MUSICA

Enciclopedia Italiana (1934)

MUSICA

Gastone ROSSI-DORIA
Alfredo BONACCORSI
Luigi RONGA

. Una distinzione netta tra musica popolare e musica dotta (o d'arte, o aulica, ecc.) ha maggiori probabilità di concretezza quando, rinunziando a posizioni assolute (cioè estetiche), si fondi su considerazioni più esplicitamente storiche. Mentre, infatti, sarebbe assai difficile negare identità di atto spirituale tra l'espressione popolare e quella degli artisti per così dire "di professione", altrettanto difficile riuscirebbe il negare che di zona in zona della storia musicale sia evidente la coesistenza di due correnti, certo tra loro in osmosi, ma ben differenziate per fattori costitutivi, alimentate l'una dall'immediato sentire del popolo, l'altra da una coscienza ben più ricca di esperienze culturali, nella quale la produzione del singolo affetto è determinata da più complesse efficienze. Il fatto estetico è, insomma, identico; diverso il mondo del creatore.

Nel corso della storia tale diversità tende, per ragioni ovvie, a farsi maggiore, quantunque l'emersione di correnti etniche o anche soltanto culturali nuove di tanto in tanto riconduca i sensi popolari al primo piano del quadro artistico.

A parte, quindi, lo pseudoproblema delle origini della musica (che del resto è qui oltre illustrato) la presente trattazione prenderà le mosse dallo studio del fatto musicale quale si presenta presso i popoli di cultura inferiore, per passare poi all'analisi della sensibilità musicale che le varie razze del nostro mondo direttamente esprimono nel canto e nella danza popolare. Un esame a parte avrà, dopo queste premesse, lo svolgimento storico dell'arte musicale dotta, quasi esclusivamente concretatosi nel mondo mediterraneo e nordeuropeo, dalle civiltà del vicino Oriente fino ad oggi. Seguirà poi un breve cenno relativo agli sviluppi di pensiero, specialmente storiografici, che dal fatto musicale si sono generati attraverso i tempi.

La musica presso i primitivi.

La psicologia sperimentale, le copiose raccolte fonografiche di canti e gridi di popoli selvaggi, che hanno determinato un metodo fonografico, porgono lineamenti approssimativi ma documentati, per quanto discutibili, sulle origini della musica. Accanto a semplici gridi troviamo presso gli animali, per es. gli uccelli, spunti di melodie; ed è stato perfino tentato, studiando lo stato d'animo della vita degli animali, e con un po' di fantasia, di fissare le Dimensionen dei sentimenti degli uccelli:

L'uomo primitivo, poiché in principio non fu la parola ma l'azione, sarà stato imitatore del canto e dei gridi degli animali, e i primi suoni furono probabilmente ritmi, trilli, schioccare di dita, battere di mani e gridi disordinatamente articolati e vocalizzati, non ancora individuati, risultato di gesti muscolari incoordinatamente eseguiti.

Un primo aggregato di suoni, nella formula di due note vicine, deve essere stato costituito come primo rudimento di canto inteso e spiegato come mezzo di suggestione auditiva, e forse il primo embrione della musica, un po' disteso, è scaturito da un desiderio incosciente e da un sentimento innato dell'uomo primitivo guidato da fenomeni puramente meccanici. Il passo, la corsa dell'uomo sono ritmo. Fino dalle origini, nel lavoro, il ritmo, per la naturale facilitazione che esso dà al movimento delle braccia e del corpo, può avere ispirato, con le sue cadenze sonore, non solo le prime manifestazioni musicali, ma anche le prime canzoni più o meno embrionali e, certamente, barbare e i primi versi. Anche il movimento vivo dei suoni delle parole (nel comando, nella gioia, nel dolore) dovette dar luogo a un linguaggio musicale, donde un principio del canto, sciolto poi, col tempo, dalle parole e portato negli strumenti. Lo stesso giuoco dei fanciulli può essere stato un primo passo della musica (la quale altro non è che un raffinamento e uno sviluppo, nel volgere dei secoli, con la conquista delle forme e delle più grandi possibilità di espressione, del suonare e del cantare a orecchio); mentre il grido e la recitazione primitiva contribuivano - e furono forse tra i fattori principali - alla scoperta degl'intervalli.

"L'uomo primitivo, sotto l'impeto delle passioni, si sarà valso di grida e di percussioni ritmiche (di una ritmica disordinata, incoerente) nelle quali si scaricasse l'energia nervosa accumulata dalla commozione violenta e si avesse, a traverso le vie nervose dell'orecchio e le sensazioni tattili, un'esaltazione, un'esasperazione della commozione stessa, un parossismo di eccitazione psichica, un'ubriacatura torbida, una fascinazione oscura..." (Torrefranca).

Possiamo pensare alle prime frasi melodiche contenute in una scala limitata: il salto di ottava si doveva trovare eccezionalmente casualmente nei canti primitivi; essi dovevano essere piuttosto costituiti da piccoli gradi e dai più grandi intervalli di quarta e di quinta, raramente sorpassati, aventi sempre la nota più bassa come base. Brevi segnali di poche note, ripetuti col fischio, l'uso del falsetto, frequente nei popoli primitivi, poterono, fra l'altro, suggerire, al sorgere della musica, incoscienti tentativi di trasposizione. Diverse altezze di suono, date contemporaneamente da più individui su strumenti rudimentali portati alla consonanza, poterono, forse, determinare spontaneamente i tre intervalli fondamentali. I primi intervalli strumentali ripetuti e fissati dalla consuetudine, a distanza di tempo, furono, probabilmente, l'ottava, la quinta, la quarta e la terza. Col diffondersi degli zufoli o pifferi con diversi buchi, poteva sorgere la prima melodia strumentale per la danza e per i riti funebri e l'accompagnamento per sostenere il canto. La corda nell'arco tirato del cacciatore, modificata nella tensione, l'arco sulla zucca incavata, le arpe e le lire con guscio di tartaruga come primitiva cassa di risonanza, i pezzi di legno di varia dimensione percossi con diversa intensità, poterono suggerire i primi tentativi per la costruzione di strumenti. Si può domandare in quali rapporti si trovassero alle origini il canto e gli strumenti, se questi nello sviluppo della musica primitiva influenzassero il canto o viceversa; ma alla domanda è dato di rispondere solo per ipotesi.

Sappiamo che i Vedda dell'isola di Ceylon non avevano strumenti e che il loro canto era quasi balbettante e oltremodo barbarico, laddove i popoli primitivi dell'America Settentrionale, che usavano pochi strumenti e rudimentali, possedevano invece una musica vocale relativamente sviluppata. Fra canto e accompagnamento e fra strumento e strumento nei suoni simultanei, come si può vedere in certa musica cinese e giapponese, predominarono ruvide dissonanze. Sono stati raccolti col grammofono nelle Isole dell'Ammiragliato (Baluan) alcuni canti di danza a due voci i quali procedono essenzialmente con un movimento di seconde parallele; il che avvalora l'ipotesi che i popoli primitivi, oltre all'unisono, dovessero conoscere una specie di abbozzata armonia, l'eterofonia (che per i Greci fu l'arabescare intorno al canto dello strumento accompagnante,) una polifonia nel senso letterale della parola, la polifonia ritmica e la poliritmica.

Molti canti barbari (Kwakiutl), con accompagnamento di timpani, hanno il seguente tipo:

Ogni parte tiene esattamente il suo ritmo; in alcuni canti la voce è in 4/4 e i timpani in 5/8, in altri su 3 misure del canto ne vengono 4 dei timpani; poi 6/8 contro 5/8, ecc.; e questi ritmi più che casuali, come si potrebbe credere, sono invece consuetudinarî essendo stati assimilati nel tempo.

Le melodie dei primitivi, reciprocamente influenzate, furono naturalmente uniformi; ciò dipese dal fatto che esse vennero dominate da un materiale limitatissimo, da un numero ristretto cioè di configurazioni elementari, il cui movimento si spostava con piccole modificazioni formando, con o senza un nuovo testo, altre melodie affini. Anche al principio della loro cultura una forma data di melodia, continuamente ripresentantesi, dovette servire di modello, ma le diverse sorgenti onde essa attingeva, da una parte i primitivi e dall'altra il ritmo più progredito della vita, contribuirono al suo sviluppo e alla creazione di diversi tipi di melodia, che avevano in sé una proprietà e una significazione tematica (in senso largo), mentre il ritmo si accordava con l'andamento della melodia e il periodo si circoscriveva fra tensione e riposo. Ma fra i primitivi e i popoli più progrediti e civilizzantisi, si determinarono altresì gradi intermedî, spiegabili con l'influsso che il principio e la pratica dell'arte dovettero esercitare sui popoli meno dotati e con capacità d'assimilazione più o meno sviluppata.

Anche gl'intervalli di difficile intonazione, riscontrati in vecchi canti, si spiegano con l'imitazione, per parte della voce, di strumenti a fiato di popoli aventi nozioni musicali più progredite, mentre, d'altro canto, questi risentivano il danno d'un influsso dal basso, come dimostra l'esempio qui sotto riportato:

L'arpa, strumento d'origine egiziana, indica già una zona di cultura, ma questo brano per arpa e canto (Kamerun, Pongwe), senza relazioni tonali e melodiche, con la sola aderenza ritmica di una specie di doppio basso ostinato, ci riporta alla povertà d'un andamento primordiale.

In confronto dei primitivi, i popoli pastori nomadi rappresentano già un progresso: essi risentirono l'influsso della cultura che, temperando il potere naturale dell'esprimersi in canto e in suoni, contribuirà a rendere la figurazione musicale non solo più distesa ma, in un certo senso, cosciente. Si vedano i due esempî che seguono, caratteristici tipi consimili, uno vocale e l'altro strumentale, di famiglie turco-tatare:

Quest'altro esempio (Algeria) di una canzone eseguita con un flauto a becco, è originario dei popoli di Barberia, che risentirono, probabilmente, e conservarono varî aspetti di ma cultura preislamica:

Alle origini della musica, dopo le prime manifestazioni incoscienti e casuali di rumori e di suoni, una differenza fra musica religiosa e profana, evidentemente, non esisteva ancora: era musica patetica o guerriera o di giubilo o di lamento. Ma già nei primitivi si dovettero determinare, anche con diversi speciali strumenti, una differenziazione fra musica profana e religiosa e una valorizzazione di simboli per parte di sacerdoti e incantatori. Vediamo anche oggi i suoni di certi strumenti di popoli lontani legati ai mesi dell'anno, una scala di cinque gradi che simboleggia gli elementi, il fondo e la tavola armonica degli strumenti a corda che rappresentano la terra e il cielo, i tamburi come simboli di forza, ecc.

L'origine dei silofoni e dei tamburi è da ricercarsi probabilmente nell'accompagnamento ritmico praticato, con lo schioccare delle mani e il battere dei piedi, per rinforzare e sostenere il canto e il lavoro.

Nei popoli primitivi, in molti casi, l'accompagnamento non ha stretta correlazione con la melodia, quantunque e l'uno e l'altra, pur essendo indipendenti, abbiano un'unità fissa a sé stante; là dove nei popoli civili essi sono naturalmente subordinati. Certi canti di popoli incolti procedono infatti sul ritmo con libertà: o s'incontrano e muovono insieme, a tratti, o cadono fra due movimenti ritmici sincopando, o alternativamente mescolando, con effetti strani, il movimento - in quanto accento dinamico - del "levare" e del "battere", e dando a esso lo stesso peso.

Nell'esempio che segue d'un popolo assai sviluppato musicalmente (Kamerun, Pongwe), gli strumenti a percussione non accentuano la melodia, ma procedono indipendentemente prevalendo, quanto a significazione e sviluppo, sul canto.

Appaiono quasi simili, si può dire universali e storicamente senza tempo, alcuni canti di culla, di fanciulli e del lavoro di popoli selvaggi e di popoli di cultura moderni. Si confrontino i cinque esempî qui sotto riportati. Il primo (Yahgan), senza simmetria di misure ma con relazioni ritmiche fisse, ha l'andamento proprio dei primitivi, un po' oscillante. Il secondo (Ceylon, Vedda), costituito su due note principali, è una ninna-nanna semplicissima. Il terzo (Brasile del Nord), più disteso, con quella leggiera ascesa dopo la corona che ne accentua il colore già malinconico, è un canto di donna (Macuchi e Vapichana) che accompagna il lavoro. Il quarto e il quinto (Italia e Germania), assai noti e cantati oggi un po' dappertutto, sono giuochi di ragazzi.

I popoli selvaggi, o di scarso contatto con le regioni più progredite, hanno oggi essi pure una certa varietà di strumenti.

Riguardo alla recitazione, sono state osservate, nelle riproduzioni fonografiche di alcuni canti della Patagonia, diverse singolarità fra cui: interruzione ritmica d'un suono lungo come se chi canta si tappasse la bocca con la superficie della mano; appoggiature eseguite con un'altezza indeterminata di suoni; pause uniformi, ma tali da non distruggere il ritmo; struttura delle melodie molto semplice e ripetizioni continue; ritmo allo stato primitivo, oscuro, che si basa specialmente sulla declamazione ritmica di sillabe indecifrabili.

Anche le forme musicali corrispondono, grosso modo, ai fenomeni delle origini della musica. Nella musica eterofona dei Siamesi e dei Cinesi s'incontrano spesso adattamenti di quarte parallele. In Cina furono osservati interessanti giuochi d'eterofonia per i quali due voci, contemporaneamente, variavano un tema alla distanza di una quarta l'una dall'altra, allacciando così l'organum alla eterofonia.

Una primitiva maniera del "bordone", è nel seguente duetto fra un incantatore e una donna, raccolto in Kubu (Sumatra):

La melodia qui sotto riportata appartiene a una raccolta di canti della America Meridionale (Tehuelche in Patagonia):

Nella seconda parte viene introdotta una prima parentesi (3/8), che sembra pensata come un'eco del Settecento italiano. Si può rilevare che il tempo segnato 3/2 equivalente a 12/8 sia allargato fino a 15/8 nella seconda parte, tutt'e due le volte, e nella quinta parte fino a 21/8. Se non fosse audace il parallelo si potrebbe riandare alla molteplice varietà novenaria e duodenaria dei mensutalisti del sec. XIV.

L'esempio sopra riportato dei Bellacoola della Columbia Britannica, "Questo è mio fratello, egli ha fatto ammalare il mio cuore, egli ha preso il mio amore: così io piango questo giorno", contiene una sorprendente variazione del canto del solista da parte del coro (il coro viene cantato come refrain di danza anche indipendentemente, con un movimento più rapido). Qui le prime sei misure del solista corrispondono alle prime tre del coro, le ultime cinque del solista alle ultime cinque del coro: la trasformazione libera e la corrispondenza evidente rammentano la variazione d'un tema nel senso attribuitale dalla tecnica musicale.

In questo canto molto antico dei Sitka (Indiani al nord di Vancouver) si può vedere già un principio di contrappunto vocale.

Alle origini del Jazz troviamo infine il Negro Spiritual dei Negri americani importati dall'Africa, che ha certamente subito l'influenza del corale protestante importato dai primi missionarî europei.

Ed ecco una visione del mondo musicale nella natura, di un ampio e sonante cosmo, con intuizione primitiva, tolta dal libro Chuang tsŭ:

"Tu hai forse udito i suoni d'organo degli uomini, ma non ancora quelli della terra. Tu hai forse udito i suoni della terra, ma non ancora quelli del cielo. La grande natura spinge fuori il suo fiato ed ecco il vento. Adesso non soffia, ma quando soffia tutti i pertugi ne risuonano violentemente. Tu non hai ancora udito questo mugghio? I precipizî scoscesi fra le foreste del monte, le cavità ed i buchi degli alberi secolari sono come nasi, bocche, orecchi, anelli, mortai. Il vento bisbiglia, frulla, brontola, afferma, chiama, si lamenta, minaccia, romba. Si leva in principio stridente, acuto, e suoni anelanti, trafelati lo seguono. E quando va dolcemente c'è leggiera armonia e quando scoppia in tempesta c'è forte armonia. Ma allorché esso si placa, tutte le aperture, tutti i buchi rimangono vuoti. Non hai mai veduto, allora, come tutto trema leggiero?".

Bibl.: Cfr. per l'origine e la redazione degli esempî, queste due opere fondamentali: C. Stumpf, Die Anfänge der Musik, Lipsia 1911; R. Lachmann, Die Musik der aussereuropäischen Natur- und Kulturvölker, in Handbuch der Musikwissesnschaft, Potsdam 1931. V. inoltre: F. Torrefranca, Le origini della musica, in Rivista musicale italiana, XIV, p. 555; E Fischer, Musica Patagone, ibid., XVI, p. 332; R. Lehmann Nitsche, I canti e la musica in Patagonia, ibid., XVI, p. 320; W. Heinitz, Instrumentenkunde, in Handbuch der Musikwissenschaft; R. Lachmann, Musik des Orients, Breslavia 1929.

La musica popolare.

Vicende storiche. - Le leggi e le massime morali si tramandavano, nelle epoche primitive e sacerdotali, di generazione in generazione, per mezzo di cantilene sorte naturalmente e con ritmo libero. Fu antica usanza, prima d'incominciare le preghiere, l'invocare collettivamente il nome della divinità con qualche specie di canto: e la cosa più singolare si fu il farla con l'intonazione delle vocali. Gli Egizî lodavano il supremo nume intonando le sole vocali della loro lingua. I Vichingi avevano una melopea primordiale, caratterizzata da una successione di quinte a due voci, sopravvissuta nel canto popolare islandese, con le stesse caratteristiche di origine come l'antica lingua millenaria. Anche certi caratteri riscontrati nei canti di popoli rimasti senza contatto con la civiltà moderna fanno pensare alla lontana tradizione degli avi. I musici greci non sempre componevano le arie degl'inni, ma si servivano di frasi già note, patrimonio del canto popolare, svolgendole inoltre nelle parti liriche del loro teatro. Si hanno notizie di canti popolari greci: brindisi, canti d'amore e di guerra, inni agli dei, esaltazioni del vino e del canto, lamenti. Ateneo parla della canzone dei mugnai (‛Ιμαλίς), di quella dei filatori (ἴουλος), di quella dei pastori (βουκολιασμός); e Polluce ricorda il canto dei vendemmiatori (ἐπιλήνιον) con accompagnamento di flauto, quello della sgranatura (il πιτσμός o il πτιστικόν), quello dei rematori (ἐρετικά) e, inoltre, un altro canto dei pastori (ποιμενικά).

Il canto popolare fece sentire il suo influsso nell'arte sacra, si può dire in ogni tempo; se gli antichi salmi della Chiesa risentirono, come si presume, l'influenza della musica ebraica, i canti dei primi secoli del cristianesimo portarono indubbiamente l'impronta di musiche popolari e d'arte insieme. Nel tempo, poi, questa compenetrazione fra canti della Chiesa e popolari è stata reciproca.

A proposito della notazione dei canti popolari nel loro rapporto con i modi ecclesiastici, l'Olmeda trascrisse una gran garte delle melodie popolari castigliane non strettamente nella misura, bensì secondo il modo del corale gregoriano, al cui stile egli crede di doverle assegnare: "La notación propia del estilo a que pertenecen, del estilo del canto gregoriano". L'Olmeda sostituisce però alle note quadrate le note tonde (quarti senza coda), press'a poco alla maniera dei benedettini di Solesmes, raddoppiando e triplicando la grafia della nota e dando a essa un significato di maggiore lunghezza:

Di queste trascrizioni ragiona il Riemann, che dà anche una sua redazione in tempo ??? del primo es., eliminando i cambiamenti di misura; quanto alla modalità, l'Olmeda ritiene in genere che la scala su cui si basano le canzoni, non corrisponda esattamente né al modo maggiore o minore, né ai modi ecclesiastici, ma che, ciò nonostante, essa deve considerarsi influenzata dal modo minore moderno. L'affinità col gregoriano non si limita però all'andamento e all'accento melodico: qui il tipo delle scale, come nell'esempio su riportato, rivela assai spesso l'influenza dei canti della Chiesa.

L'arte musicale dei trovatori e dei trovieri ebbe origine dal canto popolare e specialmente nei canti e balli che erano in uso nel mese di maggio. La melodia che segue dell'Alba bilingue (secolo XI), con la ripetizione d'una formula melodica e con l'aggiunta di una cauda, reca chiaramente l'impronta popolare:

E l'Alba famosa di Giraut de Borneill è pur essa una melodia di sapore popolaresco;

e, infatti, mostra affinità col seguente canto popolare moderno di Modica (Sicilia):

Mentre la musica originaria della Chiesa attingeva, in parte, il senso delle sue forme melodiche dal popolo, assimilandole e ricostituendole secondo la sua natura, i poeti istintivi e popolareschi e gli artisti, lo stesso Iacopone da Todi poeta e musicista, si esprimevano talora con l'inflessione del gregoriano, rimando con l'orecchio rivolto al popolo e alla Chiesa. La canzone che segue è un bellissimo esempio d'antico canto popolare lirico-epico, ed è impiantata, tranne forse che nella conclusione, nel primo modo autentico gregoriano:

Anche la lirica dei Minnesänger, nel suo primo periodo, sarebbe stata improntata al canto popolare tedesco. L'Ars nova dei fiorentini ebbe origini nel sec. XIV e fu schiettamente popolare. Nel secolo successivo la tendenza melodica della musica, con le forme della frottola, della villanella, dei canti carnascialeschi toscani, ecc., fu anch'essa di espressione naturalmente popolaresca.

Nel Quattrocento, in Toscana e in molte altre città italiane, si suppone che siano andati perduti, nel "bruciamento delle vanità" promosso dal Savonarola, i manoscritti con "motto e suono" di più antiche canzoni popolari. In quel tempo e nei periodi successivi entra l'elemento popolare nel polifonismo franco-fiammingo, e lo trasforma collaborando all'instaurazione d'uno stile musicale italiano. In molti luoghi dei Misteri e Sacre rappresentazioni non è notato che le parole vadano in canto, ma ciò è probabile. È certo che qua e là l'azione era anche cantata, come attestano le espresse indicazioni, ed è da supporre che le forme del canto si attenessero al costume popolare. Si trovano embrioni di Misteri, modellati però nello stile del canto fermo, nelle "Vergini sagge e le Vergini folli", nel "Daniele" di un secolo dopo (XII) e si hanno, inoltre, memorie di essi assai più tardi (a Padova per es. nel 1343), mentre, nella stessa epoca, i Francesi, gli Spagnoli, gl'Inglesi, i Tedeschi avevano i loro Mystères, Geistliche Vorstellungen, ecc.

Nel Cinquecento i temi delle canzoni popolari vennero usati con abuso e artificio, che talora furono squisiti: i musicisti ricercarono il segno del linguaggio comune nella natura spontanea della musica popolare, pregiando sommamente, nello stesso tempo, le forme della costruzione polifonica complessa e figurata. Anche nei canzonieri dei rimatori colti, specie del sec. XV e XVI, non pochi componimenti si trovano calcati sui modelli popolari: sicché si può dire che fra arte popolare e arte colta siano sempre durate mutue e amichevoli relazioni. Uno dei temi prediletti dai polifonisti fu quello della canzone dell'Homme armé. G. Obrecht usò in una sua messa: nel Kyrie, le parole d'una canzonetta francese: Je ne vis oncques la pareille; nel Christe, le parole della canzonetta Bontemps; nel Sanctus, quelle della canzone Gracieuse gente; nell'Hosanna: Quand je vous dis le secret de mon cœur; e nel Benedictus: Madame faites moi savoir! V. d'Indy esamina il mottetto Nos qui sumus in hoc mundo di Orlando di Lasso, nel quale il testo è una specie d'inno popolare e anche la musica è sullo stesso tipo del canto dell'inno

il che le conferisce una grande unità di concezione. Nell'esposizione iniziale il tema popolare riveste un carattere eminentemente espressivo:

Martino Lutero volle agevolare la partecipazione della comunità dei fedeli al canto, sostituendo al gregoriano canzoni a più voci, divise in strofe, in parte tratte dalle melodie popolari e in parte su quelle modellate. Un processo simile di trasformazione di canti popolari in canti sacri, si compiva anche in Olanda dove verso la metà del sec. XVI Tylman Susato pubblicava le Souter lidekens (Canzoni salmistiche) su melodie di note canzoni olandesi.

Nel Cinque e Seicento, e precedentemente, in Italia le laudi erano cantate sopra melodie di canzoni profane e popolari. Nelle raccolte di laudi, sopra il testo o la musica, si legge talvolta il primo verso della canzone da cui è tolta la melodia. Si può dire che le arie popolari che si trovano nelle raccolte di S. Razzi, attraverso le laudi filippine fino alle raccolte di M. Coferati, sintetizzino circa due secoli di storia musicale italiana, e specialmente il periodo che segna il passaggio dallo stile polifonico allo stile monodico. Buona parte di arie e di madrigali del Cinque e Seicento, è basata su melodie popolari e anche qui l'autore segna spesso sopra le composizioni il titolo dell'aria popolare che ne forma il tema. In una composizione di O. Vecchi (Capriccio), pubblicata a Venezia (1595) nella Selva di varia ricreazione, si trova il nucleo di una canzone popolare, che vive ancora e che sarebbe infatti cantata nel veronese, la quale conserva, anche nell'elaborazione polifonica, il suo profilo melodico originale:

Vi sono esempî di poesie subordinate a melodie prestabilite anche sul modello della canzone profana, di cui veniva imitato il concetto e l'andamento; così come le danze popolari in uso si travestivano sulle parole delle lodi al Signore. Il canto monodico dei melodrammi del Seicento ha analogia e rapporti di origini col canto popolare e la lauda, essendo la monodia artistica, in molti casi, l'elaborazione dell'aria popolare.

Con lo splendore della musica strumentale, la produzione folkloristica si affievolisce per riprendere dopo la metà del Settecento. In seguito il romanticismo le porge un valido sostegno; i compositori assimilano e rielaborano o riproducono il canto popolare, e sorge l'opera russa, mentre alla fine dell'Ottocento, col maggiore sviluppo degli studî musicologici, la musica etnica viene ricercata e raccolta dappertutto.

H. Mersmann ricostruisce la storia di un Lied attraverso i tempi mostrando come i più antichi Lieder si riannodino alle leggi melodiche di sviluppo del Medioevo, mentre quelli che seguono, via via, sentono le tonalità e la moderna armonia. Lo stesso canto subisce infatti le trasformazioni che, più o meno evidentemente, il sentimento e l'uso del nuovo periodo e il luogo gli conferiscono. Ecco un Lied del Cinquecento:

ed ecco, sempre lo stesso Lied, alla distanza di oltre un secolo, con altre parole, in cui il più tardo rifacimento liturgico produce sensibili varianti ritmiche:

Da questo punto di vista si può ricapitolare:

I primi esempî mostrano chiaramente la stessa sorgente e una stretta relazione tra loro: la tonica sale alla dominante e questa scende alla tonica; ma la linea, a poco a poco, ad eccezione del canto religioso (n. 4), che subisce l'influenza del corale (ed è infatti tolto da un libro di chiesa), tende a perdere la sua rigidezza. Nell'es. 5 l'andamento ritmico incomincia a cedere, la melodia si fa più plastica, mentre nell'es. 6, con una fisionomia più moderna, essa assume una maggiore elasticità, la quale ancora più si manifesta e si sviluppa nei successivi Lieder. L'es. 10, con quel salto di sesta nella prima misura, prende addirittura un movimento di mazurka prettamente ottocentesca.

Storia del concetto. - Il concetto della canzone popolare è sorto assai tardi nella storia della letteratura e della musica. Gli scrittori del Medioevo ragionavano di "carmen barbarum, carmen vulgare, carmen seculare, carmen triviale, carmen rusticum,..., carmen publicum, carmina gentilia, vulgaris fabulatio et cantilenarum modulatio, vulgaris opinio, gens canens prisca": né mai si trova carmen populare. È dubbio che il Volkslied sia una traduzione della canzone popolare o della chanson populaire o dell'inglese popular song. Nel 1772 il Lessing scriveva: Lieder für's Volk. Dal Lied des Volkes può esser venuto il Volkslied di significato universale anche per la copiosa letteratura a cui ha dato luogo. Il Montaigne distingueva una "poësie populaire et purement naturelle" da una "poësie perfaitte, selon l'art". Sir Philip Sidney rilevava che dappertutto, anche dove non fiorisce la scienza, si trova sviluppato un sentimento per la poesia. Come i suoi predecessori, dal Montaigne al Morhof, il Hagedorn notava una differenza solamente nello stile, nella Schreib-Art, fra le due forme, l'artistica e la popolare. Al concetto dell'arte del popolo che, a poco a poco, diventava un problema della letteratura mondiale, è legato anche il nome del Rousseau; e quando egli parla della romanza, si presenta già un tipo di canzone popolare (la "storia"): "Le suiet est pour l'ordinaire quelque histoire amoureuse, et souvent tragique. Comme la Romance doit être écrite d'un style simple, touchant, et d'un goût un peu antique, l'air doit répondre au caractère des paroles; point d'ornement, rien de manière, une mélodie douce, naturelle, champêtre, et qui produise son effet par elle-même, indépendant de la manière de la chanter". Nella seconda metà del Settecento le condizioni politiche e sociali, il concetto della libertà dei popoli, richiamarono la generale attenzione su quanto veniva dal popolo o ad esso si attribuiva. Nel 1759 il Lessing, senza che ancora venisse chiaramente posto, in confronto alla forma letteraria, il concetto della canzone popolare, rilevava tuttavia la naturalezza, l'ingenuo spirito (Witz), l'incantevole schiettezza del canto popolare. Il Volkslied era per il Herder un giuoco, quasi una fotografia del popolo stesso. I canti popolari - abbiano o no un autore conosciuto - sono l'archivio del popolo; da essi si può apprendere la sua maniera di pensare e il linguaggio dei suoi sentimenti. Anche il Goethe sentiva l'insinuante melodia popolare, che gli metteva l'animo in uno stato di simpatia (Mitgefühl). Dalle profonde radici della coscienza del popolo onde trasse origine, venne il canto popolare con la sua forma accessibile, e fu esso generalmente conosciuto e trasmesso dalla tradizione vocale. Nuova è l'affermazione, dovuta al Gräter, che un canto dovesse essere generalmente conosciuto per sopravvivere. D'ora in poi s'insisterà sulla tradizione vocale del canto popolare (mündliche Überlieferung). I primi romantici tedeschi, specialmente, si posero il problema delle origini della poesia e della musica popolare: è necessario che ne sia conosciuto l'autore? È essa il risultato di una collaborazione? Se vi entra il poeta come persona invece della massa come totalità, non siamo al confine della poesia d'arte? Da Schlegel, Uhland, Hoffmann von Fallersleben, Vischer, Schopenhauer, Wackernagel, Böhme, Zimmer fino a Böckel, Prahl, Pommer, quasi tutti gli scrittori più noti hanno preso posizione e formulato definizioni polemiche e contraddittorie. Contro un'osservazione del Görres, che Volkslieder siano entrati nel mondo come l'uomo stesso vi entrò, indeterminatamente, senza volontà propria, e perciò non sono in nessun modo opere d'arte bensì un portato della natura come le piante, ribatte il Docen sbarazzando il terreno del pregiudizio dell'arte come prodotto intellettuale e affermando che anche la maniera popolare è arte, e che è anzi la più vicina e genuina espressione dell'interna poesia dell'uomo. Solo il canto può conferire vitalità nel tempo alla poesia popolare; ma il suo carattere deve essere tramandato - secondo il Vilmar - con l'interna verità e la poetica innocenza che la germinarono. Questo è l'essenziale dei Lieder del popolo, essenziale che quelli creati per il popolo non sanno invece mantenere. E a proposito delle "arteficiate composizioni dei dotti", il Leopardi, parlando della rispondenza del sentimento all'espressione, avvertiva che tale rispondenza era stata un tempo schietta, viva, immediata nei canti originali della nostra gente: quando il ritmo e la parola, la melodia e il verso sgorgavano dall'anima del popolo nell'impeto di un'unica ispirazione concorde, colorati dall'interna vampa del sentimento comune: si vuol notare che nello stesso popolo l'assuefazione in fatto di melodie (come anche di armonie) non è sempre αὐτόματος ma ben spesso in lui prodotta dall'arte. Perocché a forza di udire musiche e cantilene composte per arte (il che a tutti più o meno accade), anche i non intendenti, anzi affatto ignari della scienza musicale, assuefanno l'orecchio a quelle successioni di tuoni che naturalmente essi non avrebbero né conosciute né giudicate per armoniose (o ch'elle sieno inventate di pianta dagli uomini dell'arte o da loro fabbricate sulle melodie popolari, e di là originate), in virtù della quale assuefazione essi giungono a poco a poco, e senza avvedersi del loro progresso, a trovare armoniose tali successioni, a sentirvi una melodia, e quindi a provarvi un diletto sempre maggiore, e a formarsi circa le melodie una più capace, più varia, più estesa facoltà di giudicare, la qual facoltà, che in altri arriva a maggiore in altri a minor grado, è poi per essi cagione del diletto che provano nell'udir musiche; giudizio e diletto determinato, dettato e cagionato, non già dalla natura primitiva e universale, ma dall'assuefazione accidentale e varia secondo i tempi, i luoghi e le nazioni". "Né altro è nelle melodie musicali il popolare, se non una successione di tuoni alla quale gli orecchi del popolo e degli uditori generalmente siano per qualche modo assuefatti". Dopo il 1840 s'incominciano particolarmente a considerare i due momenti della canzone, il suo sorgere e il diffondersi di essa nel tempo e nello spazio. Cogliere la Stimmung e incorporarla in musica e poesia, fare un'arte senza arte, improvvisare cantando, ecco il Volkslnd. Il cantore canta ciò che ognuno sa e che nessuno ha mai cantato. I Volkslieder sono le antiche canzoni che, attraverso la tradizione vocale, hanno resistito al tempo e si sono conservate fino a noi. Ma il canto popolare - avverte il Liliencron - è il riflesso della Kunstmusik del suo tempo o dell'età anteriore. Un Lied senza melodia è come un quadro senza colori. Il Lied sorge con l'unione di parole e suoni. Qui però le opinioni sono disparate: è la melodia che si unisce al testo preesistente o no, o viceversa? La seconda metà dell'Ottocento tende prevalentemente alla valorizzazione dell'individualità: la storia del concetto della canzone s'identifica ora con lo sviluppo della cultura, onde prevale con insistenza il concetto di un'individualità creatrice nella massa. Il Baechtold afferma che tutte le letterature si sono iniziate dalla poesia popolare. Il Lied è l'ingenua espressione obiettiva dell'anima del popolo, dal popolo cantato e diffuso; nella sua anonimità risiede il suo essere; e non fu creato dalla massa, bensì da un singolo interprete di essa. Sono inconcepibili al loro sorgere Lieder senza canto. La massa del popolo sente anche oggi non solo la musica, ma anche la poesia nel Lied. Non mancano definizioni singolari come quella del Böckel che pone la vita della canzone fra i due poli di natura e cultura: essa sorge dalla natura e passa con la cultura. Lo Storm ritorna al concetto dell'inesistenza del singolo creatore. I canti scorrono trasformandosi continuamente; noi troviamo in essi il nostro proprio fare e lasciare, ed è come se tutti vi avessimo collaborato. In questi canti dobbiamo ricercare tuttavia l'origine dei suoni organizzati; essi dormono non si sa dove e Dio solo sa chi li ha svegliati. Il Lied è creazione di un singolo - afferma invece lo Jungbauer - e non è dato d'individuare il momento del suo trapasso nel dominio popolare. La parola scritta rimane fissa, quella parlata o cantata, al contrario, trasformata, sostituita le mille volte, va per la luce: in ciò la differenza - secondo il Meyer - fra Volkspoesie e Kunstpoesie. Il Nigra pone e sostiene il principio che, quando il fatto cantato abbia fondamento nella storia, "la poesia veramente popolare e tradizionale sia coeva del fatto da essa narrato". "In generale la formazione del canto popolare storico non è spiegabile che con l'impressione ancora viva, prodotta dall'evento narrato sull'immaginazione popolare. Però la coevità non vuol essere intesa in senso stretto, potendosi anche ammettere che un canto sia nato posteriormente all'evento". Nelle canzoni di data recente si scorgono spesso elementi di data antica. Per il Nigra il metro è determinato dalla melodia, inoltre "intere frasi e interi versi, e spesso il principio della composizione, sono mutuati con canzoni già esistenti. Ciò che si aggiunge di nuovo è spesso scorretto, rozzo e talora confuso; a poco a poco, passando per le molte bocche, si modifica, si purifica, si compie. Nel trasmettersi il proprio canto, il popolo lo rinnova e lo modifica costantemente nelle forme dialettali e nel contenuto, anche in parte nella melodia e nel metro, e queste continue modificazioni costituiscono in realtà una perpetua creaziane". Il carattere indelebile della popolarità, per mezzo del costante lavoro dello spirito della massa, s'imprime talora - secondo il D'Ancona - "con varianti, che sono quasi suggello impressovi del sentimento comune, e per le quali l'opera da individuale si tramuta in collettiva". "La parola è nel popolo più musica che idea", disse il De Sanctis; laddove il Wagner affermava essere vano tentare di disgiungere nei canti popolari la frase musicale dalla parola: "melodia e verso sono in essi una sola cosa: la rispondenza dell'una all'altro è perfetta". "Ma il canto popolare - ha detto il Nietzsche - ha per noi l'immediato valore di uno specchio musicale del mondo, di una melodia primordiale che cerca poi la sua adeguata visione di un sogno, e la esprime nella poesia. La melodia è dunque il sentimento primo e universale, che perciò comporta svariate obiettivazioni in testi svariati". Sulla spontaneità del canto ragiona anche il Tommaseo. Circondato dalla necessità "il povero canta: canta non quantunque tribolato, ma perché tribolato". Riguardo all'affinità fra regione e regione sì nei proverbî come nel canto popolare, il Pitrè scorge in essa l'influenza delle comunicazioni e dei commerci, e afferma che "in condizioni climatologiche e psicologiche eguali l'uomo si esprime più o meno egualmente". E il Tiersot considera la canzone popolare come lo stato primitivo della poesia e della musica; essa è l'arte degl'illetterati, e gli autori, questi genî sconosciuti, hanno dato talvolta delle opere immortali. La canzone popolare "surgit d'une veine tout autre que celle d'où sont issues les productions de la littérature et de l'art savants. Mises en parallèle, les unes et les autres représentent ce que l'on peut appeller sans crainte un art de classe, et les classes auxquelles elles s'incorporent furent touiours distinctes et se sont ignorées l'une l'autre". Dal '900 in poi s'incomincia in Italia a porre attenzione alla musica popolare in quanto patrimonio e attività nazionale, e l'Alaleona congiunge addirittura l'arte popolare e l'arte individuale, le quali "non differiscono che per grado di sviluppo". Il popolo crea impulsivamente, spregiudicatamente, per primordiale forza d'intuito, di sentimento, d'istinto, e così parimente i veri artisti. Nella genesi dell'arte musicale di un popolo, la musica popolare precede quella individuale, essa è il germe fecondo che gli artisti compositori sviluppano, elaborano, coltivano. Il Fara distingue l'etnofonia dalla canzone popolare. Questa non è creata dal popolo, ma da esso raccolta e fatta sua: esprime il sentimentalismo dell'umana natura o il fatto del momento, in forma piana, comprensibile e riproducibile, mentre l'etnofonia rispecchia quegli stessi caratteri che si rivelano nel tipo della razza, nella lingua, in tutti i manufatti e le ornamentazioni di un dato popolo di una data regione. L'etnofonia, al contrario della canzone, vive e muore nella sua patria e sfiorisce ai primi tentativi di estranei connubî con la musica dotta. Un terzo genere di canzone - secondo il Fara - si potrebbe chiamare "semi etnica": essa può allignare indifferentemente nelle città e nelle campagne; si tratta di canzoni che, pur essendo opera di un compositore musicista, rispecchiano però i caratteri etnici di una data regione. Il Pratella vede nella musica del popolo un aspetto primitivo dell'attività spirituale della razza umana: "potenza etnica ed estetica che si contrappone a quella materiale e sensuale". Lo spunto viene sempre da un singolo ignoto; subito dopo comincia la formazione dei reali caratteri originali e peculiari del componimento, "quando lo spunto iniziale si è fatto proprietà sentimentale e materiale del popolo: componimento prima di un dato luogo e paese, poi di una data regione; alle volte localizzantesi e alle volte valicante i confini della regione...". Il Liuzzi ritiene il concetto del canto popolare, "per ora, estremamente relativo; che è quanto dire, benché spiaccia, impreciso. Entro i suoi limiti oscillanti ed elastici si mescola in massa ciò che ha carattere e valore etnico, in quanto rappresenta il canto tipico naturale immutabile di una determinata gente in una determinata zona, insieme con ciò che è semplicemente anodino, vagante, spurio; si affianca la melodia che, scendendo da tradizioni remote, integra per volgere di secoli costumi e pratiche di vita familiare e sociale con la canzonetta che dall'oggi al domani sfrutta una banale facilità di divulgazione...". Nel 1929 il Croce, riprendendo le fila della storia del concetto e ragionando della poesia popolare, avvertiva che la distinzione psicologica dei due toni di poesia d'arte e popolare, si ritrova in tutte le altre forme, e vale per la pittura, per la musica, ecc.; "...la poesia popolare - egli scrive - è, nella sfera estetica, l'analogo di quel che il buon senso è nella sfera intellettuale e la candidezza o innocenza nella sfera morale. Essa esprime moti dell'anima che non hanno dietro di sé, come precedenti immediati, grandi travagli del pensiero e della passione; ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme. L'alta poesia muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumature di sentimenti; la poesia popolare non si allarga per così ampî giri e volute per giungere al segno, ma vi giunge per via breve e spedita". E ancora: C'è bensì una poesia popolare bella e una brutta (non poesia), come ce n'è in quella d'arte", ma "dove la poesia popolare è poesia, non si distingue da quella d'arte...". "La differenza, dunque, da cercare, e la corrispettiva definizione, sarà soltanto, come già si è accennato, psicologica, ossia di tendenza o di prevalenza e non già di essenza...". S. A. Luciani sostiene col Croce che alla musica popolare si addice piuttosto il termine di musica regionale, perché modellata sulle forme dialettali e influenzata dalle caratteristiche geografiche della regione. Fra gli altri, si sono occupati del concetto dei canti popolari F. Novati, R. Corso, G. Cocchiara, Benedetto Áubino e, specialmente, G. Gabriel in Canti di Sardegna.

Forme. - I documenti etnografici costituiscono le basi per lo studio dell'arte popolare. La raccolta sistematica per la catalogazione dei canti popolari di tutti i paesi del mondo, darà finalmente la possibilità di studiare, su basi solide e con riferimenti generali, le sorgenti dei "motivi" nella loro espressione elementare e il processo della loro penetrazione nell'arte individuale, il canto artistico individuale passato al popolo, assimilato e trasformato nel tempo e reso perciò popolare perché "rifatto" con un atto ch'è creativo, la melodia come momento dell'improvvisazione nel suo originale spunto e significato, la relazione dei sempre nuovi cambiamenti della forma, i canti aperti, distesi, senza cadenza e senza conclusione tonale, le diverse melodie sullo stesso testo, i rapporti con i canti religiosi, con le forme strumentali e di danza non popolari e col sentimento moderno, la canzone transitoria e quella senza tempo, e così via. H. Mersmann per la Germania ha dato i fondamenti della ricostruzione: la semplicità della formazione del canto popolare è il segno della sua origine. Il sentimento della collettività appare elementare, esso è la primitività dell'impressione e della commozione (gioia, malinconia, dolore, vendetta), mentre la canzone dei musicisti compositori (individuale) è piena di sensibilità (bellezza della linea, ombre, colore, contrapposti, estasi, esasperazione). L'interpretazione storica di un canto popolare è nel complesso dei canti affini; ogni melodia è un "tipo" e i varî "tipi" costituiscono i diversi "gruppi". In una raccolta di canzoni bretoni si può vedere infatti un antico canto di pescatori (Az Baradoz, A), che ha grande analogia, specialmente nella linea, spiegabile col soggiorno dei Celti nell'Italia settentrionale, con una melodia popolare moderna di S. Gimignano in prov. di Siena (B):

Il numero dei periodi di una canzone, secondo il Mersmann, è oscillante: un solo periodo di due frasi, con o senza una frase centrale, costituisce già una forma, ma vi sono canzoni di più periodi ed eccezionalmente anche di quattro periodi più o meno in relazione fra loro. La canzone italiana generalmente è binaria come nella forma classica (A-A1, oppure A-B) e talora ha la disposizione a strofe alternate fra solo e coro, o anche una sola strofa ricorrente come negli stornelli. Nell'ambito della canzone predomina la melodia, mentre l'armonia, nella maggior parte dei casi, si limita a una successione di tonica e dominante e di sottodominante. Oltre ai modi maggiore o minore vediamo impiegati modi antichi, scale orientali, scale senza riferimenti storici e tradizionali, o quasi amorfe ecc. Talvolta le relazioni armoniche sono latenti: la terza, la sesta, la quinta come pedale acuto, la cadenza e il naturale rafforzamento delle voci alla fine, debbono considerarsi, infatti, come relazioni armoniche casuali fondate sull'istinto e sulla consuetudine. Il ritmo, come l'armonia, è limitato: o accompagna il testo, o la melodia, o imita l'oggetto cantato (ruota del mulino ecc.). Non sono infrequenti i casi di contrapposizione fra melodia e ritmo. Lo sviluppo ritmico e l'intromissione di una voce indipendente e quindi polifonica, rappresentano, quanto a raffinatezza, la più alta espressione della musica popolare. Ma raramente è dato di trovare una polifonia vera e propria: si tratta il più delle volte di melodie contrappuntate, anche con contrappunti ritmici, o di ricordi di canoni, o di alternative più o meno precise di parti omofone e polifoniche che continuamente si spostano, o di armonie e di abbellimenti di puro suono, o di una congiunzione di due canti indipendenti, e quindi, per la loro distinta personalità, tipicamente polifonici, dovuta alla pratica del cantare insieme, in cui la polifonia è la risultante di due melodie già formate con diverse parole, incontratesi casualmente e poi fissate. Ad ogni modo, G. Adler fa derivare non solo l'imitazione ma la stessa polifonia dall'abitudine degli abitanti delle montagne del cantare in coro con l'eco; in ciò consenziente il Riemann.

Il periodo genetico del canto popolare rimane sempre un po' occulto; possono riscontrarvisi, tuttavia, trasmissioni e adattamenti a forme dialettali e locali, tracce d'imitazione di provenienza diretta e indiretta più o meno visibili, gridi e canti di venditori, segnali, voci della natura, ecc. Ecco un'imitazione di campane (Barga, Toscana):

Il fatto esterno (le campane) s'imprime nell'animo e vi echeggia suggerendo un'amplificazione nelle misure successive all'imitazione che si associano e si unificano al primo nucleo, con esso naturandosi fino a diventare forma; e le due mezze frasi già chiuse in una frase si cullano aderendo al senso letterale. Da notarsi l'alterazione del do (sesto grado) che conferisce al brano un colore moderno.

Ecco il Segnale del postiglione, con l'imitazione della cornetta, la quale fornisce lo spunto alle parole ("si ode nella strada una tromba, trara...") che costituiscono il Volkslied:

Nella estemporaneità del creare svolgendo e trasformando il nucleo primitivo, giuoca dunque la memoria del già creato, di ciò che esiste, che fra derivazioni e deviazioni procederà ancora e sempre formando. La tendenza della creazione popolare al rafforzamento di una linea melodica, che può giungere fino al suo troncamento con l'intromissione di nuovi elementi, dà vita ad altri motivi perfettamente organici i quali, talvolta, si allontanano completamente dalla prima redazione. Si tratta, forse, di linee melodiche deboli, cui la cosiddetta contaminazione conferisce anima e calore, laddove in altri casi essa agisce negativamente, formando ibridismi. Le varianti, le assimilazioni, le addizioni, gl'ingrandimenti, le semplificazionì sono però da considerarsi, essendo vita, quali fattori di propulsione della canzone, nel corso del tempo e attraverso le varie regioni. Le mutazioni avvenute più o meno lentamente sono determinate, in molti casi, dall'influenza del testo sulla melodia. Il Mersmann mostra un Lied di soldati con ritmo di marcia:

Questo canto si trasforma sotto l'influenza dello stesso testo cui va aderendo, rievocante "la sera tranquilla, il bosco, il canto d'un merlo":

L'es. che segue (una ballata) è ancora più significativo: La piccola mugnaia cade sotto la macina e muore. Il canto incomincia concitatamente, con senso drammatico pieno: Qualche cosa è accaduto al mulino...

Poi, col diffondersi della ballata, viene aggiunta una strofa descrittiva, di preparazione (Nella valle profonda sta un mulino e vi abita una piccola mugnaia e una sua figliolina) che musicalmente, con pochi tocchi, si adatta alle nuove parole perdendo completamente il suo carattere drammatico:

Un esempio di contrapposizione fra due parti della stessa canzone, nel testo e nella melodia, si può vedere nel seguente canto di soldati: Sulla Vistola sta un ulano di guardia...

Qui l'espressione è virile e scolpita appare la sentinella, ma come viene una bella fanciulla a portar fiori dalla cittadina, l'energia si scioglie in un lirismo tutto popolaresco:

Nel 1822 C. Fesca componeva un Lied sulle parole di una Ballata di Maler Müller. Nella seconda metà dell'Ottocento musica e testo subirono delle trasformazioni per l'intromissione (contaminazione) di un canto di soldati. Possiamo vedere nella più tarda redazione delle due melodie, di cui ragiona acutamente il Mersmann, quella originale del Fesca (1) e quella popolare ormai fissata (2), quale ne sia la differenza:

Il primo es. ha uno sviluppo melodico regolare e sembra scritto di gètto: la seconda frase è una logica modificazione della melodia della prima. Le due frasi del secondo esempio (popolare), per contro, sono fra loro più antitetiche: la prima appare meno plastica, con minor forza decisiva di vita propria, mentre la seconda contiene una maggiore potenza di espressione melodica e ritmica ed è, al contrario del primo esempio, il punto essenziale della melodia. Qui l'indagine fra l'apparizione della canzone del Fesca e il suo corso tra varianti e contaminazioni, prova la virtù assimilatrice del canto popolare, che può ricreare con spirito proprio, come attesta soprattutto la seconda mezza frase (b) del secondo esempio (2ª frase).

La musica popolare è relativamente affine in tutte le regioni progredite, quantunque ogni paese, ogni razza, ogni tempo abbiano un'impronta propria. Si può vedere una differenza notevole di sviluppo fra regione e regione paragonando, per esempio, i cantastorie toscani con quelli serbi. Questi si accompagnano di uno strumento a tre corde in relazione di quinta o all'unisono (dal Panoff detto gadulka; probabilmente una varietà della guzla); le loro declamazioni sono costituite da brevi motivi; e mentre i canti toscani, quasi romanze, circolano in un ambito assai esteso, esse non superano il limite di una quarta:

Ecco il racconto del re Vukačić:

Le mutevoli forme di espressione della composizione musicale hanno scarsa influenza sulla canzone del popolo. Le mode, gl'indirizzi particolari, le rivoluzioni artistiche passano quasi senza toccarla: essa è profondamente attaccata alla tradizione. Spontaneamente l'uomo rinnova e ripete la creazione come la terra il frutto. Nel canto popolare risiede, così, l'essenza naturale della musica.

Influenza sui compositori. - l musicisti compositori, si può dire in ogni tempo, si sono rivolti ai sentimenti intuitivi della musica popolare, ai quadri e costumi che interessano e commuovono ognora popolo e fanciulli (Befana, alberi di Natale, aquiloni. "Maggio", Martienfeier e simili), e li hanno riprodotti e raccontati o, rivivendoli e assimilandoli, li hanno ricreati e stilizzati. Lo stesso padre Martini rifece, con vero umorismo, in alcuni canoni musicali, il richiamo dei venditori ambulanti (venditori di lupini, di limonate, di castagne, raccattatori di bucce di melone), che percorrevano ai suoi tempi le strade di Bologna. Nella Sinfonia pastorale di Beethoven (1° tema del 1° tempo) troviamo un canto rustico dell'Alvernia (Canteloube), che è riprodotto da J. Tiersot:

La mazurka n. 2 dell'Opera 6 di Chopin reca, nell'accompagnamento della melodia, un andamento ritmico e armonico derivato dal canto popolare polacco:

Ma non solo nell'imitazione dei ritmi e delle armonie di danza si manifesta in Chopin l'influenza del canto popolare: le melodie, l'impiego stesso delle misure, delle frasi e dei periodi, in molti casi, ne attestano la presenza latente.

Vediamo inoltre, in talune opere russe, il canto popolare, non trasportato come era stato raccolto e trascritto, bensì rifatto in sé stesso seguendo il procedimento analogo per il quale, nel tempo, tutta la musica popolare venne creata e ricreata dai suoi autori ignoti. Con tale processo sentiamo, dopo averle riconosciute, insieme alla presenza lirica del musicista compositore, le melodie tradizionali del popolo russo.

V'ha un esempio, particolarmente significativo, di compenetrazione e creazione, fra le musiche di I. Pizzetti (Tre canzoni [su testi popolari] per canto e quartetto d'archi: "Donna lombarda", "La prigioniera", "La pesca dell'anello"). La Donna lombarda ritorna qui con lo stesso ritmo composto ternario e con la figurazione che si trovano nella stesura popolare, circolanti dal principio alla fine; e vi riscontriamo i due incisi conclusivi (v. italia: Musica popolare, XIX, p. 968 segg.) riportati nel quartetto;

semplici arpeggi nel violoncello, popolareschi come quelli del primo violino nella terza canzone; e altro ancora che si riporta all'origine e allo stile della melodia. Ma il Pizzetti ha rifatto suo lo schema popolaresco, l'ha dilatato, lo ha portato a vera concitazione drammatica:

Specialmente il dramma musicale di Béla Bartók, Herzog Blaubarts Burg, è dominato dalla. musica popolare; i suoi personaggi Judith e Blaubart traggono il loro linguaggio melodico dai Volkslieder, come si può vedere dalla pubblicazione dello stesso Bartók Versuch einer Systematisierung der ungarischen Bauernmelodien.

Canto popolare:

Anche l'oggettivismo musicale novecentista, che sembrava sorto senza balsamo di poesia, si è trovato alle fonti del canto popolare e se ne è servito impiegandolo con mezzi modernissimi. Igor Strawinsky aveva portato un primitivismo prevalente e un'assoluta immediatezza di elementi popolareschi in molte sue musiche teatrali e strumentali; ma specialmente in Noces il potere elementare della terra madre viene alla luce trasformato, rivissuto, fatto poesia. Qui il racconto a forza di presupposti obiettivi formulati teoricamente, è passato in stile poetico, dall'esterno all'interno, in schietta musica creativa e perciò eloquente; sicché dove si credeva di oggettivare si è invece scolpita l'interiorità di una razza, passando dal racconto alla sua effusione, alla sua espressione, cioè all'opera d'arte. Tutti i nuovi stili furono anticipati, non attuati da presupposti: questo di Strawinsky in Noces, anticipato non realizzato dal presupposto dell'oggettivismo, si forma e si compie contro lo stesso intenzionale assunto mercé l'interiorità di un vero creatore.

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A. Bon.

Lineamenti storici dell'arte musicale.

Sviluppi melici nella ritmica quantitativa (antiche civiltà orientali e classiche). - Usi musicali. Monodia lirica e drammatica. - Il primo momento della musica d'arte può essere indicato, sia pure in modo piuttosto astratto, nel momento in cui il canto e il suono vengono assunti ad usi rituali, nel campo religioso e nel civile. Canti e melopee o anche semplici timbri vengono quivi a passare dalla più "libertaria" pratica dell'istinto immediato a cosciente uso in occasioni determinate. Il sentimento individuale comincia infatti - in tale momento - a prodursi nell'ambito di prefisse circostanze capaci di arricchire e modificare, in una con sé stesse, anche l'affetto medesimo. Si viene così a formare gradatamente una prassi formalmente disciplinata e quindi consapevole dei proprî elementi comuni: per esempio l'uso per certe circostanze di dati strumenti, di dati canti, di date danze; uso dunque compartecipe della formazione d'uno "stile" ufficiale o comunque coerente e dialetticamente efficiente. Sino dal primo momento si produce d'altra parte l'osmosi cui dianzi s'accennava tra popolo e scuola, in quanto gli usi già popolari e poi codificati in stile aulico vengono immediatamente ripresi, interpretati nuovamente, e cioè rigenerati dal popolo stesso.

Per le civiltà più remote, mancandoci documenti diretti, sia per l'assenza, sia per lo smarrimento di notazione musicale, non si potrebbe senza arbitrio cercare di sceverare le due correnti. Si limiterà quindi l'osservazione alle tracce lasciate dalla pratica musicale in genere nella vita di quegli antichi popoli.

L'importanza dell'arte dei suoni nelle antiche civiltà orientali è documentata da testimonianze letterarie e da figurazioni plastiche, le quali talvolta c'informano anche di qualche particolare dei costumi musicali, oltre che da strumenti rimasti nelle tombe, nei templi e nei palazzi.

Così sappiamo, da numerose figurazioni (pittoriche e a rilievo) che in Egitto l'elemento musicale era - se non richiesto - certo considerato quasi necessario nella liturgia e nella vita civile (pubblica e privata): cantori e strumentisti compaiono quasi regolarmente nelle processioni religiose, nei cortei dei re, nelle marce militari, e, naturalmente, nelle danze, fino dai tempi più remoti della storia egiziana. In vasi e in pareti di tombe preistoriche si trovano figurazioni di crotali (d'origine libica?) di legno o d'avorio, a coppie. E all'antico impero (3500-3000 a. C.) risalgono vestigia (schisto di Hierakonpolis) dell'uso di strumenti a fiato del genere flauto (verticale) durante le cacce, e di corde: arpa, citara, liuto, ecc. Anche all'antico impero risale un flauto ad ancia doppia; al nuovo (cioè dalla XVIII dinastia in poi: 1600-1100 circa) oltre i detti strumenti, più o meno modificati, alcuni flauti doppî (ad angolo), tamburi, trombe, arpe triangolari, ecc. Notevole fra tutte la figurazione del tempio di Luxor (XVIII dinastia) rappresentante un corteo con coristi e suonatori di tamburi, crotali e arpa. Così possiamo pensare che nel tempo gli strumenti a percussione abbiano preceduto (almeno in Egitto ma probabilmente ovunque) quelli a fiato, e questi alla lor volta le corde.

La tendenza (che si induce dai ritrovamenti e dalle figurazioni) all'arricchimento delle risorse di ciascuno strumento può intanto testimoniare d'un alto grado di sensibilità stilistica. L'arpa, che compare dal principio dell'antico impero, ha prima 7 corde, poi fino a 20. Il flauto (ad ancia) di Akhmin (XVIII din.) ha 11 fori a scala cromatica completa. Il canto, a solo o corale, è accompagnato quasi sempre da strumenti. La mancanza di qualsiasi testimonianza in proposito c'impedisce naturalmente di attribuire piuttosto questo che quello stile alla musica egizia. La quale non doveva forse essere molto complessa nelle sue linee, se realmente, come sembra, non vi era necessità di notazione (le figurazioni suaccennate non mostrano mai i musici in atto di cantare o suonare leggendo una "parte" comunque e dovunque scritta).

Era poi questa musica monodica o polivocale? Su questo punto non sono possibili che vaghe induzioni. Certo di usi polifonici eventualmente prodottisi in seno alla pratica popolare non rimane traccia nella cultura dei popoli in certo modo vicini o eredi della civiltà egizia. Si potrebbe quindi arguire che siffatti eventuali usi polifonici non siano entrati in un coerente stile aulico.

Presso i Sumeri troviamo documenti di pratiche musicali abbastanza diffuse: il canto, accompagnato da strumenti, è d'uso nei riti religiosi, e i musici stessi appartengono all'ordine sacerdotale. Tra questi riti sappiamo, da rilievi da Tello (2600 a. C.), che particolare sviluppo musicale avevano le cerimonie funebri, in cui s'intonavano da sacerdoti e da prefiche canti chiamati balag e accompagnati appunto dallo strumento a corde di tal nome. Questo strumento del resto non era il solo che i Sumeri introducessero nel tempio: flauti (monauli?) e cimbali di rame vi si trovano vicini. E presso i popoli che ai Sumeri seguirono in quelle regioni: cioè presso i Caldei e poi presso gli Assiri, rilievi e iscrizioni varie ci mostrano spesso figure di cantori e di strumentisti, nel tempio e fuori: in riti, processioni, cortei militari e civili. Così vediamo il balag comparire costantemente nelle scene di sacrifizî (non soltanto nei funebri come avveniva presso i Sumeri), e poi, nel periodo propriamente assiro, compaiono l'arpa, la citara, il liuto, flauti doppî, e, ad uso di segnali, la tromba, oltre le percussioni, tamburelli, timpani e cimbali.

Usi analoghi troviamo anche presso gli Ebrei, la cui razza semita s'era del resto già manifestata in tal senso nelle civiltà successe alla sumerica. Il canto, spesso corale, è anche nel tempio accompagnato da strumenti, i quali sono menzionati nella Scrittura con una terminologia non molto precisa, ma sufficiente a distinguere i tipi: così l'‛Alamoth il Nebel, il Kinnor, a corde, possono corrispondere a strumenti del tipo liuto, lira, arpa; lo Shofar, strumento a fiato di potente sonorità, usato dai sacerdoti nel tempio, può essere considerato come una sorta di grosso corno. I fiati sono del resto usati, presso gli Ebrei, specialmente per segnali, fanfare, ecc., prima e dopo i canti. La Scrittura c'informa inoltre non di rado dell'intervento della musica nella vita ebraica: si vedano, a tal proposito, i passi relativi al cantico di Myriam (Esodo, XV, 20-21) al trasporto dell'Arca (I Cronache, XV, 16-25; XVI, 6-7; XXV,1-7), alla consacrazione del Tempio (II Cronache, V, 13-13), alla dedicazione delle mura di Gerusalemme (Neemia, XII, 27-46). Nel Talmūd si trova poi la conferma degli stessi usi musicali già menzionati dalla Bibbia. Una certa tradizione s'era dunque formata e viveva ancora. Non molto sappiamo però circa la figura propria della musica ebraica del Tempio, in quanto gli studî compiuti di recente dall'Idelsohn sul canto oggi praticato da popolazioni semite dello Yemen e di altri luoghi rimasti fuori del movimento moderno non possono avere valore di documenti riguardo a un'arte così lontana e legata a contingenze di tempi e di vita. Indizî possono invece essere trovati in elementi e in usi di civiltà che sappiamo penetrate di correnti semitiche, e specialmente da usi della liturgia cristiana, dei quali più avanti si studierà il decorso.

Per ora intanto possiamo attribuire al costume rituale ebraico l'uso del canto su testi non soltanto poetici ma anche in prosa (uso sconosciuto alle civiltà classiche), sia nei limiti d'una semplice declamazione più o meno intonata, probabilmente iniziata e conclusa, da frase a frase, con formule melodiche prefisse, sia nei limiti di un melos più organico e più vasto, forse melismatico. Lettura più prossima al linguaggio comune quella dei libri propriamente sacri e cioè di diretta rivelazione divina (Pentateuco), più prossima allo stile melico quella dei libri non direttamente divini; liberamente avviato a espansione melodica doveva invece essere il canto degli altri libri. Quanto agli schemi formali, la caratteristica simmetria (parallelismo) di concetti tra l'uno e l'altro emistichio nei testi letterarî può far pensare che analogamente simmetriche fossero le movenze melodiche, e di ciò si potrebbe trovare una discendenza in alcuni canti cristiani, ove il parallelismo si produce tra i concetti musicali non meno che tra i verbali. Da tale simmetria però non deriva necessariamente una struttura in certo modo simmetrica nell'intera pagina, potendosi, al contrario, procedere di passo in passo - ognuno nel suo singolo schema passibile di parallelismo - senza un piano organico e generale ma soltanto in continuità di discorso.

Così anche lo stesso uso di testi non necessariamente poetici ma anche prosastici induce a ritenere assai limitata l'azione d'una eventuale "quantità" prosodica: limitata, in ogni modo, in termini analoghi a quelli del cursus latino.

In conseguenza di questa limitazione si potrebbe anche indurre una ritmica determinata dalla successione degli accenti tonici, equivalga poi ciò ad accentuazione melodica - come avverrà in Grecia - o dinamica come avverrà nel canto cristiano. Le maggiori probabilità d'un'accentuazione dinamica - suggerite appunto dalla provenienza ebraica del patrimonio liturgico cristiano - può infine dare un nuovo indizio (dopo quello della musicabilità di testi in prosa ed extra-quantitativi) di un'autonomia del ritmo musicale, sufficiente a conferire al canto una figura veramente espressiva di per sé, il che equivale a ritenerne possibile una completa libertà di volute melodiche. A questo punto, per determinare più strettamente le virtù di questa espressione melica, sarebbe necessario conoscere almeno i costitutivi sintattici che un dato meccanismo tonale poteva fornire; mentre degli eventuali sistemi tonali ebraici nulla o quasi possiamo asserire, i cristiani avendo subito, al loro prodursi in seno alla civiltà classica, una forte influenza dei sistemi ellenici, a quei tempi già troppo evoluti per mostrare ancora le lor tracce di remote origini orientali. Mentre nell'Oriente egizio e dell'Asia anteriore si svolgevano tali vicende, altre civiltà venivano intanto a fioritura musicale: lasciando da parte quelle civiltà asiatiche (India, Tibet, Cina, Giappone) che non giungono a stilistiche unitarie se non in tempi relativamente avanzati, nonostante la remota loro origine (v. le singole voci), è necessario, per comprendere lo svolgimento storico della musica europea d'arte, considerare l'importanza della civiltà cretese-micenea che per lungo tempo partecipa degli sviluppi egizio-orientali e che prelude direttamente alla greca propriamente detta.

All'ultima fioritura di tale civiltà (periodo tardo-minoico) risalgono alcuni rilievi e dipinti - per vero non molto numerosi -, di Hagía Triáda (sec. XIV-XIII), che mostrano cerimonie rituali con officianti cui s'accostano cantori e suonatori di varî strumenti: sistro, flauto, citara (v. cretese-micenea, civiltà, tav. a colori e figg. 61-62). Di questa civiltà, la cui arte propria non ci è nota se non per documenti architettonici e figurativi, possiamo per ora soltanto supporre - per induzione da probabili retaggi goduti dalla civiltà ellenica propriamente detta - alcuni usi poetico-musicali praticati anche (o specialmente) tra gli Eoli e gli Ioni che agirono nel periodo miceneo (ultimo minoico) e che ci avviano - senza soluzione di continuità - alle soglie dell'arte greca.

Da quel periodo preellenico ripetono origine, infatti, costumi dei quali troviamo menzione o traccia nella poesia dell'età omerico-esiodea (secoli IX-VIII), dove si corona la tradizione epica e si prelude al rinnovamento della lirica: canti a solo e corali (episodî omerici di Calipso, Nausicaa, Femio, Demodoco per il canto solistico; per il corale v. Iliade, I, 472 e XXII, 391, col canto di peana; XVIII, con canti vendemmiali a solo e coro, ed epitalamî a cui concorrono danze al suono di flauti e lire; inno ad Apollo Pitico, v. 514, Scudo d'Ercole, v. 262 seg., con cortei trionfali, imenei, ecc.); generi quali l'iporchema, il treno, il ditirambo; nuclei ritmici che attraverso fasi metriche eoliche o anche preeoliche (tripodiche?) genereranno il verso eroico dell'epica e dell'elegia; modi (armonie) come il frigio, il lidio, l'eolio, lo ionico; strumenti come la ϕόρμιγξ, il trigono (e perfino la magadis e la pectis degli ancor lontani poeti di Lesbo), l'aulo semplice e il doppio ecc.

Nella riassunzione ionica (Omero e lo ionizzante Esiodo e poi, dal sec. VII, gli elegiaci) l'elemento mistico-affettivo che determina, così nelle remote origini come nel futuro sviluppo classico, la ragione dei peana, dei treni ecc., si scioglie, quasi per analisi, in continuità di discorso e dà sostanza a seguite narrazioni o didattiche, non diversamente da quanto volevano, per natura stessa, la οἴμη e in genere le canzoni epiche. Privati di autonomia e quindi di propria organica architettura a strofe o a comma ecc. e steso il loro verseggiare negli ἔπη senz'arresto fluenti a centinaia, quei carmi che quasi di certo s'eran levati (e che nella melica si leveranno) in ampio melos, ora vengono a confondersi, in comuni ragioni e condizioni, con il contesto narrativo e logico d'intima virtù ionica.

Quale fosse la figura dell'intonazione canora dell'ἔπος possiamo più supporre che stabilire: insieme con usi e motivi del canto innodico da essi riespresso in narrativo, gli aedi ionici dovettero accogliere dagli Eoli anche il coefficiente melico, di cui sopravvive infatti il chiaro segno nel costume del concorso strumentale. Viziata la funzione lirica del melos per la natura e per la sufficienza stessa, per la totalità espressiva del nuovo verbo poetico, il verso continuò probabilmente per un certo tempo a prendere le mosse - secondo l'abito invalso alla parola cantata - da uno spunto musicale, ormai però formulistico, indifferente da affetto ad affetto e quindi atto a iterarsi dall'uno all'altro verso in lunga serie. Così gli ἔπη riducono il canto, già nell'arte ufficiale preomerica, a semplice recitazione, mantenuta in tono dagli esponenti di una formuletta fondamentale e dal suono della ϕόρμιγξ. Recenti studî, fondati sulla lettera omerica (episodî di Femio e di Demodoco), tolgono anzi all'ἔπος preomerico il sostegno strumentale, riducendone l'intervento nei limiti di brevi introduzioni e interludî, sì che anche più facilmente si potrebbe accettare la notizia dello Pseudo-Platone (Jone, 530) secondo la quale nell'età omerica la recitazione epica avrebbe abbandonato ogni aspetto propriamente musicale. La presenza, però, della ϕόρμιγξ fa ammettere che la voce serbasse, sia pure con libertà, aderenza a una data tonalità anche tra l'uno e l'altro intervento strumentale.

E non molto diverse ci appaiono le posizioni dell'elemento musicale negli ἔπη dell'altra scuola ionica: quella dei giambo-elegiaci dal sec. VII in poi.

Ben altre le vicende musicali nella eolio-dorica riassunzione in arte classica (dalla fine del sec. VIII) dell'innodia etnica che la preponderanza dell'epica ionia aveva ridotta, pur nutrendosene, ai margini della corrente aulica, se non proprio sommersa nelle profondità dell'arte popolare: giunta nuovamente ad autonoma - o in ogni modo ben distinta - figura propria, l'innodia si estende a lirica pluricorde (religiosa, civile, erotica), dovunque determinandosi in forme potentemente unitarie, al cui centro focale convergono le funzioni dei varî organi struttivi: strofe, comma, ecc.

Differenziamento nell'unità, tale da comportare, superata l'egemonia ionia, una nuova funzione estetica del ritmo, che si attua in poliritmia e polimetria prevalentemente verbale (come s'è detto dianzi) presso gli Eoli della scuola lesbica, in espressivo melos presso le scuole doriche (i cui primi maestri sembrano anch'essi di origine eolia) che alimentano la lirica corale. E infatti dalla prima fioritura dorica in poi si svolge la vera fioritura della musica greca, che dalla melica (fine del sec. VIII: Terpandro - tardo sec. V: Bacchilide) si volge al teatro (sec. VI: Frinico - fine del V: Aristofane), disperdendosi in ultimo nelle molte correnti liriche, solistiche o corali, del mondo ellenistico (sec. IV-fine del I) ed ellenizzante.

Dalla letteratura poetica e dai grammatici sembra lecito scorgere - per diretta analisi o per notizie - un generale orientamento dell'estetica greca verso la varietà delle forme: riassunta dignità, l'innodia rinascente come nucleo di policorde lirica si organizza - come s'accennava - in unitario complesso di diverse funzioni struttive, già determinandosi nelle autoritarie linee del sacrale νόμος citarodico (a solo) di Terpandro, che da tristrofico (προοίμιον - ὀμϕαλός - ἐξόδιον) si elabora e si precisa in eptastrofico (ἀρχά - μεταρχά - κατατροπά - μετακατατροπά - ὀμϕαλός - σϕραγίς - ἐπίλογος), e nell'aulodico di Clonas.

La quale varietà di masse struttive (varietà di mole e varietà di canto, ché questo, anziché ripetere, svolgeva il motivo iniziale; procedimento cui si attiene, durante i secoli, il genere nomico) più rispondente, nella pratica, al canto solistico che al corale, si modifica presso Alcmane e Stesicoro (corali e quindi spiegabilmente strofici) in una varietà di ritmi e di metri, tra l'una e l'altra strofa, sconosciuta al monometrico (esametro) νόμος terpandreo.

Spiegabili diversità, queste, tra opere solistiche e opere corali; che però sono presto superate, tanto nella poliritmia quasi sempre solistica dei Lesbî (fine del sec. VII: Alceo - sec. VI: Saffo, e poi il lesbizzante Anacreonte) quanto nella libertà, quasi solistica, dei corsi trenodici o iporchematici di Simonide e nell'audacia delle strofe, pur fortemente corali, di Pindaro. Superata così nella lirica l'antinomia tra solo e coro come condizionante l'espressione estetica, solo e coro si ripresentano tuttora nel teatro come figure di dramma; ambedue caratterizzati, quindi, dalle forme loro più immediate: libera recitazione (più o meno intonata) nei soli, e canto strofico, a struttura binaria o, nella forma completa, ternaria (strofe - antistrofe - epodo, quale già si vede presso i lirici corali) nelle masse dei cori.

Nel teatro, specialmente nei riguardi della letteratura, la civiltà ellenica pura offre l'ultima potente manifestazione di novità; fino a quando correnti eterogenee non penetreranno nel seno del mondo classico (circa i secoli I-II dell'era nostra), l'arte dei Greci sembra di solito ripiegarsi in una voluta stilizzazione culturale di generi (elegia, innodia, lirica da camera e perfino epica), di forme (continuando però con coerenza la corrente commatica non esausta, anzi prossima a nuovo slancio) e di scrittura (metri, armonie, tradizioni melodiche e strumentali ecc.).

Il medesimo orientamento verso la varietà che s'è ora veduto nell'evoluzione delle forme (che necessariamente sono forme musicali nel tempo stesso che poetiche, secondo una legge naturale che ovunque e sempre s'è manifestata) trae in sé a varietà gli stessi elementi peculiari della composizione musicale: armonia, melodia, timbro ecc., che in quelle forme prendono consistenza d'arte. Così l'armonia, che nel νόμος terpandreo - destinato a interpretazione solistica e quindi già più libero tecnicamente - si consente plurimodalità, s'avvia anche nel coro a simile larghezza; che in Pindaro è già potentemente affermata, mentre attraverso i rinnovatori (quali Laso d'Ermione Melanippide, Cinesia) va arricchendosi d'altri "generi" oltre il consueto diatonico, offrendo al melos le virtù espressive del cromatismo (trionfante nel sec. V, specialmente presso Frinide) e dell'enarmonia (Timoteo, allievo di Frinide, e il terzo dei grandi tragici: Euripide). Così la linea melodica (di cui per ovvie ragioni possiamo parlare assai meno) sembra tendere a modulazioni, specialmente da periodo a periodo (strofe o comma) e a maggiore ambito (dalla remota 4ª si giunge presso Euripide all'8ª), mentre decisiva, per la ricchezza espressiva di essa linea, si è or ora mostrata l'intensità del cromatismo o dell'enarmonia di cui essa s'innerva.

Così il timbro passa dall'esiguo numero e dalla semplicità intrinseca dei coefficienti fonici di Terpandro e di Alcmane alla complessità, certo relativa, dell'orchestra neoditirambica e teatrale, che ha corde, fiati e percussioni. Nel quale sviluppo si può del resto anche scernere l'efficienza d'una tradizione di musica strumentale citaristica ed auletica, vivente non soltanto nel riflesso della vocale come accompagnamento ma anche in propria autonomia: nei preludî, interludî, postludî e soprattutto nei cortei, nelle evoluzioni orchestiche del coro ditirambico e teatrale, e nelle danze.

A quel che può risultare o anche soltanto indursi da forti indizî e testimonianze, l'intervento degli strumenti in accompagnamento non doveva esplicare in figura propria l'elemento armonistico, per mezzo di successioni d'accordi, benché non sia facile escludere il rinforzo della sonorità raggiungibile mediante gruppi di note. In sostanza, la stessa linea melodica conteneva in sé i sensi tonali sufficienti all'espressione, come si vede nelle notazioni a noi pervenute, e che - mentre avrebbero potuto benissimo segnare eventuali accordi - si limitano invece a segnare le entrate strumentali (v. monodia). La musicalità ellenica era nettamente melodica, al punto da rendere pleonastica un'estrinsecazione dell'intima sua sintassi in sintassi d'accordi. Lo strumento di sostegno poteva dunque più utilmente timbrare la voce, raddoppiandola all'unisono o all'ottava, con o senza fioriture (eterofonia), o avvolgendola nell'alone sonoro di arpeggi percorrenti il sentiero tonale della melodia. Nelle quali considerazioni è materia sufficiente a porre in posizione d'estrema improbabilità ogni ipotesi d'una musica greca polifonica, tanto nel senso armonistico ora illustrato quanto nel contrappuntistico. Notazioni e testimonianze dei grammatici e degli storici concordano infatti nel proporre alla nostra attenzione fatti musicali chiaramente monodici. Nulla avrebbe infatti impedito a Euripide, p. es., di notare il suo coro dell'Oreste in tutte le "voci", se queste avessero avuto una parte "reale" e non di semplice raddoppio. Inoltre è da osservare che il principio stesso della ritmica greca, basato sulla quantità sillabica, avrebbe reso per lo meno assai difficile un contrappunto vero e proprio e cioè non soltanto omofonico (sillabazione a nota contro nota in stile verticale, o accordico) ma imitativo o altrimenti ingenerante poliritmia e cioè confusione di quantità e soppressione dei valori verbali.

Nel periodo propriamente ellenistico - s'è già accennato - l'arte greca sembra ripiegarsi sulle tradizioni del suo tempo aureo, e anzi secondo la comune veduta dei filologi essa si sarebbe spinta addirittura a intenti arcaizzanti. Documenti di tale ripiegamento si potrebbero indicare, per la parte musicale, nella riflessiva sostenutezza degl'inni delfici (sec. II a. C.) che ripetono il tradizionale tipo della solistica innodia nomica, e che preferiscono di solito il diatonismo al cromatismo e respingono quasi totalmente l'ipotesi enarmonica. Qui non è però possibile risolvere il problema della posizione storico-musicale di questi inni: vicino ai caratteri ora esposti e che di per sé potrebbero spiegarsi come un ritorno a modelli arcaici, compaiono infatti altri caratteri che arcaici non sono: ampliamento dell'ambito melodico dall'ottava euripidea all'undicesima (II inno) e una certa frequenza di modulazioni. Tale coesistenza può infatti revocare in dubbio il carattere degli stessi stilemi dati per arcaizzanti, soprattutto quando si pensi che le vicende ulteriori della musica condurranno, per molto tempo, proprio a una composizione in gran parte nomica e in stile rigorosamente diatonico. A risolvere il dubbio occorrerebbero dunque termini di confronto (composizioni intercedenti tra i tragedi del sec. V e questi innografi del II e maggior copia di documenti con questi ultimi contemporanei) che fino ad oggi non sono a nostra disposizione.

Sviluppi melici nella ritmica accentuativa (dal secolo I al XIII). - La monodia nel salmo, nell'inno, nel dramma liturgico e nell'arte trovadorica. Origini e prime affermazioni della polifonia. - Già nel primo documento musicale diretto che ci sia giunto dopo gl'inni delfici, cioè nello scolio da Tralles (epitaffio di Sicilo, sec. I o II d. C.) emergono caratteri più chiaramente interpretabili in senso storico.

Di arcaismo non il più il caso di parlare, riguardo alla melodia (quanto alla poesia, ci limiteremo a osservarne l'intenzionale ricollegamento agli antichi modelli del genere scolio, cioè ai lesbici): la singolare freschezza dell'ispirazione, l'agilità delle movenze ritmico-melodiche, la pronta evidenza sintattica escludono che si tratti d'un'arte culturale e di riflesso, e somiglianza maggiore si scerne infatti tra lo stile di questa canzone e quello di musiche non anteriori ma anzi più recenti di secoli (Hosanna antifonico dell'ufficio delle Palme). Ora nello studio di questo scolio troviamo stilemi per noi (e cioè per quel che ci è giunto - e che certo non è molto - di documenti del tempo) abbastanza significativi per la loro novità: alle note è soprascritta una notazione di valori di durata. Evidentemente il senso quantitativo fino allora abbastanza vigoroso e diffuso, cominciava qui a far difetto, e richiedeva un'esplicita semiografia. Inoltre il contorno melodico non segue sempre l'accentuazione verbale, cioè esso non tende ad ascesa in corrispondenza con la sillaba accentuata, come nel periodo classico avrebbe dovuto fare.

Si avverte, fino dai primissimi tempi della nostra era, l'urgenza d'una nuova sensibilità artistica, che si concentrerà in un canto sempre meno dipendente dal verso e sempre più vicino a lirica totalità.

Il luogo di scoperta dell'epitaffio di Sicilo (Tralles, Asia Minore) non consente di vedere i germi del rinnovamento melico come contenuti in proprio già nella sensibilità classicista. Influenze forse preponderanti poterono infatti manifestare la loro azione già in questo periodo, come ci ammonisce la stessa verginale vigoria della canzone e come ci avvedremo nel confronto con i fatti musicali d'altra derivazione che nei prossimi tempi si produrranno.

Ma comunque va notato che la resistenza della stilistica classica andava già perdendo sicurezza, nell'emergere di sensi antiquantitativi proprî non della tradizione aulica ma della sensibilità popolare: sensi, d'altra parte, che una loro realtà storica possedevano da tempo in un'altra civiltà: quella dei popoli del vicino Oriente e specialmente dei semitici. E nei documenti ellenizzanti che succedono a quello da Tralles (inni attribuiti a Mesomede, sec. II d. C., e quelli trovati in Egitto, a Ossirinco e altrove, che possono datarsi dal sec. III al IV) tale tendenza all'autonomia ritmico-melica viene a confermarsi, mentre, però, più ambiguo ne è reso lo stile della composizione. Elementi orientali vi si mescolano con classicisti, né a superiore unità vi si giunge.

Sono queste le ultime propaggini del canto propriamente ellenizzante, e sono spinte in mezzo a ben più vasto e concorde movimento, vera forza propulsiva del rinnovamento generale. I caratteri del nuovo canto, cioè del cristiano, sono invece chiare funzioni d'un centrale senso unitario; derivato - come s'è detto - da una coerente tradizione che dalla plurisecolare egemonia dell'arte aulica dei Greci sembra riemergere ora con rinnovato, verginale fervore. Succo di questa corrente orientale può essere considerato un impulso musicale molto più ardente e fantasioso di quello datosi nella severa, un poco razionalistica mentalità ellenica, così attaccata alla logica verbale da concetto a concetto e stringente quindi alla parola e al verso ogni moto musicale. E il rinnovamento dell'arte aulica, dal mondo classico al cristiano, trova qui la sua prima e, per le innumeri conseguenze in tutti i fatti musicali, più importante manifestazione.

S'è visto che uso ebraico era il porre in musica testi prosastici. Il che, inteso nell'intimo, altro non significa che una conseguenza del vigore lirico del canto, che trae a universalità artistica qualunque materia voglia in sé assumere. E certo caratteri funzionali di questo canto su prosa si rivelano quelli che ora riscontriamo nel canto cristiano fino dai primi documenti che ce ne sono giunti.

Anche in quelli di provenienza non ebraica, come p. es. i canti del Simbolo, lo spirito della tradizione ebraica viene osservato: la prosa posta in musica ha così un ritmo musicale, non determinato di sillaba in sillaba dalle quantità. L'accentuazione delle parole, che ora si sottolinea non più con un'ascesa melodica, sibbene con una maggiore intensità fonica, da sé fornisce, con la sua distribuzione nel corso della frase, una nuova base ritmica, abbastanza aperta a varietà d'estro musicale. Vediamo inoltre pronunziarsi, in molte composizioni cristiane, altri caratteri formali che nella Bibbia ritrovano alcunché di analogo. Il "parallelismo" che spartisce e insieme congiunge gli emistichî biblici in una simmetria tra concetti verbali, sembra spesso informare di sé, presso i cristiani, la curva della frase melodica. Si incontrano così abbastanza di frequente frasi che nella loro proposta hanno un'ascesa melodica, per poi ridiscendere nella risposta; del resto tale simmetria può prodursi non soltanto per ascese e discese ma anche per risoluzioni o insistenze di ambedue le semifrasi su un dato grado tonale (v. monodia).

S'è qui posto in rilievo lo stilema del parallelismo sia per mostrare la forza con la quale lo spirito biblico influiva sull'arte cristiana anche meno direttamente da esso creata, sia per mostrare come a una forma si potesse giungere, sia pure nel seno del singolo periodo musicale, pur nella composizione su testo assolutamente continuo, cioè prosastico. Il verso viene qui sostituito, nella sua funzione tettonica, dalla frase melodica avente in sé un'organica struttura.

Ma anche all'infuori di simile esplicazione per così dire materiale, una simmetria o, per meglio dire, una "proporzione" informa a euritmia architettonica il canto cristiano nelle grandi zone della composizione. Se, infatti, la semplice lettura in stile recitativo (Lectiones, Epistole, Vangeli, Praefatio) deve cercare nel seno di ogni frase elementi formali, riducendosi alla ripetizione, più o meno a lungo estensibile, d'un breve schema di frase, ben altro sviluppo architettonico può darsi nella composizione più liberamente melodizzante (salmodia, specie nello stile fiorito) e nella melismatica (Alleluia, Tractus, ecc.).

Ora, per fermare intanto il concetto storico, va osservato che tutti i caratteri interni dello stile nuovo contraddicono nettamente alla tradizione classica, mentre collimano a perfezione con quelli che da ogni testimonianza attribuiamo all'ebraica: quanto ai caratteri più propriamente strutturali, essi possono certo ricordare alcuni caratteri della costruzione ellenica: p. es. l'accentus può ricordare la recitazione dei rapsodi omerici, mentre le forme del concentus, le mesodiche tra le altre, mostrano una certa analogia con le forme tristrofiche del coro lirico e teatrale. Ma la diretta derivazione biblica di quasi tutto il tesoro liturgico cristiano (606 dei 631 testi dell'ufficio provengono dalla Scrittura) ci ammonisce a cautela nel porre tali confronti. Le forme del canto cristiano (responsoriali, antifoniche, ecc.) rispondono, nella pienezza del loro carattere lirico, alla sostanza di cui rappresentano la compiuta esplicazione, e la loro concretezza non può essere cercata se non in tale sostanza, che non è affatto ellenica, come s'è visto, ma anzi anticlassica, quale frutto d'una dialettica tra correnti auliche orientali e correnti popolaresche di tutti i paesi dove si determinava.

In realtà, scrittura, forme, riti cristiani sono generati dalla corrente liturgica della tradizione ebraica, e funzione liturgica hanno gli schemi continui o mesodici, o altri, della nuova musica. Le suaccennate analogie non hanno dunque alcuna concretezza e si ripetono, del resto, nell'intero corso della storia musicale che si dirige ora verso la soluzione del discorso continuo, ora verso quella del tripartito.

Tale il fattore propulsivo del nuovo movimento musicale; il quale fattore certo agisce non nel vuoto, ma in un mondo già ricchissimo di correnti e d'esperienze e di sensi diversi, e, in più, non certo libero da ogni ricordo della tradizione classica che per tanti secoli ne aveva costituito l'espressione estetica ufficiale.

Questo movimento è dunque necessariamente assai complesso e di natura intensamente dialettica, se pure costante evidenza arrida all'azione orientale che ne è il principale fattore. Di qui la varietà delle sue manifestazioni da paese a paese e da tempo a tempo.

S'è già visto come per qualche secolo la stilistica classicista conservi ancora, nei centri dell'ellenismo egiziano e d'Asia Minore, una certa influenza. Pur nel giuoco con le suasive voci orientali, gli elementi tradizionali si fanno ancora sentire nella scrittura degl'inni mesomedici e in quello d'Ossirinco, contribuendovi a una certa ambiguità. Influenze gnostiche rinvenibili nel testo poetico del papiro ossirinchiano possono indurre a supposizioni circa probabili loro effetti anche nel testo musicale. Il problema non è però in condizioni molto favorevoli per essere risolto, data la scarsità di documenti a confronto, i papiri di Berlino datando da secoli più recenti (V-VII) e l'innodia siriaca (anch'essa, del resto, più recente d'un buon secolo) nascendo in ambiente popolaresco e quindi assai lontano da quello ove nasceva l'inno ossirinchiano. Se da questo papiro passiamo a quelli di Berlino troviamo però stilemi della gnostica ellenizzante abbastanza simili ad alcuni della corrente cristiana centrale: varietà, p. esempio, di vocalizzi, a nota ribattuta (a Bisanzio teretisma, nella latinità strophicus o vox tremula) o melismatici (come il προκείμενον bizantino e il psalmellus dei latini). Somiglianze, poi, tra usi classici e cristiani si potrebbero additare nella varietà fra ritmi e ritmi nel corso della stessa composizione (si ricordi la poliritmia dei Greci) e in certe movenze melodiche (scolio da Tralles) che ora troviamo in canti liturgici. Tutte azioni, queste ora elencate, troppo sconnesse per bastare a determinare uno stile, qualora l'impulso (dianzi indicato nel fattore orientale) che le aveva ridotte a tale stato di sconnessione non le avesse poi rivalutate (sé stesso insieme modificando) in nuova coerenza. E ben si vede come ragione di questa loro nuova coerenza fosse non più l'antico impulso, ma questo nuovo.

Nelle correnti per così dire laterali del nuovo movimento, cioè nelle innodiche orientali o di derivazione orientale che emergono nella cristianità fino dal sec. IV (se si prescinde dalle sporadiche e ambigue innodie del tipo ossirinchiano) si scerne un'influenza ellenizzante non tanto nel tessuto della composizione, che è - come s'è detto - radicalmente popolaresco, quanto nell'interpretazione teoretica cui al loro tempo si vollero connettere.

Questa innodia - che s'estende lungo tutto il litorale del levante e del mezzogiorno mediterraneo da Bisanzio fino a gran parte delle sponde africane, e che ha centri d'irradiazione nelle terre di Siria - presenta, almeno con S. Ambrogio (che s'ispira a Efrem di Edessa e a S. Gregorio Nazianzeno), una figura ritmica assai diversa da quella che attribuiamo il canto salmodico. Mentre la salmodia procede, a quanto si può ritenere, per valori uguali da sillaba a sillaba, non consentendosi variazioni di durata se non alla finale di ogni distinctio (e ivi provocando spesso melismi d'interpunzione), il ritmo innodico sembra procedere a scansione di valori per così dire semplici e doppî. Si riprende qui dunque la ritmica quantitativa, come già si volle e spesso ancora oggi si vuole asserire? Certo l'ipotesi non è a priori inammissibile. Dobbiamo però tener conto delle condizioni nelle quali si manifesta il fatto innodico: si tratta qui d'una composizione non aulica ma destinata a fini propagandistici e dunque d'indole largamente popolaresca, se pure lavorata da artisti o da dotti. Essa doveva quindi fare appello alle immediate risorse della sensibilità popolare, che abbiamo visto essersi ormai staccata dalla scansione a lunghe e a brevi, per appoggiarsi invece a quella per accenti tonici e per numero (non per la quantità) delle sillabe. La stessa emersione dei varî "volgari" a ciò contribuiva potentemente.

Inoltre è da rilevare come uso quasi costante fosse presso gl'innografi di tutte le scuole, dalla siriaca alla bizantina nel tempo stesso che alla latina, quello dell'irmologia. Le parole dell'inno vengono applicate a una melodia preesistente e preferibilmente già diffusa tra il popolo, affinché più rapidamente e con maggiore sicurezza possano a loro volta diffondersi e raggiungere così le loro finalità propagandistiche. Se esaminiamo ora la stesura ritmica del verso innodico, p. es. dell'ambrosiano, ci avvediamo che essa, nella sua scansione di valori semplici e doppî, osserva una corrispondenza di verso in verso, tale da assicurare alle varie sillabe (prima, seconda, terza, ecc., d'ogni verso) la stessa relazione con gli accenti tonici, non diversamente da quello che si usa nella poesia severa moderna. E ci avvediamo, insieme, che questa omotonia viene esplicata non per altezza di suono (come avrebbero fatto i Greci del tempo aureo) e non soltanto per intensità come avviene agli accenti nella salmodia, ma anche (e specialmente) per variazioni di durata. L'effetto può dunque benissimo richiamare quello d'un metro classico (p. es., il dimetro giambico) ma questo richiamo non è affatto necessario, e ancor meno opportuno, se si riflette sulla natura popolaresca, e irmologica dell'innodia. E infatti il ritmo dell'inno ambrosiano non si perde con l'estinzione totale del senso quantitativo nei secoli avanzati, ma anzi lo ritroviamo più che mai vivo e legittimo negli svolgimenti più tardi, tanto nel genere propriamente e ufficialmente innodico quanto nel genere derivato (e poi parzialmente riconvergente nell'inno) della sequenza fino nel secolo XIII.

Così possiamo pensare che il cosiddetto dimetro giambico di S. Ambrogio non abbia altra concretezza che quella d'un'intenzionale esplicazione metrica, in termini classici, suggerita dal ritmo omotonico di preesistenti melodie.

Ricapitolando la storia interna del rinnovamento musicale (verificatosi attraverso il rinnovamento della ritmica) durante i primi secoli dell'era cristiana, possiamo dire che l'elemento classicista non vi abbia esercitato di per sé un'azione immediatamente propulsiva, ma piuttosto vi abbia costituito l'ambiente culturale - solo in sottili tropismi estetico - nel quale agisce, pure evolvendosi, un prepotente impulso orientale e popolaresco.

La teoria musicale classica sopravvive infatti per molto tempo alla pratica e soprattutto allo spirito dell'arte ond'era nata; essa rimane in onore presso i teorici del primo Medioevo, i quali si sforzano d'interpretare secondo i classici sistemi i varî fatti musicali che vengono da ogni parte proponendosi alla loro attenzione. Come s'è visto riguardo alla ritmica innodica, si può vedere la costanza del rispetto tributato alla teoria greca, insieme con l'erronea valutazione e di essa teoria e dei nuovi fatti, nella singolare ripresa cristiana dei modi antichi: non soltanto si ritengono modi quelli che in realtà non erano se non toni, cioè modi trasportati, con il conseguente scambio di posizioni, ma, fatto più importante, si pretende di applicare la stessa tecnica ai modi greci e a questi cristiani, i cui agogismi tendono all'acuto e sviluppano una funzione della finalis (ai Greci ignota) preludente alla funzione della moderna tonica, come anche un valore della repercussio quasi preludente alla moderna dominante.

Tali ambiguità non potevano del resto impedire, e neppure rallentare, il processo di formazione del nuovo stile: la parola decisiva spettava infatti sempre al popolo, pure attraverso il giuoco dialettico più sopra osservato tra popolo e schola. La chiave del labirinto storico-musicale è ancora (e per molto tempo rimarrà) quella offerta dal potere del ritmo.

S'è visto come il passaggio dalla musica classica alla cristiana si possa meglio comprendere nel passaggio da basi prosodiche a basi dinamiche: la più ardente musicalità degli orientali sveglia nei "volgari" d'Occidente il fremito della nuova libertà melodica. All'espressione può bastare il canto: il quale s'inebria in fantasiose volute melismatiche, in lunghi vocalizzi da S. Agostino intesi in senso mistico: lo slancio verso Dio, cui a un certo punto non più s'adegua il concetto verbale, si realizza in queste rapite estasi melismatiche, puramente musicali. Ed è certo che il melisma allelujatico ebbe proprio, nel periodo dell'ascesa dei nuovi sensi religiosi, un valore concomitante tipicamente rituale: evocazione della trascendenza, in cui l'individuo è rapito e dissolto.

Nel periodo che s'usa chiamare di assestamento (e che non lo è affatto, se si tiene conto dell'intero movimento musicale) la coscienza dell'io individuale sembra ritrovare necessità di netta esplicazione. Assistiamo così all'entrata in giuoco decisivo delle correnti popolaresche dell'innodia. Le quali, continuate e accresciute da confluenti apporti "volgari" d'ogni provenienza, finiscono con lo straripare di qua e di là dagli argini del genere innodico (per un certo giro di secoli vivente una sua vita autonoma) e permeare con il loro vigore ritmico il tessuto stesso della salmodia allelujatica. Il ritmo che fino allora s'è tenuto a espressiva vaghezza e levità, sì da lasciare il più libero volo al trascendente vocalizzo, ora si riprende in nuova risolutezza. Le esplicite manifestazioni latine cui giunge tale movimento (in Oriente concordano intanto le pratiche dei troparisti bizantini) sono quelle della Sequenza e del Tropo (dal sec. IX in poi, a Jumièges, S. Gallo [Notker, Tuotilo], S. Marziale ecc.); quivi infatti i maturi sensi innodici onde sequenze e tropo traggono possibilità e sostanze penetrano nel seno stesso degli Jubili e dei melismi del Kyrie, dell'Introito ecc., innervandone le fantasiose volute con il vigore sintattico del ritmo omotonico.

Così il già rituale, trascendente concentus melismatico viene ora - mediante il prodursi di questa semplice e pronta sintassi ritmica popolaresca (variamente orientata nelle diverse emersioni etniche) - a esprimere direttamente stati d'animo più caratterizzati, quasi analizzati nel singolo individuo. Di qui la ragione delle ulteriori vicende della melica antifonica e neoresponsoriale, che ci porteranno, o direttamente o per la via delle irmologie sequenziali e tropistiche, a nuove espressioni innodiche (tarda sequenza del 1100 e del 1200) o addirittura alla duttile scrittura, definitivamente "individualistica" del dramma liturgico e dell'arte profana dei trovatori.

Sotto l'impulso di questa tendenza nuovamente individualistica per così dire terrena, non soltanto la ritmica della monodia viene a modificarsi, ma anche la stessa compagine corale è corrosa nell'intimo. Al canto della melodia liturgica ufficiale s'era venuto giustapponendo, dall'ultimo sec. VIII in poi, specialmente nelle scuole centro-occidentali (Irlanda, Francia, Svizzera) un controcanto dapprima assai timido e affidato a un ristretto numero di cantori. Base di queste pratiche poté del resto anche essere l'uso dell'organo come strumento di sostegno; uso che suggeriva il rinforzo della sonorità corale mediante l'aggiunta, al suono dato, dei suoi armonici naturali 8ª, 5ª ecc. Certo né l'organum né la diafonia potevano prendere vera consistenza di espressione polimelodica, con il loro costante procedere omofonico fra due o tre intervalli obbligati. Ma quando, in simile clima, la scissione della massa corale in due parti rende infine possibile il melodizzare delle fioriture di passaggio, quando - cioè - lo stilema della "diminuzione" (v.) sia penetrato nella tecnica discantistica (v. discanto), ci si presenta non più un rinforzo fonico a base di armonici, ma la deduzione d'una vera melodia da un'altra basica, allora finalmente ci si può rendere conto delle potenti virtù musicali del movimento che rapidamente conquisterà l'egemonia nell'arte dotta. Anche qui si ha dunque una conferma della funzione direttiva esercitata, in tutto il cammino musicale di questi tempi, dall'elemento ritmico, di cui i congegni armonistici seguono e attuano il volere. Durante il passaggio dall'organo e dalla diafonia al discanto parigino il senso dell'armonia non è infatti ancora abbastanza forte per assumere la responsabilità dell'entrata di nuovi intervalli e men che meno di disciplinarne l'uso. Mentre l'ammissione di questi nuovi intervalli risponde anzitutto al bisogno di più vario e libero fraseggio presso la parte aggiunta al canto fermo, e cioè risponde a un'esigenza d'ordine melodico, e quindi, in ultima analisi, a un impulso ritmico.

E così anche negli sviluppi ulteriori del discanto che verso la fine del sec. XIII s'avvia (nella sua forma tipica del mottetto) alla futura scioltezza della tecnica contrappuntistica propriamente detta si nota l'efficienza conduttrice del rinnovamento ritmico dall'assoluta ternarietà alle diverse risorse offerte dalla ritmica modale (e il prossimo passo sarà anch'esso di simile natura: dalla ritmica modale alla proporzionale che ancora oggi informa la composizione musicale).

L'evoluzione del ritmo modale trova le sue prime manifestazioni estetiche nella monodia sacra e religiosa della sequenza e del dramma liturgico come in quella profana dell'arte trovadorica: s'è già vista la figura del ritmo omotonico attraverso i secoli della tradizione innodica e poi sequenziale. Tale figura altra non è che quella d'un agente sintattico rispondente alla sensibilità canora del popolo. E l'iniziale interpretazione classicista (invocante le antiche basi prosodiche) cede ora il campo di fronte a una teoria più legittima: quella che appunto si basa sul modo ritmico.

Più stretto a omotonia il canto sequenziale; più libero e vario il canto drammatico che passa agevolmente da zone recitative a zone d'espansione melismatica.

In questa varietà la frase melodica si volge - come s'è accennato - all'esplicazione dei mille moti dell'individuo, compiutamente rispondendo alle esigenze del dramma e della lirica: dalla caratterizzazione d'una scena o d'un personaggio (talvolta dichiarata in temi conduttori) alla notazione del più intimo e fuggevole affetto.

Virtù, dunque, di vigoroso sangue popolaresco, questa che di ogni norma stilistica rende ragione in espressivo cantare: oltre che nella tarda innodia e nel dramma liturgico, ciò si nota nell'arte profana delle correnti trovadoriche (troubadours, trouvères, Minnesänger), percorsa da vene popolaresche. Ed ecco che la rigidezza teorica del modo ritmico viene ora conservata e anzi ostentata ai fini d'un'espressione d'indole rude o danzante; ora senza sforzo inombrata, come si vede nelle canzoni di movimento lento e di stile fiorito, che sugli elementi lunghi della misura elevano leggiadre corone di melismi. E si noti anzi che melismi si dànno spesso anche sugli altri elementi, specialmente alla finale del verso.

Come agente sintattico, il ritmo già omotonico e ora modale, nel tempo stesso che favorisce nuovi movimenti melici, va intanto contribuendo al consolidamento d'un fraseggio simmetrico che a sua volta esplicherà nuove e più semplici funzioni tonali. Si vedano, a questo proposito, allusioni alle tonalità del maggiore-minore moderno che non scarseggiano nel dramma liturgico e nelle composizioni trovadoriche, specialmente in quelle dei Minnesänger (i quali però obbedivano qui anche al tipico senso tonale delle razze germaniche). Così la monodia, al punto di scendere nell'ombra giunge all'annunzio della sintassi armonistica, che la polifonia non ammetterà esplicitamente se non dopo secoli e in regime non più strettamente vocale né totalitario.

Sviluppi polifonici della nuova sintassi ritmica (dal secolo XII al XVI). - Polifonia severa e popolaresche correnti monodiche. Prime emersioni strumentali. - Ma questo stesso senso melodico che la monodia stava sviluppando e che aveva i suoi riflessi nella diminuzione discantistica veniva intanto rinnovando le sue esigenze per l'azione esercitata nel suo interno dallo slancio ritmico. La fioritura di passaggio vista nella diminuzione (o color) tende ora, nel vigore sintattico acquisito dal fraseggio della melodia monodica, a sintattizzarsi anch'essa in organica struttura di frase. Ed ecco nascere nuove esplicazioni di questa sicurezza sintattica: la frase melodica tende ora a rispondersi o sdoppiarsi non più soltanto in una sola voce più o meno parafrasata dal color, ma anche nella voce aggiunta, e di qui, per naturale sviluppo, anche in altre coordinazioni: cioè in altre voci l'una con l'altra concertanti. La vaga parafrasi d'una laterale parte diminutiva diviene così complesso discorso tra la parte data (tenor) e altre due (e poi tre e più) le quali, da qualsiasi impulso provengano e in qualunque linea vadano melodizzandosi, sempre s'accompagnano l'una con l'altra in una struttura già sufficientemente comprensibile.

Questo ansito melodico determina varie conseguenze nella storia della musica polivocale, sotto l'impulso di varie correnti e tendenze in giuoco dialettico. Appena riuscite a consistenza di frase, le parti aggiunte chiedono un riconoscimento proprio nei confronti con la parte data. La struttura generale rimane comprensibile, ma a spese del tenor. Dal 1300 in poi l'efflorescenza del dolce stil nuovo porta a più libera varietà di movimenti nel seno del concerto, e di questo si giova, in forza del senso prevalentemente melodico del popolo, l'espressione della parte aggiunta, già per ovvie ragioni più libera della parte basica. La canzone e la danza popolare, entrata nella musica polivocale, tendono a loro primato. Così l'interesse melodico viene a passare dal tenor al cantus, cioè dalla parte inferiore alla superiore; in modo tale da ridurre non soltanto il tenor ma anche l'altus, presso l'Ars nova franco-fiorentina (sec. XIV), in valori secondarî ai fini espressivi. Ed ecco queste parti inferiori perdere il loro ufficiale riconoscimento di parità e accettare, nella pratica dell'esecuzione, un trattamento assai spicciativo: non necessariamente alle voci esse sono affidate, venendo a mancare ogni ragione di equilibrio fonico tra esse e il cantus, ma spesso sono affidate agli strumenti, i quali ne fanno cosa loro e quindi variamente trattata secondo le loro possibilità e convenienze. La pratica monodico-accompagnata dei trovatori si riprende qui in quella degli ars-novisti (e tra essi erano anche, del resto, gli ultimi trovatori francesi, massimo fra tutti Guillaume de Machault) e continua nelle scuole - fiorenti specialmente in Italia fino a tutto il sec. XVI - di quei cantori al liuto che con V. Galilei e G. Caccini riporteranno lo stile monodico a dignità e ad egemonia di stile aulico. Così, mentre per la pratica dei musici (spesso cantori al liuto nel tempo stesso che di cappella) la libertà della composizione ars-novistica, dalle forme popolaresche della Ballata, del Madrigale, della Caccia ecc., attraverso la libera forma del mottetto passa ovunque (specie in Francia, Spagna, Olanda, Inghilterra) nell'ambiente della musica dotta, la polifonia ufficiale deve anche da parte sua tener conto di tali conquiste melodiche e - per resistere all'urto della monodia popolaresca - in certo modo assimilarsene i sensi interiori; il che però non potrà dare subito i suoi frutti.

Anche qui, dunque, si assiste dal tardo 1300 al maturo 1400, a un esplicito melodizzarsi delle voci in concerto: se J. Dunstable, G. Binchois, G. Dufay sanno alimentare e condurre a nuova efficienza spirituale l'arte polifonica, ciò si deve specialmente alla piena rispondenza del loro cantare alla sensibilità onde era nata l'Ars nova. L'inglese orna di melodico color, ormai sintetizzato in chiaro discorso, il canto fermo, e s'avvia alla composizione sacra (Messa) a voci e strumenti; i franco-belgi (autori essi stessi di ballate e rondeaux) confermano e sviluppano le dette stilistiche, e il secondo di essi conferisce alle parti, specialmente alla superiore, una mirabile, anche oggi sorprendente, scioltezza di canto. Ma il carattere eminentemente vocale delle melodie dufayane, che si concreta in purezza di linee e commossa suggestività d'ogni movenza (quasi paragonabile alle duttilità della monodia di lauda), non tiene sempre il concerto in un equilibrio tale da non subire alcuna offesa dalla luminosa venustà del cantus. Riducibili a timbro strumentale, queste parti pertanto sanno conservare efficienza ai fini del lirismo. Questo periodo che potremmo definire "di concessioni" da parte delle scuole severe della polifonia alle esigenze della tendenziale monodia ars-novistica, segna in realtà un momento di osmosi tra le due correnti, scolastica e popolaresca, di cui noi possiamo oggi riconoscere tutta la legittimità storica. La polifonia poteva superare la crisi determinata dall'insorta esigenza melodica soltanto melodizzando il proprio stesso discorso. Il che era del resto la ragione stessa, ormai, della sua esistenza stilistica: polifonia e monodia erano infatti, in questo periodo, espressione d'una stessa musicalità, che all'una chiedeva vigore espressivo non minore che alla seconda. Così alle rigidezze alquanto fredde, libresche per così dire, dell'Ars antiqua delle scholae discantiste parigine (Leonino e Perotino) l'insurrezione del senso popolaresco - uscito fuori dalle posizioni laterali fino allora tenute (dramma liturgico, arte trovadorica) - attraverso l'Ars nova riesce a far succedere un concerto ben più aerato, più variamente mosso da linea a linea, in cui il discorso procede con gioiosa e novatrice franchezza di melodie. Sensuosità di canti e di strumenti, senso di sana aria aperta nella disposizione delle parti in concerto, pronto vigore sintattico passano con il Dufay dalla musicalità popolaresca nella polifonia profana d'arte. Meno rapidamente, invece, riesce a simile scioltezza la scrittura primo-fiamminga della composizione di chiesa. La quale per alcun tempo sembra rimanere irrigidita, quasi per sacro timore, nei suoi movimenti.

Da questo rinvigorimento del senso lirico per prima sua manifestazione, il concerto polifonico s'avvia verso nuova legittimità di arte autoritaria e nobile. Di qui la posizione storica della polifonia tardo-quattrocentesca, la quale trae dalla purezza melodica del pensiero dufayano una derivata purezza di compagine fonica: nuova rivalutazione, quindi, della voce come fattore sonoro: gli strumenti portati da Dunstable e dalla prima scuola franco-fiamminga all'onore del servizio sacro, nella seconda appaiono come elementi di squilibrio e in ogni caso artisticamente dannosi in quanto pleonastici. Nello stile polivocale dei due esponenti maggiori di questa seconda scuola, J. Okeghem e J. Obrecht, l'intervento di timbri eterogenei si mostra del tutto inaccettabile, tutto lo spirito di questo stile essendo teso verso la più evidente unità formale. Nel quale orientamento la polifonia sacra e in generale chiesastica non soltanto respinge ogni eterogeneità di elementi fonici, ma esige la più severa concordia delle varie linee vocali. Nella messa e nel mottetto di Okeghem e di Obrecht il concerto va affermando a preferenza uno stile centrato nell'uso dell'imitazione tra le varie voci (di regola quattro); imitazione non però canonica (cioè integrale) ma di frammento in frammento del canto dato, così che l'edificio musicale risulti singolarmente compatto e unitario pur attraverso le varie vicende del dialogo. Questa tendenza non esclude del resto la possibilità di singole composizioni (specialmente i mottetti) già politematiche, che dalla sicura intuizione dell'Okeghem saranno condotte comunque a un finale effetto di sufficiente organicità.

Il momento storico segnato dalla seconda scuola fiamminga appare, così, di singolare importanza. L'arte profana dei Dufay e dei Binchois, libera e varia, suscitatrice di valori immediatamente espressivi del sentimento, trova qui una continuazione delle sue tendenze formali: che le transvaluta e le riorganizza oltre la profanità in dogmatico e universale quadro stilistico. La purezza della melodia vocale dufayana ha provocato l'ascesa a egemonia, sotto il nuovo impulso verso l'unità formale, della composizione a sole voci, ora ancor più unificata mediante l'omogeneità tematica della scrittura che dal precedente canone integrale trae il fecondo dialogo a imitazioni. L'arte dell'elaborazione tematica ne viene fuori con forme pressoché decisive, di cui intanto comincia a giovarsi, per il suo moderno sviluppo, la musica strumentale pura.

Ma il tono di quest'arte è già meno chiaro e luminoso di quel che non fosse presso il maestro di Okeghem: nel movimento dialettico della storia musicale la seconda scuola sembra produrre, dal soggettivismo esplicito del primo Quattrocento, un momento di nuova oggettivazione. Vicende del resto succedentisi quasi di generazione in generazione attraverso tutti i tempi.

L'impressione destata dalla maturità di Okeghem e di Obrecht è quella di un'arte culturale, che si elabora da premesse e da forze non direttamente prese dal mondo comune ma anzi intrinseche d'un già avviato lavoro stilistico. La composizione vi assume un interessamento tutto proprio: il discorso si fa lucidamente consapevole della sua logica direzione, e tende a un'espressione di valori extra-individuali. Più che l'impulso generatore sembra vedersi, di questo lavoro, la finalità esplicitamente estetica. Di qui, insieme con la mirabile duttilità della scrittura - che giunge a insuperati preziosismi - con la serena calma, con l'ampiezza di queste unitarie architetture sonore, un intimo senso di fredda impersonalità. Meno lirici d'un Palestrina, questi fiamminghi sembrano avvicinarsi, bensì all'universalità, ma per una via illuminata più dalla riflessione che dal sentimento immediato.

Sotto questo riguardo, ecco apparire la funzione di questa scuola, che risolve in larga, ricca e diffusa coscienza polifonica il mondo musicale del tempo. E precisamente in tale funzione si può intendere la complessità della sua figura storica, che ha valori di assestamento e valori di propulsione. Riassumendo eterogenee esperienze, oggettivando il proprio stesso mondo in serena consapevolezza stilistica, essa scuola si crea una figura ormai del tutto unitaria e quindi in sé conclusa, interamente risolutiva, tale da produrre nelle venienti generazioni una necessaria reazione: soggettivistica, varia da paese a paese e da persona a persona; che nell'ambiente ove nasce e ove dapprima respira si muoverà per nuovi impulsi, e quel ch'essa farà proprio, dell'arte anteriore, immediatamente sentirà in altro modo e transvaluterà ai suoi proprî fini. Ed ecco il nuovo orientamento disegnarsi subito nella polifonia di Josquin des Prés, di Pierre de la Rue, di Antoine Brumel e degli altri allievi, diretti o indiretti, di J. Okeghem. Il sec. XVI si annunzia subito come rivolto all'espressione più soggettiva: vigore di sensi popolareschi rientra nella scrittura polifonica; le linee melodiche si piegano e si scuotono presso Josquin des Prés come in tormenti e in aneliti di umano dramma. Vaghezze di canzoni profane, coloriti più accesi, fremiti tra il sensuale e il mistico si mischiano spesso insieme, come nella vita del mondo terreno. La dottrina di Okeghem è qui trattata liberamente, e sviscerata in nuove interpretazioni. Il dialogo a imitazioni vi acquista un valore d'intensità, d'insistenza espressiva innervato com'esso è di acri agogismi già chiaramente armonici: anticipazioni, ritardi, sincopi digradano dissonanze da dissonanze, formano zone per così dire critiche dalle quali emerge l'ansito del canto. Gradatamente gli strumenti ritornano all'arte, sia rientrandovi in pieno, sia rimanendovi attaccati, tra la cappella e la strada, con le loro parafrasi e le loro libere versioni e riduzioni dal concerto polivocale. Così la polifonia, o con i mezzi suoi proprî della polimelodia vocale (stile a cappella, derivato dal vecchio Okeghem e - attraverso la maggior parte delle composizioni della 2ª scuola franco-fiamminga - prossimo a trionfare a Roma) o con apporti diversi: emersioni monodiche, coloriti fonici vocali e strumentali, attua nella schola una espressione musicale vigorosa e immediatamente umana. Come s'è detto, il popolo la sente e, come meglio può, la fa sua, coi suoi diversi mezzi pratici, e intanto le rioffre il succoso frutto delle sue inconsce interpretazioni, tesaurizzato, p. es., da un Janequin, da un Sermisy, ecc. Mentre la polifonia rivaluta i suoi artifizî contrappuntistici come documenti di spirituale introspezione (e da questo tormentoso travaglio già comincia ad avvertire in alcune sue scuole - fra tutte la romana - segni di nuovo superamento), al suo discorso le correnti monodiche del popolo vengono a suggerire sensi melodici e già chiaramente armonici, affioranti dal costume della riduzione del concerto polivocale e canto solistico su accompagnamento di strumenti o addirittura a versione puramente strumentale. Dalle quali pratiche viene fuori già visibile l'accordo e la sua congenita tendenza alla sintassi armonistica vera e propria. Influenze siffatte, del resto, si potranno scorgere anche e perfino nella scrittura del massimo e più puro polifonista, cioè del Palestrina, talvolta verticalizzata in omofonia corale (v. il principio dello Stabat).

E intanto la musica strumentale pura comincia ad affermarsi in arte "nobile" seppure vivente ancora all'ombra della polivocalità. Il liuto e poi l'organo e il cembalo, nelle loro intavolature cercano di superare, tra fiamminghi, italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi, i limiti della semplice pratica trascrizione, elevandosi a maggiore effetto strumentale, mediante la più varia e tendenzialmente melodica coloratura (non altro che l'antica diminuzione o color, già illustrata più sopra), la diversa disposizione delle parti in dialogo, il rinforzo delle sonorità e la varietà dei coloriti. Così il mottetto, la canzone francese, il madrigale riappaiono come "ricercare", canzone da sonar ecc., prima direttamente da musiche a musiche, poi, molto rapidamente, soltanto nelle loro forme e nel carattere espressivo del pezzo. E anche di questa vicina corrente la polivocalità sente l'influsso, specialmente a Venezia, o ammettendo gli strumenti insieme con le voci o movendo queste voci stesse in andamenti di strumentale derivazione.

Ricco di particolari correnti, il movimento musicale del Cinquecento si estende specialmente dalle Fiandre e dalla Francia in Italia e in Spagna (ma anche in Germania e in Inghilterra) e tra l'una e l'altra di queste sue correnti nazionali, come tra l'arte profana e la religiosa, intercede un continuo e fecondo scambio, non senza un largo contributo, di tanto in tanto, di musicalità popolaresca.

Prima di lasciare le posizioni egemoniche per tanto tempo tenute, la polifonia vocale ascende così alla sua più alta e più ricca efflorescenza: messa, mottetto, madrigale, canzone vi giungono pressoché nel medesimo tempo in pressoché tutti i paesi.

Le scuole nazionali cominciano qui a prendere nuovo vigore, e a contribuire in proprio, per virtù etniche e storiche, alla varietà dei movimenti stilistici. Il che non va certo inteso in modo stretto e meschino: allo sviluppo di esse scuole cooperano infatti, in Germania e in Italia, maestri fiamminghi: Josquin des Prés a Roma, A. Willaert, C. de Rore nell'Italia settentrionale, un gran numero di maestri franco-belgi e olandesi nelle corti di Mantova, Firenze, Ferrara ecc., influiscono direttamente o con l'insegnamento o con l'esempio nel lavoro dei nostri musicisti. Orlando di Lasso segna della sua impronta artistica ogni terra per la quale egli passi, in Germania e ovunque: Escobedo, Morales, Victoria sono cantori alla cappella vaticana e lavorano insieme con fiamminghi, francesi e italiani. E certo quel che si potrebbe dire, per più comune intendimento, la lingua musicale, cioè l'insieme di usi e stilemi tecnici praticati nel tempo, non è poi molto varia da persona a persona, né da paese a paese. Quello che varia, e che colora di toni diversi e l'un l'altro complementari il quadro della matura polifonia cinquecentesca, è piuttosto il carattere assunto dalla scrittura a seconda dello spirito etnico e storico onde si produce. Fondamento contrappuntistico della polifonia cinquecentesca è infatti ancora il dialogo a imitazioni, a 4, 5 e più voci, preferibilmente su un canto dato dal patrimonio liturgico nella Messa; su canto liberamente scelto nella musica popolare o profana, o anche concepito ex novo, nel mottetto. Le medesime norme dominano ovunque la condotta delle voci in reciproco giuoco. Indirizzo architettonico è dato a preferenza dal modello mottettistico a successive elaborazioni di rispettivi frammenti del canto basico. E alcunché di simile, se pur con maggiore audacia di innovazioni, si potrebbe dire della polivocalità profana, in questo secondo Cinquecento affidata al madrigale (generalmente in Italia a 5, ma anche a 3 e a 4 voci). Ché se ora riandiamo tra i documenti diretti della composizione, vediamo subito come sia agevole scernere, in un esame un poco accurato, la provenienza nazionale e in genere la scuola cui essi documenti appartengono.

Nella scuola romana (Animuccia, Palestrina, Nanini, Anerio, ecc.) si compie una sorta di nuova sintesi delle arti di Okeghem e di Josquin des Prés: nella severa scrittura, più esplicitamente imitativa, di G. Pierluigi da Palestrina s'intende a un'austera meditazione, in cui l'universalità okeghemiana è sentita nel dolore, e nella speranza, e nella serenità maturate in esperienza umana. Si avverte chiaramente come nel mondo dell'Okeghem sia passato l'angoscioso dramma di Josquin des Prés, e come tuttora vi sia sulla terra alcuno che si dibatte fra terreni sensi e mistiche aspirazioni: tra gli altri, Orlando di Lasso e Ludovico da Victoria.

Così a Roma si compie il cammino dalla tormentata introspezione josquiniana verso un'arte anche graficamente larga, sicura e calma come la stessa fede cattolica, così poco oggettiva (come poco oggettiva può essere un'arte di sovrana espressività di sentimenti dalla quale sembra esulare tutto quel che sentimento non sia, tutto quel che mostri intenzioni stilistiche in sé) ma esprimente, del dramma umano, più che lo svolgimento, la catarsi liberatrice. Così nel concerto vocale, spaziato e arioso, le voci passano nitide e sensibili, lungo la loro linea diatonica, pur sempre in casta modestia di fronte all'effetto d'insieme.

La nuova universalità, o cattolicità, è qui raggiunta completamente, nella piena e quindi risolutiva esplicazione dei valori peculiari della polifonia vocale.

Diverso il carattere, il tono della musica dotta del secondo Cinquecento franco-fiammingo e spagnolo: quivi il dramma è espresso nelle sue crisi acute, nel suo giuoco di moti opposti. Non soltanto tra opera e opera si manifesta questo tormento spirituale, ma anche nel seno della stessa scrittura, meno serena nella concezione, meno diatonica nelle linee melodiche, meno calma nel fraseggio ritmico. Qui, in Orlando di Lasso, la vicinanza con Giovanni Pierluigi da Palestrina non dà, nonostante il transitorio soggiorno a Roma, influenze abbastanza imperiose per vincere la forza della discendenza Josquiniana. Egli stesso, corregionale (Hainaut) di Josquin, sembra continuare, in spiriti certo più varî e aperti di tanto in tanto a una sorridente levità, il dramma che il Josquin aveva iniziato nell'arte musicale. Qui l'aspirazione religiosa non giunge a sereno appagamento, e la stessa scrittura, innervata di agogismi armonistici, sottilmente flessuosa nella linea melodica, colorata come da fuggevoli raggi, spesso risolventesi in zone finali di cupa fissità, ci mostra un'arte (che non per nulla fu detta "gotica") aliena da quei valori supremi, super-individuali, capaci di risolvere in uno stile unitario (in questo caso il palestriniano) i più essenziali problemi di tutta un'epoca storica.

E infatti, mentre nelle vicende ulteriori della musica assistiamo a un lento ma inesorabile indebolimento della scuola romana che cerca di seguire i modelli palestriniani quando la funzione storica di essi è ormai compiuta, nel tempo stesso assistiamo al rinvigorimento di elementi franco-fiamminghi nelle nuove vicende della musica dell'Italia Settentrionale (Cremona, Venezia ecc.) e tedesca e in genere dell'arte profana, vocale o strumentale. Sviluppi di tale movimento si avranno dunque, specialmente in tali zone di Europa. La mirabile efflorescenza iberica sembra infatti esaurirsi, senza però un finale superamento analogo al palestriniano, con l'opera di Ludovico da Victoria e del primo grande strumentalista: Antonio de Cabezon. Anche qui, come nell'arte di Orlando di Lasso, la scrittura mira a intensità, talvolta tormentosa, di frase e di passaggi armonistici. Il Cinquecento presenta, in Spagna, una figura musicale che nella pittura non troverà riflesso se non nel secolo successivo. E tutto il suo discorso sembra arrestarsi, non concluso, in una sorta di tragica interrogazione. La musica spagnola d'arte s'inombra così, per secoli, e - mentre le cappelle e le corti si rivolgono alle scuole straniere (specialmente alle italiane) - l'animo del popolo, cupamente chiuso in sé ed estraniato dalle vicende del paese, si ricanta, come in una fissità d'introspezione sempre la stessa ronda, dolorosa pur negl'impeti d'apparente gioia. L'Inghilterra, poi, passerà, dall'ultimo Cinquecento al Seicento, per una bella fioritura polivocale e strumentale, di riflesso più esplicitamente palestriniano in virtù dell'etnica tendenza britannica verso la composta e trasparente polimelodia. Contenutezza e trasparenza cui s'informa del resto anche la composizione vocale-strumentale (J. Dowland) e la clavicembalistica (i "virginalisti": Byrd, Gibbons, Dowland) in gran parte dovuta agli stessi autori delle grandi polifonie vocali sacre e profane: Byrd, Morley, Gibbons, Dowland ecc. Fioritura, questa, che non continuerà se non in correnti secondarie e sempre più deviate dal sentiero nazionale.

Così le vettrici del movimento musicale passano, dal tardo sec. XVI in poi, in Italia estendendosi poi anche in Germania: siamo, infatti, nel periodo in cui dall'azione propulsiva del fattore ritmico, giunto alla scrittura proporzionale, cioè alla sua maggiore ricchezza di possibilità per quel che concerne il senso musicale moderno, si sprigiona ormai incontenibile l'azione propulsiva del fattore armonistico. Conferma di questa emersione si può del resto vedere anche nella coefficiente emersione del senso timbrico, che dell'armonistico non è se non una risonanza. Di qui l'importanza assunta dalle scuole dell'Italia Settentrionale nel quadro musicale del tardo Cinquecento, che appunto loro viene dal locale impulso - già variamente espresso da secoli - verso la potenza e lo splendore fonico, cioè, in questo momento, coloristico. Il sensuale godimento della risonanza armonica e timbrica viene a svilupparsi in piccanti sapori cromatici e in raffinati giuochi di registri e di strumenti. L'avviamento cromatico della scrittura willaertiana trova subito a Venezia la sua più aperta e illuminata strada. Gli organisti di S. Marco e delle vicine cappelle dell'Italia Settentrionale giuocano con A. Willaert il primato in tali conquiste, favoriti com'essi sono dalla stessa legittimità storica di queste loro posizioni. Quel che la tecnica e la teoria possono contenere in tal senso, i veneziani attuano in sede esplicitamente estetica: l'arabesco sonoro del Willaert si fa splendida decorazione (quasi alla veronese) in Claudio Merulo; l'antifonia bicorale - praticata del resto a Venezia da tempo remoto - risolve presso i Gabrieli la sua potenza fonica in potenza d'imperioso lirismo.

L'immaterialità del discorso polivocale palestriniano è qui lontana. Il concerto di voci - umane o strumentali o misto delle prime e delle seconde - agisce liricamente, più che in virtù del concetto annunziato dalla linea melica, proprio in virtù della sensuale flessuosità delle azioni sonore: melodiche, armoniche, timbriche ch'esse siano o, come in realtà avviene, l'una con l'altra in giuoco. Così, riprendendo un'efficienza propria, inerente alla propria sostanza sonora, le "voci" concertanti chiedono una maggiore libertà di disposizione in partitura: passi di potente omofonia, ove tutte insieme le voci dell'uno o dell'altro semicoro o addirittura del coro riunito e timbrato dagli organi e dagli strumenti (cornetti, tromboni, viole ecc.) imperiosamente scandiscono il Verbo sacro, sillaba per sillaba; a tali passi s'alternano dialoghi in movimento ora calmo ora concitato, tra voci del primo e voci del secondo coro; gruppi d'imitazioni s'addensano e si sciolgono tra l'una e l'altra zona omofonica, i due organi, concordi con i cori, si rispondono frase a frase. Dalle Sacrae symphoniae di Giovanni Gabrieli l'orgoglioso splendore della potenza di S. Marco impone il nuovo stile (e ne rende possibili diverse conseguenze) in tutta l'arte dotta delle cappelle dell'Italia Settentrionale e germaniche. Questa concezione per toni e valori ricchi ognuno d'interna varietà di moti e di risonanze, si rinnova infatti, modificata da interferenze monodiche, nella composizione chiesastica concertante di C. Monteverdi (che pure nella Messa sa far rivivere la calma austerità palestriniana) e in quella di H. Schütz che inizia l'ascesa dell'arte tedesca nello stesso "genere" che ne segnerà una delle due vette: cioè (oltre che nella sacra symphonia propriamente detta) in quella sorta di sacra symphonia con passi monodici che è la Passione. Questa l'altra scuola polivocale dell'Italia cinquecentesca, la quale - mentre la romana si corona con Palestrina - spinge in avanti il movimento della musica europea. S'è accennato agl'interni motivi musicali di questa ascesa veneziana alle posizioni di centro propulsivo: in nessun altro ambiente etnico e storico avrebbe meglio potuto svilupparsi a lirica realtà la tendenza, diffusa un po' ovunque (tranne forse nella austera cappella vaticana) verso la sensuale intensità del fremito armonico, cioè, verso la varietà dei coloriti e delle risonanze, efficiente più fecondo d'avvenire: il cromatismo. Il quale cromatismo forse annunziato da fiamminghi, trovava le sue vere virtù espressive in un'arte dinamica e tendente alla venustà del colore; in ogni caso individualistica. Non per nulla il suo sviluppo si compie in grande prevalenza attraverso la musica profana, vocale (il madrigale) e strumentale (il "ricercare" e le forme inizialmente libere della produzione per tastiera), dal Willaert al Vicentino, a C. de Rore, a L. Marenzio, a Gesualdo da Venosa. Permeato di vene cromatiche, d'indole chiaramente sensualistica o senz'altro erotica, il madrigale trova la sua massima espressione proprio presso quel Claudio Monteverdi che tutte le tendenze ne riassume e ne risolve: quivi infatti il cromatismo gesualdino giunge a possibilità infinite: specialmente importante, nella storia del pensiero musicale, quella d'un finale appagamento: l'esasperata tensione delle alterazioni di Gesualdo - esprimente un desiderio senza speranza - si rivaluta qui in drammatico agogismo, che conduce a risolutive modulazioni da tonalità a tonalità. La composizione riacquista in tal modo una sua classica parabola. E il madrigale vero e proprio, nella sua storica legittimità, a questo punto di apogeo si estingue, nell'estinguersi dello stile a cappella. Il nuovo momento della musica lo condurrà infatti, insieme con la sacra symphonia schütziana e con le forme strumentali, al di fuori dell'egemonico impero polivocale.

Nella tendenza all'emersione del fatto armonistico come elemento agogico, motore del congegno musicale, era implicito, infatti, lo sviluppo d'una chiara coscienza del giuoco tonale: la successione di gruppi di suoni si spiega come successione d'accordi, l'uno dall'altro voluti. Si formano così e si precisano le nuove "funzioni" tonali, in una sintassi - come più sopra s'annunziava - più semplice e categorica, propria d'un fraseggio più svelto e pronto al minimo e più fuggevole affetto.

Già prevedibile chiaramente nei movimenti monodizzanti (Ars nova), nell'arte popolaresca dei frottolisti e dei madrigalisti del 1400, come anche nella tecnica dei liutisti e cantori al liuto cinquecenteschi, la sintassi armonistica convogliante seco il senso tonale moderno si fa spesso strada, come s'è accennato, nello stesso concerto polivocale, specialmente nelle zone omofoniche. Ma è chiaro che un siffatto potenziamento dell'agogismo armonistico conduceva per sua stessa natura a una verticalizzazione della scrittura e quindi - nei tempi e nelle scuole di cui ora ci occupiamo - a un'emersione dell'elemento melodico, di tali agogismi e di tale pronta e sufficiente sintassi innervato. Ecco già la pratica verticale passare dal semplice uso popolaresco (liutisti) all'uso, ben più significativo, degli organisti italiani che cominciano ad accompagnare il canto, nella seconda metà del sec. XVI, muovendo il discorso sull'itinerario tonale suggerito da un basso d'armonia. Ecco, intanto, il madrigale di Luca Marenzio rivolgersi, pur nella sua classica proporzione tra parti e parti in concerto, alla più venusta voluta melodica, ed ecco a Firenze la monodia così potenziata e raffinata nelle linee e negli stilemi costitutivi (armonia, fraseggio, accompagnamenti strumentali) riprendere (dal 1580 circa al 1600) se non l'antica egemonia, certo la preponderanza nelle stilistiche musicali, sia nelle proprie forme peculiari sia interferendo e determinando transvalutazioni feconde nel seno delle forme già interamente polivocali.

Sviluppi dialogici della nuova sintassi tonale (dal secolo XVII al XX). - Monodia accompagnata, polifonia concertante vocale-strumentale, musica strumentale in stile legato e sinfonico. - Così poteva nascere, nel giro di nemmeno un ventennio, la nuova arte ufficiale: la cosiddetta monodia accompagnata (sempre si era data una monodia accompagnata, ma questa volta l'accompagnamento s'intende in valore esplicitamente sintattico-armonistico). La quale realizzava praticamente i tentativi di alcuni umanisti italiani riuniti a Firenze presso il conte G. Bardi e il patrizio I. Corsi, in quella riunione di letterati e musicisti che si disse Camerata de' Bardi. Il canto a una voce sola su strumenti era dunque già in uso (né soltanto in Italia ma anche in Inghilterra e in Francia e, praticamente, un po' ovunque) quando si diedero quei primi tentativi. Ma soltanto con questi esso riemerse a dignità e condizioni d'arte aulica, con i conseguenti sviluppi altrimenti impossibili. Con il rinnovato fervore per l'antichità classica il tardo umanesimo chiedeva alla musica un orientamento verso una figura di canto che - come quella attribuita ai Greci - si delineasse secondo il senso del discorso poetico, e la parola ostendesse in limpida chiarezza. Allo stile polifonico (che con le sue sovrapposizioni di voci, con le entrate a dati intervalli di tempo, con i suoi stilemi della augmentatio, della diminutio, la sua varia giustapposizione di ritardi, anticipazioni ecc. tra parte e parte, le sue lunghe imitazioni melismatiche su una sillaba, le sue ripetizioni di parole ecc., rendeva difficile, di solito, l'intendimento della poesia) si guardò come a cosa "gotica" e "barbara". Stile classico si cercò nel monodico, che per la finalità ora attribuitagli si disse "recitativo" e poi subito "rappresentativo", nel teatro trovando la sua più tipica e propria funzione. L'opposizione alla polifonia s'era già scatenata, anni prima, e proprio in nome dei diritti della parola. Ma il vigore di quello stile non era ancora esausto, e contro la logorrea dei critici s'elevava il sereno edificio, classico se mai alcuno fu tale, della Messa palestriniana. Questa volta il presidio più proprio della pura polifonia è ormai privo di ragioni vitali, e la polifonia veneziana, come s'è visto, non ha affatto il compito di resistere, ma quello - anzi - di arricchire le forme del tempo con i sensi suoi proprî e con quelli d'una favorita interferenza monodica.

Così l'intricata selva cinquecentesca si dirada e nel nuovo spazio viene alla luce il nuovo stile.

Rapido, dunque, il cammino: teorizzato già nel Dialogo dell'antica musica e della moderna (1581-82) di Vincenzo Galilei, e dallo stesso Galilei praticamente tentato negli stessi anni in due saggi: le Lamentazioni di Geremia e il canto dantesco di Ugolino, il movimento verso lo stile "recitativo" trova nel 1590 le sue prime manifestazioni sceniche, con due pastorali di Emilio del Cavaliere, nel 1592 i primi madrigali di G. Caccini, nel '94 la prima versione della Dafne di I. Peri (con la collaborazione di G. Caccini?), nel '95 un'altra pastorale di E. del Cavaliere, nel 1600 l'Euridice del Peri, quella del Caccini (rappresentata però dopo un certo tempo), e la Rappresentazione di Anima e di Corpo di E. del Cavaliere.

Cosî s'iniziavano i generi monodici dell'opera, della lirica da camera e dell'oratorio, che nel corso del secolo raggiungeranno, più o meno rapidamente, altissimo livello d'arte.

Nella scrittura di questi primi monodisti aulici, quasi tutti buoni cantori al liuto, si scerne l'eredità della lunga tradizione liutistica, ma purificata - nell'espressione canora - in nuova severità di linee. L'ulteriore attività del maggiore lirico tra questi musici: quella delle raccolte cacciniane del periodo più tardo (Fuggilotio ecc.) pronunzia già un ritorno ai virtuosismi vocali, non sempre senza detrimento dell'espressione melodica.

Le forze direttive del movimento ormai non erano più a Firenze ma a Venezia e a Roma. Il che si può facilmente spiegare in ragione delle stesse possibilità spirituali (e quindi artistiche) dei membri della Camerata. La loro scrittura, dominata - quanto al teatro - da intenzioni di natura intellettualistica, aveva dato nella Euridice di I. Peri e in quella di G. Caccini saggi notevoli d'"intonazione" della parola secondo le flessioni del linguaggio comune. E certo questo "recitar cantando" dei due operisti e dell'autore di Anima e Corpo non rimaneva sempre al livello di tale linguaggio comune: momenti di commozione lirica sollevavano talvolta la linea canora a curve melodiche di rara e penetrante suggestione. E lo stesso recitativo assume talvolta, specialmente in Iacopo Peri, una certa profondità di risonanze affettive, come nel racconto della morte di Euridice e nel desolato monologo di Orfeo. Maggiore ariosità di movimenti melici, invece, nella scrittura di G. Caccini, e maggiore rudezza di scansione verbale, satura di misterioso timore, in quella del romano E. del Cavaliere. Ma, non meno certamente, nel paragone con le polifonie che intorno ai saggi monodici ancora vivevano, questi saggi non mostravano grandi virtù musicali. Le forze propulsive che avevano aperta la strada alla nuova monodia accompagnata, cioè il senso melodico e l'armonico, s'erano qui di colpo affievolite, proprio nel momento della loro decisiva emersione. Più che di virtù musicali lo stile "rappresentativo" dei fiorentini era esponente di correnti miste di pensieri e di sensi non propriamente artistici. Il raffinato, elegante cantore al liuto che nell'aria e nel madrigale riesce a espressioni liriche in certo modo perfette pur nella loro sottile levità, quando si pone alla continua stesura del recitativo scenico rimane troppo spesso al disotto del compito. Le note vi restano spesso arbitrarie e intimamente oziose e inutili: la parola non ha bisogno della loro diligente applicazione. Mentre le vere ragioni storiche della nuova monodia - fuori delle considerazioni umanistiche e dei richiami a una poco nota musicalità drammatica greca - si stavano spiegando nella ricchezza di armonie, di ritmi, di coloriti, d'intuizioni architettoniche delle scuole nordiche ora sublimate nell'arte monteverdiana, e presto si spiegheranno a Roma nella totalità espressiva della linea melodica di G. Carissimi e di quegli operisti.

La rivoluzione monteverdiana s'era virtualmente concretata già nel seno stesso del madrigale: il IV e soprattutto il V libro (pubblicati nel 1603 e nel 1606, ma già noti in manoscritto e fieramente assaliti dalle critiche dell'Artusi) rompono il quadro del madrigale marenziano e gesualdino in forme libere dalla compattezza polifonica. Le voci dialogano ognuna con carattere proprio e quasi da persone drammatiche; escono dal concerto in monodici recitativi, contrappongono tale loro monologo all'insieme delle altre riunite in omofonia corale, si levano in melodici voli su di un tessuto già chiaramente armonistico, dichiarato del resto, a partire dal V libro, dalla presenza di un accompagnamento strumentale nel basso continuo: la parola (l'oratione) suggerisce qui un'intonazione che subito s'addensa in nuclei ritmici, armonici, timbrici e da queste saturazioni scaturisce in inebriate ascese melodiche. A nessuna audacia rinunzia qui l'espressione umana, e a nessuna varietà di atteggiamenti: una shakespeariana complessità ostende in luce, l'un con l'altro insieme o in rapida, prodigiosa vicenda, i più diversi, apparentemente opposti affetti: sensualità sfrenata nelle armonie e nei coloriti, nelle sinuosità delle linee meliche e del loro ravvicinamento a intervalli di sottigliezza temeraria; casta purità di frasi melodiche, quasi fisse in estatica contemplazione dei valori finali della vita; popolaresca o raffinata vivacità di collisioni comiche. Tutto ciò è il nuovo madrigale monteverdiano, che non per nulla sarà chiamato "madrigale drammatico" e che attua per la prima volta in realtà storica il dramma musicale. Il quale noi vediamo di lì a poco prodursi in scena, informato nelle grandi linee all'accettabile stesura fiorentina, con l'Orfeo monteverdiano del 1607. A questo esempio s'ispira subito il teatro musicale - dapprima con la Dafne di M. da Gagliano (1608) - poi con le opere, ricche di contrasti scenici e di vivacità popolaresca, della scuola romana pur così diversa nelle sostanze musicali. E l'esempio viene di continuo riproposto dal Monteverdi con nuove opere e nuovi madrigali, balletti cantati ecc., fino al trionfo del dramma musicale secentesco nell'Incoronazione di Poppea del 1642, che spinge all'estremo la complessa rappresentazione delle vicende umane.

Così lo stile del sec. XVII, in confronto con quello del XVI, mostra la sua ragione nella varietà delle forme struttive. La composizione passa, come s'è veduto, da zone melodiche a zone di compattezza omofonica, da sensi contrappuntistici a sensi armonici, da vocali a strumentali, e - nel seno di questi momenti - da tono, da colore, ad altro tono e ad altro colore affettivo. Si determinano così le forme nuove, e più varie da zona a zona, dell'opera, del balletto, dell'oratorio, della cantata, dell'aria a una o due voci sul basso strumentale; le forme strumentali, ora nuovamente valutate e in piena ascesa a ufficiali valori proprî, dalle solistiche (per tastiera d'organo o di cembalo; per violino ecc.) alle prossime nuove forme d'insieme. E a questo quadro contribuiscono variamente nuove scuole e correnti, e tra loro influiscono, e tra forma e forma determinano accostamenti, contaminazioni, interferenze di stilemi e di risorse tecniche: denominatore comune, nei valori stilistici, la nuova sintassi tonale, che poi sarà consacrata nella figura di J. S. Bach.

Il cammino della musica secentesca, di cui s'è vista l'entelechia barocca nei movimenti dell'Italia settentrionale (e si potrebbe ora vederla anche nei germanici, agl'italiani ispirantisi), trova i suoi elementi propulsivi, come s'è accennato, a Venezia e a Roma: da Venezia s'è visto sprigionarsi lo sviluppo di valori sensualistici nel colorismo tintorettiano dell'arte di C. Monteverdi, ricca di fremiti armonico-timbrici e di venuste volute melodiche, palpitanti, come umane vene, di sangue: il senso della vita vi si esplica nel suo diretto svolgimento: dal madrigale al madrigale drammatico e rappresentativo, al balletto, all'opera "storica". La corrente era partita da Josquin des Prés ed era passata per il cromatismo di A. Willaert e di C. de Rore e di N. Vicentino, per lo splendore polifonico (ma poi omofonico) vocale-strumentale dei Gabrieli, fino al Monteverdi.

E di tale corrente, che già abbiamo veduto nel sec. XVI nutrirsi di sensi strumentali presso i Willaert, i Cavazzoni, i Merulo, i Gabrieli, i Luzzaschi, assistiamo nel '600 ad altissime ascese, appunto, nell'arte degli organisti: la figura, complessa quanto quella del Monteverdi, che accentra in sé le virtù di questo movimento, è quella di Girolamo Frescobaldi da Ferrara, allievo del ferrarese Luzzaschi e quindi discendente da quella "eroica schola" di C. de Rore cui si era richiamato lo stesso Monteverdi. Gli svolgimenti frescobaldiani conducono però a conseguenze stilistiche chiaramente nuove rispetto alle premesse di S. Marco: il vigore del sangue musicale veneziano continua e scuote le fibre del discorso organistico in fervore di moti melodici, in subiti addensamenti e intrecci di linee, in ardente lirismo armonistico, e talvolta in splendenti escorsi concertistici. Ma tutta quest'arte è rivalutata, nel Frescobaldi, come espressione di fremente misticismo: nel quale la sensuosità del mondo terreno è mostrata e caratterizzata dal suo dialettizzarsi con il desiderio della Grazia. Non fosse per la saporosa strumentalità di questa scrittura, verrebbe fatto di pensare a C. Franck. È un'arte a mezza strada tra la cappella marciana e quella vaticana che infatti presto accoglie il maestro. A Roma la corrente direttiva sembra infatti richiamarsi al momento okeghemiano e al Josquin più riflessivo, passando poi attraverso il coronamento polivocale dello stile palestriniano. E s'è notata la posizione della figura di G. Pierluigi: riassuntiva e risolutiva dell'aspirazione verso la trascendenza nello stile polivocale. L'eredità palestriniana, se ce n'è una, non è negli attardati polifonisti della vaticana ma piuttosto nei maestri romani dell'oratorio e della cantata: figura centrale e dominante, Giacomo Carissimi. L'oratorio del Carissimi ha una struttura ben più varia, come complesso di zone, della messa palestriniana. I suoi mezzi, la sua scrittura sono quelli del nuovo secolo. Ma il confronto con C. Monteverdi e con G. Frescobaldi mostra varî caratteri tali da porre il Carissimi in tutt'altra linea di forza. Qui l'espressione tende alla più larga linearità di movimenti. La linea melica si svolge in serena parabola, a preferenza diatonica, e intesa a compiuto suo giro, la voce solistica, nonché dominare il discorso, suggerisce o, al più, umilmente implora. E infatti essa tocca i suoi vertici espressivi proprio in momenti di tenera soavità o di ansiosa supplicazione. L'individuo non lotta, drammaticamente pari, forza contro forza, con il suo mondo o con il suo destino, ma si sommette, con cattolica umiltà, al volere imperscrutabile della Provvidenza. Tutto il mondo del Carissimi è qui, purificato e ridotto ai termini essenziali del rapporto tra l'anima cristiana e il suo finale motivo. Nel quadro religioso palestriniano si muove, sì, l'individuo, ma non l'individuo monteverdiano, bensì la semplice "pecorella di Dio" ben propria della Controriforma.

Quivi, dunque, la calma, solenne architettura, a pochi e grandi elementi, di tutto l'oratorio; la melodia a linea larga e di solito diatonica; l'armonia semplice e poco agogica, aliena da escorsi e da improvvise modulazioni come da pregnanti dissonanze. L'accordo perfetto, la semplice settima di dominante sono di solito sufficienti alla conferma della sintassi, e ogni alterazione (p. es. qualche intervallo di 5a diminuita, quasi sempre nella linea melica) si affretta a risolversi nell'ordine naturale. Quivi, di logica conseguenza, la semplicità dei coloriti fonici (che non nuoce alla potenza) nella scrittura corale e nel concorso degli strumenti - quasi sempre ridotto a una pratica funzione d'accompagnamento sul basso continuo.

Tali le più forti esperienze delle quali si giova il mondo musicale del Seicento, in Italia e fuori, per i suoi nuovi sviluppi. I quali naturalmente assumono, da ambiente ad ambiente, valori diversi. Mentre in Italia, p. es., le correnti caratterizzate dal Monteverdi, dal Frescobaldi e dal Carissimi si ravvicinano confluendo in una spiegabile unità sostanziale di sensi musicali, negli altri paesi tali correnti trovano vie per qualche tempo più distinguibili: così gli sviluppi tedeschi delle scuole alla Germania più vicine (per posizioni geografiche ed etniche come per storiche o addirittura per rapporti personali da maestri ad allievi) e gli sviluppi francesi delle esperienze romane e in genere centro-italiane.

Così assistiamo, dapprima, alla ripresa tedesca delle stilistiche di S. Marco presso H. Schütz (allievo di G. Gabrieli) nelle stesse forme veneziane (Sacrae symphoniae, madrigali concertati ecc.) o nelle derivate (passioni, historiae ecc., che pur potendosi ravvicinare per il "genere" anche ad esempî romani, nondimeno da questi differiscono assai per la scrittura musicale); alla ripresa delle stilistiche frescobaldiane presso J. J. Froberger che dal suo soggiorno presso il Ferrarese, allora a S. Pietro, ritorna oltre le Alpi maturo per un decisivo rinnovamento e rinvigorimento delle scuole organistiche germaniche, giunte in quel tempo a incertezza e scarso dinamismo; alla ripresa di stilistiche prevalentemente romane presso M.-A. Charpentier che alla scuola di G. Carissimi esperisce l'oratorio, la cantata e le forme secentesche della composizione chiesastica. Maggiore autonomia, nonostante la simpatia stilistica intercedente tra i virginalisti e i polifonisti di corrente già cinquecentesca e gl'italiani, conserva la già sfiorente scuola religiosa e strumentale britannica.

Diversa figura, come s'è accennato, presenta il maturo Seicento italiano, nel quale le varie correnti e i varî generi tendono a interferire tra loro, i "puri" perdendo sempre più vigore di vita.

Più che dai discendenti diretti di Claudio Monteverdi o di Giacomo Carissimi, le vicende della stilistica italiana del mezzo Seicento si esprimono in un'arte piuttosto mista di elementi veneti e romani, e pur salvata dall'eclettismo in virtù del convergere di tutti quegli elementi in funzione d'uno o d'un altro fuoco centrale: la linea melica in sé conclusa, venusta espressione d'un miraggio estatico, presso L. Rossi; il fremito sensuale della voce, flessuosa per volute melismatiche e per risonanze armoniche, presso M. A. Cesti. Così si risolveva, nel maturo Seicento, il drammatismo dei recitati e degli ariosi monteverdiani, attraverso le soste melodiche d'un P. F. Cavalli, nella stessa conchiusa aria che intanto da Carissimi sviluppavano L. Rossi e il "veneziano" (ma nato in Toscana e allievo, a Roma, dell'Abbatini) Cesti. Riemergeva però in tal momento nella musica vocale la vecchia tendenza all'effetto canoro che il primo Seicento quasi sempre (non senza qualche concessione: il tardo Caccinì e il Monteverdi dei concertati di chiesa) aveva saputo limitare. Diverse le figure, in quanto derivate da una più lunga e complessa vicenda storica; non molto diverso il fisico impulso al vocalizzo ornamentale, dai cantori al liuto al cosiddetto Bel canto delle scuole centro-italiane (specialmente bolognesi) e, in seguito, delle napoletane. Tale movimento verso l'"effetto", che trova del resto i suoi paralleli nel barocco architettonico e figurativo, si manifesta tanto nell'opera teatrale quanto nei generi religiosi e ufficialmente chiesastici. Meno fortemente, tuttavia, nella composizione strumentale, la quale va maturando le sue forme in sensi più severi e intesi a chiara architettura. La quale coesistenza di correnti teatrali, chiesastiche e strumentali comprende la scuola veneziana ora impersonata in G. Legrenzi, i primi napoletani (in cui interferiscono stilemi romani: Carissimi ecc.) rappresentati da F. Provenzale, A. Stradella, e poi Alessandro Scarlatti, i chiesastici romani e bolognesi, i violinisti e sinfonisti dell'Italia centrale: G. M. Bononcini, A. Corelli ecc., i compositori per tastiera d'organo o di cembalo di scuola o di carriera romana: M. A. Rossi, B. Pasquini, D. Zipoli ecc.

Azioni direttamente feconde, nella storia dal Sei al Settecento, quelle dell'espansione architettonica della melodia (cantata-opera) e della determinazione strumentale del contrappunto (ricercare, canzone, toccata, fuga, suite e sonata da camera, sonata da chiesa, a uno e più strumenti: concerto grosso, solista ecc.), e della riunione delle voci agli strumenti nella nuova partitura di teatro e di chiesa. Le quali azioni possiamo meglio scernere nell'arte operistica (A. Scarlatti) e nella strumentale (A. Corelli). Quivi ci troviamo, del resto, in un movimento ascensionale verso la diffusione di nuove forme componistiche: è un impulso novatore quello che si concreta nelle forme teatrali e strumentali; non così quello che trasporta gli stilemi di queste due scritture nel seno della composizione chiesastica a scopi di esteriore restauro, all'infuori d'un'intima religiosa umiltà. Questa composizione si va infatti estetizzando in pompose facciate, ricche di effetti sonori in grazia delle sovrapposizioni di voci a voci, di cori a cori, fino a iperboliche complessità contrappuntistiche e architettoniche. La scrittura sviluppa così gli elementi lirici della melodia di cantata e d'oratorio e d'opera, insieme con i più varî artifizi struttivi della polifonia vocale di lontana derivazione cinquecentesca e con gli splendori coloristici (qui dati però dalla flessuosità profana della melodia e dal contributo dei registri più che da una reale ricchezza d'armonie) di derivazione piuttosto veneziana. Stile, dunque, in cui grandiosità, potenza, splendore si trovano in primo piano, ma quasi soltanto in questo solo piano, cioè quasi privi d'una ragione di diretta, immediata espressione di vergine sentimento; arte più che altro decorativa, in cui l'esperienza musicale del tempo sembra proiettarsi per riflesso, distendendovisi in un ampio e stilizzato affresco. Tale la maniera che si richiama al primo forte modello del franco-italiano O. Benevoli.

Le forze che abbiamo dette feconde di valori lirici sono dunque nella propria loro linea d'azione non più nella chiesa (che se ne giova a effetti esteriori) ma nel teatro e negli strumenti. Esse potranno impedire infatti la decadenza musicale dell'opera e dei generi religiosi (non chiesastici) a questa affini: oratorio e cantata, nonché della lirica da camera, nonostante l'aggravarsi delle pratiche virtuosistiche del Bel canto. La linea melodica è infatti più che mai venusta e classicamente tornita e conclusa in sé, come per purificazione del senso in una sfera superiore. Espressione architettonica d'un'estasi lirica, l'aria di Alessandro Scarlatti pone nella storia un valore cardinale. E nelle zone appunto liriche, nelle arie, l'opera napoletana, specialmente la seria, troverà le sue salienze musicali, segnate dall'intenso accento delle risonanze armoniche (spesso cromatiche) e timbriche. E l'opera su tali zone poggia la sua struttura, coordinata attraverso zone recitative, rialzata da vividi contrasti di toni e di valori, in una composizione mirabilmente varia e densa di risorse, come s'è detto, armoniche e contrappuntistiche. Recitativo secco (cioè senza misura prefissa e senza strumenti d'accompagnamento, tranne il cembalo usato a sostenere l'intonazione e a marcare l'interpunzione del discorso), recitativo accompagnato, arioso, arietta, aria; pezzi a solo e concertati; interventi sinfonici prima e nel corso dell'azione scenica (tra l'altro la sinfonia d'apertura); i generi stessi dell'opera: seria e buffa, tutto ciò si trova, nel melodramma di Alessandro Scarlatti, determinato nelle forme tipiche, cui per anni e anni gli operisti si atterranno. Ma la figura, pur centrale nel giro operistico dell'ultimo Seicento, di Alessandro Scarlatti ha in sé valori musicali molto maggiori dei drammatici, e - quantunque l'autore di Mitridate non di rado mostri felici momenti in scene d'"azione" - non si può attribuire alla sua opera un'importanza drammatica pari a quella dell'opera di C. Monteverdi o del venturo Gluck. Di qui la frequenza, presso il grande Scarlatti, di escorsi decorativi e di concessioni virtuosistiche che confermano anche esteriormente l'impressione d'un teatro come alcuni dissero "concertistico". Il quale stile operistico, musicalmente concretato assai spesso in pagine d'altissimo valore, rispondeva meglio alla sensibilità italiana e, in certo modo, alla tedesca (sensibilità musicale per eccellenza) che non alla francese, intesa a valori teatrali più aperti all'espressione verbale, e a quel senso che specialmente in Francia si suol definire della "verità scenica". Un raffinato, un poco intellettualistico equilibrio tra i varî elementi dell'opera, sia nel momento singolo (e cioè tra situazione, personaggio, voce e orchestra) sia da momento a momento (cioè tra zone di recitativo e zone di melodia, ambedue trattate con pari impegno) era, nel secondo Seicento, l'espressione operistica dello spirito francese. Mentre i Tedeschi facevan cosa loro delle esperienze nord-italiane (Monteverdi-Cavalli-Cesti ecc.) nelle opere di H. Schütz e poi di S. Kusser e di R. Keiser, i francesi, che avevano gustato l'esempio della discreta, elegante musicalità d'un L. Rossi, videro una capitale conquista delle loro tendenze nel teatro del musicista di Luigi XIV: G. B. Lulli. Nulla poté fare, nell'ambiente francese, il più forte rinnovatore della tradizione monteverdiana: quel P. Francesco Cavalli che - non però senza cause contingenti - vide poco fecondo, a Parigi, l'esempio delle sue opere Serse e Ercole amante.

L'opera di G. B. Lulli, meno viva di virtù musicali che non fosse l'opera di un Cavalli e di un Cesti, realizzava però in solide architetture l'ideale di misurata solennità, ricca di proporzionati elementi struttivi, che lo spirito di quella corte richiedeva. Intelligente è sempre la disposizione delle varie zone: sinfonia (nella forma che restò poi tradizionale e che ripete il nome dallo stesso Lulli), cori; recitativi in cui la nota accentua la parola con discreti tocchi espressivi e in cui la frase verbale si snoda in una accurata declamazione; melodie anch'esse efficaci più per la valorizzazione del fraseggio poetico che per proprie peculiari venustà e originalità di linee; entrate di danze e cortei in contenuta eleganza di ritmi. E anche la scrittura vi è, chiara, precisa e pronta ai varî compiti scenici, lungi dalle irruenze e dalle rapite estasi melismatiche della musica italiana e dai potenti slanci dionisiaci della tedesca.

Quest'arte di equilibrio e di gusto, contemperante le azioni della poesia, della danza e della musica in uno spettacolo d'indole bensì aulica ma capace d'imporsi (per i suoi aspetti di solennità e di sfarzo) anche nel pubblico più vasto, viene così a collocarsi, nella storia del teatro musicale francese, come il modello classico dal quale si svolgerà una lunga tradizione, dai lullisti più ortodossi a J.-Ph. Rameau ed a C. W. v. Gluck. Né poi ad altre mete s'informeranno gli operisti francesi moderni, nonostante qualunque evoluzione nella sostanza e nelle forme musicali.

Analogie d'intenti verso la solennità e l'imponente ricchezza degli apparati si ritrova, del resto, nelle vicende della musica chiesastica e religiosa (non dimentichiamo l'origine francese di O. Benevoli), che intanto si viene formando - vicino alla teatrale - anche su svolgimenti di provenienza romana (M.-A. Charpentier) e in gran parte ad opera dello stesso Lulli e dei suoi seguaci (Lalande).

In tal modo, se noi consideriamo la scarsa influenza esercitata dal pur notevole teatro inglese di H. Purcell (fors'anche in ragione dell'affievolirsi del sostegno dato in Gran Bretagna alla musica nazionale) al di qua della Manica, appare in chiara luce la preponderanza tenuta nell'opera di questo periodo (ultimo Seicento-primo Settecento) dalle due scuole: l'italiana (specialmente napoletana) e la francese. Scuole che, abbastanza interferenti nella musica di chiesa, nel teatro si possono considerare come antitetiche: rivolta a valori musicali l'italiana, a valori scenici (nel senso più lato del termine) la francese. Beninteso, la distinzione non vuol essere assoluta, e non vuole escludere né stilemi comuni alle due scuole (per es. le forme dell'aria, del recitativo ecc. sono già disegnate, se non fissate, in Italia già a mezzo Seicento con P. F. Cavalli, L. Rossi, M. A. Cesti, e poi F. Provenzale ed altri e valgono anche per i francesi, per i tedeschi ecc.) né eccezioni di qualunque sorta.

A questo punto si comincia a sentire nell'evoluzione interna (e poi naturalmente in quella delle forme struttive) della scrittura musicale l'azione propulsiva delle correnti strumentali. Già nell'opera di Alessandro Scarlatti s'è notato il frequente giuoco del contrappunto strumentale. Ora, mentre la composizione "pura" (cioè a soli strumenti) va in brevissimo tempo prendendo, specialmente in Italia e in Germania (ma anche in Francia), una diffusione e un vigore di arte matura e imponente, dei suoi tipici mezzi espressivi si discerne nella scrittura drammatica una sempre maggiore influenza, che toccherà il vertice verso il mezzo Settecento. In un secondo tempo si determinerà poi uno scambio d'influssi tra i due generi musicali. Nella prima metà del secolo l'azione propulsiva è in prevalenza svolta dall'ascendente sinfonia.

La quale, con il vigore e l'assoluta libertà di creazioni formali che le sono proprî, in maggiore evidenza si è volta a esplicare la varietà dei moti latenti nella sostanza musicale, in adeguata varietà di generi. Nella scrittura si sviluppa la funzione degli elementi specialmente agogici: il quadro estatico dell'aria vocale viene qui riaperto e gli spiriti son chiamati a diverso atteggiamento. Si forma così, dal Frescobaldi e dal Corelli, attraverso D. Scarlatti, A. Vivaldi, i Couperin, D. Buxtehude, J.-Ph. Rameau, G. F. Haendel, J. S. Bach, una strumentalità satura di novità contrappuntistiche, armoniche, struttive che appunto nel primo Settecento raggiungerà le sue manifestazioni capitali nell'opera del Vivaldi, di F. Couperin e di J. S. Bach: opera certo più forte e più duratura - nella sensibilità umana attraverso i tempi - della produzione teatrale di quel periodo. Di qui l'influenza esercitata dalla corrente strumentale su gran parte dell'operistica, influenza che da scuola a scuola vi produce effetti diversi. Se si voglia, infatti, tener dietro alle intense trasformazioni della composizione strumentale, si può notare come lo sviluppo della nuova sintassi tonale dalla plurimodalità alla bimodalità viene contribuendo (come già nella musica vocale) ad un generale simmetrismo. La libertà dello stile improvvisatorio d'un Merulo viene a temperare ancora, dal Frescobaldi al Rossi e - in Germania - a D. Buxtehude e poi a J. S. Bach, tale tendenza, quasi unicamente - però - nei generi già di per sé poco rigorosi della Fantasia, della Toccata o in alcuni esempî del Preludio. Ma ben più spesso s'impone il simmetrismo, che da armonico si esplica in ritmico (e quindi in melodico). Così al ricercare sottentra la Fuga, alla canzone e alla Sonata di derivazione polivocale sottentra la nuova Sonata, solistica o polistrumentale, di un Corelli. L'esigenza delle "varietà" del pensiero musicale passa su un altro piano: non tanto nel variare i procedimenti struttivi della data forma prescelta quanto nel creare forme diverse, e soprattutto nell'arricchire i movimenti interni della scrittura. Nel contrappunto agisce non soltanto la forza direttiva, ma anche la feconda suggestione dell'armonia. Il giuoco delle funzioni irretito il contrappunto, nello stesso tempo al contrappunto suggerisce nuovi movimenti interni, lo costringe a cercar nuovi valori e nuove ricchezze. Si forma così quello stile dialogico (ben lontano dalle linearità del vecchio stile a cappella) che finirà poi - girando intorno all'"isola" bachiana - addirittura fuori del regime polifonico.

Mentre la scuola francese, del resto non molto produttiva, e la tedesca, possono giovarsi di tale assorbimento (colà per le stesse tendenze stilistiche che volgono alla continuità dell'impegno componistico tra aria e recitato; qui - cioè nella seconda scuola: la tedesca - soprattutto per etnici tropismi verso la densità del discorso) alcune correnti italiane, dopo Alessandro Scarlatti, sembrano scindere la proporzionata concordanza delle varie zone dello spettacolo in sviluppi poco coerenti di questa zona o di quella. Da questa sorte si salva (oltre la produzione "buffa" sempre più vivace nel discorso ritmico e quindi capace di maggiore organicità sinfonica tra voci e strumenti) l'attività degli operisti deliberatamente "melodici": il loro spettacolo si risolve in una ghirlanda di soavi melodie vocali, in sé stesse esteticamente sufficienti. L'aria di un F. Feo, d'un N. Porpora costituisce infatti una delle salienze del movimento storico-musicale. L'opera dei maestri italiani e italo-tedeschi (A. Caldara, J. A. Hasse, N. Jommelli), che dall'organismo scarlattiano tende a sviluppare i caratteri sinfonici, manifesta, invece, vicino a zone melodiche certo notevoli, un certo squilibrio, derivato dalla scarsa percezione delle vere ragioni che potevano legittimare il concorso sinfonico nel teatro. Anziché volgere tale intervento ai fini d'una continuità di discorso drammatico, tanto il Caldara quanto il Tedesco italianizzato J. A. Hasse e l'Italiano germanizzato N. Jommelli non sanno giungere che a una fatalmente esteriore "economia scenica": troppo intellettualistica era infatti la concezione melodrammatica loro suggerita da P. Metastasio per poter dare, in pratica, una unitaria concretezza d'arte ai saggi precetti ivi contenuti. All'"economia scenica" direttamente determinata e ottenuta da una vigorosa e coerente coscienza drammatica essi potevano, al più, sostituire quella congegnata di passo in passo mediante un avvicendamento di zone in sé virtualmente concluse. Anche qui dunque il dramma viene a cedere di fronte a una ghirlanda di musiche e di poesie, senza però conservare alle prime quella purezza di stile che fioriva nella melodia vocale dei Feo e dei Porpora: il contrappunto strumentale, il denso accompagnamento orchestrale di certe scene non fanno che appesantire il tessuto musicale, non senza viziare, spesso, le virtù espressive della stessa melodia.

Come mancava, qui, l'unitaria coscienza del dramma, parimenti mancava quell'unità dell'estro musicale che si trova invece a Napoli, puramente vocale, o nella Francia di J.-Ph. Rameau o nella Germania pur italianizzante di G. F. Händel, già a priori vocale-strumentale (cioè sinfonica nel senso lato della parola). L'impressione che se ne riceve è quella d'un incerto lavoro di giustapposizione e di musaico. E infatti le ambigue opere d'uno Jommelli non poterono toccare quei valori universali cui facilmente giunsero le napoletane autentiche, e in Italia non trovarono mai durevole favore; le ultime anzi vi furono respinte.

Così, mentre l'opera napoletana, sempre viva e giovane, si slanciava verso le nuove e - nel genere buffo - riassuntive efflorescenze del tardo Settecento e mentre ad essa concorde si riprendeva il corso di quella veneziana, le vicende propriamente drammatico-musicali non si risolvevano nell'opera d'un Italiano ma in quella di C. W. v. Gluck. Il rinnovamento dell'opera seria, in Italia e fuori, incertamente intravisto da N. Jommelli, venne da questo Tedesco italianizzante, pur tanto più semplice nei mezzi, tanto meno ricco di corde negli estri musicali, ma animato da un fervore quasi barbarico di fronte ai moti affettivi a lui presentati dalla poesia e da lui scelti come materia di dramma.

Nel quale teatro il carattere di fluido sinfonismo discorsivo tra voci e strumenti ci mostra una prima riassunzione non soltanto delle vicende settecentesche sceniche e vocali ma anche delle strumentali. Il periodo contrappuntistico sembrava giunto infatti nella musica strumentale alla sua pienezza, e già i sensi che ne avevano determinato lo sviluppo si davano per soddisfatti e quindi pressoché esauriti, quando J. S. Bach, figura massima dello stile cosiddetto preclassico (dai Tedeschi detto anche barocco), porta alla sua più alta espressione l'intero movimento del contrappunto dal tardo Seicento al primo Settecento. Frequenza sempre maggiore di stilemi intimamente extracontrappuntistici s'era prodotta e stava producendosi presso la maggior parte dei compositori d'Italia e di Germania. Si può dire che lo sviluppo della nuova polifonia, tonale e strumentale, abbia appagato il mondo settecentesco già in una fase che noi ormai - avvertiti dalla comparsa di J. S. Bach - siamo tratti a non considerare risolutiva. La scrittura di A. Vivaldi, di D. Scarlatti, di G. B. Sammartini, dei Tedeschi G. Ph. Telemann e G. F. Händel, dei Tedesco-Boemi di Mannheim, ecc., chiede infatti al contrappunto non tanto un'esplicazione di intime dialettiche spirituali (come avevano fatto Josquin des Près, Orlando di Lasso e le scuole italiane del '500 e come ora sta facendo J. S. Bach) quanto una funzione più che altro struttiva, determinante cioè varietà e solidità di partitura. Alcuni di essi maestri, p. es. il grande Domenico Scarlatti, pur capacissimi di saporoso, nutrito contrappunto, traggono dalla stessa esperienza contrappuntistica grande ricchezza e fluidità di movenze strumentali, ormai tanto vivide da staccarsi dall'ambiente polifonico dove erano nate e slanciarsi a loro proprio e libero giuoco. Un Vivaldi e un Händel tendono intanto a varietà tra zona e zona: passi polifonici - generalmente tenuti leggieri - vi si alternano con passi omofoni e addirittura monodico-accompagnati. Nel quale ultimo caso le parti sussistono; ma non più essenziali, nei loro valori melici, di quel che non fossero le voci inferiori nel concento ars-novistico. E del resto questa volta al loro incedere presiede l'imperiosa sintassi armonistica del basso. Tale il clima nel quale prende lo slancio lo stile cosiddetto "sinfonico" che giungerà a valori universali con la scuola chiamata "classica", o "viennese" (Haydn, Mozart, Beethoven). Ed è proprio in tale clima che J. S. Bach e G. F. Händel elevano i loro immensi edifici vocali-strumentali. Händel - come s'è intravveduto - non si contrappone all'indirizzo generale della musicalità settecentesca, nello stile d'opera, ch'egli serba vicino all'italiano pur sinfonizzandolo con sovrana lucidità e chiarezza (il che non impedì che queste pur melodiche e serene opere presto si ritraessero nell'ombra), mentre nell'Oratorio questo suo sinfonizzare solisti, cori, organo e orchestra tende a un'architettura di supremo e solenne fasto polifonico. E certo composizioni di tale enorme impegno spirituale e tecnico (p. es., i maestosi oratorî della maturità: Judas Macchabaeus, Israël, Il Messia) trovano il loro ambiente favorevole in Inghilterra, cioè fuori del movimento, ormai rapidissimo, del sinfonismo telemanniano e sammartiniano e dell'allora già notevole sinfonismo dei Mannheimer, come anche fuori della decorativa musica "religiosa" di stile concertante. Ma tuttavia nel confronto con J. S. Bach la figura di Händel, soprattutto se la guardiamo nella musica puramente strumentale (concerti per organo, concerti grossi, suites per cembalo, ecc.) ci mostra in chiara evidenza la diversa funzione assuntavi dalla scrittura contrappuntistica, che non vi è affatto esclusiva né molto densa di proprî valori lirici ma piuttosto - come s'è detto - transvalutata ai fini d'un'equilibrata solidità di partitura.

A quest'arte per eccellenza sintetica - dove il singolo particolare si svaluta e si sperde (i valori lirici emergendo soltanto dalla linea generale del quadro sonoro) sì da passare, agli sguardi che ad esso si limitassero, quale documento di eclettismo o, meglio, d'impersonalità - l'arte bachiana oppone di solito (tranne, naturalmente, qualche eccezione: suites, partite, alcune toccate, ouvertures per orchestra, ecc.) una scrittura intimamente sviscerata, esplicante senza posa nuove e infinite suggestioni: lavoro in profondità che non esclude mai, beninteso, la chiara logica del discorso e cioè la chiarezza dell'architettura. Rivive qui, nel cuore del Settecento germanico, qualche carattere spirituale e tecnico dell'arte frescobaldiana, ora interpretato anche in nuove possibilità costruttive. L'elaborazione, p. es., del ricercare frescobaldiano assume qui un valore nuovo: mentre nel ricercare si volgeva esplicitamente a una sorta d'analisi del singolo momento, qui nella fuga si volge a mostrare le vicende drammatiche che il soggetto può suggerire alla commossa meditazione dell'artista. Vero e proprio dramma senza parole, la Fuga (e meglio diremmo in generale il contrappunto) di J. S. Bach mostra in evidenza il carattere agogico e dialettico di ogni singolo evento musicale rispetto a una finale risoluzione, o coronamento, dell'intera vicenda. Di qui l'aspetto della composizione bachiana (né soltanto della strumentale, ché ovunque esso s'impone) dove l'architettura più ampia e solenne nasce fatalmente dal divenire dei suoi singoli motivi l'un con l'altro dialettizzanti. Documento, dunque, d'un fervore lirico d'estrema intensità, tale da allargare al più vasto campo la risonanza d'ogni pur minima vibrazione. Spiegabile diventa così il tono singolare della musica bachiana, inconfondibile tra ogni altra, tanto nel particolare (a differenza da quel che avviene presso G. F. Händel) quanto nel quadro unitario della composizione. Oltre al tono affettivo, lo stesso procedere del discorso rivela la personalità del musicista, inteso com'esso è alla valorizzazione di funzioni tonali di cui oggi si può comprendere la capitale importanza ai fini d'una ferrea (e pur amplissima) sintassi armonistica. Decisiva sistemazione della tonalità moderna, che fin quasi ai nostri giorni non ha più sentito, praticamente, le suggestioni della plurimodalità. Così la serrata dialettica del contrappunto neo-tonale di Bach, creatrice di infinite suggestioni melodiche, armoniche, strumentali in drammatico unitario discorso, da sola svolgeva fino ai valori supremi - non soltanto nelle grandi costruzioni della Passione o della Messa solenne, ma anche nelle composizioni strumentali (p. es., i concerti orchestrali, i preludî e fughe per tastiera) - quegli spiriti contrappuntistici che nel mondo del Settecento non avevano più larga risonanza. Di J. S. Bach e del Händel degli oratorî, il movimento musicale non riprenderà i valori che dall'avanzata maturità del dramma sinfonico beethoveniano. Gli stessi figli del vecchio Cantor: specialmente i Bach di Amburgo e di Milano, non sentono né praticano lo stile contrappuntistico: Ph. E. Bach dichiara tale stile accessibile a chiunque si applichi pazientemente allo studio, lo stile melodico soltanto a grandi artisti. E nella sua pratica viene accettando in nuova classicità di forme (la sonata bi-tematica con sviluppo e in più "tempi") gli stilemi sinfonici dei Sammartini, dei Telemann, degli Stamitz e degl'Italiani (G. Tartini, G. Platti, B. Galuppi, ecc.) che intanto continuano in patria e fuori, tra l'altro italianizzando l'altro figlio di Bach, J. Christian (Giovanni Bacchi), il movimento che confluirà nella stessa sonata moderna.

Tale la corrente sinfonica che, insieme con la teatrale già dianzi illustrata (minore importanza ha in questo periodo la chiesastica ormai profanizzata in stilistiche eterogenee) si muove nel clima del mezzo e del maturo Settecento. E quivi, in tale complesso clima musicale, intendiamo tra l'altro - come s'era accennato - il fluido discorso del dramma musicale di C. W. v. Gluck. Nel quale possiamo rinvenire tutti gli stilemi teatrali e sinfonici e lirici del tempo, dall'aria italiana al Lied tedesco (e al tedesco corale pur luterano ma al Gluck arrivato attraverso il Lied d'arte e di popolo), dall'ouverture sammartiniana (egli era allievo del sinfonista milanese) alla meditazione sinfonica degli Adagi di Vivaldi e al tematismo dei Mannheimer e di Ph. E. Bach, dal recitativo d'ambiente italiano alla declamazione del Lulli e del Rameau, dalla danza francese di corte alla boema popolaresca. Ma tutte queste diventano presso il Gluck esperienze concorrenti in un mondo ben proprio e unitario. Contro ogni eclettismo reagisce infatti la tipica individualità del Gluck, che riesce a sostanziare di sé le forme o le formule più usate; la stilizzazione stessa vi è uccisa dall'impeto quasi selvaggio che il plebeo tedesco traeva dal fondo stesso del drammatismo. Nel che si nota quella virtù gluckiana della fede, dell'eticità, per così dire, del lavoro artistico, che determina nella musica un tono di necessità, di fermezza non solo nelle linee e nei momenti singoli ma anche nell'intera condotta componistica; tale da distinguere nettamente l'uso gluckiano delle forme più comuni. Tutti quegli stilemi sono rivalutati secondo una volontà che li stringe al compito: alla costruzione del dramma. Compito assolvibile, notiamo, solo in un regime "librettistico" d'esclusiva liricità di scena in scena, fuori delle dispersioni extra-affettive del libretto metastasiano. Tutto deve proporre - come si propone nel libretto del Calzabigi - un'espansione di sentimenti largamente umani. E in tale regime quella "sommessione della musica alla poesia" annunziata dal Gluck delle prefazioni, nel Gluck delle partiture si risolve in totale assorbimento della poesia nella musica. ll ritmo del poema diviene un ritmo generatore di architetture musicali, le cui membrature constano di quegli elementi (recitato, arioso, aria, interventi corali e orchestrali) che presso i metastasiani servivano ognuno a un suo scopo. Dall'Orfeo (1762) in poi la musica esprime il senso più intimo del processo drammatico, esplicandone i successivi momenti in masse ben distinte (da valori tonali, ritmici e spesso anche tematici) e avviate, ciascuna per la sua funzione, da tale ritmo generatore di tutta l'azione: il recitato (ormai sempre "con strumenti") vi sfocia, attraverso il naturale intensificarsi della commozione, lungi da intenti decorativi, nell'arioso o nell'aria, movendosi le persone (i soli) ora contro ora fra mezzo le moltitudini corali, in una densa atmosfera orchestrale. Quivi la divergenza fra il dramma musicale gluckiano e la metastasiana ghirlanda di musiche e di poesie; e quivi - per interna necessità stilistica - la fluidità, cui dianzi s'accennava, del discorso vocale-strumentale. Nel quale da un'azione si passa alla conseguente senza il minimo squilibrio; ognuna perdendovi quell'autonomia che i metastasiani induceva a pericolosi sfoggi di stilistiche tra loro contraddittorie: appesantimenti contrappuntistici, virtuosità canore, recitativi accompagnati che con il solo loro apparire svelano il meccanismo antimusicale dei recitativi "secchi", e così via. Il che, nella concretezza del momento storico del maturo Settecento, significava precisamente una valorizzazione di capitale importanza data dal Gluck al movimento, più sopra illustrato, che con i Sammartini e i Telemann e i Vivaldi e i Mannheimer dal contrappunto se ne usciva verso la varietà, tutta moderna, dello stile cosiddetto "sinfonico" cioè a libero discorso procedente per tematismi e per melodie, per agili contrappunti e per successioni d'accordi ora verticali ora figurati. Valorizzazione di capitale importanza, s'è detta questa del Gluck, in quanto - oltre ai mirabili esempî di sinfonismo strumentale proposti dal Gluck in quelle ouvertures e introduzioni (cfr. quelle dell'Alceste e dell'Ifigenia in Aulide) di cui si rammenteranno tra gli altri Mozart, Spontini, Weber e Beethoven - oltre a offrire tali esempî strumentali, essa ci fa assistere al trionfo di tale stile nel seno stesso dell'opera, rivalutata come dramma; trionfo tanto più significativo storicamente quanto più discreta, quintessenziata in casta purità è la scrittura del Gluck.

Così la musicalità del tempo trovava già manifestazioni di matura unità stilistica, in tale convergenza di tante e così varie correnti: strumentali e sceniche di tutti i paesi (tra le ultime: l'opera buffa pergolesiana, le scènes italiennes en musique [v. buffonisti] l'Opéra comique francese, il Singspiel germanico, oltre l'opera seria dianzi illustrata), in una scrittura per eccellenza "drammatica" nel suo libero dialogismo.

Varietà nell'unità era nuovamente nella lingua musicale di tutta Europa: e noi assistiamo, nell'ultimo Settecento, a infinite efflorescenze che tra "genere" e "genere" in tutte le nazioni mostrano larga concordanza di scrittura. I generi stessi, come s'è detto, rivelano in evidenza la loro fondamentale unità di sensi, e l'uno nell'altro confluiscono. Si verifica così quel reciproco scambio d'influssi tra opera, p. es., e sinfonia che più sopra s'annunziava: gli stessi operisti lavorano d'altra parte quasi tutti anche musiche strumentali e vocali da camera, e la loro singola personalità - pur in una lingua così unificata - si conserva pienamente in tali passaggi da genere a genere. Nell'analisi di tale quadro storico vediamo sviluppi del dialogismo "drammatico" nelle vicende napoletane e veneziane che conducono l'opera buffa e la produzione sonatistica a un'ultima fioritura nazionale, presso l'aerea, quasi shakespeariana fantasia d'un G. Paisiello e soprattutto d'un D. Cimarosa (rispettivamente culminante nella Nina e nel Matrimonio segreto) e presso il vivido dinamismo d'un G. B. Galuppi (lo stesso grande sonatista veneziano); tutte correnti, che nell'opera buffa rossiniana, erede dell'intera tradizione italiana di teatro e di sinfonia, troveranno - in giuoco con altre (specie tedesche: Haydn-Mozart) - una riassunzione in spirito ottocentesco. Con i quali sviluppi veneto-napoletani concorrono quelli del dramma musicale gluckiano in Francia, anche a opera d'Italiani, e - in giuoco con gli sviluppi delle correnti strumentali - in Germania. Alla concezione gluckiana, naturalmente concretata in sostanze musicali varianti a seconda dell'afflusso di nuove esperienze, s'informa specialmente il teatro d'ambito francese nella produzione dei Grétry, Lesueur, e - vivo e operante Beethoven - dei Cherubini, Spontini e poi di H. Berlioz e di quasi tutti gli altri ottocenteschi; esponenti capitali della quale produzione rimangono tuttora in "repertorio" nella Vestale di G. Spontini (mirabile architettura gluckiana in sé riassumente la ricca sostanza musicale dello stesso Gluck, degl'Italiani maggiori e dell'ascendente Beethoven) e nei Troyens di H. Berlioz. Nei Tedeschi, s'è detto, le vicende operistiche non si svolgono fuori delle strumentali proprio allora in decisiva ascesa nello stile sinfonico": il modello gluckiano è sentito, oltre che in sé, anche nelle sue coefficienze storiche: Singspiel, sinfonismo propriamente strumentale di correnti nazionali e boeme (i Mannheimer) e italiane: le quali esperienze non si riassumono, presso J. Haydn, che nella sinfonia, mentre in W. A. Mozart riescono a sovrana classica unità e nella sinfonia e nel teatro. Del quale ultimo - come si vedrà - restano tuttora in pieno vigore di vita quasi tutti gli esponenti: tra gli altri Le nozze di Figaro, Don Juan e Il flauto magico. La concezione del Gluck passa così, attraverso un mondo musicale cui contribuiscono Haydn e Mozart e la stessa sinfonia beethoveniana, al beethoveniano Fidelio. Molteplicità, dunque, di esperienze si manifestava in questo mondo germanico dell'ultimo Settecento e dei primi anni del secolo seguente. Il teatro vi si satura di sinfonismo, e a sua volta su questo influisce chiaramente. Le scuole più varie d'ogni paese e d'ogni genere vi si riassumono in omogenea e quindi libera azione stilistica.

Più strettamente strumentale è la corrente che si rinnova nella musica di J. Haydn, benché essa medesima s'arricchisse di stilemi vocali tratti dal Lied tedesco, dalla canzone slava e dall'aria napoletana (il contadino croato Haydn, allievo del Porpora, viveva in ambiente magiaro ma germanizzato). Ma nel Haydn questo mondo sì vario, denso di toni e valori così diversi, produceva un interessamento tra l'ingenuo e il profondo: esso viene per così dire scrutato nei suoi interni moti. Bene a posto nel suo tempo, il dialogico intelletto haydniano si risolve, più che nell'estasi lirica in sé conchiusa, nell'inesauribile prodursi di affetto da affetto, di moto da moto: lucida intuizione del continuo farsi del mondo nell'intimo farsi del suo proprio spirito, quest'arte rivolta a potenziamenti ritmici di ritmici temi non si sa lungamente aggirare nel cerchio magico della melodia assoluta: l'Adagio haydniano trae la più ispirata melodia a continua variazione che - ornamentale in apparenza - in realtà continua il discorso esprimendo, in virtù d'armonie e di registri fonici e di melodiche colorature, concetti veramente nuovi se pur dal primo suggeriti. Quivi la sorte strumentale in cui si risolvono presso Haydn la vocale Aria del Porpora o il Lied tedesco o la canzone croata, nonostante l'apparente fissità delle forme adottate. E anche più esplicita evidenza, come è ovvio, raggiunge tale drammatismo nell'impeto agogico dei tematici "allegri" di sonata. Il rapporto fra tema e sviluppo, nei sonatisti anteriori o ancora conviventi con Haydn sentito come rapporto da padrone a servitore, nella sonata haydniana è inteso come funzionalità del tema rispetto a scopi che nello sviluppo saranno veramente determinati e chiariti. Tale la ragione del costante interessamento, sempre appagato in lucida consapevolezza che lo distingue dal già impressionistico fervore ritmico d'un Domenico Scarlatti o d'un B. Galuppi, come la singolare ricchezza di esplicazioni lo distingue dai "consapevoli" ma scarni discorsi di un Ph. E. Bach o di un F. W. Rust.

Figura, dunque, della quale ben si può intendere la preferenza per l'espressione strumentale pura (e quindi scevra da suggestioni e interferenze extramusicali che del discorso possano interrompere o modificare il logico conseguire); e infatti la realtà di questa espressione haydniana ha una saporosità e una fresca vigoria che suscitano un singolare senso di gioia. È la gioia dell'artista che ingenuamente ritiene - da buon settecentesco - di avere proprio razionalizzato il mondo in cui respira e di cui si compiace. E - in quanto artista - la sua convinzione è del resto legittima: nella sua serena euritmia quel mondo spiega l'eccellenza del suo ordinamento, della sua pace con sé e con il Creato. Non ancora giunto alla massima espressione (le sinfonie londinesi) il mondo dei tempi haydniani trova già una ben diversa interpretazione: quella di W. A. Mozart, colorata da sensi di rapito lirismo, da onde di desiderio ora lucenti come per raggi di sole, ora oscure come per arcane profondità. Mondo, dunque, ben più vario di quello di Haydn, e più saturo di misteriose attrazioni. Lungi dal fiducioso razionalismo haydniano, questo mondo sembra irreale e come sorgente da un cerchio d'incantesimo. Alle lucide maieutiche di Haydn ben poco risponde la parola mozartiana. Il tema, anziché consegnarsi ai suoi "sviluppi" in visibile logica concettuale, qui tende a melodizzarsi e ad attrarre intorno al suo corso leggiere ghirlande di canto. Le forme sonatistiche vi cedono senza posa a suggestioni vocali, e i loro sviluppi passano rapidi senza visibile azione propulsiva. Così il rapporto drammatico tra gli elementi varî del discorso avviene non per continuità di deduzioni ma per la stessa diversità di essi singoli elementi, quasi figure di personaggi, in un giuoco musicale d'insondabili ragioni e pur imperiosamente definitivo.

Il sinfonista Mozart, che nel quadro della più modesta sonata sa presentarci così sintetizzato un complesso quant'altro mai ricco di esperienze d'ogni sorta (e non soltanto strumentali), si dimostra così nel tempo stesso il migliore soggetto di dramma umano, e - in pratica - il migliore dei drammaturghi musicali del suo tempo, paragonabile soltanto al Monteverdi, al Gluck, al Wagner e al Verdi, e probabilmente anche ad essi superiore sotto l'uno o l'altro aspetto. Mai, infatti, si diede in simile arcana leggerezza di tocco, in simile trasparenza, veramente soprannaturale, di velo sonoro una simile rispondenza di virtù drammatico-musicali. Capitale, tra le altre, quella dell'immediata caratterizzazione delle "persone" sceniche: poche battute bastano a presentarle e tutta la parte d'ognuna di esse ne conserva e ne ripresenta l'intimo carattere, pur sempre liberamente movendosi in varia sostanza musicale, ben più efficacemente di quel che non possano tutti gl'immaginabili Leitmotivs. E allo stesso modo, come si accennava, varietà di figure giuoca nella musica strumentale: quartetti, concerti, sinfonie, divertimenti, sonate e così via (più di 500 composizioni) mostrano il musicista tutto intento a fingersi l'una dopo l'altra immagini ora liete ora paurose, che già al primo apparire accennano la loro forma. E il racconto fantasioso, come allegorico, del vario mondo non si arresterà che con la morte fisica dell'uomo: fino all'ultimo le sue luminose immagini inebrieranno della loro immateriale (e pur sensuale) bellezza l'artista morente di fame.

Quello che si suole comunemente dire "soggettivismo" (e che realmente mostra un atteggiamento spirituale nuovamente datosi nel tardo Settecento e nel sec. XIX portato alle estreme conseguenze) era così entrato nella scrittura a colorarla di tinte varie quanto varie le infinite vibrazioni della sensibilità individuale. Tale scrittura poteva così modificare in estrema libertà tecnica le sue fasi, dalla sorridente semplicità dello stile già "galante" (J. M. Haydn, J. Chr. Bach, il giovane Mozart ecc.) e dell'"allegro cantante" dei cembalisti italiani e di Mozart, con i suoi bassi albertini (v. alberti, domenico) e il suo esplicito melodismo aggraziato, fino alle risolute affermazioni sinfoniche, dense di movimenti contrappuntistici e armonici, di alcuni passi haydniani, clementini (v. clementi), mozartiani e specialmente nei quartetti e nelle ultime musiche (ouverture del Don Juan, con le sue durezze modulatorie, e del Flauto magico, col suo stile fugato, sinfonia in Do maggiore [Jupiter], ecc.). Ma la manifestazione più esplicita di tale soggettivismo si è veduta non tanto nell'intelletto haydniano quanto nella rapita fantasia di W. A. Mozart, in cui si direbbe che il sentimento individuale, per fuggevoli che siano i suoi varî moti, assuma la diretta responsabilità dei più audaci mutamenti di scena musicale, come già s'era visto, più d'un secolo e mezzo prima, presso l'autore dei Madrigali guerrieri et amorosi. Onde la maggiore varietà di atteggiamenti, ora nettamente melodici ed estatici, ora dinamici in gioioso o in angosciato impeto ritmico, dello stile mozartiano, nel confronto con quello di Haydn.

Quivi la crisi onde nasce il dramma sinfonico di Beethoven. Fin dalle prime composizioni beethoveniane ci accorgiamo del mutamento. Beethoven, mentre sembra continuare a "sviluppare" - come se ciò fosse stato possibile - l'arte di Haydn e di Mozart in realtà reagisce con pari veemenza contro l'ordinata razionalità del mondo haydniano e contro i fantasiosi racconti di Mozart: la sua sinfonia è assai meno "ordinata", quanto a visibilità e continuità logica di deduzioni come quanto a regime di scrittura, di quella proposta da Haydn: l'equilibrio del quadro è non di rado messo a dura prova, e la stessa architettura si rifiuta all'intelletto, si concede solo al divenire interno del tema; e quando il mondo beethoveniano non ancora trovi in sé sufficiente concretezza di esperienze, l'intelletto non giunge a evitare l'instabilità (III sinfonia). Soprattutto incalcolabile importanza vi assume il periodo di "sviluppo", cioè quello che nella forma-sonata corrisponde alla maggiore elaborazione dei concetti tematici. E così anche la scrittura strumentale è sconvolta e tesa come in disperato sforzo: l'accordo si stringe come per fare massa, i registri si fanno sempre più estremi, inequivocabili e imperiose le sonorità; la sintassi tonale è di continuo scandita a ritmati colpi di tonica e dominante, l'intera massa orchestrale si precipita, come una folla in rivolta, attraverso le rovine delle vecchie barriere formali. Trombe e timpani, in formidabili, lucenti clangori, a forza di cadenze perfette concludono le trionfanti "code" dei finali. Ed ecco ascendere in chiara luce l'espressione formale di quel che s'è detto "soggettivismo" che intanto però, presso Beethoven, è ancora pienezza d'un organico mondo musicale, troppo intimamente unitario, e centrato in ferrea volontà, per non risolversi, nella maturità dell'artista, in classica e solenne architettura: V, VI, VII, tra le sinfonie, ouvertures di Coriolano. Egmont, Leonora, sonate per pianoforte op.53 e 57, i quartetti op. 59, IV e V concerto per pianoforte, ecc.

Questa ascesa del nuovo soggettivismo mostra lungo questa produzione le sue tracce. Si è in presenza d'una vera e propria lotta in svolgimento, impegnata dall'individuo per imporre sue finalità cui non sa rinunziare, perché in esse è la stessa ragione morale del suo essere sulla terra: lunga e disperata è la lotta, quasi a denti stretti: essa si continua dal primo Allegro all'Adagio e allo Scherzo e si decide nel Finale. Ed ecco la nuova entità della forma sinfonica, che viene a unificare l'intimo suo corso tra zona e zona e che nel Finale ingigantisce le sue masse a schiacciante trionfo. La serena deduttività dell'elaborazione tematica haydniana sembra qui tramutarsi in un potenziamento di tutte le forze, morali e fisiche, della vita. E verso l'amplificazione finale concorrono tutti gli elementi struttivi della composizione, dal tagliente imperio delle prime idee alle melodie di ardente e fremente dolcezza (le "seconde") ai selvaggi impeti ritmici e alle febbrili adunate contrappuntistiche (gli "sviluppi"): in confronto con le zone di "esposizione" ingigantiscono quelle di sviluppo, la "riesposizione" varia la sostanza ricevuta, la "coda" si fa sempre più frequente e talvolta reitera i suoi slanci, a più decisiva confemia - specialmente tonale (in ciò analoga a quella degli "stretti" di fuga) - dell'intero tempo; non altrimenti gli adagi si drammatizzano in forma-sonata o - quando sono dati nella forma più frequente (quella del Lied) - si svolgono in variazioni di scrittura e di tono espressivo; il Minuetto rompe le sue regole componistiche e il suo stesso spirito tradizionale diventando il più libero e sfrenato Scherzo, vero ponte tra l'uno e l'altro tempo (nella Quinta sinfonia si può dire che le vicende del Finale si preparino già nello Scherzo); e il Finale tende a iperboliche amplificazioni (Quinta e Nona sinfonia) chiamando a rinforzo tutti gli stilemi possibili: quelli della forma-sonata, della variazione, del fugato, del corale, oltre a tutti gli elementi interni di tali stilemi. Tale procedimento drammatico giunge nelle ultime opere beethoveniane a valori tali da imporsi a tutto un secolo: gli ultimi quartetti, la sonata op. 106, la citata Nona sinfonia, resteranno, per lungo tempo, il modello della composizione strumentale.

Il dramma beethoveniano si compie, così, nella sinfonia; tanto prepotente ne è anzi l'evidenza che nel discorso degli strumenti sembra talvolta formarsi una vicenda scenica (ouvertures, sonate op. 26, 31 n. 2, 81, 110, le sinfonie dalla III in poi, ecc.). E già Beethoven stesso non rifugge da accenni in tale senso, mediante titoli e sottotitoli (Eroica, Pastorale, ecc., sonata op. 26, quartetto op. 132, ecc.), o mediante interventi di forme e di stilemi chiaramente teatrali, che specialmente nelle ultime composizioni vengono a spezzare gli schemi sonatistici in molteplicità di tempi, ben al di là dei quattro della sonata "ufficiale". E, quantunque il Fidelio sia opera di profondo significato drammatico, s'è potuto dire, non senza ragione, che anche più potente sia in tal senso la sinfonia.

Già al suo esordio, l'Ottocento s'annunziava dunque con il suo romantico drammatismo, nel quale al tono di fantasioso, quasi allegorico discorso mozartiano, si sostituisce un sanguigno tono di fisica presenza dell'individuo sconvolto dalle passioni più veementi o rapito verso dichiarati ideali filosofici. L'artista, specialmente il tedesco, rivendica anche a parole una sua particolare Weltanschauung, cui attribuisce valore poietico quasi si trattasse d'un soggetto bachiano o d'un tema di sinfonia. E spesso gli stessi temi vengono intesi entro dichiarate significazioni extramusicali. Il che, naturalmente, non giova, ma neppur nuoce, presso i veri esponenti dell'arte ottocentesca, al reale discorso sinfonico o teatrale, per sua stessa natura d'opera d'arte sfuggente a ogni riferimento e ad ogni direttiva estranea. Quel che vi si nota è piuttosto, a tale riguardo, un singolare desiderio, presso l'artista, di saturare ogni movimento musicale, accordo, timbro, melodia, ritmo, ecc., di un'immediata e peculiare significazione. Sembra che il romantico non abbia fiducia nella finale sintesi lirica, d'ogni moto e rivelatrice e risolutrice, che a giro compiuto fatalmente deve prodursi; o anche che gli manchi la pazienza d'attendere la propria piena "confessione" fino a tale suprema sintesi: il menomo moto musicale vuole essere intriso di fisico sangue erompente dal cuore. Le forme, in tal regime, non sono più intese liricamente ma frantumate come insopportabili catene. Nascono così composizioni cosiddette "libere" (quasi che libera non fosse ogni espressione d'arte), composizioni "di genere" (cioè intenzionalmente descrittive di scene e fatti contingenti, come se ciò fosse possibile), brevi notazioni dense di affetti, o, al contrario, iperboliche amplificazioni avviate al cosiddetto titanismo filosofico che - più o meno legittimamente richiamantesi al Beethoven - dal Berlioz passerà al Liszt, al Wagner e ai wagneriani: A. Bruckner, G. Mahler, R. Strauss e, in certo modo, ad A. Skrjabin.

Due aspetti possiamo così discernere nell'atteggiamento dei romantici tedeschi e in genere degli strumentali (tranne, naturalmente, alcune eccezioni): da una parte l'artista "sensitivo" e risolto, appunto, nello stesso suo fuggevole respirare l'aura del misterioso, troppo grande mondo. Dall'altra l'artista "titanico" che non conosce se non sé stesso e il mondo da creare sulle rovine del vecchio; tipico atteggiamento del nietzschiano Übermensch. E certo, se dovessimo fermarci alle "intenzioni", non potremmo accogliere questo romanticismo come posizione propizia a una fioritura artistica tale da varcare i tempi suoi proprî. Ma, per morbose che fossero (e non lo furono che di rado) le persone fisiche degli artisti, morbosa non ne fu quasi mai la realtà musicale: le stesse forme "libere" di uno Schumann o di uno Chopin sono mirabili ed euritmiche sintesi non inferiori ad alcuna fuga o ad alcuna sonata dei periodi cosiddetti preclassici (Bach) e classici (Haydn, Mozart, Beethoven): ogni inciso vi risponde pienamente alla logica del discorso musicale. Il che, se mai, può non avvenire quando gli Schumann e gli Chopin tentano le forme architettoniche della sonata. Preziosa per infinite dovizie di scrittura, di notazione, è l'arte di questi "sensitivi": dai Lieder di F. Schubert, dai Phantastische Stücke di R. Schumann, dai Preludî di F. F. Chopin siamo già nelle squisitezze d'armonie e di timbri che troveremo, transvalutate, presso l'armonista dichiarato C. Debussy.

È infatti in questo periodo che il costituente armonistico emerge tra gli altri raggiungendo funzioni sempre più esplicite ai fini lirici fino alla debussyana egemonia. La cesellata scrittura di Chopin e di Schumann è intesa precisamente all'analitica valorizzazione della risonanza armonico-timbrica, che dalla quadrata, drastica sintassi (tonica-sottodominante-dominante-tonica) dei classici esce fuori in fantasiose allusioni agli armonici più lontani: il discorso si scioglie così in nervose fibre sonore, senza posa modulanti per vie misteriose, frementi per ansiti cromatici. Così questa prima scuola romantica, nell'ambito che possiamo dire "intimista", rinnova l'intera scrittura musicale, tanto nella melodia, condotta da F. Schubert (Lieder, Sinfonia in si minore) e da F. F. Chopin alla più sottile duttilità espressiva, quanto nell'armonia che presso Chopin si libera dal basso e dalla quadratura funzionale e presso Schumann innerva dei proprî agogismi il procedere dei contrappunti, creando nuove necessità ritmiche e nuove disposizioni del suono nella notazione strumentale.

Nel seno stesso di questa prima scuola romantica si svolgeva l'attività di quasi tutti i maestri dell'epoca: dall'opera di C. M. v. Weber - che per la sua anteriorità cronologica bene spiega la felice sintesi dell'ancor valida sonata e del nascente afflato sentimentale che in essa ancora si stende e che ne colora di tenui tinte il largo tessuto - a quella di F. Mendelssohn-Bartholdy - che al suo primo apparire (Sogno d'una notte d'estate) riesprimeva in aerea trasparenza d'orchestra le più immateriali allusioni shakespeariane, e che poi però, sfortunatamente invecchiato anzi tempo, diluiva la sua musicalità in accademizzanti ambiguità romantico-classiciste.

Tutto questo lirismo soggettivistico (nel concreto senso dianzi illustrato) anima e sostanzia dei proprî stilistici rinnovamenti non soltanto tutti i "generi" direttamente trattati dai maestri ora citati, (manifestandosi, p. es., nel teatro, romantico per definizione, col quale C. M. v. Weber ci conduce da Gluck e da Mozart e dal coevo Rossini al prossimo Wagner) ma anche l'altra corrente del romanticismo, quella che s'è detta "titanica" e che dall'esperienza beethoveniana trae motivi di storica dialettica per sviluppare tutti gli elementi del mondo musicale dalla sinfonia dello stesso Beethoven al teatro Gluck-Spontini. In Francia teatro e sinfonia si slanciano in avanti presso il geniale profeta (di sé stesso non molto padrone e quindi non molto realizzatore) Hector Berlioz, responsabile di tendenze orchestrali che - in lui piuttosto megalomani - troveranno legittimità presso F. Liszt e R. Wagner. In Germania tale corrente non si svilupperà che in un secondo momento, corrispondente a quella che si può per comodità designare come seconda scuola romantica (Liszt, Wagner) e che del resto vedrà continuare anche la corrente "intimista" nella musica di J. Brahms. In Italia (o comunque tra gl'Italiani in patria e fuori) il romanticismo si presentava e si svolgeva invece in spiriti nettamente contrastanti con i germanici: quivi non troviamo infatti né aspirazioni filosofiche né intimistiche "confessioni". La stessa scrittura musicale continua la risoluta franchezza di sintassi e la chiara quadratura della forma, così nel disegno dell'intera architettura come in quello della singola scena e della stessa melodia, che distingueva l'arte dello Spontini e del Beethoven delle ouvertures e della Sinfonia in do minore. Il romanticismo di G. Rossini (come quello dell'interessantissimo N. Paganini), per un certo tempo, non farà anzi che ravvivare in ritmico dinamismo (Barbiere di Siviglia) la sentimentalità sorridente e sensuale dei Cimarosa e dei Paisiello. Haydn e Mozart eran passati non per nulla nel mondo musicale, e del loro vario colorito (specialmente dello strumentale) l'ottocentesco Rossini aveva assorbito la suggestione. Ma prima della Semiramide e del Tell la stessa influenza di Spontini e di Beethoven non viene assimilata e potenziata. Era però virtù rossiniana quella di riassumere in complessità di stile potentemente unitario e personale qualunque corrente della tradizione, non appena l'avesse sentita. Ed ecco, come già l'opera buffa napoletana nel Barbiere di Siviglia, così l'opera seria, sostanziante d'italiani succhi musicali il quadro gluckiano, riassumere le influenze Gluck-Spontini-Beethoven nel complesso organismo del Guglielmo Tell.

Nella quale ultima opera appare in piena luce, fin dalle prime battute (si noti, a questo proposito, la frase dei violoncelli nella prima e le fanfare nell'ultima parte della sinfonia) quello che si può intendere per italiana riassunzione degli elementi beethoveniani: larghezza e severità di linee, classicamente condotte in conchiuse parabole, ad espressione d'un sentimento la cui potenza si manifesta proprio in efficienza architettonica. Né di romanticismo si potrebbe dunque parlare, se non fosse per elementi in certo senso extramusicali o propriamente psicologici, non ancora artistici: preferenza di certe situazioni, importanza conferita all'"atmosfera" ambientale - tra l'altro a quella della libera natura - e così via. Il Rossini - come dopo di lui farà Giuseppe Verdi - nel suo trasferire sulla scena quanto nello spirito romantico rispondeva a motivi letterarî, psicologici, filosofici, ecc., sembra già con questo restituire alla simmetria formale ogni dignità artistica, al discorso sonoro ogni possibilità di gioiosa semplicità lineare.

E non diverse forme distingueranno nel corso dell'Ottocento la realtà musicale del "romanticismo" italiano. Il quale si concreta pressoché esclusivamente nel teatro, da Rossini a Bellini e Donizetti e a Verdi.

Mentre in Francia l'esempio rossiniano era variamente inteso e raggiungeva i suoi migliori frutti nell'Opéra comique degli Auber e dei Boïeldieu (cioè nei più vicini nel tempo e nel genere), vedendo tradite le sue intime virtù liriche nel fastoso eclettismo del Grand-Opéra, dove J. Meyerbeer riduceva il dramma musicale a spettacolo coreografico, in Italia a G. Rossini succedevano le realizzazioni liriche della Norma e della Lucia e delle opere "sentimentali" dello stesso autore di Lucia: Linda di Chamonix, Don Pasquale, Elisir d'amore, ecc. Nelle quali opere di Bellini e di Donizetti le stilistiche rossiniane sono transvalutate a distinti scopi: serena melodia presso il Bellini, impeto di ritmi e di contrasto di toni presso il Donizetti prendono un tono che veramente può legittimare l'attributo di romantico: un tono di diretto impegno dell'uomo nelle vicende che l'artista viene creando. Intensità quasi fisica, come di fisico spasimo, è nell'espressione donizettiana, e infatti questo artista non sempre riesce a sintetizzare il suo dramma, nelle opere serie (Lucia, Favorita, ecc.), in quella superiore euritmia che distingue le sue opere sentimentali o giocose, e che un Bellini sa raggiungere - nella Norma - in arcano potere di trasfigurazione, di lirica catarsi.

Verso la metà del secolo - mentre le varie scuole nazionali prendono nuova consistenza nell'assorbire le ricchezze musicali moderne nel seno delle loro tradizioni auliche o popolari - Italia e Germania, ancora direttrici del movimento musicale, esprimono dal loro spirito più profondo le maggiori figure del loro dramma romantico: Giuseppe Verdi e Riccardo Wagner. Ambedue esponenti e riassuntori dell'intero clima spirituale del loro rispettivo ambiente vengono a costituire i poli antitetici del mondo ottocentesco: R. Wagner, rivendicando l'eredità di C. W. v. Gluck e di C. M. v. Weber, si rivolta contro l'opera-spettacolo alla Meyerbeer (pur da lui in principio imitata) teorizzando e attuando un Musik-Drama in cui - a posteriori - vuole ricreare la sintesi "gesto-parola-suono" ch'egli concepisce come originaria espressione umana e quindi come origine dello stesso fatto artistico. Rivelatore della riposta essenza vitale dell'Uomo, fuori delle contingenze, e cioè di quei valori assoluti e finali cui secondo Wagner né poesia né mimica attingerebbero se non in fusione con la musica, questo teatro supera il mondo quotidiano in quello della leggenda eroica. In pieno Ottocento viene così riportata in vita l'antica saga germanica; ritornano i cicli cavallereschi, ritornano i miti. In quest'arte che si volge intenzionalmente all'analisi (né sempre con mezzi veramente artistici: v. l'uso concettuale dei Leit-motivs), principio primo era la continuità, per varie vie, del discorso musicale in cui corre il divenire del dramma, con le conseguenze che da esso principio derivano: abolizione dei pezzi chiusi, "melodia infinita", cioè appunto libera dalla simmetria e dalla localizzazione e l'ascesa a importanza enorme, veramente schiacciante, dell'orchestra nel confronto con le voci. Di qui lo spiegabile orientarsi della scrittura wagneriana verso la dialettica tematica beethoveniana e verso il contrappunto di ricordo bachiano (Meistersinger von Nürnberg).

Simile totalità di rivolgimento operistico poteva imporsi, come s'impose, unicamente in virtù della formidabile potenza artistica di R. Wagner, egli stesso figura ricca di quanto al mondo fosse umano. Tutti gli elementi musicali, dai più comuni ai più preziosi, che quivi sono attratti, vengono di colpo tramutati come per un'irresistibile magia. E irresistibile ne diviene, allo stesso modo, l'attrazione che la loro nuova figura esercita sugli uomini; irresistibile come un fascino morboso sentito e denunziato dal Nietzsche come di arte malata e ingannatrice. Prima ancora che sulla coscienza, sembra che la musica del Tristano agisca sulle stesse fibre, sui centri nervosi del nostro organismo. Felice eccezione, in tal senso, il franco ed energico Siegfried. Ma anche quand'è così tormentoso, il discorso wagneriano rimane umano, vero e potente quanto pochi altri. L'influenza dell'arte e della Weltanschauung wagneriana si espandeva nel mondo del secondo Ottocento trovando ferma opposizione soltanto nell'Italia di Giuseppe Verdi. L'arte del quale maestro, come s'è accennato mostrandone i precedenti rossiniani e donizettiani, toccava il culmine dell'espressione drammatica non già nell'esteriore rottura degli argini formali, ma proprio nel giuoco delle masse struttive, sempre ben squadrate e delimitate, in un'architettura ampia e classica, ben rispondente alla sensibilità mediterranea, sempre rivolta al "finito".

Arte di diretta commozione umana nel mondo umano, spoglia di premesse e d'interferenze filosofiche, di aspirazioni trascendenti quanto di elaborazioni tecniche, essa si presenta con una ferma incisività di linee e di contrasti, ove personaggi e situazioni imprimono i loro caratteri capitali sì profondamente da non poter più uscire dal ricordo. E - come già si vide nell'operista più vicino spiritualmente al Verdi, cioè in C. W. v. Gluck - la scrittura può apparire scarna e "qualunque" in confronto, per es., con quella dell'analitico Wagner: essa non si dà che raramente a ricerche formali, e quand'essa lo faccia sembra destinata a esaurirvisi dentro. Fortissimo tecnico, il Verdi non troverà tuttavia una sua vera e lirica preziosità se non nello shakespeariano tessuto del Falstaff, microcosmo d'una coscienza del mondo giunta ormai alla sua sorridente pace, e quindi atta a compiacersi in delicate, cesellate notazioni. Ma di solito il Verdi, come il Gluck, riduce alla nuda linea, all'elementarità più assoluta e primordiale le passioni ch'egli stesso, con tutto il suo cuore, sente nel padre infelice, o nella morente Leonora, o nell'ineffabile strazio di Otello, dando l'ultima, finale ragione di quanti vecchi o comuni stilemi egli prehda, e vincendo così ogni pericolo di eclettismo, in quel suo stile che sembra - come quello d'un Manzoni - così comune e a chiunque concesso, e che intanto svela la presenza del maestro fin dalla prima pagina, e tutto sa dire, dalle maggiori complessità ai più semplici moti, nella precisa "proprietà" concettuale di due o tre battute. Quivi la virtù che solleva G. Verdi al disopra dell'eclettismo e dello spettacolo, e che, nel quadro del meyerbeeriano Grand-Opéra, suscita l'umanità di Aida.

La grande corrente beethoveniana che nutriva il sinfonismo teatrale di R. Wagner (e che per alcuni singolari toni espressivi si potrebbe vedere transvalutata nell'ardente quanto casto e severo e imperioso dramma verdiano) in parte attraverso la prima scuola romantica, in parte attraverso l'immensa diffusione wagneriana penetrava ormai ovunque: non soltanto tra i popoli di più continua civiltà musicale ma anche tra quelli che - generalmente su basi etniche - proprio in quel mezzo Ottocento venivano maturando una loro espressione artistica. Così, mentre l'Italia, quasi esclusivamente teatrale, concorda con il suo centro focale, G. Verdi, nelle forme sceniche (più che nello spirito) d'un Boito e d'un Ponchielli, e coloro che se ne stacchino (Catalani) lascia in ombra, le altre nazioni europee svolgono vicino al teatro (spesso italianizzante) loro proprî sviluppi sinfonici, sempre più penetrati di succhi tedeschi (Beethoven, i primi romantici, Wagner). Vicino a R. Wagner lavora, non senza premesse berlioziane né scevro da un vago eclettismo, il Liszt, che nella sua prodigiosa ricchezza di corde passa dall'intimismo chopiniano al "titanismo" dei poemi sinfonici. E tale ricchezza, dalla sua multiforme attività, rinnovatrice di tecniche armonistiche e strumentali, consacrante le forme programmatiche del sinfonismo già berlioziano, si trasfonde in ogni paese, esercitando un'influenza che quanto alla tecnica è forse più importante di quella esercitata dal Wagner: alla libertà sconfinata dei movimenti lisztiani, alla splendida potenza della sua scrittura orchestrale, pur sempre così nervosa e trasparente, s'informano anche coloro che sono presi, spiritualmente, dall'incanto wagneriano, e che in tal modo riescono comunque a salvezza. Attraverso la partitura lisztiana si poteva infatti intravedere la lontana sicura luce dei Mozart e dei Beethoven assai meglio che non attraverso la compatta stilistica wagneriana e con maggiore libertà di nuovo respiro di quel che non concedesse l'altro grande romantico tedesco della seconda scuola: J. Brahms.

In Francia questa influenza lisztiana sembra suggerire, oltre a ricordi beethoveniani, anche altri varî ricordi: Bach, Mozart, Chopin, Wagner; e tali pluralità sembra intanto avviare a fusione: se un musicista come Saint-Saëns riduce ad accademismo il pur giovane poema sinfonico d'indirizzo propriamente lisztiano, un musicista come Franck riesce invece a dialettizzare con mirabile logica la propria intuizione dell'arte beethoveniana con tutta la varia esperienza che di essa arte s'era venuta a formare nel primo Ottocento fino a Liszt e Wagner.

Egli sviluppa così in audaci potenziamenti l'azione costruttiva dei rapporti tonali, estendendone il giro anche in virtù di una scrittura armonistica assai ricca di cromatismo e quindi atta al giuoco delle modulazioni. Tale la sostanziale ragione della tecnica franckiana nelle sue forme architettoniche come nella sua stesura contrappuntistica. La figura più vicina a quella di C. Franck non è del resto da cercarsi nell'ambiente francese (che all'infuori di Saint-Saëns ben poco si occupa di severo sinfonismo e piuttosto si dà al teatro, felicemente esprimendosi con C. Gounod e con il geniale G. Bizet), ma in Germania, dove abbiamo incontrato J. Brahms. Anche Brahms, infatti, dialettizza il suo Beethoven con il Beethoven dei primi romantici, ma in tale dialettica il reagente non è dato tanto dallo Chopin e dal Liszt quanto dallo Schumann. E Schumann, a sua volta, da Brahms viene analizzato nei suoi varî elementi: oltre al beethoveniano, il contrappuntistico, cioè l'elemento Bach. Di qui, presso J. Brahms, una scrittura non meno elaborata che quella di Franck né meno risolta, finalmente, in beethoveniana costruzione, ma più intimamente contrappuntistica: si tratta anche qui, infatti, di contrappunto armonico, e dunque - nel tardo e ultimo Ottocento - ricco di armonistiche suggestioni, ma tuttavia fedele ai suoi proprî e peculiari movimenti, mentre nel Franck si direbbe che il contrappunto, per nutrito che si mostri, sia in funzione dell'armonia. Il gotico "flamboyant" del vallone Franck trova qui un contrasto nell'edificio austero e raccolto che Brahms pur costruisce anch'egli su beethoveniane fondamenta.

Quivi, dunque, la corrente "intimista" della prima scuola romantica tedesca sembra rinvigorirsi e acquistare nuovo slancio in avanti. E infatti nuovi paesi musicali, per così dire, ne verranno fecondati, ma per vie già permeate di correnti diverse etniche e culturali. Così, mentre la Germania è quasi interamente sommersa, quanto al teatro, dal wagnerismo, e wagneriana si sta facendo anche la maggior parte dei sinfonisti, in alcuni paesi limitrofi Brahms, Wagner e Liszt agiscono in una certa convivenza. In Boemia, p. es., Wagner e Liszt (non senza ricordi rossiniani) emergono prima del Brahms, nell'opera teatrale e nel poema sinfonico di B. Smetana, il rinnovatore e massimo esponente della scuola nazionale. Densa di spiriti popolareschi e di nazionale tradizione (i "Mannheimer" boemi), l'arte di Smetana riesce a una felice unità stilistica in cui tali spiriti agiscono come forza d'attrazione. Ma in un secondo momento tale unità sembra in pericolo, nell'elaborazione brahmsiana cui A. Dvorák affida il canto e la danza del suo popolo, a tale sorte renitenti. Pericolo, questo, che non sanno evitare, del resto, neanche i primi maestri italiani che verso la fine del secolo cercano di riavviare il movimento sinfonico: il lisztiano G. Sgambati e quell'austero, per certi riguardi veramente grande artista che fu G. Martucci, troppo ossequiente al tipo tedesco dell'elaborazione tematica che si può vedere come denominatore comune di Wagner e di Brahms. Né maggiore fortuna avrebbero avuto i Russi se l'esempio del vecchio Glinka (dove la semplice freschezza della scrittura operistica di stampo rossiniano ben più del sinfonismo germanico poteva donare vita d'arte agli ancora vergini sensi popolari) non avesse posto i migliori musicisti del maturo Ottocento in guardia contro la germanizzazione.

Cosicché, mentre l'eclettico Čaikovskij cadeva in dubbie alternanze di riflessi russi, francesi, italiani e tedeschi, che ne viziarono la pur varia e vibrante musicalità, e mentre un A. Rubinstein perdeva il suo vigore nel tematismo germanico, in vivida luce ascendeva la prima scuola russa che s'incontri nella storia musicale: quella dei "Cinque", richiamantisi a Glinka: Balakirev, Cui, Musorgskij, Borodin e Rimskij-Korsakov. Nella quale scuola non si può parlare d'influenze occidentali come di manifestazione concreta: la stessa tecnica è nettamente differenziata dall'occidentale, specialmente per quel che concerne gli elementi interni della scrittura: capitale, a tale proposito, la differenza delle basi tonali, che proprio nel più completo dominio della tonalità moderna vengono a presentare, con mirabile virginea freschezza, la più varia sintassi dei modi liturgici di plurisecolare tradizione bizantina e in genere orientale. E come i sistemi tonali, lo stesso giuoco dell'armonia si svolge in conseguenze d'estrema varietà, specialmente con arricchimento dell'accordo da parte di suoni lontani, forieri della ventura sovrapposizione tonale d'un Debussy (Images) e di uno Stravinskij (Petruska, Sac.re du printemps). Dalla quale diversità di sensi armonistici viene logicamente analoga diversità di risonanze timbriche (esplicazione della risonanza armonica), e cioè della scrittura strumentale. Che se nel pianoforte si giova (Balakirev) di procedimenti lisztiani, nell'orchestra non trova presso F. Liszt se non una minore opposizione. In tale ordine i Cinque russi possono anzi assumere un'esplicita funzione propulsiva nelle vicende musicali moderne, con la loro orchestrazione per toni anziché per valori; cioè per timbri anziché per masse. È il senso coloristico il cui progressivo affinarsi e distinguersi nel seno degli agogismi musicali diventa carattere tipico del movimento d'avanguardia dai Cinque fino ai nostri giorni; beninteso nel senso piuttosto approssimativo che si potrebbe dare alla caratterizzazione delle altre vicende musicali mostrando nel ritmo, nella melodia e nell'armonia gli esponenti linguistici dell'arte antica, della medievale e della moderna fino a ieri. Certo tale squisitezza di fremiti armonico-timbrici, questo amore al vario colorito orientale poterono spesso significare, anche tra i Cinque, tendenza a un'arte d'indole decorativa più che immediatamente espressione di affetti individuali: Balakirev e Rimskij-Korsakov quasi sempre rimangono infatti in tali confini. Ma l'opera di A. Borodin, pur dichiaratamente folkloristica, ha in sé un lirico motivo: tutto questo mondo di orientali splendori, di raffinate sensazioni voluttuose, di barbaro impeto guerresco (Principe Igor) si riflette nel Borodin toccandone il cuore a patetiche vibrazioni, quasi di sogno o di nostalgia. E così anche in M. Musorgskij l'arte russa supera i limiti del gusto decorativo, ascendendo però questa volta a valori ben più profondi e universali. Nel Boris e nella Kovàncina, come anche nelle liriche del ciclo Senza sole, Musorgskij rappresenta con caratteri d'evidenza quasi fisica il dolore dell'umanità invano reagente contro un'inesorabile fatalità. Quest'umanità schiava del mondo in cui s'aggira, quasi inconscia di tutto tranne che della propria disperata impotenza, e che del tormento introspettivo si libera soltanto nella demenza, questa tragedia eternata nell'intuizione quasi dostoevskiana del Musorgskij, realizza nel Boris e nella Kovàncina un teatro meno lontano da quello d'un Verdi che dal wagneriano, non fosse la contitinuità e lo stile recitativo cui Musorgskii s'attiene. Ma quella stessa quadratura di pezzi chiusi in cui Verdi esprime l'energica azione creatrice dell'uomo di fronte a qualsiasi circostanza, non è su un altro piano artistico. È sempre all'uomo nella sua immediata individualità che quest'arte si volge; non all'uomo, per così dire, astratto in figura eroica o mitica, di cui la concretezza non si dà, come presso Wagner, se non nella commozione d'una comprensiva Weltanschauung.

Così dall'Ottocento si passa al secolo XX - presso i più noti esponenti dell'arte musicale - in spiriti di dramma, come nel teatro e nel Lied (H. Wolf) così nella sinfonia. Ecco, p. es., la produzione degli operisti italiani (A. Catalani, P. Mascagni, G. Puccini, R. Leoncavallo, U. Giordano, F. Cilea e gl'isolati A. Franchetti e A. Smareglia) e francesi (J. Massenet, G. Charpentier, A. Bruneau, ecc.), dei quali un Massenet, un Puccini e un Mascagni poterono, in grazia di personali diverse virtù, consegnare alla storia opere liricamente perfette (Manon, Bohème, Cavalleria), come si può dire dell'oratorio di L. Perosi. Figure musicalmente più definite in questo momento accostante nostalgia romantica e conscia reazione contro alcuni romantici valori possono intanto ravvisarsi, in Riccardo Strauss e in Claudio Debussy, ambedue, in diverso, anzi opposto, modo, sinfonicamente dialettici e drammatici. Erede l'uno del titanismo Berlioz-Wagner-Liszt, dispregiatore l'altro d'ogni titanismo, essi realizzano compiutamente le loro posizioni psicologiche in figure musicali rappresentanti rispettivamente un ultimo sforzo vitale di sensi ormai già esausti (e soltanto in parafrasi e glosse ancora passibili di utilizzazione) e - dall'altra parte - un primo e commosso respiro all'aria aperta, fuori delle chiuse alcove del wagnerismo.

Non per nulla l'influenza russa agì nel Debussy più che la germanica: il senso dell'ambiente, dell'atmosfera (vera essenza della vita umana secondo il musicista del maeterlinckiano Pelléas) respinge gli sviluppi tematici e le linee di forme prestabilite: la scrittura si stempera in pura risonanza d'armonie dolcemente timbrate, qua e là sprigionanti vaghi accenni melodici, tentativi di frasi che restano inespresse. Libero fiorisce in queste vaghe sonorità l'accordo più ambiguo e sensualmente suggestivo, che presso Chopin era colore di melodia e presso Franck creatore - comunque - di contrappunto. Nel Pelléas, il dramma musicale più notevole che si sia dato dopo l'Otello di Verdi, l'azione delle persone non è determinata da un loro volere ma dalla stessa incantata atmosfera che li avvolge, di scena in scena trascorrente come nuvole nel cielo. In questo incerto rifluire di risonanze si continua il timido recitativo delle voci in inflessione quasi di parlato comune.

Umanità, dunque, esangue e morbosa. Se però esaminiamo intimamente il Sigfrido che - nel paragone con Pelléas - ci sembra risorgere dalla musica di Riccardo Strauss (Don Juan, Heldenleben, Elektra), ecc., ci accorgiamo che del vero Siegfried qui non ricompare la gioconda, inebriante, vergine forza, ma soltanto una brutalità che ha perduto perfino il motivo (l'ingenuità) dal quale era spiegata come legittima e sana.

Da una parte e dall'altra, dunque, perfette espressioni d'un mondo giunto alla saturazione di tutto ciò cui aveva aspirato (R. Strauss, Guntram, Heldenleben) e troppo indebolito per liberarsene altrimenti che con l'agnostica ironia o con un abbandono totale ai suggestivi profumi vaganti "nell'aria della sera" (Debussy, Préludes). E il destino degli Strauss e dei Debussy (ove si prescinda dagli sviluppi puramente grammaticali tratti dalla loro tecnica) è condiviso dai loro vicini, tranne forse A. Schönberg. Ma, mentre presso gli altri post-romantici tedeschi e russi (da A. Bruckner a G. Mahler, da A. Skrjabin a F. Schrecker) questo destino delle persone umane non riesce a esprimersi compiutamente in artistica trasfigurazione, presso i Francesi del periodo a torto chiamato "impressionista" (ché tale non fu se non Claudio Debussy) si dà spesso una felice evasione nel sogno (M. Ravel) che comunque sa crearsi piccole e preziose forme sonore, di una raffinatezza componistica incomparabile: la "notazione dei minimi", che s'è vista presso lo Schumann e lo Chopin, si trova in questi Francesi, da G. Fauré al citato Ravel, ancora più preziosamente lavorata, specialmente nelle azioni armonico-timbriche. E pari considerazioni si potrebbero esporre a proposito delle migliori pagine del tedesco post-romantico o "espressionista" Arnold Schönberg, che a simili stati di sogno (qui piuttosto tormentosi come incubi) orienta la sua misteriosa scrittura priva di decisi agogismi armonici (quella scrittura atonale in cui fatalmente doveva risolversi, per sovrasaturazione, l'ipercromatismo straussiano).

È in questo complesso ambiente, denso di tanti e tanti tropismi stilistici, che le scuole nazionali sorte o riprese (Russia, Scandinavia, Finlandia, Spagna, Inghilterra) in spiriti prevalentemente etnici o addirittura folkloristici tendono nuovamente a valori in certo modo assoluti: denominatore comune quel desiderio di universalità che - da alcuni chiamato impropriamente "oggettivismo" (Neue Sachlichkeit) - altro non è che una reazione contro l'atteggiamento romantico ed espressionista ("la nota intrisa di umano sangue") che nella maggior parte dei compositori dava ormai pericolose interferenze concettuali o descrittive nel logico discorso musicale. Il nuovo culto della scrittura purificata e severa (culto del resto non proprio di tutti i contemporanei) si mostra già affermato vigorosamente nel primo quarto del sec. XX: ogni folklorismo, sia pure brillante e saporoso come quello dei Russi o di un Albeniz e d'un Granados, patetico come quello d'un Grieg o d'un Sibelius, viene superato nelle salde costruzioni di Igor Stravinskij, di Manuel de Falla, dell'Ungherese Zoltán Kodály, del Polacco K. Szymanowski, degli Svizzeri E. Bloch e A. Honegger, degl'Inglesi A. Bax e R. Waughan-Williams. Nomi, questi, che ben possono considerarsi esponenti non soltanto del loro ambiente nazionale, ma dell'intero movimento artistico, allo stesso piano sul quale si trovano i nuovi maestri delle "grandi potenze musicali": gl'Italiani F. Alfano, O. Respighi, I. Pizzetti, A. Casella, G. F. Malipiero, per citare le cosiddette "avanguardie", i Francesi A. Roussel e D. Milhaud (oltre l'ancora dinamico M. Ravel), i Tedeschi A. Berg e P. Hindemith.

Bibl.: V. sotto: Storiografia, per le varie concezioni datesi del movimento musicale nel corso dei tempi. Qui, non potendo elencare le troppe numerose pubblicazioni storico-musicali di carattere generale e speciale, si limiterà la citazione ad alcune opere più immediatamente utili. Lo svolgimento propriamente storico di quest'arte è genialmente intuito già in A. W. Ambros, Geschichte der Musik, Lipsia 1862-68 (con minore profondità completata da W. Langhans, Lipsia 1884-87); per lo sviluppo formale v. specialmente H. Riemann, Handbuch d. Musikgeschichte, Lipsia 1901-16; il fatto musicale è considerato, per astrazione, nella sua tecnica in M. Emmanuel, Histoire de la langue musicale, Parigi 1911; rist., 1918.

Storiografia.

Ponendo secondo la consuetudine l'inizio della storia della storiografia nel periodo della civiltà ellenica, il primo scritto nel quale si possa ravvisare un interesse propriamente storico è il De musica ascritto a Plutarco con antica attribuzione, peraltro contestata da molti studiosi moderni con varie ragioni filologiche e stilistiche. Il suo valore, in ogni modo, è assai notevole per la discussione, chiaramente improntata al contemporaneo pensiero filosofico, di problemi particolari riguardanti i periodi più antichi della musica greca. Nei numerosi trattati teorici pervenutici manca la considerazione storica ed è vana la fatica d'una rigorosa ricerca; il che non esclude la possibilità di rintracciare qua e là, in opere letterarie e filosofiche, elementi storici d'una certa importanza per lo studio dell'antica musica greca.

Anche nel Medioevo scarsissimi sono i contributi storici apportati dagli scrittori musicali; anzi se questo avviene, si può dire all'infuori delle loro intenzioni. L'indirizzo speculativo predominante, tipico dell'età di mezzo, prevale nelle trattazioni astratte sulla teoria musicale, in altri scrittori domina invece l'interesse pratico per lo più con riferimenti diretti al canto liturgico. I problemi, sia teorici sia pratici, vengono trattati in relazione con le condizioni generali della cultura; e l'aspetto filosofico più spesso è sopraffatto da quello scientifico, ancora sottomesso a tenaci forme di neopitagorismo nelle quali si afferma quasi esclusiva la speculazione e, non di rado, l'astrazione acustico-matematica. Così che i problemi non sono mai individuati nel loro particolare colore storico e nemmeno indirettamente giovano alla determinazione di precise questioni storiche. Dopo il sec. XII, con l'ampliarsi in forme più varie dell'attività musicale, qualche raro accenno si può trovare in alcuni scrittori come il cosiddetto Anonimo IV, pubblicato dal Coussemaker nella sua nota raccolta, e come Johannes de Grocheo, rivelato agli studiosi dal Wolf; quest'ultimo particolarmente prezioso per le notizie intorno alla musica profana, argomento di solito assente nelle trattazioni dei più gravi teorici, quasi esclusivamente ristretti alla teoria o alla pratica del canto religioso; egualmente si dica di molti altri trattatisti dei secoli XIII e XIV, dei quali non è il caso di riferire il nudo elenco dei nomi.

Nel Rinascimento è sensibile l'approfondimento degli studî musicali preparato e favorito dal movimento umanistico che penetra, appunto nel sec. XV, nel campo musicale, svegliando un interesse teorico prima che pratico. Accenniamo brevemente alle traduzioni di antichi trattatisti greci sollecitate da Franchino Gaffurio e compiute dal Valguglio (Plutarco), da G. Valla (Euclide, Cleonide); ma tali traduzioni sono effettuate con uno spirito quasi esclusivamente erudito; quasi tutti i trattatisti si rifanno all'autorità degli antichi, con mentalità tipicamente umanistica. Tuttavia il movimento di cultura doveva dare frutti migliori nel secolo seguente; nel sec. XVI, infatti, lo scrittore svizzero Heinrich Loris detto il Glareano, autore del Dodekachordon (1547), fra tanti, dimostra con citazioni e raffronti un desiderio di considerare più a fondo il significato storico di alcune musiche e dei loro creatori. Ma il trattatista che più di tutti raggiunge nelle sue opere, pur praticamente e tecnicamente indirizzate, la più matura consapevolezza storica è Gioseffo Zarlino, il quale, nelle Istituzioni armoniche (1557), ci offre dati importanti per l'interpretazione dell'arte polifonica del sec. XVI e, implicitamente, dei caratteri e delle tendenze espressive di insigni musicisti. All'opera dello Zarlino si riallacciano due trattati assai importanti e caratteristici della cultura musicale del tempo: L'antica musica ridotta alla moderna prattica (1555) di Nicolò Vicentino, e il Dialogo della musica antica et della moderna (1581) di Vincenzo Galilei, quest'ultimo assai noto per l'efficace azione esercitata nella preparazione pratica e culturale precedente l'affermazione della musica monodica. Molti motivi fondamentali del Galilei assumono un carattere storico, ma, volti essenzialmente a uno scopo ben diverso dalla ricerca obiettiva e metodica, si trasformano in elementi pratici e polemici. Lo stesso si può dire della disposizione generale dei molti scritti sorti nell'atmosfera della Camerata fiorentina (Bardi, Strozzi, Corsi, Mei, ecc.); idee e motivi che tutti vengono riassunti e, in un certo senso, resi più omogenei nei molteplici trattati di G. B. Doni, il quale tuttavia è da considerare, con i suoi copiosi riferimenti storici, come la fonte più importante sull'origine dell'opera.

Nel sec. XVII incontriamo ancora un gruppo di opere le quali, nonostante l'accenno a nuove intenzioni, non si allontanano dal tipo tradizionale: Syntagma musicum (1614) di M. Praetorius, Historische Beschreibung der edlen Sing- und Klingkunst (1690) di W. C. Printz, Istoria musica (1695) di Giov. Andrea Bontempi; quest'ultima, nonostante il titolo esplicito e promettente, non molto dissimile, nel contenuto e nella disposizione generale della materia, da un trattato di teoria.

Col mutarsi delle condizioni culturali del sec. XVIII gli studî storici si volgono a nuove mete; comincia ad affermarsi un interesse propriamente scientifico, anche se i risultati non sono tali da rimanere, anche in piccola parte, intatti dopo il controllo della critica moderna. Segni d'una nuova tendenza sono, per questo riguardo: J. Bonnet, Histoire de la musique et de ses effets, depuis son origine jusqu'à présent, 1715 (contiene un breve disegno sulla musica antica e, documento del tempo, un confronto fra l'opera italiana e francese); C. Blainville, Histoire générale critique et philologique de la musique, 1767 (di scarso valore, nonostante il titolo assai pretensioso); e infine La Borde, Essai sur la musique ancienne et moderne (1780), in cui è da segnalare l'inserzione d'uno studio sul trovatore Chatelain de Coucy, uno dei pochi esempî di ricerca storica particolare compiuta nel sec. XVIII. Fra i Tedeschi, F. W. Marpurg, Kritische Einleitung in die Geschichte und Lehrsätze der alten und neuen Musik (1759), in parte sottomesso all'influenza dell'estetica inglese del tempo, e Martin Gerbert, De cantu et musica sacra (1774) limitato allo sviluppo storico della musica ecclesiastica; al Gerbert inoltre, raccoglitore coscienzioso ed erudito, si deve la nota silloge degli Scriptores ecclesiastici de musica sacra, che tuttora rende grandi servigi agli studiosi di musica medievale. Più note e, per diversi riguardi, più significative sono le opere generali di John Hawkins, General history of the science and practice of music (1776) e di Charles Burney, General history of music (1776-89); al secondo si deve anche quella preziosa fonte d'informazione dei suoi due libri di viaggio The present state of music in France and Italy (1771) e The present state of music in Germany, the Netherlands and United Provinces (1773). Ad essi si possono riaccostare, come opere assai analoghe, le Lettres familières écrites d'Italie en 1739 et 1740 di Ch. de Brosses e il Versuch einer Anweisung die Flûte traversière zu spielen (1752); la prima più importante per la storia della cultura e del costume artistico settecentesco, la seconda per le annotazioni di carattere più specificamente musicale. Fra gli storici musicali del sec. XVIII ricordiamo a parte l'italiano G. B. Martini, autore d'una Storia della Musica (1757-81) rimasta purtroppo incompiuta dopo i tre primi volumi, riguardanti l'antica musica greca: il metodo erudito e preciso e lo studio diretto del materiale storico adunato dal Martini con tenace passione avrebbero dato frutti migliori nell'esame di periodi più recenti; e il tedesco J. N. Forkel autore di una Allgemeine Geschichte der Musik (1788) che dimostra una più matura concezione storica; egli appartenne alla scuola storica di Gottinga, più vicina di quanto non lascino supporre gli atteggiamenti polemici del tempo, alle idee destinate a trionfare poco dopo col romanticismo. Un indizio dell'approfondimento dello studio storico nel secolo XVIII si può anche ravvisare nella relativa abbondanza di lessici e di dizionarî, ai quali può essere dato come primo lontano antenato quel Terminorum musicae diffinitorium che il Tinctoris aveva redatto nella seconda metà del sec. XV; tali sono il Dictionnaire de musique (1703) del Brossard, il Musikalisches Lexikon (1732) del Walther, il Dictionnaire de musique (1767) del Rousseau, il Historisch-biographisches Lexikon der Tonkünstler (1791-92) del Gerber, nonché uno dei primi repertoî bibliografici quale l'Allgemeine Literatur der Musik (1792) del citato Forkel.

La storia della musica nel sec. XIX risente del nuovo avviamento spirituale; nella prima metà del secolo l'aspirazione romantica verso la ricostruzione di epoche lontane provoca un risveglio d'interesse e di amore per le opere d'arte antica. Alcune indagini storiche d'una certa ampiezza erano state compiute dal Kiesewetter nel 1826 sull'arte fiamminga; lo stesso autore pubblicava nel 1834 (2ª ed., 1846) una Geschichte der europäisch-abendländischen oder unserer heutigen Musik, e nel 1841 Schicksale und Beschaffenheit des weltlichen Gesangs, sguardo storico sulla musica profana dai primi tempi del Medioevo sino agl'inizî della musica drammatica. Ma le opere che sono rappresentative della contemporanea concezione storiografica sono le grandi storie generali di F. J. Fétis e di A. W. Ambros, entrambe rimaste incompiute. L'Histoire générale de la musique del Fétis, in voll. 5 pubblicati fra il 1869 e il 1875, non oltrepassa il secolo XV; essa palesa l'orgoglioso disegno dell'autore di abbracciare universalmente lo sviluppo della musica, partendo dalla considerazione dei più lontani popoli storici. Le difficoltà enormi, ma soprattutto la mancanza di precedenti ricerche accurate su tanti periodi e figure e problemi musicali tolgono naturalmente alla generosa fatica del Fétis quel valore scientifico che pur avrebbe potuto conseguire in una più determinata e modesta indagine; cosicché si può dire che nessuno dei risultati non sia stato respinto o integralmente rifuso dalla storiografia moderna. Resta, e assai significativo, il valore dell'opera, come indice d'una tendenza storica che, raffinata e approfondita, verrà ripresa in seguito da quei ricercatori che mirano soprattutto a interpretare la musica nella storia generale della cultura. Quale fosse del resto la passione storica del Fétis ciascuno può riconoscere nell'immane fatica della Biographie universelle des musiciens (1837-44; nuova ed., 1866), in cui peraltro, fra innumeri errori e inesattezze, l'autore decisamente assume una posizione critica, spesso arbitraria, nei giudizî complessivi d'una personalità o di una singola opera. Diversa concezione storica palesa la Geschichte der Musik dell'Ambros, pubblicata fra il 1862 e il 1878 in voll. 4, più un quinto di esempî musicali aggiunto dal Kade: opera geniale che giunge sino al principio del sec. XVII, al primo fiorire delle forme drammatiche (i Fiorentini e C. Monteverdi) e strumentali (Frescobaldi). L'Ambros, ch'ebbe temperamento di vero storico, seppe unire a un'acuta analisi dei materiali direttamente studiati una sensibilità artistica sempre viva; il periodo storico nel quale egli diede miglior prova della sua penetrazione interpretativa è senza dubbio quello riguardante lo sviluppo della polifonia vocale, dai Fiamminghi al Palestrina. L'ampiezza e la profondità di alcune sue intuizioni lo apparentano ai maggiori rappresentanti della storiografia romantica e la sua opera è tuttora da considerare un momento fondamentale della storiografia musicale. La continuazione del Langhans, Geschichte der Musik des XVIII. und XIX. Jahrhunderts (1882-1886) non possiede né la ricchezza di documentazione, né l'acutezza interpretativa dell'Ambros; assai pregevole è invece l'importante rielaborazione del quarto volume (1909), arricchito inoltre da H. Leichtentritt con ricerche originali. Col progresso della generale concezione storica anche nel campo degli studî musicali si approfondisce la ricerca d'un metodo propriamente scientifico; la seconda metà del secolo XIX può essere contrassegnata come il periodo in cui l'indagine musicale assume una coerenza e una sicurezza di metodo, specialmente nei riguardi di un'esatta interpretazione filologica dei testi. Innanzi tutto si afferma l'esigenza, sino ad allora trascurata, della pubblicazione delle opere dei grandi musicisti; questo grandioso lavoro d'imprescindibile necessità, fondamento indispensabile per la ricostruzione di interi periodi artistici e per l'interpretazione critica delle grandi personalità creatrici, fu iniziato e proseguito con un raffinamento sempre più mirabile, anche per età prima trascurate come l'antichità e il Medioevo. Preceduta dai tentativi nobilissimi del Commer e del Proske si è imposta la pubblicazione dei Denkmäler, dei monumenti musicali; iniziata in Germania e in Austria essa continua ivi e in molti altri paesi, non esclusa l'Italia che, dopo l'interrotto tentativo di L. Torchi, L'Arte musicale in Italia, recentemente ha visto mettere le fondamenta delle Istituzioni e monumenti dell'arte musicale italiana (Milano, in corso di pubblicazione dal 1932), un'opera lungamente attesa per la definitiva rivalutazione del suo splendido patrimonio musicale. Alla pubblicazione delle musiche s'accompagnano le trattazioni monografiche dei grandi musicisti; comincia l'italiano G.B. Baini nel 1829 con le Memorie storico-critiche della vita e delle opere di Giovanni Pierluigi da Palestrina, e proseguono, con migliore metodo, gli stranieri, primo fra tutti Carl von Winterfeld autore d'una vigorosa opera d'insieme su Johannes Gabrieli und sein Zeitalter (1834), Spitta (Bach), Chrysander (Händel), Jahn (Mozart), Pohl (Haydn), Thayer (Beethoven), Glasenapp (Wagner), ecc. Nella seconda metà del sec. XIX è tipico segno della nuova tendenza scientifica l'abbandono delle ampie trattazioni di storia generale per quelle definite nell'ambito d'una ricerca determinata e concreta. A E. de Coussemaker si deve l'Histoire de l'harmonie au Moyen Âge (1852), seguita da altri lavori sullo stesso argomento; di lui resta, non ancora sostituita dalla critica moderna, la silloge Scriptores de musica medi aevi (1866-76) che continua la raccolta del Gerbert. Tutti i lavori del Coussemaker sono preziosi strumenti di ricerca per gli studiosi dell'età medievale; il loro autore viene giustamente riconosciuto come uno dei più benefici pionieri della storiografia musicale moderna. Altre opere d'argomento storico speciale si debbono a F. A. Gevaert, la cui Histoire et théorie de la musique de l'antiquité (1875-81) costituisce un modello di dottrina e di acutezza interpretativa, nonché una base fondamentale per lo studio della musica antica. Egualmente si dica per Les origines du chant liturgique (1890) e La mélopée antique dans le chant de l'église latine (1895), libri acuti e ingegnosi, discussi dalla critica di tendenza tradizionale; in questo campo di ricerca, la restaurazione del canto liturgico medievale è opera dei benedettini di Solesmes. J. Pothier iniziò il movimento, proseguito dal Mocquereau, fondatore di quella Paléographie musicale che contiene splendide riproduzioni di codici neumatici e minuziosi studî introduttivi, teorici e filologici.

A questo periodo di fecondo risveglio appartiene pure la fondazione d'importanti periodici: nel 1863 e 1867 il Chrisander aveva già pubblicato due Jahrbücher, ma unitosi allo Spitta e all'Adler ebbe il merito di creare una delle migliori riviste storiche, che rimase poi il modello a cui altre si attennero, la Vierteljahrsschrift für Musikzwissenschaft che durò un decennio (1885-94), raccogliendo studî e monografie d'importanza fondamentale. A fornire preziosi strumenti di ricerca si volsero R. Eitner, autore del notissimo Quellenlexikon der Musirer und Musikgelehrten e fondatore della rivista Monatshefte für Musikgeschichte, a cui si ricollegano le Publikationen älterer, praktischer und theoretischer Musikwerke, ammirevole tentativo di mettere alla portata di tutti opere musicali e teoriche, scelte con acuto senso delle necessità più urgenti per la diffusione della cultura musicale; ed E. Vogel che con la sua Bibliothek der gedruckten weltlichen Vokalmusik rese gran servigio agli studiosi della musica vocale dei secoli XVI e XVII; fu inoltre primo redattore di quell'utile Jahrbuch Peters, che continua tuttora. Nel 1894, infine, per disinteressato e profondo amore agli studî musicali, l'editore torinese Giuseppe Bocca fondava la Rivista musicale italiana, che continuò a pubblicarsi sino al 1932. A questa rivista, che resta sinora il periodico italiano più importante per la storia della musica, non potrà essere contestato il vanto di avere segnato il risveglio della cultura musicale italiana.

Nei primi decennî del secolo XX la storiografia musicale ha compiuto mirabili progressi. Fra le storie generali quella di H. Riemann, foltissima di analisi e di vedute personali, è un tipico esempio di trattazione di problemi e di generi contenuti in leggi ferree nelle quali sembra annullarsi ogni indipendenza di soggettività creatrice. L'Oxford Music Hystory, di cui è uscita una nuova edizione, è opera riassuntiva di alcuni studiosi inglesi; assai pregevoli, fra quelle tedesche, sono il Handbuch der Musikgeschichte edito da G. Adler e il Handbuch der Musikwissenschaft edito da E. Bücken, entrambi dovuti alla larga collaborazione di insigni studiosi contemporanei. Accanto a queste opere generali si può citar l'Encyclopédie de la musique di A. Lavignac, i cui primi cinque volumi sono particolarmente di carattere storico; opera vastissima nella quale è forse troppo sensibile la diseguaglianza del valore delle singole trattazioni. Nel campo delle indagini particolari si sono avuti esempî magistrali di ricerca storica che hanno segnalato, tra i molti, i nomi di R. Rolland, H. Prunières, G. Cesari, F. Torrefranca, G. Gasperini, F. Liuzzi, A. Della Corte, G. Pannain, E. Dent, A. Schering, P. Wagner, J. Wolf, ecc. Mirabile il rapido svolgimento della storiografia contemporanea che, nella concretezza dei risultati particolari, sempre più consapevolmente assolve il compito finalmente oggi riconosciuto, d'integrare la conoscenza dello spirito umano in armonia con le altre discipline storiche.

Bibl.: P. Aubry, La musicologie médiévale, histoire et méthodes, Parigi 1900; H. Kretzschmar, Einführ. in. d. Musikgesch., Lipsia 1920; E. Hegar, Die Anfänge d. neueren Musikgeschichtsschr. um 1770, Strasburgo 1932.

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