Movimenti alternativi

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

Movimenti alternativi

Silvia Moretti

Dalla parte dell’ambiente e dei più deboli

Dalla fine degli anni Sessanta del 20° secolo si sono diffusi nella società civile – in particolare nel mondo giovanile – alcuni movimenti di protesta che ormai hanno una rilevanza mondiale. Questi movimenti, diversi tra loro e senza una rigida organizzazione centrale, si battono per la difesa della salute e degli equilibri ecologici del Pianeta, per tutelare i diritti degli animali, contro la globalizzazione e per costruire una rete sempre più vasta di commercio solidale con i paesi poveri del mondo

Contro il degrado ambientale

Nelle società industrializzate in cui viviamo, gli uomini intervengono pesantemente sull’ambiente che li circonda costruendo città, sradicando foreste e immettendo sostanze dannose e inquinanti nell’acqua, nell’aria e nel suolo. Il degrado ambientale (ambiente) interessa ormai tutti i paesi ricchi dell’Occidente, quelli in via di impetuoso sviluppo (come la Cina) e persino i paesi poveri.

I movimenti ecologisti (dal greco òikos «casa») conducono le loro battaglie in difesa dell’ambiente e della salute e si battono per la penalizzazione delle emissioni di gas inquinanti, per il riciclaggio dei rifiuti e la tassazione ecologica, per l’utilizzo di fonti di energia pulite (come l’energia solare), per eliminare il traffico privato dai centri storici e per la produzione di veicoli non inquinanti. Dalle loro battaglie storiche sono anche nati i partiti politici dei Verdi, diffusi in tutta l’Europa e presenti al governo in alcuni paesi (per esempio, in Germania).

In difesa di chi non può parlare

Nel corso dei secoli gli scienziati hanno fatto spesso ricorso alla sperimentazione sugli animali, vivi o morti, per verificare gli effetti di determinati medicinali, per studiare il funzionamento degli organi interni o semplicemente per fare pratica. Per molto tempo il dolore inflitto agli animali da laboratorio (cani, gatti, scimmie, ratti, piccoli uccelli, e così via), non veniva nemmeno preso in considerazione.

Nel 1876 in Gran Bretagna veniva emanata la prima legge che obbligava i ricercatori a evitare le forme inutilmente cruente o dolorose della sperimentazione. Un po’ alla volta tutti i paesi hanno accettato un principio fondamentale: limitare l’esecuzione di esperimenti sugli animali a quelle situazioni che non lasciano alternativa. E questo anche grazie alle battaglie degli animalisti contro la vivisezione, ossia il taglio o l’amputazione del corpo vivo delle cavie. Ai nostri giorni esistono protocolli internazionali secondo i quali gli esperimenti devono essere il meno dolorosi possibile, deve venire praticata l’anestesia e gli animali devono essere adeguatamente nutriti e curati. Ma non sempre queste regole vengono rispettate e le associazioni animaliste condannano questa sperimentazione con l’appoggio di una larga parte della comunità scientifica, sostenendo la sua scarsa utilità.

Le associazioni animaliste si sono mobilitate anche contro l’uccisione di animali, spesso cuccioli, per produrre costosi capi d’abbigliamento (pellicce, borse, cinte, scarpe).

Dubbi sulla globalizzazione

Ai nostri giorni l’integrazione economica, sociale e culturale tra aree diversissime del Pianeta è molto avanzata. È il fenomeno della globalizzazione, che tra i suoi aspetti più rilevanti annovera la delocalizzazione della produzione, ossia lo spostamento della produzione dei beni in paesi dove il costo del lavoro è più basso, le grandi imprese hanno facilitazioni di vario genere e le leggi sul lavoro sono meno severe.

Questa libera circolazione di merci e capitali, aiutata dal grandioso sviluppo delle comunicazioni e dell’informatica, ha visto rafforzarsi sempre più il potere delle grandi società industriali e in particolare delle cosiddette multinazionali, la cui diffusione in molti paesi rende difficile il controllo da parte dei singoli Stati. Secondo alcuni ciò ha determinato la persistenza, o addirittura l’aggravamento, degli squilibri tra paesi ricchi e paesi poveri: intorno a questi temi si sono sviluppati nel corso degli anni Novanta diversi punti di vista critici nei confronti del processo di globalizzazione.

Il popolo di Seattle: I no global

Nel 1999 a Seattle, negli Stati Uniti, in occasione della terza conferenza mondiale dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, World trade organization), si verificarono le prime imponenti manifestazioni di piazza contro la globalizzazione. La protesta giovanile e di una parte della società civile internazionale raccoglieva adesioni in molte parti del mondo, anche trale più importanti associazioni indios e contadinedell’America meridionale.

In larga parte pacifisti, non violenti e ambientalisti (a parte alcune frange violente ed estremiste), i no global si battono contro le nuove forme di sfruttamento del lavoro, soprattutto minorile, per la difesa dei contadini e dei piccoli produttori agricoli dal potere delle grandi multinazionali, per la valorizzazione dei prodotti locali contro la produzione alimentare standardizzata, e per lo sviluppo dell’agricoltura biologica. Il movimento si batte anche per l’annullamento del debito estero dei paesi poveri che strangola le economie di questi Stati impedendone lo sviluppo.

La schiavitù dei nostri tempi

Da quando esistono gli esseri umani esiste anche il commercio, lo scambio di beni attraverso il quale individui appartenenti a mondi tra loro diversissimi imparano a comunicare, stabiliscono relazioni amichevoli e intraprendono viaggi impegnativi. Ma il commercio non vuol dire solo progresso, amicizia e cultura; al contrario può spingere chi è più forte e più ricco ad approfittarsi di chi è più debole. In passato, come ai nostri giorni, queste forme di sfruttamento sono sempre state molto diffuse. Sembra impossibile ma ancora oggi esistono forme di schiavitù: uomini, donne e bambini che lavorano in condizioni terribili, per moltissime ore al giorno senza una pausa, senza alcuna tutela della salute e per pochissimi spiccioli. Ma esistono anche altre forme di abuso operate dai paesi ricchi e dalle multinazionali nei paesi poveri del Pianeta, in Africa, Asia e America latina, come lo sfruttamento della manodopera e l’indiscriminata rapina delle materie prime di cui questi paesi sono ricchi.

Attenzione alla spesa

Il Commercio equo e solidale è una forma di scambio tra paesi ricchi e paesi più poveri molto diversa da quella tradizionale, fondata esclusivamente sul raggiungimento del massimo profitto. Questa realtà commerciale alternativa è nata nel Nord Europa negli anni Sessanta e conta ormai nel mondo molte migliaia di negozi dove è possibile acquistare cibi od oggetti prodotti secondo alcuni principi che tutelano sia i produttori delle merci, contadini e artigiani, sia i consumatori che vengono informati sulla qualità di ciò che acquistano e di dove vanno a finire i soldi che spendono. I lavoratori che sono inseriti nella rete del Commercio equo e solidale sono garantiti nei loro diritti, operano in un ambiente di lavoro salubre e ricevono un giusto stipendio; è bandito lo sfruttamento del lavoro minorile; viene favorita l’agricoltura biologica e tutte le lavorazioni non inquinanti; infine, fatto molto importante, si cerca di favorire e sostenere lo sviluppo autonomo e autogestito dei produttori locali.

Un pianeta di cloni

Nel 2000 una giovane giornalista canadese, Naomi Klein, pubblicava un libro intitolato No Logo destinato a un grande successo tra le fila del movimento anti-globalizzazione. Nel suo libro Klein denunciava la nostra schiavitù dai marchi: aziende di abbigliamento sportivo o per il tempo libero, catene di fast-food e di rivendita di DVD.

Scriveva Klein che «le multinazionali del marchio possono anche parlare la lingua della diversità, ma il risultato tangibile delle loro azioni è un esercito di teenager clonati che – usando le parole degli esperti di marketing – marciano in ‘uniforme’ per i corridoi del centro commerciale globale».

Per non dimenticare Iqbal

«Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite». Così parlava Iqbal Masih, un bambino pakistano di 12 anni nato nel 1983 e venduto come schiavo a soli quattro anni da suo padre a un fabbricante di tappeti. Dopo anni terribili di lavoro, incatenato a un telaio per oltre dodici ore al giorno, Iqbal scappa insieme ad altri bambini e nel giro di poco tempo diventa il simbolo e il portavoce nel mondo dei milioni di bambini sfruttati. Ma la sua libertà dura poco: il 16 aprile 1995 viene assassinato con un colpo di fucile. I suoi killer molto probabilmente erano legati alla mafia pakistana dei tappeti.

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