroso di ricerca di una sorta di vocabolario degli intervalli musicali (quello di Cooke 1959), l'indicazione del significato di tali intervalli non è univoca e concettualmente precisabile, ma è sempre espressa con un linguaggio basato su suggerimenti intuitivi e metaforici. D'altra parte è assai frequente (per es. in Karbusicky 1987) l'idea che la musica abbia significati equiparabili a quelli della metafora. Ma anche nei casi in cui lo sforzo di formalizzazione è massimo, come per es. con Monelle (1992, pp. 232 e segg.), il quale applica alla musica alcuni paradigmi della semantica strutturale di Greimas, le definizioni usate restano sempre nell'ambito di un linguaggio che chiede comunque al lettore integrazioni intuitive. Nattiez (1987; trad. it. 1989, pp. 18-19) è addirittura drastico su questo punto: facendo appello alle concezioni di Peirce, afferma che nel campo della semiologia (intesa in senso lato) ogni ipotesi razionalistica di assegnare una struttura formale al 'piano del contenuto' (l'ipotesi della semantica strutturale a cui lo stesso Eco ha assiduamente lavorato) contraddice il principio secondo il quale il numero degli 'interpretanti' culturali applicabili a un determinato evento segnico è per sua natura infinito e dunque non formalizzabile. Il fatto che la definizione della musica in termini semantici sfugga, a maggior ragione, a qualsiasi precisabilità lo induce perciò a sostenere che l'unico modo proprio di parlare di musica sia quello della tradizione ermeneutica. Se dunque c'è concordanza sul fatto che la musica, pur non essendo dotata di un lessico ma offrendo solo materiali da interpretare, sia da considerarsi uno strumento di significazione, c'è però discordanza sulla natura dei procedimenti d'interpretazione: la semiotica musicale non ha saputo ancora fornire su questo punto un quadro teorico chiaro e condiviso.

Sono stati fin qui indicati solo alcuni dei problemi che la disciplina ha discusso negli ultimi decenni. Abbiamo privilegiato proprio questi, anche se molti altri ovviamente ne esistono, perché la 'semantica' costituisce una questione centrale e vitale per la conoscenza della musica. In conclusione, si può affermare che queste sottili analisi, quantunque incompiute, aperte, spesso anche insoddisfacenti, hanno tuttavia avuto il pregio di mettere in crisi o di problematizzare i procedimenti critici correnti: la libera saggistica di tradizione ermeneutica continua a esistere, non solo in Italia - anzi è quanto mai fiorente -, ma chi è consapevole delle sottili distinzioni introdotte dalla semiotica l'affronta oggi in modo diverso e meno ingenuo.

Semiologia, teorie della mente, teorie della cultura

La semiologia è nata come una sorta di scienza generale dei linguaggi che include anche il linguaggio verbale, ma non si limita a quello. Tuttavia il suo corpo dottrinario fondamentale è stato sempre costituito dalla linguistica, e in particolare dalla linguistica strutturale, poiché solo questa disciplina aveva dietro le spalle un patrimonio di esperienze scientifiche sufficientemente stabili e solide. Dalla linguistica strutturale la semiologia ha ereditato l'idea che la disciplina, anche se confinava con altre scienze, per es. con la psicologia o con l'antropologia, dovesse avere limiti ben definiti, da non oltrepassare pena il suo dissolvimento in altri settori del sapere. Così per es. Eco, nel definire il concetto di connotazione (1975, p. 83), è bene attento a evitare riferimenti ad aspetti emotivi di natura psicologica o ad aspetti pragmatici riguardanti gli usi sociali del linguaggio, ma si attiene a una definizione rigorosamente condotta in termini di teoria linguistica.

La preoccupazione di mantenere la semiologia musicale nei limiti di una edificanda scienza generale dei linguaggi emerge spesso nella letteratura degli anni Settanta, che tende a chiudere l'apparato concettuale della disciplina all'interno dei modelli semio-linguistici ai quali si ispira. Eppure la pressione delle discipline confinanti si fa spesso sentire: il caso più evidente è quello di M. Imberty, i cui studi (1979, 1981) vengono definiti già nel titolo con l'etichetta di "semantica psicologica della musica"; ma non si può dimenticare la cospicua area costituita da tutti quei lavori che, pur utilizzando concetti di derivazione linguistica o semiologica, si inscrivono comunque nella tradizione musicologica dell'analisi (Monelle 1992, pp. 90-160). In altri termini, è stato sempre difficile, e tanto più lo è diventato negli ultimi anni, mantenere integra la 'purezza' teorica di queste ricerche: la semiologia continua a offrire il suo apparato concettuale, ma l'apporto incrociato di altre discipline alla soluzione dei problemi che essa ha posto sta diventando sempre più evidente.

Il campo psicologico è particolarmente ricco di esempi. Lo studio delle risposte verbali iniziato da Francès e proseguito da Imberty ha offerto contributi significativi su alcuni dei problemi cruciali posti dalla semiologia: per es. Francès osserva come le risposte dei soggetti da lui interrogati siano riconducibili a 'schemi' di ordine spaziale, cinetico, tensivo, dove il termine schema deriva dalle teorie di J. Piaget sulla genesi dell'intelligenza (Francès 1958, pp. 308-37). Imberty a sua volta utilizza il concetto, anche questo formulato da Piaget, di schema 'affettivo' ed estende sistematicamente l'ambito delle sue ricerche alla natura dell'emozionalità musicale (Imberty 1979, p. 75). Siamo di fronte in questo caso a un esempio semplice ma significativo di come il problema della categorizzazione dei 'significati' musicali possa trovare in un apparato concettuale non semiotico efficienti possibilità esplicative: se la semantica musicale può essere intesa come un'operazione di verbalizzazione di 'schemi' psicologici di natura non verbale o preverbale e se il rinvio semiotico ha come suo preciso contenuto appunto questi schemi e non le parole che tentano di descriverli, allora la tradizione linguistica può dimostrarsi molto meno adatta a risolvere il problema che non la tradizione psicologica.

Un esempio del tutto analogo è quello delle indagini sul modo con cui le percezioni musicali vengono 'rappresentate' mentalmente, e in particolare sulle modalità 'sinestesiche' di tale rappresentazione: esistono percezioni luministiche, ponderali, tattili, che lo studio della sinestesia può collegare con particolari aspetti della struttura sonora (Marks 1978; Dogana 1983). Anche qui siamo di fronte a contenuti psicologici che la verbalizzazione può tentare di descrivere, ma che non coincidono affatto con i contenuti verbali studiati normalmente dalla linguistica. Un altro esempio può essere quello delle ricerche sul tipo di pensiero che presiede alle modalità specificamente musicali del rinvio. Nella tradizione linguistica classica il problema non si era mai posto: l'attenzione era tutta assorbita dalle sottili analisi della struttura semantica verbale, e non c'era spazio per gli schemi rappresentativi e le valenze emozionali che invece predominano nei rinvii musicali; per questa ragione il concetto 'linguistico' di 'segno' è stato a volte sostituito in musica da quello 'psicologico' di 'simbolo'. Quest'ultimo termine naturalmente va qui inteso nell'accezione molto specifica con cui lo usano, per es., la tradizione psicanalitica o quella antropologica. In questo caso la parola simbolo si presta molto meglio di segno a spiegare i fenomeni tipici del linguaggio musicale (Baroni 1978) e soprattutto le sue caratteristiche polisemie. A questo punto di vista sembra avvicinarsi anche Nattiez (1987; trad. it. 1989, p. 26), ma probabilmente la questione va affrontata in modo più deciso: non si tratta infatti solo di usare il concetto di simbolo al posto di quello di segno, ma di ipotizzare anche l'esistenza di processi di pensiero radicalmente diversi nei due casi. Si tratta cioè di capire se il pensiero cosiddetto simbolico richieda modalità diverse di rinvio semiotico, e in che senso diverse, rispetto a quelle in atto nel pensiero verbale; lo studio di questo problema è tuttavia solo agli inizi.

Altre conseguenze ancora si possono trarre da questa immissione di concetti e metodi nuovi nel contesto di base della semiologia. Una questione molto discussa è quella della comunicazione musicale: Nattiez per es. critica, non senza dovizia di buoni argomenti, lo schema classico 'emittente-messaggio-ricevente' e, sulla base delle indicazioni del suo maestro Molino, non si limita a contestarlo per quanto riguarda la sola comunicazione musicale, ma lo ritiene inaccettabile per principio: se un segno ha (seguendo Peirce) bisogno di interpretanti per essere compreso e la catena degli interpretanti da mettere in atto non è linguisticamente determinabile perché è illimitata, allora nessun processo poietico è mai rapportabile direttamente a un processo estesico, cioè nessun emittente applica lo stesso codice del ricevente (Nattiez 1987; trad. it. 1989, p. 12).

Tradotta in termini antropologici o sociologici, quest'affermazione si può riesporre affermando che ogni cultura personale, in virtù di quegli atomi di cultura che sono gli interpretanti, risponde allo stesso messaggio in maniere diverse. Ma a questo punto l'antropologia e la sociologia mettono a disposizione dello studioso un apparato di nozioni che può contribuire a dare maggiore concretezza all'impreciso concetto filosofico peirciano di interpretante. I semiologi si lamentano della sua vaghezza, ma nessuno è riuscito a precisarlo restando all'interno della scienza dei linguaggi. Già la sociolinguistica dimostra come esistano contesti comunicativi più rigidi in cui si può parlare di ricezione corretta o scorretta, e altri in cui sono invece legittime interpretazioni multiple. Quando poi la comunicazione tocca i sistemi di valore su cui si basa l'identità personale degli individui o quella collettiva dei gruppi (cfr. Baroni 1993), allora, ma forse solo allora, entra in moto il meccanismo tipico che Peirce segnala e che Molino mette in rilievo: quello dell'interrelazione dialettica fra produttore e ricettore, ciascuno dotato di un diverso repertorio di 'interpretanti'. La psicologia sociale ha studiato questo fenomeno per comprendere per es. i movimenti giovanili degli anni Sessanta (Keniston 1968; Erikson 1968), ma l'ha applicato pure alla comprensione dei gusti musicali (The social psychology of music, 1997) o anche delle disomogenee interpretazioni che i messaggi musicali possono ottenere quando toccano gruppi sociali diversi. A questo punto siamo certamente fuori dal cerchio ristretto della dottrina semiotica, ma in questo contesto più ampio sono disponibili nozioni capaci di rispondere meglio ai quesiti posti dalla semiotica stessa.

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Analisi musicale

di Mario Baroni

Con la locuzione analisi musicale s'intende comunemente lo studio delle strutture di testi o insiemi di testi, definizione che richiede naturalmente qualche chiarimento sul concetto di struttura. Con una definizione più pragmatica che teorica si potrebbe affermare anzitutto che è strutturale tutto ciò che può essere scritto e che di norma viene scritto: in musica, come nel linguaggio verbale, se un'unità sonora corrisponde a una convenzione grafica, ciò vuol dire che tale unità non solo è percettivamente ben distinguibile, ma è anche considerata essenziale dal punto di vista del linguaggio (ciò avviene per es. per i fonemi verbali o per le note musicali) e può essere concettualmente definita. Dunque per struttura s'intende di norma il sistema delle relazioni che esistono fra aspetti del suono concettualmente definibili.

A questo punto ci si può chiedere se l'analisi debba sempre presupporre un testo scritto, una partitura. Di fatto la tradizione analitica è in gran parte legata alla presenza di partiture, ma in tempi recenti è stato discusso anche il problema dell'analisi di musiche senza partitura (Secondo convegno europeo di analisi musicale, 1992). Il primo requisito di base di un'analisi di quest'ultimo genere è tuttavia che siano già stati perfettamente identificati (cioè di fatto concettualizzati e resi implicitamente 'grafizzabili') gli eventi percettivi su cui tale analisi deve basarsi: di tali eventi si deve poter avere, in altri termini, quella che gli psicologi chiamano percezione categoriale. Il secondo requisito è quello della loro memorizzazione, e pone i maggiori problemi. La memoria di un brano, infatti, per quanto esatta, è di solito sequenziale, e non consente la possibilità di spostarsi agevolmente in avanti o all'indietro nel tempo, requisito che è indispensabile per un lavoro di analisi. La riduzione di una sequenza sonora in forma scritta è dunque condizione quasi sempre imprescindibile anche per l'analisi di musiche senza partitura.

Origine e sviluppi dell'analisi musicale

La storia della cosiddetta teoria musicale, dal Medioevo a oggi, è stata sempre legata a pratiche analitiche: i trattati teorici antichi, intesi come guida alla prassi compositiva, e soprattutto agli aspetti che volta per volta ogni epoca considerava particolarmente difficili da mettere a fuoco e problematici da insegnare, spiegavano, descrivevano e analizzavano fenomeni strutturali (Azzaroni 1997). Nella nostra epoca essi continuano a esistere in forma di trattati di armonia, di contrappunto, di strumentazione, o magari anche di uso dell'elettronica e dell'informatica. Tuttavia la tradizione della teoria musicale non coincide esattamente con quella che chiamiamo analisi, termine che, a partire dalla seconda metà del 19° secolo, designa un settore della m. e non un aspetto della didattica compositiva.

I. Bent (1987), nel secondo capitolo del suo libro sull'analisi musicale, esamina con particolare attenzione il passaggio della trattatistica sette-ottocentesca dall'iniziale "ottica compositiva" a quella che egli definisce "ottica analitica" (1990², p.22). Quest'ultima emerge gradualmente a partire dai trattati di H.C. Koch (1782-93) e A. Reicha (1814), fino a quello di A.B. Marx (1837-47), ma soprattutto diventa evidente nello studio di G. Nottebohm (1865) sugli schizzi di Beethoven, che non ha più nulla a che fare con i trattati di composizione, ma adotta decisamente un punto di vista musicologico 'moderno'. D'altra parte la coesistenza delle due ottiche ha continuato a esistere per molti decenni: basti pensare che lo stesso H. Schenker attribuiva ai suoi trattati valenze anche pratiche, per la composizione e per l'esecuzione, e che al contrario A. Schönberg (1911) e P. Hindemith (1937) scrissero trattati di composizione considerati assai rilevanti per la storia dell'analisi.

Nella prima metà del Novecento la pratica analitica ha implicitamente come destinatari soprattutto gli storici della musica e anche gli amatori di musica che sentono il bisogno di entrare più a fondo nelle pieghe interne del discorso musicale, quasi nel tentativo di carpirne i segreti. L'auspicio di G. Adler, che nel 1885 aveva proposto, nel campo dell'analisi, collaborazioni fra la m. storica e quella sistematica, sembra così verificarsi appieno. Fra i classici dell'analisi di quegli anni si possono ricordare, a mo' di esempio, i contributi sull'analisi dello stile di Adler stesso (1911), gli studi beethoveniani di H. Riemann (1918), di H. Schenker (1925), di D.F. Tovey (1931), quelli wagneriani di A. Lorenz (1924-33) o quello su Palestrina di K. Jeppesen (1923). Il saggio di E. Kurth (1917) è in qualche modo un'eccezione poiché coniuga problemi di analisi storica con componenti teoriche ispirate dalla psicologia della Gestalt e con motivazioni estetiche nate dalla filosofia di W. Dilthey e dall'ermeneutica musicale di Kretzschmar (Rothfarb 1988).

A partire dagli anni Cinquanta, probabilmente in correlazione con le tendenze 'scientiste' che per più di un ventennio caratterizzarono anche l'estetica delle avanguardie, l'analisi musicale è stata profondamente influenzata da linguistica, semiotica, psicologia cognitiva, nonché dalle teorie dell'informazione, dell'intelligenza artificiale e da altre dottrine provenienti dal campo delle scienze esatte. Un'immissione di stimoli di questo tipo provocò non solo un distacco ormai definitivo dagli antichi modelli della didattica compositiva, ma anche un'accentuata tendenza della disciplina a cercarsi uno spazio autonomo, a diventare un settore musicologico specifico.

Così sono nate riviste specializzate (in Gran Bretagna Music analysis, 1982, in Francia Analyse musicale, 1985, ora Musurgia, in Italia Analisi, 1990 e il Bollettino del Gruppo di Analisi e Teoria Musicale-GATM, 1994), si sono organizzati convegni (per es. i convegni europei tenuti a Colmar nel 1989, a Trento nel 1991, a Montpellier nel 1995 e a Rotterdam nel 1999), sono sorte associazioni, si sono stretti legami più organici fra la tradizione dell'analisi in senso stretto e quella della Music theory di tradizione statunitense. Questo processo di maturazione non si è sviluppato ovunque in forme omogenee: le tradizioni musicologiche di molti paesi (per es. la Germania) hanno spesso opposto resistenza. In Italia la fragilità delle tradizioni analitiche ha invece giocato paradossalmente a favore della massima apertura. Le iniziative di traduzione sono state relativamente numerose: dal tedesco i saggi di H.H. Eggebrecht (1977 e 1979), dal francese quelli di J.-J. Nattiez (1987), M. Imberty (1979, 1981), dall'inglese di I. Bent (1987), F. Salzer-C. Schachter (1969), N.J. Cook (1987), L.B. Meyer (1956), Ph. Tagg (1994); il Bollettino del GATM (dal 1999 Bollettino di analisi e teoria musicale) pubblica annualmente aggiornamenti bibliografici su quanto avviene nel mondo in questo settore.

Il modello trainante in campo internazionale è stato sicuramente negli ultimi decenni quello anglosassone. L'eredità delle vecchie contrapposizioni fra m. storica e m. sistematica ha esercitato a lungo il suo peso anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma il graduale attenuarsi di estremismi ideologici, l'universale diffusione dell'analisi schenkeriana nelle università e negli istituti di formazione musicale superiore, la sua utilizzazione più duttile e la sua capacità di adattarsi anche a fini d'interpretazione stilistica, hanno orientato la m. anglosassone verso la ricostruzione di una sorta di unità integrata del sapere musicologico (Music theory and exploration of the past, 1993) vicina nelle intenzioni a quella dei modelli tedeschi della prima metà del 20° secolo, ma assai più esperta e sottile nelle applicazioni del metodo.

Metodi codificati

Le tendenze or ora menzionate hanno più volte tentato nella seconda metà del 20° secolo di proporre metodi d'analisi che potessero essere detti scientifici, sia per l'esplicitazione chiara della loro strumentazione operativa, sia per la dimostrata capacità di ottenere risultati significativi, sia per la loro ripetibilità, cioè per la possibilità di essere applicati allo stesso modo e con gli stessi risultati da studiosi diversi. Proprio per queste ragioni ciascuno di tali metodi possedeva anche l'ambizione più o meno palese di imporsi come metodo privilegiato, cioè, se non come chiave di accesso universale a tutti i problemi dell'analisi, per lo meno come strumento dotato della possibilità di risolverne il maggior numero.

Il più diffuso fra questi metodi analitici codificati è certamente quello proposto da H. Schenker (1868-1935) nei suoi ultimi lavori e in particolare in Der freie Satz (1935). La valorizzazione di Schenker è dovuta soprattutto alla m. americana (Forte 1959 era stato preceduto da lavori importanti come quelli di Oster 1949 o di Salzer 1952, e fu seguito da quelli di Salzer e Schachter 1969, e da una quantità di discussioni sulle più importanti riviste musicologiche, oltre che dalla traduzione di quasi tutti i testi originali dell'analista viennese), ma ha avuto ripercussioni recenti anche in Italia: per es. la traduzione del testo citato di Salzer e Schachter o la pubblicazione del volume di Drabkin, Pasticci e Pozzi (1995). Il punto di partenza delle intuizioni di Schenker è molto suggestivo: si tratta della scoperta dei livelli gerarchici dell'organizzazione strutturale della musica. L'analisi cosiddetta riduzionistica, capace cioè di individuare gli eventi dominanti di un brano e quelli via via gerarchicamente subordinati, è strumento operativo di straordinaria portata, probabilmente applicabile non solo alla musica classica occidentale, anche se il suo autore lo ideò esclusivamente per questa.

Sull'onda della rivalutazione di Schenker altri testi di quell'epoca vennero riletti nell'intento di rimetterne in circolazione le proposte. La teoria di H. Riemann (1849-1919) si presentava meno rivoluzionaria, soprattutto perché molte delle sue idee erano già sotterraneamente entrate nel sapere musicale diffuso; tuttavia la rilettura più attenta dei suoi studi sulla funzionalità armonica ha prodotto anche a molti anni di distanza conseguenze feconde (per es. in Harrison 1994), e quella delle sue tesi sulla fraseologia musicale è stata ripresa anche in campo semiologico (per es. da Lidov 1975). La codificazione grafica delle sue analisi delle Sonate di Beethoven ha avuto anche qualche parziale traduzione in italiano (Bent 1987; Carrozzo, D'Ambrosio 1996)

Un autore di lingua tedesca della prima metà del 20° secolo alle cui proposte metodologiche si è dato qualche credito, è R.R. Réti (1885-1957), le cui matrici culturali sono tuttavia diverse da quelle tipiche della m. coeva. Réti era stato allievo di Schönberg di cui è ben noto l'apprezzamento per l'arte brahmsiana dell'elaborazione tematica. Non è dunque un caso che oggetto specifico delle sue proposte di metodo analitico (Réti 1951) sia appunto l'osservazione delle infinite possibilità di metamorfosi di una cellula motivica.

A. Forte (n. 1926), oltre che fortunato divulgatore delle teorie tonali di Schenker (Forte, Gilbert 1982), è anche autore della proposta di un metodo di analisi della musica post-tonale. Tale metodo si basa sull'osservazione che né il concetto tradizionale di accordo né quello schönberghiano di serie sono in grado di esaurire la classificazione delle nuove 'armonie' presenti in gran parte delle musiche del Novecento (Forte 1973; per un'introduzione in lingua italiana cfr. Pasticci 1995). La teoria matematica degli insiemi (set-theory) si presta in questo caso a fornire strumenti operativi capaci di catalogare con una quantità finita di modelli numerici un numero infinito di aggregazioni orizzontali o verticali, comprese quelle di musiche basate su particolari scale (per es. 'ottatoniche') non previste dai modelli di scala a 7 o 12 note. Un altro metodo, scaturito in contesto semiologico, è quello dell'analisi cosiddetta paradigmatica proposta da N. Ruwet (1966) e sviluppata poi da Nattiez (1973). Il metodo, quantunque concepito entro i limiti dell'analisi melodica, si presta a cogliere un aspetto assai generale di qualsiasi tipo di musica, ossia la presenza di ripetizioni. La forma grafica non solo indica l'ordine di successione di ripetizioni e di parti non ripetute, ma cataloga accuratamente le varianti presenti in ciascuna ripetizione. Ad altri metodi di analisi della melodia è dedicato il ricco contributo di M. De Natale (1988).

Ancora riferito alla melodia, e più specificamente alla melodia cantata, è il metodo analitico proposto da M. Baroni e C. Jacoboni negli anni Settanta per l'analisi di frasi melodiche di corali luterani (1976, 1983) e successivamente applicata da Baroni, Dalmonte, Jacoboni (1999) a un ampio repertorio di melodie che vanno dal canto gregoriano ad alcuni esempi di Schönberg. L'idea di fondo è che ogni frase si sviluppi da un nucleo 'profondo' monodirezionale per gradi congiunti a una versione completa ottenuta mediante l'applicazione regolata di un numero limitato di piccole trasformazioni o 'figure' melodiche.

Altri metodi codificati toccano altri tipi di problemi: F. Lerdahl e R. Jackendoff (1983) ricostruiscono esplicitamente le regole inconscie di cui qualsiasi ascoltatore esperto di musica tonale si serve per strutturare ciò che ascolta: regole di raggruppamento, regole metriche, di selezione gerarchica degli eventi, di tensione e distensione, costituiscono un patrimonio acquisito di procedimenti mentali che riescono a conferire ordine all'enorme quantità di informazioni contenuta in un brano musicale. I due autori non indicano mai regole tassative, ma procedimenti che essi chiamano di preferenza, così risolvendo il problema del delicato rapporto fra regola analitica e relativa libertà nell'interpretazione strutturale. La teoria di Lerdahl e Jackendoff non si propone esplicitamente come metodo di analisi; ciò non toglie, tuttavia, che essa sia stata anche utilizzata come efficace strumento analitico.

Un problema molto generale aveva affrontato anche L.B. Meyer (n. 1918) fin dagli anni Cinquanta, quando si chiedeva come funzionasse la musica dal punto di vista psicologico: la sua risposta è che esistono in musica eventi che 'implicano' (o suscitano l'attesa di) altri eventi successivi. Questi ultimi possono realizzare le implicazioni (o soddisfare le attese) precedenti, oppure negarle, ritardarle, dilazionarle. Anche Meyer lascia aperti i propri procedimenti analitici, anzi teorizza che l'analisi è più un'arte che una scienza (Meyer 1956, 1973). E. Narmour si propone invece l'arduo compito di formalizzarli (1990, 1992) e sostiene che (per lo meno nel caso della melodia) le regole di implicazione-realizzazione corrispondono a procedimenti mentali universali, cioè derivanti da principi psicologici di Gestalt e comuni a tutte le culture del mondo (Krumhansl 1995 ha tentato una verifica di questi principi).

Ciascuna di queste proposte riguarda aspetti particolari della struttura musicale, ma nessuna esaurisce né, a dire il vero (tranne forse nei casi più antichi di Riemann e di Schenker), ha l'ambizione di esaurire la complessità globale di un testo o di un insieme di testi, di proporre cioè un metodo analitico onnicomprensivo e applicabile a qualsiasi tipo di musica: il metodo analitico per eccellenza. È questo invece il compito che si propone esplicitamente J. La Rue (1970), il cui lavoro vuole offrire a studiosi e studenti uno schema così esauriente da poter essere applicato a qualsiasi musica occidentale, a partire da una griglia che ne prende in considerazione le categorie strutturali fondamentali: ritmo, armonia, forma, melodia ecc. Ma mentre la griglia è effettivamente adattabile a ogni tipo di musica, i contenuti specifici dell'analisi, al di là di alcune regole generali, sono in buona parte lasciati all'intuizione individuale: così analisi diverse possono ricostruire diversamente le strutture ritmiche o melodiche o formali dello stesso brano perché le regole su cui tali analisi si basano non sono sempre esaurientemente esplicitate. In altri termini manca a questo metodo il carattere della 'ripetibilità'.

Un settore ben codificato degli studi analitici è infine quello che si riferisce all'analisi dell'esecuzione musicale. Anche qui, come in tutti gli altri casi considerati, si sono individuate strutture codificabili in forma verbale, grafica e qui anche numerica. I principi di fondo di queste analisi sono riconducibili allo studio delle 'deviazioni espressive' dell'esecuzione rispetto alle prescrizioni della notazione. J. Sundberg e collaboratori hanno messo a fuoco anche un preciso sistema di regole che correla tali deviazioni espressive a particolari e ben definite caratteristiche della struttura musicale (Battel 1995).

Concludendo, si può dunque affermare che il grande merito dei metodi codificati non è quello di aver risolto una volta per tutte il problema di come analizzare un brano di musica, ma piuttosto quello di aver posto concretamente il problema scientifico dell'esplicitazione e formalizzazione delle procedure analitiche. Un'assai utile discussione critica sull'argomento con serrate comparazioni fra i diversi tipi di analisi è disponibile anche in italiano (Cook 1987).

La molteplicità e la scientificità delle analisi

Le esperienze di un secolo hanno messo gradualmente in luce che nessun metodo analitico, qualunque sia il suo livello di generalità, di coerenza interna, di esplicitazione delle procedure, è in grado di imporsi come strumento universalmente utilizzabile. L'efficacia di un metodo dipende infatti in primo luogo dalle strutture che esso è in grado di decifrare: non esiste, o comunque non è stato ancora messo a punto, un metodo indifferentemente applicabile a un brano di jazz, a un rāga e a una sinfonia di Mozart; in secondo luogo sono sempre possibili innumerevoli analisi dello stesso brano o repertorio (Nattiez 1992). Va sottolineato infine che i procedimenti dell'analisi dipendono dagli scopi che essa si prefigge: si può analizzare musica per eseguirla, o per definirne lo stile, o per interpretarne gli aspetti espressivi, o per individuare particolari problemi compositivi, o per verificare il metodo analitico stesso (quasi tutti i metodi codificati hanno bisogno di analisi che ne saggino la validità e le procedure). In ciascun caso sarà necessario mettere a punto procedimenti specifici, magari anche ispirati a metodi codificati, ma è molto difficile immaginare un metodo sempre pregiudizialmente valido.

Sembra dunque gradualmente relativizzarsi il dogmatismo, più o meno dichiarato, che spesso ha caratterizzato i seguaci di alcune scuole di analisi (vedi, per es., alcuni aspetti, ora superati, dello schenkerismo), per i quali esisteva un solo modo di analizzare efficacemente un testo musicale. Ciò però non significa che qualsiasi analisi sia legittima o accettabile: l'attendibilità di un'analisi, se non può essere automaticamente offerta dall'adozione di un metodo precostituito, richiede condizioni che vanno precisate.

Prima fra queste è l'assunto che la musica non è un oggetto naturale ma un prodotto dell'uomo. Le sue strutture sono dotate di implicita intenzionalità (questo è ciò che divide per tradizione filosofica le Geisteswissenschaften dalle Naturwissenschaften), l'oggetto di studio non è neutro. Se cambiano stili, generi, funzioni, cambiano anche le strutture: dunque ogni analisi presuppone una conoscenza, anche semplicemente implicita, del senso delle strutture che analizza. Come teorizza G. Stefani (1976), diventa essenziale nell'attività analitica il concetto di pertinenza: come in linguistica un fonema non è definito da tutti i suoi possibili aspetti fisici ma solo da quelli che servono a distinguerlo, nel sistema fonologico a cui appartiene, dagli altri fonemi, così in musica sono analizzabili solo quei tratti strutturali che vengono esplicitamente o implicitamente considerati pertinenti all'interno di un determinato sistema o stile compositivo.

Seconda condizione: un'analisi è attendibile (o ha caratteri di scientificità) nella misura in cui esplicita le proprie ipotesi teoriche, i propri obiettivi e i propri metodi, e commisura efficacemente i metodi agli obiettivi. Questo principio generale, nato in ambiente strutturalista (v. sopra: Semiologia musicale), risponde a presupposti ampiamente presenti in tutta l'epistemologia scientifica. Il lavoro di esplicitazione, tuttavia, non sempre è stato sistematicamente applicato nella prassi analitica. Si può dire però che si avvicinano di più a questa meta i metodi analitici che abbiamo definito codificati, nei quali per lo meno lo sforzo di autocontrollo è più evidente e approfondito.

Ma a questo proposito si deve anche aggiungere che nella concreta pratica musicologica un'analisi non è sempre considerata un lavoro da svolgere in termini rigorosamente 'scientifici'. Non sempre infatti è ritenuta necessaria la fedeltà a principi di esplicitazione o di esaurienza, e d'altra parte un altro principio, quello della validazione, dovrebbe essere messo in atto per sanzionare la scientificità di un'analisi: ma su questo abbiamo ben pochi casi noti (Baroni, Dalmonte, Jacoboni 1999). La ragione di tutto ciò è che l'adozione di criteri 'scientifici' tende comunque ad appesantire il discorso, a renderlo meno fluido e leggibile; dunque l'esigenza di scientificità viene spesso sacrificata, per ragioni pratiche, a più intuitivi e immediati principi di persuasività. In altri termini, è consuetudine fare appello implicitamente alla pertinenza dell'analisi eseguita e alla coerenza con i suoi obiettivi, anche se l'una e l'altra non vengono poi dimostrate, verificate o esplicitate.

Queste circostanze si giustificano se si pensa che l'analisi non è un esercizio fine a se stesso: nell'attività musicologica essa è sempre funzionale ad altro, è sempre un passaggio intermedio verso una finalità successiva; come abbiamo già osservato, essa serve per es. a descrivere nel dettaglio un certo fenomeno espressivo, o a mettere in evidenza l'abilità tecnica di un compositore, o particolari relazioni sintattiche interne del brano, o anche, al limite, a dimostrare che un metodo analitico 'funziona'. Ciò che rende significativa la pratica analitica rispetto ai suoi obiettivi ulteriori non è tanto la sua 'scientificità' quanto la sua tangibilità, ossia il fatto di basarsi su strutture percepibili e definibili, cioè su esperienze non puramente soggettive, ma condivisibili e discutibili intersoggettivamente.

Analisi e grammatica

Al di là del relativismo appena discusso, e delle attuali incertezze sullo statuto scientifico dell'analisi, occorre tuttavia ribadire che tutte le analisi hanno uno scopo comune: quello di descrivere strutture musicali. Conviene dunque ritornare ancora sul concetto di struttura e precisarne ulteriori aspetti, per chiarire meglio i contenuti e gli obiettivi dell'odierna pratica analitica.

Abbiamo già osservato come le strutture musicali non possano essere analizzate con un metodo unico e onnicomprensivo poiché cambiano, anche abbastanza radicalmente, a seconda delle epoche e delle culture; aggiungeremo ora che le strutture cambiano perché ogni epoca e ogni cultura attribuisce alla sua musica funzioni e caratteri espressivi diversi: i mutamenti strutturali hanno motivazioni culturali e sociali. Ma, al di là dei mutamenti, esistono anche costanze strutturali, ossia leggi comuni a qualsiasi epoca e a qualsiasi cultura: ci riferiamo in particolare alle leggi di ascolto, che derivano dalla natura stessa dell'orecchio e del cervello umano e che ogni cultura deve rispettare e di fatto rispetta.

In sintesi dunque diremo che un sistema strutturale deve sempre obbedire a due tipi interagenti di motivazioni: da un lato a motivazioni derivanti dagli usi culturali della musica, dall'altro a motivazioni che potremmo chiamare di buon ascolto, derivanti da leggi psicologiche di percezione e memorizzazione. Le motivazioni culturali tendono a cambiare il sistema, quelle psicologiche tendono a resistere ai mutamenti. Quando parliamo di sistema ci riferiamo al fenomeno secondo il quale musiche diverse appartenenti a una determinata area, epoca, cultura, o anche musiche prodotte da un determinato autore, hanno in comune tratti strutturali simili che si ripetono costantemente all'interno del repertorio e vengono immediatamente e intuitivamente riconosciuti da chi li ascolta: di norma si parla in questo caso di tratti di stile e di riconoscimento di stile. È bene precisare che con il termine stile non si indicano di solito solo aspetti esclusivamente strutturali (Baroni 1996); tuttavia è lecito affermare che ogni stile si basa su un particolare sistema di strutture, intuitivamente riconoscibile da chi ne abbia sufficiente esperienza.

Esistono terminologie, utili a designare i fenomeni appena descritti, che la m. ha dedotto dalla linguistica: si usa parlare di competenza stilistica della musica (così come si parla di competenza linguistica) per indicare un sapere intuitivo, non necessariamente esplicito, riferito alla capacità di riconoscere o produrre stili o sistemi strutturali. Si parla di grammatica (Baroni, Dalmonte, Jacoboni 1999) per indicare le regole esplicite che vengono riconosciute come proprie di un determinato stile o sistema strutturale (così come in linguistica si parla di grammatica per indicare appunto la conoscenza esplicita delle regole della lingua). Il concetto di struttura, di cui si è parlato all'inizio, è dunque ulteriormente chiarito: le strutture musicali sono sempre organizzate in un sistema di stile che ogni ascoltatore esperto intuitivamente riconosce e che un insieme di regole grammaticali è in grado di descrivere. Inoltre le regole di una grammatica sono giustificate da motivazioni funzionali ed espressive di natura culturale e al tempo stesso da motivazioni di buon ascolto di natura psicologica.

Su tutti questi punti si è sviluppato negli ultimi anni un intenso lavoro di ricerca che sta guidando l'analisi verso orientamenti nuovi; tuttavia la situazione è ancora fluida e anche la terminologia non è ben assestata né è sempre coerente e condivisa da tutti. Accenneremo quindi brevemente ai problemi indicati.

Secondo Narmour (1990), una musica è sempre frutto di una interrelazione fra due principi: esistono aspetti strutturali dominati da leggi psicologiche universali (egli privilegia in questo caso le leggi della Gestalt) ed esistono altri aspetti che obbediscono a regole transeunti perché di natura culturale. Ogni stile o genere musicale nasce dall'adattamento dialettico di queste due esigenze diverse. L'idea che le strutture musicali debbano obbedire a leggi psicologiche non è solo di Narmour: essa è oggi ampiamente diffusa e sta producendo una quantità imponente di ricerche sulla percezione di suoni singoli o di sequenze sonore, sulla strutturazione mentale dei percetti, sui fenomeni della memorizzazione, cioè su tutto il campo delle attività cognitive (si veda in proposito Sloboda 1985, la rivista Music perception che dal 1983 è il più importante strumento di ricerca nel campo, e l'attività di una società europea - European Society for the Cognitive Sciences of Music, ESCOM - che organizza congressi ogni due anni e che dal 1997 pubblica la rivista Musicae scientiae).

L'esigenza di produrre musiche ben percepibili e ben memorizzabili ha sempre influito sulle scelte dei compositori e probabilmente è stata determinante in molti casi per la fortuna delle musiche composte. Sul tema del rapporto fra le regole di composizione e i risultati dell'ascolto è stato svolto anche un lavoro di tipo strettamente analitico: per es. N. Cook (1990) sostiene che molti dei punti fermi di analisi anche tradizionali (fra questi, il principio di unità e coerenza tonale dei brani classici) riguardano aspetti strutturali importanti per il compositore, ma difficilmente percepibili per la stragrande maggioranza degli ascoltatori. Questo richiamo ai fenomeni dell'ascolto è tanto più rilevante per le musiche del Novecento (cfr., per es., le indagini sulla percezione di strutture seriali in Francès 1958). In breve: il rapporto dialettico fra eventi percepibili all'ascolto (eventi 'salienti' della struttura) ed eventi concepiti al momento della composizione, ma non necessariamente percepibili (eventi 'latenti'), sta diventando un tema importante nel campo dell'analisi.

Anche l'analisi finalizzata a individuare strutture portatrici di senso e di espressività ha suscitato un problema particolarmente dibattuto in anni recenti: quello del rapporto fra la pratica analitica (ricerca sulle strutture) e quella ermeneutica (ricerca sul senso). La tradizione dell'ermeneutica tedesca, a partire da H.A.F. Kretzschmar fino ad A. Schering o a H. Danuser, la tradizione del criticism americano o quella della critica musicale italiana, dall'epoca crociana fino agli studi di M. Mila e oltre, ha sempre teso a descrivere le strutture, al tempo stesso interpretandole in chiave estetica. Le esperienze del secondo cinquantennio del 20° secolo hanno gradualmente messo in luce come analisi ed ermeneutica possano tuttavia non coincidere (cfr. Azzaroni 1997). Su questa distinzione la m. mantiene tuttora prospettive incerte e teorie ambivalenti, tuttavia gli studi semiotici e strutturalistici degli anni Settanta (v. sopra: Semiologia musicale) hanno avuto il merito di segnalare il problema. Attualmente esso è oggetto di accese discussioni e prese di posizione destinate probabilmente a svilupparsi nei prossimi anni.

Infine, l'analisi si accinge oggi ad affrontare un ulteriore compito: quello di identificare le stratificazioni (più o meno stabili o transeunti) esistenti fra livelli diversi di uno stesso stile musicale: in alcune situazioni culturali (soprattutto nella storia musicale occidentale) l'instabilità è molto accentuata, in altre culture è meno presente o ha ritmi di sviluppo più lunghi. Se dunque con il termine grammatica si può intendere la totalità delle regole che organizzano le strutture di un determinato testo o insieme di testi, si possono anche distinguere le loro diverse stratificazioni cronologiche sulla base della maggiore o minore stabilità dei fenomeni strutturali sottesi. Esistono infatti livelli di grammaticalità ben stabilizzati e più antichi, già passati attraverso processi di accettazione o legittimazione sociale, e livelli di grammaticalità meno stabili e più recenti, o addirittura in qualche caso sperimentali, la cui accettazione collettiva è ancora in fase di discussione. Non tutte le innovazioni del linguaggio musicale sono destinate a venire legittimate e stabilizzate: ciò dipende dalla loro rispondenza a principi di buon ascolto e di efficace espressività. Non tutte comunque durano per secoli (come è avvenuto in Occidente per certe regole metriche o armoniche) e non tutte sono destinate a comparire in culture diverse (come è avvenuto, per es., per le strutture della melodia).

Un'analisi oggi può certamente e legittimamente continuare a porsi il compito di descrivere, in forme più o meno sistematiche, frammenti di grammatica utili a dimostrare qualche tesi, ma può anche forse aspirare a un obiettivo più ampio e scientifico (intendendosi il termine questa volta nella sua accezione più propria) quando si ponga il compito di ricostruire in maniera esauriente i fenomeni grammaticali presenti in una determinata cultura musicale, di individuare le loro motivazioni espressive e cognitive, di descrivere le loro complesse stratificazioni storiche e i loro meccanismi di trasformazione. Naturalmente questo è un compito immenso, del tutto ipotetico e non ancora concretamente iniziato, se non appunto in forme frammentarie, ma il concetto di grammatica, inteso come descrizione esplicita dei sistemi strutturali, permette ora per lo meno di immaginarlo.

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Etnomusicologia

di Giovanni Giuriati

L'etnomusicologia è stata recentemente definita "una branca della musicologia che studia la musica nel suo contesto culturale" (Myers 1992, p. 3). Questa disciplina studia infatti ogni espressione musicale in una prospettiva interculturale e allo stesso tempo indaga gli specifici rapporti che intercorrono tra una determinata cultura e le sue formalizzazioni sonore: è una definizione molto ampia, che sintetizza la posizione e la doppia anima dell'etnomusicologia nel quadro delle scienze umane, evidenziando i legami che essa mantiene con le discipline musicologiche da un lato e con quelle antropologiche dall'altro.

L'etnomusicologia, in quanto studio di tradizioni musicali diverse da quella euroculta, è nata, con le altre scienze umane, nel clima positivistico della fine del 19° secolo. Di qui l'interesse per la musica in quanto universale umano e la vocazione comparativa che è rimasta una costante di questa disciplina sin dai suoi inizi, quando G. Adler (1885) collocò la Musikologie, il cui compito era di svolgere "analisi e comparazioni a fini etnografici", nel settore sistematico che, assieme a quello storico, formava la nascente Musikwissenschaft.

Nei primi decenni del 20° secolo la musicologia comparata - era questo il nome dell'etnomusicologia in una prima fase - ha studiato con una metodologia evoluzionistica tratti musicali quali ritmo, scala, strumenti musicali, comparandoli e ricercandone costanti universali. C. Stumpf, K. Sachs ed E.M. von Hornbostel, esponenti principali di questa scuola, detta di Berlino, si riunirono attorno ai Phonogramm-Archiv fondati nel 1902 in quella città.

Il termine etnomusicologia è stato usato negli anni Cinquanta per la prima volta dall'olandese J. Kunst in un piccolo volume nel quale si intendevano delineare i caratteri della disciplina (Kunst 1950). Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale è stata dedicata maggiore attenzione alla ricerca sul campo, quasi completamente trascurata nella fase precedente. Piuttosto che la comparazione, veniva privilegiato l'approfondimento monografico di specifiche tradizioni musicali. Esemplare in questo senso è lo studio dello stesso Kunst sulla musica giavanese (1949).

All'inizio negli anni Sessanta compare la denominazione antropologia della musica. Nelle intenzioni del suo principale esponente, lo statunitense A. Merriam, essa ha come oggetto principale di indagine lo studio della musica nella cultura e, più che le formalizzazioni sonore in quanto tali, lo studio dei comportamenti musicali. Negli anni Settanta e Ottanta questa fase degli studi è proseguita radicalizzandosi con un indirizzo nel quale le teorie e le concettualizzazioni proprie delle culture musicali studiate (etnoteorie) venivano considerate come le uniche valide per descrivere musiche diverse da quella occidentale (Zemp 1971; Feld 1982).

Più in generale, a partire dagli anni Sessanta si è prodotta una distinzione di enfasi all'interno della disciplina. Alcuni studiosi ne hanno sottolineato il carattere antropologico: per Merriam l'etnomusicologia è "lo studio della musica nella cultura" (1964; trad. it. 1983, p. 24), e per Helser "la scienza ermeneutica del comportamento musicale umano" (cit. in Merriam 1977, p. 204). Per altri studiosi è il dato musicale che rimane campo di interesse centrale della disciplina: M. Hood (1969², p. 298) afferma che l'etnomusicologia è "lo studio di qualsiasi musica non solo in quanto tale, ma anche in rapporto con il suo contesto culturale", mentre Ch. Seeger (1970, p. 179) sostiene che la (etno)musicologia studia "la musica totale dell'uomo". La distinzione si rispecchia del resto anche a livello accademico nella presenza dell'etnomusicologia a volte in dipartimenti universitari di musica, altre in dipartimenti di folklore e antropologia. Questo dualismo è avvertito più negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone che nel resto dell'Europa dove, soprattutto nei paesi dell'Est, sotto la spinta di B. Bartók e C. Brăiloiu, in Francia (A. Schaeffner, G. Rouget) e in Italia (D. Carpitella, R. Leydi), sono state affrontate questioni diverse. In Italia, per es., sono stati privilegiati lo studio del folklore musicale nazionale, il lavoro di ricerca in équipe, la documentazione audiovisiva.

Al di là delle definizioni, l'etnomusicologia è caratterizzata da un campo di interesse che comprende lo studio delle "forme e comportamenti musicali di tradizione orale" (Giannattasio 1992, p. 19). È indubbio che l'etnomusicologia si sia occupata, fin dai suoi inizi, delle musiche delle popolazioni di interesse etnologico, delle grandi tradizioni d'arte dell'Oriente e del folklore musicale nelle società occidentali. Queste tradizioni musicali, il cui elemento comune è l'oralità, sono state e rimangono l'oggetto di studio principale dell'etnomusicologo. La musica colta euroamericana o la musica di consumo diffusa dai mezzi di comunicazione di massa (popular music) sono state studiate dall'etnomusicologia solo marginalmente. Negli ultimi decenni, sotto la spinta delle enormi trasformazioni sociali e culturali a livello planetario, i fenomeni di sincretismo, acculturazione, ibridazione delle tradizioni musicali sono sempre più frequenti e si rivelano un interessante e fecondo campo di studi per l'etnomusicologo che intenda documentare le trasformazioni che intervengono tanto nei repertori che nelle funzioni della musica in una data cultura (v. musica: Sincretismi e contaminazioni, in questa Appendice). In particolare, la recente diffusione di elementi 'etnici' e folklorici nella musica colta euroamericana e nella popular music (che hanno dato origine alla world music) spinge l'etnomusicologia a interrogarsi su come e perché tali processi avvengano, facendo sempre più propria l'affermazione di J. Blacking che "tutta la musica è musica popolare, nel senso che non può essere trasmessa o avere un significato al di fuori dei rapporti sociali" (Blacking 1973; trad. it. 1986, p. 24). L'etnomusicologia ha affrontato anche la questione della relativizzazione dello stesso concetto di musica, tutt'altro che universale. Esso, al contrario, è determinato dalle "diverse concezioni che nelle società sono alla base della produzione di 'suono organizzato'" (Giannattasio 1992, p. 89).

Aspetto metodologico specifico è la ricerca sul campo. La raccolta sul terreno di documenti sonori e di dati sul contesto culturale nel quale una determinata musica è eseguita (usi e funzioni, lessico, teorie, simbologie, struttura sociale, cultura materiale, legami con altre forme espressive) caratterizza l'etnomusicologia nell'ambito delle discipline musicologiche. Tratto distintivo è l'uso nella ricerca dei mezzi di riproduzione sonora e audiovisiva. Significativo è il fatto che la nascita dell'etnomusicologia venga fatta risalire, tra l'altro, all'invenzione del fonografo da parte di Th.A. Edison nel 1877. Una delle attività dell'etnomusicologo consiste proprio nel registrare e conservare la memoria sonora delle musiche da lui studiate in archivi e centri di documentazione. La stessa diffusione dei risultati delle ricerche avviene non solo attraverso pubblicazioni a stampa, ma anche mediante supporti sonori e audiovisivi. In tempi recenti la presenza di archivi nei quali sono depositate registrazioni che coprono ormai un arco di tempo vicino ai cento anni ha consentito di svolgere ricerche e studi diacronici basati sull'analisi dei documenti sonori (v. beni culturali: Beni musicali, in questa Appendice).

Dalla trasmissione orale deriva anche un altro aspetto specifico dell'indagine etnomusicologica: la trascrizione, vale a dire la notazione delle musiche registrate, su pentagramma o con altri sistemi, a fini analitici. In questo compito l'etnomusicologo è oggi coadiuvato anche dalle nuove tecnologie informatiche (v. informatica musicale, in questa Appendice). Peculiari di un approccio etnomusicologico sono inoltre l'attenzione rivolta allo stretto legame che intercorre tra un prodotto sonoro e il sistema culturale e sociale che lo produce, e l'attribuzione di valore a tutte le musiche di una determinata società (o periodo storico) in quanto espressione di una cultura.

In tempi recenti l'etnomusicologia ha instaurato rapporti sempre più stretti con la m., a partire dal superamento della duplice dicotomia colto/popolare, oralità/scrittura. Sempre più spesso si verificano convergenze di metodo per cui, per es., la m. impiega metodi di analisi propri dello studio di tradizioni orali per meglio comprendere periodi della musica antica nei quali l'oralità era largamente prevalente. L'etnomusicologia, dal suo canto, va assumendo sempre più una dimensione storica nei propri metodi di ricerca mutuando, per es., metodologie d'indagine proprie della m. storica.

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Estetica musicale

di Antonio Serravezza

La tradizione estetico-musicale si presenta come un insieme di riflessioni miranti a definire la natura della musica in rapporto ai valori artistici di cui è portatrice. Grazie a tali valori essa è assimilabile ad altri oggetti, come i prodotti delle arti visive, con i quali presenta un'omogeneità nella costituzione assiologica pur non avendo nulla in comune nella costituzione materiale. I valori di volta in volta focalizzati - la bella forma, l'originalità, il realismo espressivo o l'evanescenza del sogno, la raffinatezza intellettuale - nel loro insieme compongono un quadro variegato e con una forte conflittualità interna, dal momento che aspirano a rappresentare, in competizione tra loro, l'arte dei suoni nel suo aspetto preminente o esclusivo.

Non è un caso che l'imponente corpus in cui la riflessione estetica si è sedimentata sia costituito in buona misura da documenti di critica e poetica, vale a dire da testi in cui è scoperta una vocazione militante. Né è un caso che i primi significativi sviluppi si riscontrino nella saggistica settecentesca, in concomitanza con la nascita dei periodici di critica musicale, con l'accendersi di querelles relative al gusto (specie in riferimento al melodramma) e con la piena partecipazione della cultura musicale al confronto di idee nell'ambito dell'Illuminismo (con J.-J. Rousseau, D. Diderot e J.-B.d'Alembert). Quando, con la fine del secolo, e ancor più con i primi decenni dell'Ottocento, la musica diverrà oggetto di interesse da parte della grande filosofia sistematica (I. Kant, F.W.J. Schelling, G.W.F. Hegel, A. Schopenhauer), gli spunti rivendicativi e conflittuali appariranno stemperati nell'astrattezza della costruzione teorica, e tuttavia in molti casi rimarranno avvertibili: si pensi al grande capitolo sulla musica nella Ästhetik di Hegel, ove traspare, accanto a non pochi riferimenti alla vita musicale del tempo, la diffidenza dell'autore per la musica strumentale 'pura', quella stessa promossa dalla Romantik a vertice e modello dell'intera realtà musicale. Quando non ispirato alla competizione tra generi e indirizzi stilistici, il pensiero estetico si volge alla collocazione della musica all'interno del sistema delle arti o alla determinazione dei suoi poteri rispetto alla sfera del linguaggio verbale. Il problema è aperto alle soluzioni più diverse, dalla scelta di Kant di attribuirle un rango estetico inferiore, all'esaltazione romantica della sua ineffabilità, fino alla missione metafisica assegnatale da Schopenhauer in quanto unica arte rivelatrice della realtà.

Per l'intero Ottocento il dibattito è alimentato da diverse figure di intellettuali - filosofi, letterati, critici e musicisti - e per tutto il secolo, con poche eccezioni, l'elaborazione teorica continua a intrecciarsi con i conflitti della vita musicale, catalizzata da eventi come la 'riforma' di R. Wagner, con il partito dei suoi sostenitori e gli avversari raccolti sotto le insegne del formalismo hanslickiano. Anche quando, a partire dagli anni Sessanta del 19° secolo, sempre più prepotentemente le scienze si affacciano sulla scena estetica, il quadro non muta: la ricerca sui fondamenti del musicale, condotta dapprima con gli strumenti delle scienze naturali (fisiologia e biologia), successivamente con quelli della psicologia e della sociologia, rimane per lo più funzionale alla convalida di un'assiologia. Così gli studi di H. von Helmholtz sulle sensazioni acustiche risulteranno congeniali a un'interpretazione formalistica dei fenomeni musicali, mentre le teorie di Ch. Darwin e H. Spencer sull'origine della musica si coniugheranno con la ripresa di motivi romantici.

Il panorama offerto dal 20° secolo presenta sostanziali aspetti di discontinuità. Sebbene alla crisi della filosofia di impianto sistematico sopravvivano alcune estetiche della musica legate al modello filosofico tradizionale (valga per tutti l'esempio di quelle di matrice neoidealistica sviluppatesi in Italia dal primo Novecento fino al secondo dopoguerra), si determina in generale una separazione tra ricerca sui fondamenti e ricerca sul valore della realtà musicale, in precedenza strettamente e stabilmente associate. In ambito filosofico la prima prende il sopravvento, mentre la seconda tende a essere demandata ad altre giurisdizioni. Acquista via via centralità il problema della costituzione della musica, anche per l'esigenza di adattare le categorie del pensiero a forme di esperienza modellate sugli oggetti che popolano le mappe musicali del Novecento, non riconducibili agli schemi fruitivi convenzionali. Su questo sfondo si giustifica la fortuna della fenomenologia della musica, che prima nel vecchio continente ha tentato una lettura filosofica delle avanguardie storiche, poi, a partire dagli anni Settanta, in America (ove spiccano gli studi di Th. Clifton) ha intrapreso una radicale ridefinizione della sfera esperienziale correlata agli eventi sonori.

L'apporto del mondo scientifico alla riflessione sulla musica, affievolitosi al termine della lunga stagione positivistica, torna a farsi consistente nel secondo dopoguerra, ma senza continuità con le precedenti elaborazioni. I contributi più rilevanti sono offerti dalla psicologia, dalle scienze sociali e da quelle della comunicazione. Il rinnovato interesse scientifico tocca talora temi familiari alla tradizione estetica (fruizione, interpretazione, espressione), ma, analogamente agli indirizzi prevalenti in filosofia della musica, li sviluppa al di fuori di un quadro di riferimento assiologico. Emblematica al riguardo la posizione di L.B. Meyer, che in Emotion and meaning in music (1956) reimposta su basi scientifiche alcune problematiche estetiche di lontana ascendenza, giungendo per questa via a legittimare posizioni tradizionalmente incompatibili, come quelle che rivendicano la preminenza della forma o dell'espressione, dell'elemento intellettuale o di quello emotivo.

Gli aspetti della riflessione estetica orientati alla definizione del carattere artistico, divenuti obsoleti in ambito filosofico, si localizzano nella ricca elaborazione concettuale che si accompagna alle esperienze dell'avanguardia. I protagonisti della 'nuova musica', da A. Schönberg in avanti, sono prodighi di riflessioni sia sulla propria opera, sia sulle prospettive e sui compiti del lavoro compositivo nel mondo contemporaneo. Talora - come in molti scritti di K. Stockhausen - si tratta di considerazioni intese a precisare, insieme ai procedimenti, il significato di singoli brani, ma in ogni caso le implicazioni di questi testi travalicano l'occasione immediata per toccare aspetti più ampi delle problematiche compositive. È davvero arduo cogliere in questa letteratura tendenze profilate con chiarezza: il campo appare frammentato in una pluralità di posizioni, e i riferimenti teorici risultano quanto mai disomogenei, spaziando dalle dottrine sociopolitiche ai modelli matematici, dalle scuole orientali di meditazione all'elettroacustica. La competizione si consuma dunque su un terreno che finisce paradossalmente per svuotarla di significato a causa dell'estrema dispersione dei modelli.

Allo sviluppo delle poetiche si accompagna un'altrettanto consistente produzione critica: uno dei maggiori contributi estetici del nostro secolo, Philosophie der neuen Musik di Th.W. Adorno (1949), è costruito su un'alternativa, quella tra progresso e restaurazione, enucleata dalla lettura critica dell'opera di A. Schönberg e I. Stravinskij. Non sarebbe azzardato affermare che gran parte del lavoro compositivo del Novecento, dalle prime avanguardie agli anni Settanta, appare, per così dire, avvolto da un imponente alone verbale generato dalle poetiche e dalla critica, che assai più che in passato concorrono a chiarire, sostenere, giustificare la musica stessa, divenendo in tal modo non un semplice supporto per l'ascolto, ma un elemento stabilmente costitutivo del senso.

Negli ultimi decenni la m. ha guardato con interesse alle acquisizioni della filosofia della musica e ha accolto senza preclusioni i contributi delle altre scienze, ma in campo estetico è pervenuta a risposte autonome. Tra le discipline sviluppatesi nel suo ambito va riservata una menzione all'analisi, la quale, muovendo dal progetto di interrogare il senso della musica attraverso l'esame delle strutture, palesi o latenti, dell'opera, a volte risponde a una vocazione ermeneutica non dissimile da quella tradizionalmente propria della critica e dell'estetica (v. sopra: Analisi musicale). In secondo luogo - ed è questo l'aspetto più originale della riflessione sull'estetica maturata di recente tra i musicologi - si è compiuto un intenso lavoro di focalizzazione storica della dimensione artistica della musica.

In passato, a partire dal saggio di G. Adler Umfang, Methode und Ziel der Musikwissenschaft (1885), l'estetica musicale è stata spesso inserita tra le discipline della m. sistematica, settore scientifico distinto dalla m. storica in quanto interessato alla realtà musicale sul versante teorico, senza riferimento al suo sviluppo diacronico. A parte l'inconsistenza, divenuta via via palese, di una rigida distinzione tra approccio storico e sistematico, tale collocazione non è più sostenibile per una ragione specifica: l'immagine estetica della musica risulta oggi sempre più nitidamente identificabile in una tradizione e sempre meno in una prospettiva stabilmente associata al musicale. Da un lato la conoscenza di una varietà storica ed etnica di oggetti sonori non riconducibili a una fisionomia unitaria non solo dal punto di vista linguistico e morfologico, ma anche in rapporto ai significati rivestiti nei contesti culturali di cui sono espressione, induce a guardare con diffidenza a una complessiva attribuzione dei fenomeni musicali alla sfera estetica. Dall'altro la ricerca storiografica, ricostruendo i contorni di tradizioni intellettuali che hanno pensato la musica nelle categorie della retorica, della cosmologia, delle scienze (si pensi agli studi di C. Palisca), ha fatto maturare la consapevolezza che non tutta la riflessione sulla musica è classificabile nelle categorie dell'estetica, e che anzi, a fronte di queste imponenti tradizioni, l'estetica musicale costituisce solo una linea di pensiero relativamente recente. In tale prospettiva l'impiego del termine arte riferito alla musica non segnala la costante attribuzione di un valore estetico, ma è esso stesso indice di una mutevole collocazione nello spazio culturale, dal momento che è toccato a più riprese da un processo di risemantizzazione che ne modifica l'accezione, orientandola ora verso il campo della tecnica e delle abilità artigianali, ora a quello di una inventività apparentata all'artificio, ora a quello di una disciplina speculativa, ora a quello di una creatività legata ai prodotti dello spirito (non diversamente da quanto accade con i termini musico e musica, impiegati per definire una varietà di soggetti e oggetti, incluse forme di ordine che astraggono dal dato sonoro e prodotti intellettuali che nulla hanno a che vedere con la pratica vocale e strumentale).

L'impulso più energico alla determinazione storica del campo è venuto dalla m. tedesca che, a partire dagli anni Settanta, a più riprese si è interrogata sui confini della tradizione estetico-musicale e sulla nozione di musica che ne è al centro (C. Dahlhaus, H.H. Eggebrecht, W. Seidel). Emblematico fin nel titolo il saggio di Eggebrecht Grenzen der Musikästhetik? (1974), ove la nascita dell'estetica musicale veniva fatta coincidere con l'affermazione, a partire dal tardo Settecento, di una musica in cui predomina "l'autofondatività della dimensione sensibile portatrice di senso", ovvero della cosiddetta musica assoluta, con esclusione di qualsivoglia carattere 'funzionale'. Con la rinuncia a determinare natura, significato e valore dell'opera d'arte, e con l'assunzione a tema centrale della costituzione dell'estetico, vale a dire delle modalità e delle condizioni in cui ha preso forma la moderna assiologia della musica, si determina un mutamento genetico della riflessione estetico-musicale, che, abbandonate le pretese normative in passato prevalenti, si viene configurando, in una disposizione retrospettiva, come indagine diretta a sondare la consistenza di una tradizione della quale non raccoglie l'eredità.

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Iconografia musicale

di Franca Trinchieri Camiz

Definizione e storia della disciplina

Già da alcuni decenni, tutte le scienze storiografiche si sono evolute verso una maggiore apertura nelle scelte di fonti valide di ricerca, mostrandosi interessate a un dialogo interdisciplinare che permette di ampliare e approfondire le nostre conoscenze sia del passato sia del presente. In particolare, la ricerca iconografica si colloca nell'ambito della storia dell'arte e privilegia l'analisi sistematica di contenuti, temi e soggetti di un'immagine, piuttosto che gli aspetti puramente formali ed estetici. Questo tipo d'indagine trae le sue origini dalla scuola di A. Warburg, e in particolare da un fondamentale saggio del 1939 con il quale E. Panofsky definiva come iconografia quell'aspetto della ricerca storico-artistica che raccoglie e classifica i dati oggettivi dell'immagine, mentre la iconologia rappresenterebbe l'indagine più approfondita dei suoi significati, della sua simbologia recondita, dell'ambito culturale, delle condizioni storiche e umane in cui è stata creata. Al presente, non è più così netta la distinzione terminologica instaurata da Panofsky, e si fa uso del termine iconografia per significare vari e molteplici indirizzi d'indagine (Cieri Via 1994). Da tempo anche la m. ha rivolto l'attenzione verso le arti figurative, e in particolare verso quegli esempi specifici che raffigurano, o anche più semplicemente suggeriscono, alcuni dei molteplici aspetti della musica attraverso la disciplina denominata, per l'appunto, iconografia musicale.

Nel 1980 fu pubblicata una prima e significativa voce, Musical iconography, per il New Grove dictionary of music, con la quale H. Mayer Brown indicava quali potevano essere gli aspetti più interessanti di questo tipo di ricerca, ritenendo le immagini musicali particolarmente utili per: a) le vite dei musicisti (si pensi ai ritratti) e gli ambienti della musica; b) la forma, la struttura, e i dettagli organologici degli strumenti musicali, la prassi esecutiva e le occasioni della musica; c) il ruolo storico, intellettuale e culturale della musica.

Come supporto visivo all'organologia, le immagini con strumenti musicali di epoche lontane o di zone geografiche remote, anche se stilizzate e non realistiche, rappresentano spesso l'unica testimonianza a nostra disposizione, e pertanto hanno una loro importanza. La 'lira da braccio', per es., rappresenta un particolare strumento a corde che fu in voga in Italia solo durante alcune decadi, fra la fine del Quattrocento e il principio del Cinquecento. Dato che però ne sono sopravvissuti solo pochi esemplari, le molte raffigurazioni di questo strumento nell'arte italiana di quel periodo possono essere estremamente utili per capire le sue caratteristiche morfologiche e strutturali (si veda, per es., la lira da braccio raffigurata in mano a un angelo musicante nella Presentazione di Gesù al Tempio di V. Carpaccio, 1510, Venezia, Galleria dell'Accademia). Per facilitare l'accesso a un numero più ampio possibile di raffigurazioni musicali, si è dato inizio a una catalogazione sistematica di opere figurative in vari musei e gallerie; il modo di compilare le schede descrittive fu formulato per la prima volta nel 1981 dal Répertoire international d'iconographie musicale (RIdIM), con sede a New York.

Negli ultimi anni, l'interesse per l'iconografia musicale è cresciuto notevolmente, manifestandosi in molteplici indirizzi: studi e pubblicazioni, convegni, corsi, seminari per la catalogazione, tesi di laurea. L'evolversi della disciplina verso una maggiore diversificazione e complessità d'indagine è stato messo ben in evidenza dall'esauriente e puntuale contributo di T. Seebass per la riedizione del New Grove dictionary of music (come anche per Die Musik in Geschichte und Gegenwart, 1997). La sua bibliografia elenca, solo per gli anni 1980-97, più di 270 titoli, suddivisi in varie categorie che comprendono: storia e metodologia; cataloghi; arte europea; iconografia della musica popolare; musica nell'arte extraeuropea; iconografia degli strumenti, della notazione e della prassi esecutiva in Europa e fuori; lo strumento musicale come immagine; fonti per i luoghi di esecuzioni musicali e scenografia; iconografia del ritratto; danza; musica e arti figurative. Per l'autore è significativo il fatto che l'interesse per l'iconografia musicale abbia varcato i confini europei e che abbia coinvolto anche la musica popolare e l'etnomusicologia. Merito proprio di Seebass è l'aver inserito una giornata di studio sul metodo iconografico durante gli incontri annuali dell'International Council for Traditional Music (ICTM), e sempre sua è la voce sull'iconografia musicale per The new Grove handbook of ethnomusicology (1991). Inoltre, egli segnala l'importanza dell'Italia come il paese dove l'interesse per l'iconografia ha maggiormente preso piede non solo per quanto riguarda la musica popolare (Guizzi 1983; Staiti 1988, 1989), ma anche per un nuovo metodo di catalogazione formulato a partire dal 1987 dal Centro italiano di iconografia musicale (CIdICM) diretto da E. Ferrari Barassi, per le numerose tesi di laurea (presso la Scuola di paleografia e filologia musicale di Cremona, il DAMS - Dipartimento di musica e spettacolo dell'università di Bologna - le facoltà di Lettere di Milano, Palermo, Napoli e Catania) citate dalla Barassi (1996), e per corsi specifici e universitari (a Urbino per la Società italiana del flauto dolce e la Fondazione italiana per la musica antica, a Cosenza presso l'Università della Calabria). A partire dal 1989, anche Imago Musicae, l'annuario dedicato specificamente agli studi iconografici musicali, è approdato in Italia e viene pubblicato a Lucca dalla Libreria musicale italiana.

Metodo di studio

Le fonti figurative che possono interessare lo studio iconografico musicale sono molteplici: fotografie, pitture, sculture, stampe, incisioni, ceramica, illustrazioni, manoscritti, decorazioni su mobili o su strumenti musicali, scenografie, strutture architettoniche per esecuzioni musicali, copertine di dischi e di CD ecc. Necessario tuttavia è capire quanto l'immagine sia attendibile, valutandone il grado di astrazione formale, l'intento estetico, l'eventuale ingenuità o inesperienza tecnica dell'ideatore. Essenziale è anche riconoscere che un'immagine (anche la fotografia) è pur sempre un'interpretazione selettiva della realtà. Di conseguenza, ci si chiede quali possano essere le scelte descrittive per rendere 'visibile' la musica, che invece implica esperienze strettamente uditive. Le raffigurazioni di strumenti musicali e di esecutori sono i riferimenti più ovvi, ma interessanti sono anche le notazioni musicali, dato che una corretta identificazione rappresenta un indizio significativo non solo del contenuto dell'immagine ma anche del contesto musicale da cui proviene.

La scrittura musicale può anche rappresentare un messaggio ermetico, così come appare ne Gli ambasciatori di H. Holbein (1535, Londra, National Gallery), dove la presenza dell'inno luterano Komm Heiliger Geist suggerisce possibili simpatie verso la Riforma protestante da parte dei due personaggi cattolici ivi ritratti. Ne Il riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio (c. 1595, Roma, Galleria Doria Pamphilj), il cantus del mottetto Quam pulchra es di N. Bauldewjin (pubblicato nel 1519) su testo tratto dal dialogo lirico fra sposo e sposa nel Cantico dei cantici suggerisce un'affinità specifica fra soggetto pittorico e contenuto poetico-musicale. Di interesse storico-musicale è invece il fatto che un brano di vari decenni anteriore fosse in voga nella Roma del tardo Cinquecento (Trinchieri Camiz, Ziino 1983).

L'aspetto mitico della musica trova una sua efficace rappresentazione nella tematica del suo primo inventore: il dio Apollo, suonatore della kithára, il biblico Iubal (o anche Tubalcain) scopritore con i suoi martelli degli intervalli musicali, o Pan, pastore arcadico e dio della zampogna (strumento chiave della musica popolare). Altri miti esprimono la forte influenza esercitata dalla musica sull'animo dell'uomo o sulla natura stessa (Orfeo che calma le fiere), o suggeriscono divertimento ed evasione (Bacco). Hanno particolare fascino i mitici cantori che con il magico potere del loro canto, o del suono del loro strumento, sollevano lo spirito e innalzano lodi a Dio (re Davide salmista, s. Cecilia cantante celeste), o trasformano quello che li circonda (Anfione che innalza le mura di Tebe). La musica ha valenze cosmologiche legate a Pitagora e alla sua visione di harmonia mundi e della 'danza delle sfere' matematiche, nel suo aspetto strutturale, ma assume anche significati e simbologie religiose (gli 'angeli musicanti' del paradiso cristiano; i suonatori nel paradiso buddista). Nelle nature morte gli strumenti musicali possono suggerire il tempo dei ritmi musicali, ma anche l'inesorabile passare del tempo che conduce alla morte e l'inganno delle nostre percezioni sfuggenti (la Vanitas vanitatum come ne L'allegoria dell'udito, del tatto e del gusto di J. Brueghel, 1617-18, Madrid, Museo del Prado). In tempi più recenti, l'affermazione dell'astrattismo in arte ha proposto un nuovo modo di raffigurare la musica, non più tramite i suoi connotati mitici ed emotivi ma piuttosto nella sua componente di pura forma strutturale fatta di segni rappresentativi di suoni (vedi le opere di V. Kandinsky, P. Klee, P. Mondrian).

Trattandosi pur sempre di raffigurazioni visive, risulta importante conoscere le metodologie dell'iconografia, documentandosi dunque sulle tradizioni soggiacenti al modo di percepire un particolare soggetto, sulle fonti testuali e letterarie, e sui contesti storici, culturali e artistici di ogni immagine. Ci si preoccupa anche della ricezione e fruizione dell'opera d'arte da parte del committente e del pubblico, in breve, dunque, di tutto quello che possa essere utile a una più attenta e puntuale lettura interpretativa del contenuto dell'opera. Tocca invece al musicologo o all'organologo apportare all'indagine iconografica quelle conoscenze specifiche che mettono in luce quali specifiche immagini possano diventare utili e significative fonti per la storia della musica. In fondo, dovrebbe essere proprio il dialogo interdisciplinare a caratterizzare l'iconografia musicale come disciplina. Tuttavia, ancora oggi sono proprio gli aspetti metodologici di un discorso interdisciplinare a non essere del tutto risolti e, di conseguenza, le prospettive per il futuro non possono non tenere conto di questo particolare problema.

bibliografia

Per un'esauriente bibliografia si rimanda a T. Seebass, Musikikonographie, in Die Musik in Geschichte und Gegenwart, hrsg. L. Finscher, 7 voll., Kassel-New York 1994-97², vol., pp. 1319-43.

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Le immagini della musica, Atti del Seminario di iconografia musicale: Roma, 31 maggio-3 giugno 1994, a cura di F. Zannoni, Roma 1996.

Si segnalano inoltre alcuni importanti cataloghi:

H.M. Brown, Catalogus: a corpus of Trecento pictures with musical subject matter, in Imago Musicae, 1984, pp. 189-243, 1985, pp. 179-281, 1986, pp. 103-87, 1988, pp. 167-241.

Iconografia musicale in Umbria tra XII e XIV secolo. Miniature, vetrate, tarsie, oreficeria: Assisi, settembre 1984, a cura di P. della Porta, E. Genovesi, Assisi 1984.

Iconografia musicale in Umbria nel XV secolo: Assisi, settembre 1987, a cura di P. della Porta, E. Genovesi, Assisi 1987.

E. Lagnier, Iconografia musicale in Valle d'Aosta, Roma 1988.

Lo specchio della musica. Iconografia musicale nella ceramica attica di Spina: Ferrara-Bologna 1988, a cura di F. Berti, D. Restani, Bologna 1988.

M.G. Carlone, Iconografia musicale nell'arte biellese, vercellese e valsesiana: un catalogo ragionato, Roma 1995.

Si vedano infine i periodici:

RIdIM/RCMI Newsletter, ed. Z. Blažeković, dal 1975.

Imago Musicae, the international yearbook of musical iconography, ed. T. Seebass, dal 1984.

Musique/ Images/Instruments. Revue française d'organologie et d'iconographie musicale, éd. F. Gétreau, dal 1995.

Sociologia della musica

di Antonio Serravezza

L'oggetto della sociologia della musica può essere indicato, con una formula estremamente generica, nel rapporto tra musica e società. Risulta però evidente che è possibile cogliere tale rapporto in aspetti molto diversi della realtà sociale e musicale. Può trattarsi di un legame individuabile nella sfera della fruizione, della produzione e della riproduzione, nello spazio istituzionale e politico, nel contesto complessivo in cui si realizzano gli eventi musicali, nei sistemi linguistici, nelle regole che disciplinano i generi, nelle forme, nelle tecniche, negli stili o in ambiti più circoscritti, magari nelle singole opere. In questa prospettiva l'interesse per la dimensione sociale della musica prende corpo in una sociologia della professione musicale (con riferimento allo status del musicista, alle sue fonti di reddito, alle condizioni materiali di produzione), del pubblico, del 'consumo' musicale, con le sue basi industriali ed economiche, e si realizza in ricerche dirette a focalizzare le innumerevoli 'funzioni' della musica nelle comunità, da quelle cerimoniali a quelle di intrattenimento, fino a quelle propriamente estetiche, la cui rivendicazione di autonomia in realtà non ne cancella il radicamento sociale. Può, in alternativa, orientarsi verso la musica stessa e cogliere al suo interno i segni delle ideologie, delle trasformazioni, eventualmente delle tensioni sociali, o ancora, può concentrarsi sull'evoluzione storica della musica e leggerla in relazione alla contestuale evoluzione della società.

Ad accrescere la varietà dei temi e delle posizioni concorre il fatto che spesso la sociologia della musica ha importato nel proprio campo prospettive elaborate nel quadro di un'interpretazione generale dei fenomeni sociali. Si pensi ai numerosi motivi di critica sociale che attraversano la sociomusicologia di Th.W. Adorno, o a M. Weber, che nell'evoluzione dei materiali della musica volle scorgere un capitolo del peculiare processo di 'razionalizzazione' che conduce alle forme di agire sociale dell'Occidente moderno. Spesso anche le elaborazioni interne alla m. si sono richiamate a modelli sociologici generali e ne hanno fatti propri procedimenti, tecniche, opzioni metodologiche. Queste ultime, in particolare, hanno dato origine a linee di ricerca divergenti; si è riprodotta in questo campo, per es., l'alternativa tra approccio 'empirico' e 'teorico', tra tecniche quantitative ed esplicative. Le scelte dei metodi, ovviamente, non sono senza riferimento all'individuazione dei temi di ricerca; così, per es., gli studi sulla composizione di un pubblico postulano l'adozione di strumenti statistici, l'analisi delle implicazioni sociologiche della forma-sonata configura un'operazione ermeneutica, e quella del contesto della liederistica ottocentesca deve porsi sul piano della storia sociale.

Sebbene sia arduo cogliere delle linee di fondo in un panorama così ricco di articolazioni, alcuni aspetti si impongono a un bilancio complessivo del settore. In primo luogo va rilevato il problema, assolutamente centrale, del rapporto con la ricerca storica. Nel 1950 K. Blaukopf definiva scienza provvisoria la sociologia della musica, intendendo affermare che essa nasce dai limiti di altri ambiti della m., e in particolare della storiografia, incapace di tematizzare adeguatamente le dimensioni sociali del suo oggetto; ove, come auspicato, la storia della musica fosse giunta ad acquisire essa stessa una coscienza sociologica, sarebbe divenuta superflua una disciplina separata cui demandare lo studio dei rapporti tra musica e società. La diagnosi, pur semplicistica, rinviava a un problema reale.

Nel suo costante sforzo di aggiornamento, la storiografia musicale si è effettivamente evoluta anche nella direzione auspicata da Blaukopf: non solo ha visto la luce un buon numero di opere il cui titolo rinvia alla 'storia sociale' della musica, ma, in generale, gli storici hanno focalizzato con crescente interesse il contesto delle produzioni musicali, con particolare attenzione agli aspetti istituzionali e sociali. Sarebbe ingenuo immaginare che tale apertura comporti per se stessa il declino della sociologia della musica come disciplina indipendente. Quest'ultima ha spesso tenuto a sottolineare la propria specificità nei confronti della semplice storia sociale, rivendicando con insistenza uno statuto autonomo, e il suo campo, di cui si è tentato prima di rappresentare l'estensione, comprende anche aree del tutto estranee all'oggetto della storiografia. D'altra parte si deve riconoscere che, nonostante i ricorrenti tentativi di darsi uno statuto autonomo, la sociologia della musica è una prospettiva aperta sul mondo della musica, una forma di interesse, piuttosto che una disciplina o un ambito del sapere stabilmente definito nel suo contenuto. Di conseguenza rischia di divenire un esercizio nominalistico lo stabilire sotto quale etichetta vada collocata questa forma di interesse, posto che comunque trova spazio nel quadro della cultura musicale.

Tra le numerose direzioni in cui la sociologia della musica si è irradiata, particolarmente fecondo si è rivelato l'incontro con l'estetica e la critica. Non va dimenticato che una delle sue prime, importanti affermazioni si realizza nell'Esquisse d'une esthétique musicale scientifique di Ch. Lalo (1908), ove, sulla spinta di alcune suggestioni durkheimiane, il valore estetico della musica, in quanto istituito e sanzionato dalla collettività, è dichiarato accessibile solo alla sociologia. Né va dimenticata la grande lezione adorniana, che della sociologia fa uno strumento ermeneutico diretto a 'decifrare' il significato dell'opera, dunque funzionale a una 'ricerca di senso' piuttosto che all'accertamento di dati empirici relativi alla vita musicale, come volevano gli indirizzi di ricerca avversati da Adorno. E se oggi la contrapposizione tra un modello di sociologia 'empirica' e uno ermeneutico-speculativo appare legata alle posizioni di un dibattito metodologico non più attuale nel campo delle scienze sociali, si deve peraltro osservare che, in rapporto alla musica, essa non configura l'alternativa tra due modelli di scientificità, ma la distinzione tra due tipi di interesse non concorrenti perché non interessati a occupare lo stesso spazio culturale.

Ciò è testimoniato dal fatto che, a parte il momento in cui il confronto delle 'due' sociologie della musica si è caricato di implicazioni ideologiche (gli anni in cui, per es., il musicologo V. Karbusicky rivendicava alla ricerca empirica il significato di un affrancamento dal dogmatismo oppressivo dello stalinismo), le rispettive linee di sviluppo si sono ignorate. Inoltre, mentre i prodotti del modello ermeneutico-speculativo hanno trovato in genere buona risonanza e a volte sono divenuti oggetto di divulgazione, rivelando così un'incidenza davvero considerevole, quelli riconducibili al modello empirico sono rimasti confinati in ambiti ristretti, e a volte hanno incontrato l'esclusivo interesse della committenza. Ciò non necessariamente perché irrilevanti o intrinsecamente poveri, ma a causa delle diverse esigenze da cui sono motivati.

Gli aspetti sopra ricordati si intrecciano alla parabola storica della sociologia della musica, e in qualche misura aiutano a comprenderla. Sebbene alcuni occasionali riferimenti alla vita sociale si possano cogliere nella letteratura musicale del Settecento e dell'Ottocento, la vicenda della sociologia della musica si consuma quasi interamente nel 20° secolo. Nata negli ultimi anni della stagione positivistica, sviluppatasi con continuità fino a oggi, ha conosciuto la sua fase di maggior fortuna a partire dal secondo dopoguerra, e in particolare negli anni Sessanta e Settanta, in cui ha visto la luce una quantità davvero imponente di pubblicazioni a essa dedicate o riconducibili (non di rado segnate da venature ideologiche). Sono tra l'altro gli anni in cui nei congressi dell'International Musicological Society si affermavano tematiche sociologiche, in cui vide la luce l'International review of the aesthetics and sociology of music, e nei quali nascevano collane editoriali specialistiche come Musik und Gesellschaft (Karlsruhe, dal 1967).

In anni più recenti, pur restando incontestato il diritto della sociologia della musica a concorrere all'interpretazione dei fenomeni musicali, le sue fortune non si sono rinnovate in forme altrettanto vistose. L'attuale fase di stasi potrebbe esser legata alla circostanza che oggi le istanze di cui la sociologia della musica si è resa interprete per gran parte del Novecento vengono di fatto accolte anche da altri settori di ricerca. Oltre che alla storiografia musicale, si dovrebbe accennare all'etnomusicologia (v. sopra, in questa stessa voce; ed etnomusicologia, App. V) e all'antropologia della musica, i cui ambiti, da sempre aperti ad alcuni aspetti dell'interazione sociale, si sovrappongono più ampiamente a quello della sociologia quando, come sembra profilarsi nelle tendenze attuali, toccano la dimensione diacronica dei fenomeni e guardano con attenzione anche alle tradizioni più vicine alla nostra cultura. D'altra parte, se l'interesse sociomusicologico matura insieme al convincimento che il sociale abbia un ruolo decisivo alla radice di tutte le condotte degli uomini, quindi anche delle espressioni artistiche, e se tale convincimento non è alimentato solo da motivazioni scientifiche, è comprensibile che esso venga propiziato da un clima intriso di sensibilità sociale e nutrito di cultura politica, e si affievolisca quando l'attualità culturale frequenta meno intensamente regioni ideologiche.

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