MOZIA

Enciclopedia dell' Arte Antica (1995)

Vedi MOZIA dell'anno: 1963 - 1973 - 1995

MOZIA (v. vol. V, p. 249 e S 1970, p. 534)

V. Tusa
P. Moreno

Lo scavo del tofet è proseguito fino al 1973. Un più attento esame del materiale ha permesso di datarne la fase iniziale alla fine dell'VIII sec. a.C., mentre il termine si può porre verso il principio del III sec. a.C.; l'area sacra conobbe tre diverse fasi di uso, di cui l'ultima dopo il 397 a.C.

È proseguito anche lo scavo del santuario in località Cappiddazzu. Si è accertato che la costruzione che si vede attualmente, a tre navate, è stata eseguita dopo la distruzione dell'isola operata da Dionisio nel 397 a.C. In precedenza esisteva nello stesso posto un altro edificio religioso, risalente verosimilmente al VI sec. a.C., che era stato costruito su fosse ancora più antiche, probabilmente a carattere sacrale, come si desume dal materiale ivi rinvenuto (ossa di animali e piccoli vasi), databile alla fine dell'VIII sec. a.C. È possibile però che tra la seconda e l'ultima fase ce ne sia stata una terza, dato che elementi architettonici che non possono appartenere all'edificio della seconda fase sono stati riutilizzati come materiale da costruzione. Il luogo ha conosciuto sempre edifici sacri, come è testimoniato dai resti di una piccola basilica cristiana con abside, oggi non più esistente ma documentata da un disegno.

Si è scavato inoltre nella necropoli arcaica posta sulla costa orientale dell'isola, dove si sono messe in luce poco meno di 200 tombe (quasi tutte a incinerazione), databili dalla fine dell'VIII a tutto il VI sec. a.C.; è stato inoltre trovato qualche sarcofago databile al VI sec. a.C. Dopo questa data, a causa della costruzione della cinta muraria che attraversò la necropoli, si seppellì sull'antistante costa siciliana, in località Birgi.

Nel corso delle indagini nella necropoli ci si è imbattuti in un fossato, relativo verosimilmente alla posa del muro di cinta. I risultati dello scavo permettono di datare la costruzione della prima cinta muraria (di c.a 2.500 m) verso la metà del VI sec. a.C. con varî rifacimenti fino alla fine del V; i ruderi delle mura abbattute da Dionisio mostrano tracce di riutilizzazione parziale nel IV-III sec. a.C. Torri quadrangolari, distanziate originariamente fra loro di c.a 20 m, rinforzavano le mura.

Nei pressi della necropoli è stato scoperto uno spazio aperto caratterizzato da varie fosse scavate nella roccia, con qualche pozzo in mezzo. Il dato più interessante è costituito dal rinvenimento di una grande quantità di murices, i molluschi marini che fornivano la materia prima per la porpora; si può ritenere che qui si eseguisse la tintura delle pelli e delle stoffe. Nella stessa area sono stati rinvenuti inoltre due forni e altri impianti per la fabbricazione di ceramica. Questa zona ebbe vita dal VII sec. al 397 a.C.

Una missione dell'Università di Palermo e della Soprintendenza Archeologica della Sicilia occidentale ha condotto scavi nel centro abitato dell'isola; si sono messi in luce varî elementi tra cui i resti di una costruzione sacra databile al IV-III sec. a.C., ma con frequentazione più antica. È in corso, in due settori dell'isola, lo scavo dell'abitato che ha rivelato larghe strade e grandi isolati. Nel 1979, nei pressi del Santuario del Cappiddazzu, insieme ad alcuni elementi architettonici, tra cui un capitello di tipo «eolico», è stata rinvenuta una statua in marmo raffigurante un giovane stante (v. oltre).

Bibl.: Mozia, IV-IX, Roma 1967-1978; V. Tusa, La civiltà punica, in Popoli e Civiltà dell'Italia antica, III, Roma 1974, pp. 11-107; AA.VV., Scavi a Mozia. 1985, in RStPen, XIV, 1986, p. 81 ss. - Mura: A. Ciasca, in RStPen, IV, 1976, pp. 69-79; VI, 1978, pp. 227-244; VII, 1979, pp. 207-227; VIII, 1980, pp. 237-252; ead., in Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-1981, pp. 862-869; ead., Fortificazioni di Mozia (Sicilia), in La fortification dans l'histoire du monde grec, Parigi 1986, pp. 221-227; ead., Sulle mura di Mozia, in Studi sulla Sicilia Occir dentale in onore di V. Tusa, Padova 1993, pp. 27-31. - Tofet: S. Moscati, M. L. Uberti, Scavi a Mozia. Le stele, Roma 1981; A. Ciasca, Mozia: sguardo d'insieme sul tofet, in VicOr, VIII, 1992, pp. 113-155. - Zona industriale: AA.VV., in Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-1981, pp. 877-930; AA.VV., in SicA, XXII, 1989, 71, pp. 51-53. - Necropoli: A. Ciasca, Sulle necropoli di Mozia, in SicA, XXIII, 1990, 72, pp. 7-11. - Abitato: M. L. Fama, Testimonianze del VII sec. a.C. nell'abitato di Mozia, in SicA, XXIII, 1990, 72, pp. 13-18; ead., Nuovi contributi per la conoscenza di una «unità abitativa» moziese, in Atti del II congresso internazionale di studi fenici e punici. Roma 1987, Roma !99i, PP-831-839; A. Spanò Giammellaro, Un nuovo elemento architettonico di Mozia. Nota preliminare, ibid., pp. 1253-1261.

(V. Tusa)

La statua marmorea di Mozia. - La scultura divenuta celebre come «il Giovane», «l'Auriga», o la «statua marmorea di M.» fu rinvenuta nella colonia punica l'ottobre 1979, non lontano dal santuario in località Cappiddazzu (area Κ dello scavo). Alla figura mancano i piedi e le braccia, ma restano gli attacchi delle spalle e tre dita della mano sinistra posata sul fianco; abrasioni alle parti sporgenti del lato anteriore, dal ginocchio destro al viso, fanno intendere che la statua, abbattuta dai Siracusani nella conquista del 397, era stata forzata prona sul terreno, per strapparne l'ornamento bronzeo, che ha lasciato perspicue tracce.

L'anno dopo, al ritorno degli abitanti superstiti, il simulacro mutilato venne deposto supino, come è stato ritrovato, entro una cinta di pietre, nello strato di macerie che segna la breve ripresa della vita nella città: la «colmata siracusana» che ha salvato una testimonianza dell'arte classica non meno prestigiosa dei marmi arcaici violati dal nemico e interrati sull'Acropoli di Atene dopo le guerre persiane, e come quelli in grado di aprire, se rettamente intesa, una pagina nuova nell'archeologia del Mediterraneo.

L'altezza conservata, m 1,81 senza le estremità inferiori, implica una statura promossa rispetto al naturale. Il giovane, dotato di portentosa muscolatura, indossa una veste talare pieghettata, raccolta sulle spalle da cuciture a nido d'ape, e stretta al petto da una larga fascia. Il volto, appena vibrante per la contrazione della bocca, rivela una concezione ideale nella mandibola arrotondata, nel disegno regolare delle arcate sopracciliari, e nella fronte piana inquadrata da tre ordinate file di riccioli.

Il peso del corpo cade sulla gamba sinistra. Secondo il criterio d'incrocio delle forze, il braccio omologo è in riposo, mentre il destro si alza lateralmente. Coerente con il chiasmo è anche il volgersi della testa nella direzione della gamba portante, ma l'impianto viene originalmente animato all'avanzamento obliquo della gamba libera, dall'ancheggiare sulla sinistra, dalla prominenza dei glutei, i dalla sinuosa torsione del busto, dall'enfatico slancio del braccio sollevato, e dall'affondarsi dell'altra mano nella stoffa fino a premere mirabilmente la carne.

La difficoltà dell'interpretazione nasce dal fatto che la figura ha perduto alcuni degli attributi che l'accompagnavano, e lascia apparentemente aperta la via a soluzioni contraddittorie. Gli argomenti tratti dai motivi palesi, o soltanto da alcune delle impronte visibili sul marmo, hanno lasciato fino a oggi irrisolta la questione fondamentale, se l'opera fosse di committenza ellenica o punica: nel primo caso, il rinvenimento a M. significherebbe il trasporto in antico della statua come trofeo di vittoria, proveniente da una colonia greca di Sicilia, eventualmente Selinunte con quietata dai Cartaginesi nel 409 a.C. I sostenitori del soggetto siceliota propongono a loro vol- ta articolate ipotesi: un auriga vincitore con tenia o corona sul capo e il pungolo o la palma nella destra (Zancani Montuoro, Dontas, La Rocca, Giuliano, Boardman), eventualmente il Nicomaco che avrebbe condotto al premio i cavalli di Senocrate, fratello di Terone di Agrigento, a Istmia nel 477 e alle Panatenee (Canciani); un guerriero addobbato per la danza pirrica (Yalouris); un attore (La Lomia); l'adepto di un culto con travestimento rituale (Paribeni); un personaggio politico, il «Gelone disarmato» della tradizione storica (Precopi Lombardo); infine un protagonista del mito, Dedalo alato come simbolo della grecità di Sicilia, e pertanto ambito dagli ostili predatori (Stucchi), Alcune di tali formule sono state utilizzate anche dagli assertori della committenza punica, adattandole alla diversa chiave culturale in alternativa con temi specifici: il monumento potrebbe rappresentare Un nobile cittadino di M. che ha partecipato vittoriosamente alla corsa dei carri in gare panelleniche o locali, ovvero il proprietario dei cavalli, ed effettivo titolare del successo agonistico, in atto di compiere sul cocchio con l'auriga (perduto) il giro della vittoria (Tusa); un combattente distintosi quale fromboliere (Fuchs); un condottiero o principe cartaginese all'eroica, munito di elmo e con lancia nella destra (Caputo, Picard, Guzzo, Falsone), forse Amilcare (Bode); un sacerdote o fedele in abito rituale (Tamburello, Dörig, Falsone) o mistico travestimento (Caltabiano). Precipua nel versante punico è la proposta, persuasiva grazie alla perentoria prestanza del simulacro, che si tratti di una divinità: un Baal quale auriga celeste (Garbini), o Melqart (Falsone, Bonnet) per via della fascia pettorale ricorrente nel costume dei sacerdoti del dio a Cadice (Sil., III, 24-28), e analoga a quella indossata da Ercole nel rilievo di Tivoli (Falsone, 1987, fig. 10).

L'identificazione con Melqart viene perfezionata dalla ricostruzione grafica delle parti mancanti, condotta tenendo conto non solo delle grappe e dei segni della copertura bronzea rimasti sul marmo, bensì delle anomalie compositive, proporzionali e prospettiche della figura, nella loro complessità e unità (Moreno).

Quella che si vuole sovrapporre idealmente alla statua è la leontea, propria del Melqart di Tiro e della sua derivazione meglio nota, il c.d. Eracle di Cipro (A. Hermary, in LIMC, V, 1990, pp. 192-196, nn. 7-24, s.v. Herakles Cy-prt). Sotto la spoglia ferina nelle modeste sculture cipriote è pur sempre presente la tunica: comune è il trasparire del sesso attraverso la stoffa plissettata; l'atteggiamento del nume suggerisce quale fosse anche nel nostro caso il moto del braccio destro sollevato a impugnare la clava, nella remota suggestione egizia del «dio che colpisce» (Smiting God).

Realizzata come la leontea in lamina di bronzo, la clava era ancorata dietro la testa della divinità di M. con i due perni conservati, destinati originariamente ad attraversare lo spessore della leontea. In tal modo l'arma, inserita con il manico nel pugno destro, non andava a gravare materialmente sul braccio sollevato, che già rappresentava un'audace proiezione per la statica del marmo; se mai aiutava a stabilizzarlo. La lunga caduta del rivestimento bronzeo viene a coprire tutti i luoghi del panneggio, dal polpaccio sinistro fin dietro le spalle, dove sono state rilevate le tacche quadrangolari, eseguite a scalpello per farvi aderire i tasselli distanziatori: particolarmente spiccato l'affossamento sulla spallina destra, dove la cappa insisteva dall'alto. La differenza rispetto ai modelli proposti è che il disinibito volgersi del corpo rompe la simmetria arcaica: la discesa della zampa posteriore sinistra della fiera era arretrata rispetto alla destra, in modo da lasciare spazio per il noncurante appoggio della mano.

La cintura che nei simulacri fenici stringe la spoglia leonina attorno alla vita del protagonista, giustifica il fatto (altrimenti inspiegabile nella scultura di M.) che la veste sottostante, anziché cadere verticalmente secondo gravità, aderisce al corpo da ogni lato, nel restringersi del tronco verso l'addome.

Il nodo delle zampe anteriori poggiava sul petto del dio, trattenuto dalle grappe di cui resta lo spezzone in uno dei due grossi fori ancora visibili. Il muso della leontea risultava ancorato da simili supporti che hanno lasciato le rispettive cavità al vertice della calotta e al di sopra delle tempie: l'ampia copertura fa intendere che le anomalie nel disegno della testa (considerate impropriamente indizî d'incoerenza stilistica), sono il risultato di abile calcolo prospettico. Guance e orecchie rimanevano solo parzialmente visibili di scorcio per chi si fosse posto nella direzione dello sguardo del personaggio, e lo scultore le aveva enfatizzate perché, almeno da quel punto di vista, se ne potesse intuire la consistenza in un'illusiva anamorfosi.

Il riconoscimento del Melqart rinforza l'evidenza che la statua di M. sia l'immagine di culto originariamente innalzata nel tempio presso il quale è stata rinvenuta (Falsone, Garbini). Melqart si era affacciato alle coste della Sicilia fin dalla fase precoloniale delle esplorazioni fenicie, come mostra l'aggiornata lettura della statuetta del museo di Palermo, ripescata al largo di Selinunte (Falsone, 1993). A M., dove è stata segnalata una matrice fittile con Eracle e l'Idra, il mito ambienta espressamente un'impresa di Eracle, che coinvolgeva Motye (o Motya), ninfa eponima e divinità poliade, identificata nei tipi monetali (Saladino). Nel tofet dello stesso abitato è attestato un nome personale derivato da Melqart. In particolare la vitalità dei rapporti con i centri orientali d'origine è indiziata da un'altra monumentale scultura moziese (Falsone, 1970).

Sulla cronologia come sull'attribuzione dell'opera i pareri, ostacolati dall'incertezza esegetica, erano rimasti discordanti. Tra le datazioni proposte: c.a 480 (Precopi Lombardo); 480-460 (Tusa); 477-470 (Canciani); 470 (La Rocca, Knigge); 460 (Isler); 475-450 (Picard, Stewart); 450 (Rizza, Falsone, Boardman); 450-440 (Fuchs, Ostby); 440 (Lagona, Kyrieleis, Sismondo Ridgway); 440-430 (Dontas, Caputo, Fuchs); 400 (Arias, Di Vita); tardo ellenismo (Zancani Montuoro). Per l'attribuzione si spazia dall'ambiente greco orientale (Di Vita, Boardman), all'Attica (Canciani), all'Italia meridionale (Ortiz, Polacco, Schröder) con spiccato riferimento a Pitagora di Reggio, originario di Samo, che tuttavia è noto solo come bronzista (Frei, Rizza, Servais-Soyez, Knigge), alla Sicilia ellenica (Lagona, Dontas, Spigo, Bisi, Dörig, Ostby, La Rocca, Falsone, Guzzo, La Lomia, Precopi Lombardo, Yalouris), fino all'ipotesi di un greco-punico (Di Vita) o di un punico (Tamburello).

Liberato il capolavoro dall'ipoteca del preteso arcaismo nel modellato delle orecchie, l'ambiguità stilistica si dissolve. Come motivi finali dello stile severo rimangono lo stilema del ginocchio e l'inturgidirsi delle vene all'attaccatura delle braccia, mentre l'esperimento più recente è il chiasmo, indipendente ma non per questo lontano nel tempo dalla ricerca policletea. Un artista di formazione ionica, attivo in Sicilia attorno alla metà del V sec., ha riproposto per il santuario di M. la radicata identificazione di Eracle col dio di Tiro. Di poco anteriori sono le metope del tempio È di Selinunte: in quella con Eracle che combatte l'Amazzone, l'eroe ha lasciato scivolare il muso della leontea dietro il capo scoprendo la medesima pettinatura a riccioli del dio di M. (P. Devambez, in LIMC, I, 1981, p. 593, n. 96, tav. CDLII, s.v. Amazones); nella lastra con Atena ed Encelado (F. Vian, in LIMC, IV, 1988, p. 200, n. 15, tav. CXI, s.v. Gigantes), la dea ha l'orlo inferiore del chitone animato dalle sovrapposizioni che preludono all'intrico dei lembi nella tunica del Melqart, opera della maturità dello stesso maestro.

Bibl.: G. Falsone, I nuovi scavi dì Mozia, in BCASic, I, 1980, pp. 100-103; G. Falsone, F. Spatafora, A. Giammellaro Spanò, M. L. Fama, Gli scavi della zona Κ di Mozia ed il caso stratigrafico del locus 5615, in Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-1981, pp. 877-930, in part. 881-881, tav. ccxxxix; V. Tusa, La Statua di Mozia, in PP, XXXVIII. 1983, pp. 445-456; P. Zancani Montuoro, Hentochos, ibid., XXXIX, 1984, pp. 221-229; J. Frei, L'Auriga di Mozia: un'opera di Pitagora di Reggio, ibid., XL, 1985, pp. 64-68; Β. Holtzmann, in RA, 1985, pp. 305-310, fig. 1; E. La Rocca, Il Giovane di Mozia come auriga. Una testimonianza a favore, in PP, XL, 1985, pp. 452-463; G. Rizza, in Sikanie, Milano 1985, pp. 227-228, fig. 239-242; A. Spanò Giammellaro, Eine Marmorstatue aus Mozia, in A W, XVI, 1985, pp. 16-22; E. Paribeni, Di alcuni chiarimenti e di un quiz non risolto, in NumAntCl, XV, 1986, pp. 43-59; V. Tusa, Il Giovane di Mozia, in H. Kyrieleis (ed.), Archaische und klassische griechische Plastik, I, Magonza 1985, pp. 1-10; id., Il Giovane di Mozia, in RStFen, XIV, 1986, pp. 143-152; S. Stucchi, La statua marmorea di Mozia e il viaggio aereo di Dedalo, in RendPontAcc, LIX, 1986-87, pp. 3-61; G. Falsone, La statue de Motyé. Aurige ou prêtre de Melqart?, in J. Servais (ed.), Stemmata. Mélanges offerts à J. Labarbe, Liegi 1987, pp. 407-427; A. Giuliano, Arte greca, II, Milano 1987, p. 670; P. G. Guzzo, Ipotesi di lettura di una statua di Mozia, in Prospettiva, 50, 1987, pp. 36-41; J. Bonnet, Melqart. Cultes et mythes de l'Héraklès tyrien en Méditerranée (Studia Phoenicia, 8), Lovanio 1988; G. Garbini, Pensieri sul Giovane di Mozia, in SicA, XXI, 1988, pp. Roma 1988 (in part.: G. Falsone, La scoperta, lo scavo e il contesto archeologico, pp. 9-24; id., La Statua. Scheda tecnica, pp. 25-28; R. Alaimo, M. Carapezza, Il marmo, pp. 29-37; A. Di Vita, La Statua di Mozia, pp. 39-52; V. Tusa, Il Giovane di Mozia, pp. 53-60; G. Dontas, Un'opera siceliota, l'Auriga di Mozia, pp. 61-68; A. M. Bisi, La Statua di Mozia nel quadro della scultura fenicio-punica di ispirazione greca, pp. 69-78; W. Fuchs, La Statua marmorea di Mozia, pp. 79-81; S. Stucchi, La Statua marmorea trovata a Mozia: per una nuova lettura del monumento, pp. 83-96. Si vedano inoltre gli interventi di G. Ch. Picard, pp. 99-102; P. G. Guzzo, pp. 103-105; G. Oritz, pp. 107-108; L. Polacco, pp. 109-110; S. Lagona, p. 11; J. Frei, pp. 113-115; G. Caputo, pp. 117-118; U. Spigo, pp. 119-121; I. Tamburello, pp. 123-126; B. Servais-Soyez, pp. 127-130; M. Caltabiano, pp. 131-132; G. Rizza, p. 133; P. Moreno, pp. 135-137; H. P. Isler, pp. 139-140; P. E. Arias, pp. 143-148); V. Tusa, La Statua di Mozia, in SicA, XXI, 1988, 66-68, pp. 15-22; A. Precopi Lombardo, Rappresenta «Gelone disarmato» la Statua di Mozia?, ibid., XXII, 1989, 71, pp. 73-80; S. Stucchi, Né mimo né musico il personaggio della statua di Mozia, in ArchCl, XLI, 1989, pp. 391-396; M. R. La Lomia, A. Spanò Giammellaro, in Lo stile severo in Sicilia. Dall'apogeo della tirannide alla prima democrazia (cat.), Palermo 1990, pp. 232-233; A. Spanò Giammellaro, La statua marmorea di Mozia. Un aggiornamento della questione, in SicA, XXIII, 1990, 72, pp. 19-37; A. Stewart, Greek Sculpture, New Haven 1990, p. 148, figg. 297-298; Ν. Yalouris, Ancora sulla statua di Mozia, in PP, XLV, 1990, pp. 452-467; F. Canciani, Ipotesi sulla statua di Mozia, in Kotinos. Festschrift für E. Simon, Magonza 1992, pp. 172-174; V. Saladino, in LIMC, VI, 1992, p. 655, s.v. Motya; J. Boardman, The Oxford History of Classical Art, Oxford 1993, p. 99, n. 88; Ν. Bode, Die Statue von Mozia: Hamilkar als Heros, in AntK, XXXVI, 1993, pp. 103-110.

Statua dello Stagnone: G. Falsone, La statua fenicio-cipriota dello Stagnone, in SicA, III, 1970, 10, p. 54 ss. - Statuetta ripescata al largo di Selinunte: G. Falsone, Sulla cronologia del bronzo fenicio di Sciacca alla luce delle nuove scoperte di Huelva e Cadice, in Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di V. Tusa, cit., pp. 45-56, tavv. XIII e XIV, 1-2.

(P. Moreno)