MONOPOLIO

Enciclopedia Italiana (1934)

MONOPOLIO

Gino BORGATTA
Aristide CALDERlNl
Gino LUZZATTO
Luigi RAGGI

. Economia. - Nel linguaggio economico originariamente servì a indicare la vendita di un bene economico a un complesso di compratori da parte di un unico individuo o ente, avente così possibilità d'imporre prezzi più alti di quelli che si deterrninerebbero in regime di concorrenza. La situazione di monopolio fu perciò considerata nelle dottrine economiche come l'antitesi della libera concorrenza. Essa costituisce effettivamente un'astrazione o ipotesi, che enuncia determinate condizioni in rapporto alle quali si studia l'attività di scambio, produzione, distribuzione e, più in generale, di equilibrio. Quest'ipotesi serve a spiegare i fenomeni economici concreti in quanto le condizioni in essa enunciate si verifichino, in tutto o in parte, combinate con altre. Nella più recente letteratura economica essa non viene più riferita soltanto alla vendita, ma anche all'acquisto, ai rapporti fra categorie organizzate di datori e prestatori di lavoro, alla capitalizzazione, alla struttura stessa dello stato (stato socialista); il caso di un unico venditore di un bene economico di fronte a un complesso di compratori che operano in gara fra loro, non legati da accordi, cercando soltanto di soddisfare alle più favorevoli condizioni possibili i loro bisogni, costituisce una, per quanto tipica, delle tante configurazioni di monopolio.

La situazione di monopolio può aversi per una delle due parti che si trovano in determinati rapporti economici; oppure per ambedue o, in genere, per tutte le persone in rapporti reciproci di scambio o altro. Le condizioni che caratterizzano la prima ipotesi sono le seguenti: 1. fissità del numero delle persone (fisiche o giuridiche, imprese, enti che offrono o richiedono un bene economico, in funzione del prezzo di vendita: il caso più noto e comunemente trattato è quello di un'unica impresa o complesso d'imprese o individui legati fra loro da accordi); 2. volontà e possibilità di modificare artificialmente le condizioni del mercato per raggiungere determinati scopi economici (massimo di ofelimità, massima differenza fra le somme ottenute dalla vendita e il complesso delle spese di produzione, massimo di utilità collettiva). Le due condizioni sono connesse, la seconda presupponendo la prima. Esse si verificano nel caso classico considerato dal Cournot e, sulle sue tracce, da molti economisti. Unico offerente di un prodotto può essere una impresa o, più frequentemente, un complesso d'imprese sindacate fra loro per regolare la produzione, l'offerta, i prezzi; oppure un ente pubblico (stato, comune), che si trova in condizioni particolarmente favorevoli per escludere altri concorrenti in quanto fa intervenire a tal fine l'imperio della legge. Quando il monopolista si propone lo scopo di ottenere la maggior differenza possibile fra il complesso degl'introiti e quello delle spese di produzione (che è il fine delle imprese private o pubbliche quando il monopolio è puramente fiscale), può raggiungerlo seguendo due procedimenti: a) la manovra dei prezzi, lasciando che il mercato acquisti la quantità che trova conveniente domandare al prezzo fissato dal monopolista, e a questa adeguando la produzione; b) la manovra dell'offerta, lasciando che il prezzo si determini in base alla curva collettiva di domanda. Non può imporre ambedue le condizioni: ciò può fare solo lo stato, servendosi del potere sovrano, per i servizî indivisibili per i quali determina contemporaneamente la quantità fornita alla collettività e i prezzi, sotto forma d'imposte. Quando il monopolista che agisce per fini economici cerca di raggiungerli imponendo un unico prezzo, deve tener conto (in pratica, cercare di conoscere con la maggior approssimazione possibile) delle quantità che il mercato è disposto ad acquistare ai varî prezzi, e dell'andamento delle spese complessive di produzione, e perciò del costo unitario che può variare o anche rimanere costante col variare della quantità prodotta e venduta: note queste condizioni, fisserà il prezzo al punto ("punto di Cournot") che rende massima la differenza netta fra introiti e spese (utile netto globale). Il prezzo di massimo utile netto per il monopolista potrà stabilirsi in posizioni differentissime, nelle zone medie, alte o basse dei prezzi compresi nella curva collettiva di domanda, a seconda dell'andamento di questa e della sua forma prevalentemente rigida (quando la quantità acquistata poco o nulla si modifica col variare dei prezzi) o elastica, e a seconda dei costi di produzione. Nella tabella alla pagina seguente si espongono alcuni casi tipici, in relazione ai prezzi indicati nella colonna 1 decrescenti da 10 a 1; considerando dapprima l'ipotesi di una domanda elastica (col. 2) e di un costo unitario costante nella misura di 1 unità: l'utile lordo si ottiene moltiplicando ciascun prezzo per la rispettiva quantità venduta (col. 3); l'utile netto, sottraendo dall'incasso lordo la spesa totale di produzione ottenuta moltiplicando il costo unitario per la quantità prodotta e venduta a ogni prezzo (col. 4). Successivamente si considerano le ipotesi di una domanda relativamente rigida (col. 5) e costi costanti nella misura di 1 per unità; di costi unitarî decrescenti (col. 7) e domanda elastica nella forma indicata nella colonna 2; di costi unitarî crescenti (col. 9) e domanda elastica (col. 2). Sarà in ciascuna ipotesi scelto dal monopolista il prezzo che assicura il massimo utile netto globale (in corsivo nelle colonne 4, 6, 8, 10).

Ogni monopolista in pratica tende a risolvere il problema secondo questa legge, cercando, con una serie di tentativi, di avvicinarsi al prezzo che assicura il massimo introito netto globale. Tale soluzione, essendo analoga a quella di libera concorrenza (prezzo unico), comporta il godimento di più o meno cospicue "rendite del consumatore" per le classi di acquirenti disposte a pagare prezzi superiori a quello fissato dal monopolista; e una restrizione della produzione tanto più accentuata quanto più la domanda collettiva si avvicina alla forma rigida e il costo unitario è crescente in funzione della quantità. Non si può a priori affermare se il prezzo di monopolio sarà inferiore o superiore a quello di concorrenza, poiché l'unificazione delle imprese in un unico organismo può apportare notevoli variazioni nell'andamento delle spese totali di produzione e nei costi unitarî e marginali.

La seconda via che si apre al monopolista è quella della manovra della quantità, in modo da differenziare i prezzi per unità di prodotto identiche o il cui costo presenta differenze minime, molto inferiori a quelle dei prezzi. Riprendendo il caso esemplificato nelle prime 4 colonne della tabella, il monopolista, anziché imporre il prezzo unico di 6 per 50 unità, può incominciare a mettere in vendita 10 unità, lasciando che i consumatori se le disputino: se la concorrenza fra gli acquirenti è perfetta, il prezzo si stabilirà al livello 10; il monopolista ha un introito netto di 90 (100, meno 10 di spese di produzione). Successivamente mette in vendita altre 10 unità; supponendo che, soddisfatto il gruppo più ricco, nel mercato vi siano acquirenti disposti a pagare per questa nuova quantità il prezzo 9, il monopolista ha un introito netto di altre 80. E così via per ogni gruppo di consumatori, fino alle ultime 10 unita vendute al prezzo 2 (introito netto 10). Risultato di questo procedimento sarebbe un aumento delle quantità prodotte e vendute, e del profitto netto globale, mediante l'assorbimento, da parte del monopolista, delle "rendite dei consumatori" del mercato. In pratica la discriminazione dei prezzi risulta più limitata e grossolana e l'assorbimento delle rendite del consumatore solo parziale. Essa inoltre viene spesso ottenuta, oltreché mediante il controllo delle offerte, con il concorso di altre condizioni: differenziazione formale, poco costosa per il monopolista, delle qualità delle unità vendute a prezzi diversi (esempio: la diversità di costo per l'amministrazione dei monopolî di stato di una sigaretta italiana marca "popolare" e di un'"Eva" è molto inferiore alla diversità dei prezzi di smercio al minuto); vendita in mercati esteri a prezzi inferiori a quelli cui il prodotto è ceduto nel mercato nazionale (valendosi dei dazî protettivi applicati da quest'ultimo). La convenienza ad applicare questi procedimenti risulterà in concreto sempre dalle quantità che possono essere vendute, date le condizioni della domanda da parte delle varie categorie di acquirenti, e dalla spesa globale che il monopolista deve sopportare per ottenere le varie quantità e qualità vendute.

Uno dei problemi più importanti trattati in relazione a questa ipotesi è quello degli effetti di un'imposta, applicata sotto forma di: a) una somma costante per ogni unità venduta (essa aumenta corrispondentemente i costi unitarî, marginali e globali: il prezzo di massimo utile potrà risultarne modificato o immutato, secondo l'andamento della spesa totale di produzione e della domanda: salvo eccezioni, l'utile netto risulterà per effetto dell'imposta, inferiore); b) una somma fissa, qualunque sia l'utile realizzato (il prezzo fissato dal monopolista prima dell'imposta non viene modificato; diminuisce il profitto globale; il tributo ricade sul monopolista); c) un'imposta proporzionale, cioè una percentuale costante del reddito netto (il prezzo fissato dal monopolista prima dell'imposta non viene modificato: il tributo incide sul profitto; può verificarsi l'ammortamento dell'imposta in caso di cessione dell'impresa monopolizzata); d) un'imposta progressiva in funzione del reddito netto globale (il monopolista ha convenienza a modificare il prezzo, aumentandolo se il prodotto è a costi unitarî crescenti). Questi effetti sono subordinati all'ipotesi che l'imposta non modifichi la curva di domanda collettiva, come invece in realtà spesso avviene.

L'ipotesi di due (o più) monopolisti ha dato luogo a eleganti discussioni teoriche. A. Cournot aveva affermato che nell'ipotesi di due monopolisti (supposte le spese di produzione uguali a zero, oppure costi per ciascuno eguali) l'equilibrio è determinato, con quantità vendute eguali per i due produttori. Obiettarono il Bertrand, e, più diffusamente, F.Y. Edgeworth, che in tal caso l'equilibrio è indeterminato, salvo l'ipotesi di un accordo fra i due (corrispondente a quella di un unico monopolista), in quanto ognuno tenta di vincere l'altro riducendo temporaneamente il prezzo e poi riaumentandolo quando questi abbia ridotto la quantità prodotta; il prezzo può mutare indefinitamente; la soluzione dipenderà volta per volta dall'abilità, forza e resistenza nella lotta di ciascun monopolista. Per contro V. Pareto rilevò che il problema è iperdeterminato, nelle equazioni dell'equilibrio, avendosi in questo caso tre equazioni e due incognite (le quantità prodotte da ciascun monopolista considerate come variabili indipendenti): il problema non ammette soluzioni. L. Amoroso ha però osservato che la critica del Pareto è esatta in quanto significhi che ciascuno non può imporre all'altro la sua volontà (interesse) e nello stesso tempo subire la volontà dell'altro; il problema è determinato, ossia è possibile un prezzo di equilibrio stabile se ogni monopolista nella sfera della propria competenza cerca di ottenere il massimo utile netto compatibile con le condizioni del mercato.

Il trattamento più generale dell'ipotesi di monopolio è stato dato nel manuale di V. Pareto considerando le condizioni di equilibrio fra gusti e ostacoli: l'equilibrio ha luogo nel punto più vantaggioso per il monopolista, che sarà scelto fra i punti d'intersezione delle linee comuni di baratto con le curve d'equilibrio dei soggetti operanti in regime di concorrenza.

Ad altre sottili considerazioni ha dato luogo il problema del monopolio bilaterale (baratto fra due individui o gruppi, ciascuno dei quali è solo a disporre del bene domandato anche dall'altro), cui può ricondursi (limitatamente al prezzo o rapporto di scambio) quello dei rapporti fra un'associazione coalizzata di datori e una di prestatori di lavoro. L'equilibrio si stabilisce in una "zona di contratto" delimitata dalle ragioni di scambio più favorevoli all'uno e all'altro contraente: la soluzione dipenderà dalle circostanze concrete che potranno far scegliere il punto di eguale somma d'ofelimità per ciascuna, o nel punto di massima ofelimità per ambedue o nel punto in cui sono eguali gli svantaggi relativi risentiti dai due contraenti rispetto alla situazione di massimo vantaggio (assoluto) individuale.

L'evoluzione dell'industria moderna ha portato ad applicazioni sempre più larghe di talune delle condizioni enunciate dalla teoria, con la formazione di sindacati e altre organizzazioni fra offerenti, dirette a regolare le quantità prodotte e offerte e i prezzi di vendita e a ridurre i costi di produzione che si sono sviluppati dapprima nei paesi a più forte concentrazione capitalistica (Stati Uniti, Germania, Inghilterra). In esse lo scopo di raggiungere una condizione di monopolio si combina generalmente con altri; e raramente il monopolio è perfetto. Forme originarie furono, negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, i trusts (organizzazione di più imprese che fondono la loro individualità economica in unica gestione); nell'Europa continentale, accordi (cartelli e sindacati) diretti soprattutto a regolare l'offerta e i prezzi. Ma dalla fine del secolo XIX, più intensamente dopo la guerra mondiale, si svilupparono forme più complesse e molteplici di combinazioni e concentrazioni d'imprese e di aziende, sia orizzontali (abbraccianti imprese producenti beni d'identica natura, appartenenti allo stesso stadio del processo produttivo), sia verticali (riguardanti stadî diversi del processo, diversi beni o attività), nelle quali il legame fra le imprese assume numerose forme (fusioni, partecipazioni, accordi, identità degli amministratori o consiglieri delegati, ecc.) e diversa durata ed estensione (regionale, nazionale, internazionale). Fra le altre caratteristiche più comuni alle varie forme di sindacati è sempre lo scopo di limitare la concorrenza.

Bibl.: A. Cournot, Recherches sur les principes de la théorie de la richesse, Parigi 1838; trad. in Biblioteca dell'Economista, s. 3ª, II; F.Y. Edgeworth, Mathematical psychis, Londra 1881; id., La teoria pura del monopolio, in Giornale degli economisti, 1897; id., Monopoly (3 saggi nel I dei Papers relating to political economy, Londra 1925); R. Ely, Monopoli e sindacati industriali (Trusts), trad. it. di P. Conte, Torino 1902; C. Cassola, I sindacati industriali, Bari 1905; A. G. Pigou, Principles and methods of industrial peace, Londra 1905; A. Loria, Marshall and Edgeworth on value, in Economic Journal, 1906; P. Jannaccone, Questioni controverse nella teoria del baratto, in Riforma sociale, 1907; V. Pareto, Manuel d'économie politique, Parigi 1909; L. Amoroso, La teoria matematica del monopolio trattata geometricamente, in Giornale degli economisti, 1911; id., Lezioni di economia matematica, Bologna 1921; id., La curva statica di offerta, in Giornale degli economisti, 1930; A. Marshall, Industry and Trade, Londra 1919; id., Principles of economics, ivi 1922; E. Barone, Principii di economia politica, Roma 1920; R. Liefmann, Die Unternehmungen und ihre Zusammenschlüsse, I, Stoccarda 1927; F. Vito, I sindacati industriali, Milano 1930.

Storia.

Antichità. - I cosiddetti monopolî legali, cioè gli ostacoli posti alla concorrenza dalla legislazione e dall'autorità del governo, e specialmente le industrie e i commerci dello stato o vincolati dallo stato, hanno avuto varie fortune nell'antichità greca e romana.

In Grecia i monopolî di stato prima dell'età ellenistica pare che abbiano la caratteristica di essere rari e poco durevoli; in generale si tratta di provvedimenti invocati in momenti di difficoltà economiche per procurare denaro alle casse dello stato, e messi in rapporto con i doveri degli uomini di stato di sorvegliare e regolare i mercati e i movimenti delle merci nella importazione e nella esportazione. Caratteristico il caso di Selimbria che in una particolare circostanza, incamerò tutte le provviste di frumento, eccezione fatta di quella occorrente a ciascuno per un anno, e poi le vendette a un prezzo più elevato permettendone l'esportazione, che era stata prima vietata. E caratteristica è anche la proposta fatta da Pitocle ad Atene e combattuta da Demostene, che lo stato avocasse a sé il monopolio del piombo delle miniere del Laurio per vendere poi il prodotto a prezzi maggiori; si aggiungano i casi che vengono citati per Bisanzio e per Olbia in cui le rispettive città concentrarono durante una crisi monetaria il monopolio bancario nelle mani di una sola banca a esclusione di ogni altra. Spesso le città greche libere si limitarono a vietare l'esportazione di taluni prodotti, per esempio, il frumento e l'olio o il materiale da costruzione per le navi, come fece, fra le altre, Atene. Talora anche qualche città attua una sorta di monopolio indiretto riservando ai suoi mercanti l'esclusività della vendita in talune città amiche o sottomesse. I tiranni pare ricorressero più frequentemente, per la natura stessa del loro governo, in cui prevaleva in sostanza il vantaggio economico del capo, ai monopolî; così si cita il caso di Talete di Mileto che, avendo previsto un abbondante raccolto di ulive, prese in affitto tutti i pressoi di ulive di Mileto e di Chio e venuto poi il momento della torchiatura, li subaffittò ai coltivatori ai prezzi che credette utili ai suoi fini. Sarà anche da ricordare per Cirene il monopolio del silfio, praticato certamente da antichissimi tempi e conservato fino all'età ellenistica e romana.

Nell'età ellenistica le condizioni particolari di concorrenza e di opposizione tra stato e stato, tra quelli sorti dall'impero di Alessandro, e il carattere stesso della regalità in parecchi di questi regni, creano l'ambiente favorevole allo sviluppo dei monopolî, tutto a vantaggio dei sovrani; alcuni di questi monopolî del resto trovano precedenti in istituzioni locali preelleniche. Il paese, di cui conosciamo meglio finora l'organizzazione dei monopolî, è l'Egitto, sia nell'età greca sia in quella romana e bizantina.

I monopolî praticati nell'Egitto tolemaico sono di varia natura subiscono modificazioni nel passaggio da sovrano a sovrano, sono anche conosciuti in modo ineguale da noi. Alcuni sono assoluti, altri si limitano al controllo e all'accaparramento della produzione e all'esclusività della vendita, altri ancora lasciano un certo campo aperto alla libera concorrenza, altri infine consistono soltanto in un controllo della produzione e della vendita. Fra tutti i monopolî d'Egitto quello che conosciamo meglio per l'età tolemaica è il monopolio dell'olio: un papiro proveniente dal Fayyūm, del 259-258 a. C., ne fissa le norme più minuziose e più esatte: dalla determinazione dei terreni che dovranno essere seminati per ciascuna qualità di piante oleaginose e dall'indicazione del prezzo al quale dovrà essere venduto il prodotto agli agenti statali, all'organizzazione delle fabbriche governative per la confezione dell'olio, alle disposizioni per la vendita in ciascun villaggio, per il divieto dell'importazione, per le trasgressioni, ecc.; alcuni articoli riguardano anche privilegi concessi ai soli sacerdoti a deroga del monopolio stesso, ma con molte limitazioni. Il medesimo papiro ci dà informazioni sopra due altri monopolî, certamente tolemaici, quello delle banche e quello dei tessuti di lino (ὀϑόνια); il primo è un monopolio completo ed esclusivo, l'altro associato in parte con privilegi templari, ma in sostanza simile al primo e forse dopo i primi tempi in parte modificato.

Monopolî tolemaici, romani o bizantini d'Egitto sono pure documentati dai testi soprattutto dei papiri, senza che si possa talora essere certi se essi perdurarono durante tutte codeste epoche o solo furono limitati all'una o all'altra o comunque trasformati; citiamo alcuni dei principali: il sale, i profumi, la tintoria, le pelli, la birra, il nitro (utile fra l'altro per l'imbalsamazione dei cadaveri), il legname o talune sue qualità; il vino, i mattoni, le navi, la stoppa, la pesca, l'avorio, il lavoro delle miniere e delle cave, e, certamente nell'età romana, ma probabilmente anche prima, la fabbricazione della carta di papiro.

All'infuori dell'Egitto esercitano monopolî nell'età ellenistica i sovrani Seleucidi di Antiochia e gli Attalidi di Pergamo; miniere e cave, fabbricazione di mattoni e di tegole, confezione di pergamene e di vesti lamellate d'oro sono monopolio del sovrano, mentre in alcune città, come Mileto, conosciamo l'esistenza di fabbriche municipali di tessiture a favore del comune, e concessioni di monopolio sono pure riservate al Didimeo della città.

Per quanto riguarda l'Italia antichissima basterà ricordare che in tempi molto remoti l'iniziativa del commercio dovette spettare piuttosto a popoli più economicamente avanzati, quali i Cartaginesi e gli Etruschi, sicché Roma non ebbe né probabilità né forse intenti particolarmente commerciali, ma piuttosto politici e territoriali. Del resto la mancata introduzione della moneta in Roma fino al sec. IV mostra fra l'altro che essa era fuori dalla corrente del commercio mondiale; la coniazione poi della moneta può considerarsi come uno dei primi monopolî dello stato romano, monopolio che per altro non fu solo dello stato, ma fu ceduto anche a singole città dipendenti e subì variazioni e mutazioni durante i varî secoli della repubbliea e dell'impero a seconda anche dei singoli luoghi.

Nelle competizioni con le rivali e specialmente con Cartagine, si nota l'indifferenza di Roma nel riconoscersi privilegi di carattere commerciale, ancora nel sec. II a. C.; la mancanza di forti e agguerrite minoranze d'industriali e di commercianti più difficilmente spingeva Roma a imporre privilegi a suo vantaggio e a loro danno; d'altra parte non era neppure necessario che lo stato cercasse, come cercavano solitamente gli stati, di procurarsi con i monopolî un grande bilancio, perché esso aveva relativamente poche spese. Solo coi Gracchi comincia in Roma una politica commerciale e in seguito appaiono circostanze in cui lo stato si arroga il diritto di possesso di alcune fonti di ricchezza, come le miniere, ma cede il monopolio di vendita di varî generi a privati entro i limiti di un determinato territorio e contro il pagamento di forti somme da parte dei concessionarî. Non si può tuttavia asserire in generale che il regime economico della repubblica romana fosse favorevole ai monopolî; e sfavorevole ad essi pare che in complesso si debba giudicare anche Augusto; inveee verso la seconda metà del sec. I di Cristo e segnatamente nell'età di Vespasiano pare di notare un più deciso orientamento dello stato romano verso il regime monopolistico, che si rallenta ancora nel sec. II, per riprendere più vigoroso dal sec. IV in poi.

Abbiamo notizie più particolari circa alcuni monopolî romani; il sale, già monopolizzato in Egitto, a Bisanzio, in Siria e forse ad Atene, a Roma secondo l'attestazione di Livio (II, 9, 6) sarebbe divenuto monopolio dello stato nel 508 a. C., ma poi varie vicende pare abbiano indotto lo stato romano ad abbandonarlo; sarebbe invece stato ripreso nelle età tarde dell'impero; il cinabro (minium) era pure monopolizzato, come appare dalle informazioni che abbiamo della più grande miniera di questo prodotto, a Sisapo nella Betica.

Nella Tabula metalli Vipascensis, del sec. I, è stabilito il monopolio non soltanto delle miniere, ma di molti dei servizî che interessano la vita degli addetti alla miniera, sicché sono monopolizzati i servizî dei pubblici banditori, dei calzolai, dei parrucchieri, dei bagni, dei fulloni, oltre che i servizî di quelli che lavorano il minerale estratto.

Monopolio è pure lo sfruttamento di parecchie altre miniere, per esempio del Narbonese, del Norico, della Betica, d'Egitto.

L'economia dell'impero romano si trasforma via via successivamente come è noto, in una serie di monopolî, devoluti in gran parte alle corporazioni d'arti e mestieri, in opposizione sempre più decisa col commercio libero e la libera speculazione contro i quali si rivolge soprattutto la costituzione di Leone l'Isaurico (Constit. Isaur. de monopoliis, 59), contro gli speculatori e gli accaparratori di merce al di fuori della compagine dello stato.

Medioevo ed età moderna. - Nel Medioevo il concetto di monopolio è strettamente collegato con quello della regalia, e i varî monopolî, di cui si hanno le memorie più antiche, hanno tutti, almeno fino al periodo del massimo sviluppo dell'economia cittadina, un carattere fiscale. Essi sono talvolta esercitati direttamente dallo stato; più spesso da privati, in virtù di un appalto o di una concessione statale. Fra questo tipo di monopolî, figura in prima linea quello della coniazione della moneta, che è considerato come una regalia (v. moneta), anche quando se ne comincia a concedere l'esercizio a vescovi o ad altri poteri locali. Al monopolio della zecca si vede talvolta connesso quello dell'acquisto dei metalli preziosi e in particolare dell'oro. Così, ad esempio, nell'Italia longobarda, i cercatori d'oro nelle sabbie dei fiumi della valle padana, erano obbligati a vendere tutto l'oro raccolto alla camera regia di Pavia a un prezzo prestabilito dallo stesso compratore. Di origine assai antica e di carattere fiscale è pure il monopolio del sale, che dapprima assume l'aspetto di un monopolio di produzione e di vendita, richiamandosi a una pretesa regalia delle saline; più tardi, dove specialmente il commercio del sale assume una tale estensione da non poter essere più alimentato (quando pure ci sono) dalle sole saline di proprietà statale, esso assume prevalentemente il carattere di un monopolio commerciale, che, in alcune città - per es. a Venezia -, è esercitato direttamente dallo stato, il quale compera tutto il sale che s'importa dai privati da qualunque provenienza, ne impone l'acquisto alle popolazioni soggette e lo vende agli stati o ai mercanti stranieri. In altre città, invece - come avviene a Genova, a Pisa, a Lucca -, il diritto di privativa nell'acquisto e nella vendita del sale è appaltato dallo stato a una società privata.

L'intervento dello stato, sia nell'approvvigionamento e nella distribuzione delle derrate alimentari, e in modo particolarissimo dei cereali, sia nella navigazione, più che da ragioni fiscali è determinato da ragioni sociali e politiche. Nel campo degli approvvigionamenti, solo in via eccezionale si arriva al vero monopolio commerciale; più spesso si adotta la forma di un commercio relativamente libero ma regolato dallo stato, il quale si riserva, in caso di bisogno, un diritto di prelazione o anche di esclusività negli acquisti finché abbia rifornito i suoi magazzini, destinati a far fronte ai bisogni militari e a quelli della popolazione cittadina in momenti di carestia.

Nel campo dei trasporti marittimi, mentre la regola è costituita dalla marina libera, si adotta il sistema della navigazione di stato per i servizî di linea di maggiore importanza commerciale e spesso anche politica, che devono essere esercitati, o per lo meno scortati, da navi da guerra. Per questi servizî lo stato fissa tutte le modalità del viaggio, fornisce le navi armate, e riscuote una parte rilevante dei noli, lasciandone il resto a quei privati che assumono l'appalto delle navi di stato per un singolo viaggio.

Alle prerogative del sovrano risalgono pure fino dall'alto Medioevo i monopolî o i privilegi di cui alcuni gruppi di privati organizzati e ufficialmente riconosciuti godono nella produzione, negli acquisti e nelle vendite in virtù appunto di una particolare concessione regia o imperiale. Come per le corporazioni bizantine del sec. IX-X, così - press'a poco nello stesso tempo - per alcuni gruppi di artigiani di Pavia o di Piacenza, il tributo pagato al fisco trova il corrispettivo nella concessione di un monopolio: i fabbricanti di sapone e i conciapelli di Pavia pagano un tributo annuo alla camera regia eo quod nullus alius saponem facere (o coria confectare) debeat in Papia. E anche i mercanti, sebbene in forma meno esplicita, ottengono un privilegio che equivale sostanzialmente a un monopolio, inquantoché, nei mercati ch'essi frequentano, si fa divieto ai mercanti stranieri di dissolvere eorum negotium antequam papienses negotiatores.

Col rapido crescere della richiesta di prodotti d'ogni genere, che si accompagna allo sviluppo della vita cittadina nel periodo delle crociate, e anche più nei secoli XIII e XIV, è quasi certo che questi diritti di monopolio dei piccoli gruppi di artigiani e negozianti privilegiati dovettero cadere, e che le corporazioni mercantili e artigiane dovettero sorgere senza il carattere dell'obbligatorietà e del monopolio. Ma le tendenze monopolistiche erano insite in questi istituti e si fecero strada dopo la fine del Trecento, finché trionfarono nei primi secoli dell'età moderna, quando nelle città la maggior parte dei rami del piccolo commercio e dell'artigianato sono dominati da gruppi di maestri, che difendono accanitamente - con l'aiuto delle autorità - il loro monopolio contro ogni estraneo, che tenti d'intaccarlo. Del resto non solo i maestri ma anche i più umili lavoratori riescono spesso a trasformare un vantaggio naturale in un vero e proprio monopolio di diritto: nei piccoli comuni delle valli alpine, p. es., i montanari esercitano legalmente il monopolio dei trasporti lungo le strade o i sentieri, che attraversano il territorio del loro comune.

Ma a questi monopolî, che sono tutti di carattere pubblico, anche se siano esercitati da privati, si vanno a poco a poco aggiungendo, specialmente nelle città in cui l'attività mercantile e lo spirito d'intrapresa sono più sviluppati, anche dei monopolî di carattere esclusivamente privato, che assumono alcuni degli aspetti caratteristici delle grandi concentrazioni capitalistiche dell'età nostra. Nel Duecento alcuni mercanti genovesi, concessionarî delle miniere di allume di Focea, riescono a eliminare la concorrenza dell'allume di altre provenienze, concentrandone nelle proprie mani tutto il commercio d'esportazione dal Levante verso i mercati industriali d'Italia e di Fiandra; come farà due secoli più tardi la casa de' Medici, concessionaria dell'allume di Tolfa, assicurandosi, mercé un accordo fra la S. Sede e il regno di Napoli, l'esportazione dell'allume dal Napoletano, e aggiungendo a questo anche l'allume di Volterra. Al principio del sec. XIV i mercanti veneziani che frequentano i mercati di Siria sono esortati dal governo stesso a stipulare degli accordi per evitare ogni concorrenza negli acquisti. Alla fine del Quattrocento la casa Fugger (v.) con alcuni suoi associati riesce ad assicurarsi il monopolio di tutto il rame che si produce nell'Europa centrale, e in questa posizione monopolistica, raggiunta in un periodo in cui il prezzo del rame si triplica in pochi anni, essa trova la fonte principale della sua immensa ricchezza.

Ma se i monopolî privati avevano potuto svilupparsi ampiamente, accanto ai monopolî fiscali, negli ultimi secoli del Medioevo, e particolarmente in quel periodo di rapido sviluppo capitalistico che va dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento, l'età dell'oro dei monopolî pubblici e privati coincide col periodo del pieno trionfo della politica mercantilistica, e cioè va dalla fine del Cinquecento fin verso la metà del Settecento.

Mentre, per le necessità sempre più urgenti delle finanze statali, si moltiplicano i monopolî fiscali, che si estendono a un numero sempre più vario di prodotti (oltre al sale, agli esplosivi, al tabacco, a molti prodotti chimici e così via), mentre le corporazioni artigiane sono riconosciute dovunque come istituti obbligatorî e monopolistici, si moltiplicano d'altra parte i monopolî privati, creati sempre da una concessione dello stato e considerati come il mezzo più efficace per stimolare l'espansione commerciale e coloniale e lo sviluppo di attività nuove nel campo dell'industria, dei trasporti e del credito. Per il commercio nei mari lontani, per la fondazione e lo sfruttamento delle colonie, al sistema delle imprese di stato si preferisce quello delle compagnie privilegiate, alle quali, in compenso dei forti rischi ch'esse affrontano, si assicura l'assoluto monopolio (per un certo periodo di tempo, prorogabile alla scadenza) entro la loro sfera di azione (v. compagnia, X, p. 990 segg.). Il sistema, di cui s'incontrano alcuni esempî, a Genova e nel Portogallo, già nell'ultimo secolo del Medioevo, e che nel Cinquecento trova una prima importantissima applicazione in Inghilterra nel privilegio concesso ai Merchant Adventurers per le esportazioni dei panni inglesi sul continente europeo, predomina per tutto il Seicento e per gran parte del Settecento nel grande commercio marittimo e nella quasi totalità delle imprese coloniali; e mentre in Olanda esso non dà vita che alle due grandi compagnie privilegiate delle Indie orientali e delle Indie occidentali, lasciandosi tutti gli altri campi dell'attività marinara completamente aperti alla libera iniziativa privata, in Inghilterra e anche più in Francia il numero delle compagnie si moltiplica, e si assegna a ciascuna di esse il monopolio entro un mare o sopra un tratto di costa determinati.

Nella Francia poi, a differenza dell'Olanda e della stessa Inghilterra, il sistema del monopolio privato, dal commercio marittimo e dalle colonie, si estende a tutti quei rami dell'industria di cui si voglia favorire l'introduzione o la trasformazione; e l'esempio francese è presto seguito in altri stati dell'Europa continentale, compresi gli stati italiani. Vi si moltiplicano infatti, specialmente al tempo del Colbert, le cosiddette "manifatture reali" che sorgono in virtù di uno speciale privilegio concesso dal re, e che, tra i varî favori, godono del diritto di privativa per il ramo d'industria da esse esercitato, entro un determinato territorio, che in certi casi si estende a tutto lo stato.

Questo sistema, che incoraggiò indubbiamente il sorgere della grande industria e stimolò l'iniziativa degl'inventori e dei progettisti, ciascuno dei quali domandava come corrispettivo del suo "segreto" la concessione di un monopolio più o meno limitato e temporaneo, finì a lungo andare col creare una situazione nettamente contraria allo scopo per cui era stato adottato.

Nella seconda metà del Settecento, quando s'inizia la cosiddetta rivoluzione industriale, essa trova in Inghilterra un terreno particolarmente favorevole, anche per il fatto che il sistema delle privative industriali non vi era mai stato accolto; in Francia, invece, come in molti stati del continente, la grande diffusione delle industrie privilegiate, avvezze ormai a sfruttare la loro posizione di monopolio, oppone per molti anni un ostacolo all'introduzione delle macchine e alla trasformazione tecnica ed economica dell'industria. Si comprende quindi come la propaganda liberistica abbia fatto oggetto dei suoi attacchi le industrie privilegiate non meno delle corporazioni artigiane. Si fa eccezione soltanto per le banche di emissione, per le quali anzi si segue il cammino inverso, per cui al sistema iniziale della libera concorrenza si tende sempre più a sostituire il sistema del monopolio, rigidamente controllato dagli organi dello stato.

Il trionfo del liberalismo economico, verso la metà del sec. XIX, se porta alla soppressione di molti dei monopolî privati, creati nell'età mercantilistica, non determina affatto l'abbandono totale del sistema dei monopolî. Non solo si mantengono e anzi si accrescono in moltissimi stati i monopolî fiscali, ma all'esercizio di una gran parte dei nuovi servizî pubblici (ferrovie, illuminazione, acquedotti) si provvede col sistema della concessione a società private in regime di monopolio. Infine il periodo che è stato detto del grande capitalismo o del supercapitalismo, che s'inizia dopo il 1890, ha visto sorgere e moltiplicarsi, non tanto nella vecchia culla della grande industria e del liberalismo economico, quanto in paesi nuovi e decisamente protezionistici, come la Germania e gli Stati Uniti, tutti quegl'istituti, che, sotto i nomi di trusts, di cartelli, di sindacati e così via, mirano allo stesso scopo di eliminare la concorrenza e di creare a vantaggio di un piccolo gruppo di grandi capitalisti una situazione di monopolio.

Bibl.: Per l'età antica: G. Lumbroso, Rech. sur l'économie politique de l'Egypte sous les Lagides, Torino 1870; Hübner, Lex metalli Vipascensis, in Eph. epigr., III (1877), p. 165 seg.; J. Flach, La table de bronze d'Aljustrel, in Nouv. Rev. Droit franç. étrang., II (1878), pp. 269 seg., 645 seg.; R. Cagnat, Étude historique sur les impôts indirects chez les Romains, Parigi 1882; trad. it., in Bibl. di storia econ., diretta da V. Pareto, V, Milano 1921; A. Böckh, L'economia politica degli Ateniesi; trad. it., ibid., Milano 1899; H. Francotte, L'industrie dans la Grèce ancienne, II, Bruxelles 1901, p. 143 seg.; Dureau de la Malle, Economia politica dei Romani, in Biblioteca di storia econ., dir. da V. Pareto, I, ii, Milano 1904; E. Ardaillon, Metalla, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités, V, p. 1840 seg.; M. Besnier, Sal., in Daremberge Saglio, Dictionnaire des ant., V, p. 1009 seg.; A. Bouché Leclercq, Histoire des Lagides, III, Parigi 1906, p. 237 seg.; K. Riezler, Ueber Finanzen und Mon. im alten Griechenland, Berlino 1907; U. Wilcken, Grundzüge der Papyruskunde, Lipsia e Berlino 1912, p. 239 seg.; H. Blümner, Salz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., s. 2ª, I, col. 2075 seg.; G. Glotz, Le travail dans la Grèce ancienne, Parigi 1920; T. Frank, Storia economica di Roma, trad. Lavagnini, Firenze 1923; J. Toutain, L'économie antique, Parigi 1927; A. Visconti, Dardamariatus e monopolium come reati contro l'economia pubblica, in Annali Univ. Macerata, VIII (1932). - Per l'età medievale e moderna: E. Mayer, Italienische Verfassungsgeschichte von der Gothenzeit bis zur Zunftherrschaft, Lipsia 1909; A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini del Mediterraneo fino al tempo delle Crociate (trad. dal ted. di P. Bonfante, Torino 1915); J. Strieder, Studien zur Geschichte kapitalistischer Organisationsformen. Monopole, Kartelle und Aktiongesellschaften im Mittelalter und zu Beginn der Neuzeit, Monaco e Lipsia 1925; A. Solmi, L'amministrazione finanziaria del regno italico nell'Alto Medioevo, Pavia 1932; E.F. Heckscher, Der Merkantilismus (trad. dallo svedese), Jena 1932; G. Luzzatto, Storia economica dell'età moderna, Padova 1934.

Il monopolio nel diritto amministrativo.

Monopolio, dal punto di vista giuridico, s'intende il privilegio dello stato o di altro ente pubblico (o di un loro concessionario) di rendere esclusivamente servizî economici al pubblico o di produrre o vendere determinate cose. Questo privilegio non può essere nel nostro diritto giuridicamente attribuito o esercitato se non in base a una legge formale.

Inteso in questo senso, il monopolio si differenzia da altri due istituti similari: il monopolio artificiale o privato e il monopolio di fatto. Il monopolio privato è una coalizione contrattuale fra i produttori di determinate cose, diretta a regolare unitariamente la produzione e la vendita delle stesse. Il monopolio di fatto si verifica quando una merce è prodotta per ragioni naturali in un solo paese o da una sola persona, o quando, pure per ragioni naturali, non è materialmente o economicamente possibile costituire se non una sola industria di un dato genere: fenomeno economico più che istituto giuridico.

Un altro istituto, che ha affinità con quello della nostra voce, ma che giuridicamente pure ne differisce, è quello chiamato da S. Romano monopolio improprio. Può darsi che una data attività non possa materialmente estrinsecarsi senza ricorrere a concessioni amministrative. Approfittando di tale necessità, l'amministrazione potrebbe rifiutare qualunque concessione per riservare a sé stessa tale attività, oppure accordare la concessione a un privato soltanto, obbligandosi a non fare concessioni analoghe. Sulla legittimità di tali obblighi era sorta grave discussione; ma pare che la migliore soluzione della questione, posta in relazione appunto alla creazione del monopolio improprio, sia la soluzione negativa, per quanto fortemente contestata da giuristi di grande valore. Pare, invece, che si possa sostenere il diritto di rifiutare la concessione o di obbligarsi a non fare ulteriori concessioni, o quando il monopolio serve a organizzare un pubblico servizio, o quando i mezzi per esplicare l'impresa urtino contro gl'interessi che l'amministrazione deve tutelare e i fini che a proposito del servizio sono proprî dell'amministrazione, o anche quando lo impongano ragioni economiche, che abbiano lo scopo di migliorare e rendere economica la prestazione di un servizio d'importanza sociale. Il patto relativo al divieto di stipulare analoghe concessioni con altri, quando è legittimo, non impedisce all'amministrazione di fare nell'interesse generale (ove la legge non lo vieti) nuove concessioni: essa resta in questo caso obbligata a pagare al primo concessionario un indennizzo. Infine bisogna ricordare le disposizioni della legge sull'assunzione diretta dei pubblici servizî da parte di comuni e provincie (art. 24 testo unico 15 ottobre 1925, n. 2578) concernenti la possibilità di assumere (e quindi, in alcuni casi previsti dalla stessa legge, monopolizzare) servizî già da essi enti concessi all'industria privata e il relativo riscatto.

Una distinzione economico-finanziaria, più che giuridica, viene poi comunemente introdotta nel concetto di monopolio. Lo stato si riserva il monopolio di date intraprese sia per ragioni di sicurezza, di ordine, di maggior sviluppo sociale della nazione, sia semplicemente per escludere la concorrenza da alcune industrie i cui prodotti non corrispondono a bisogni primarî e che, per la loro semplicità di organizzazione, possono essere monopolizzate, assicurandosi con ciò un guadagno con il prezzo di monopolio dei prodotti (il più alto reddito possibile). Questa seconda categoria costituisce le privative fiscali.

La retribuzione, che viene pagata dal singolo all'amministrazione in occasione della prestazione dei servizî monopolizzati della prima categoria, fu da molti cultori della finanza ragguagliata a una tassa. Questo pareggiamento del provento della pubblica impresa alla tassa, se è anche poco sostenibile da un punto di vista economico, non corrisponde certamente alla realtà giuridica. Infatti la tassa, dal punto di vista giuridico, esclude il carattere contrattuale e ha in sé sempre un elemento di coercizione, mentre nella specie siamo normalmente di fronte a controprestazioni di carattere eminentemente contrattuale, e soltanto la salvaguardia del carattere di monopolio inerente a tali servizî e la loro gestione da parte dello stato introduce in essi in via complementare alcune caratteristiche coercitive di diritto pubblico. Sicché ben a ragione il Romano le annovera fra le tasse improprie e non fra le vere tasse.

Vediamo i principali di questi monopolî (v. anche le voci relative).

La necessità di sottrarre alla libera e incontrollata circolazione la moneta, base di tutti gli scambî, ha portato già da molto tempo gli stati: 1. a fissare e designare la cosa che dev'essere moneta e il suo corso legale; 2. a coniare ed emettere la moneta. Il monopolio della monetazione riflette solo: a) la coniazione; b) l'emissione della moneta (aurea, essendo l'attuale sistema monetario a base aurea).

Dovendo la moneta circolare in condizioni di sicurezza assoluta, nessuno può garantire tale sicurezza meglio del sistema di coniazione della moneta aurea assunto come monopolio dallo stato. Il singolo, che vuol monetare l'oro, deve affidarlo alla zecca dello stato, pagando una tassa per il servizio resogli. E lo stato emette monete auree per suo conto (legge sull'unificazione del sistema monetario 24 agosto 1862, n. 788, art. 5). Tutto ciò è teoricamente ancora esatto. Sennonché con il r. decr. legge 21 dicembre 1927, n. 2325, che in sostanza ha cambiato la moneta aurea italiana, non si prevede per il momento alcuna coniazione di nuova moneta aurea privata, dimodoché il monopolio della coniazione non è praticamente applicabile fino a nuovo e diverso avviso. La moneta è emessa dallo stato e suppliscono alla moneta normalmente i biglietti di banca (v. art. 6 decr. legge 21 dicembre 1927, n. 2325; cfr. anche decr. legge 23 gennaio 1927, n. 1148, sul riordinamento della circolazione monetaria metallica).

Ma, oltre la moneta, il cui valore intrinseco corrisponde al valore nominale, è necessaria la moneta divisionaria o convenzionale per i piccoli pagamenti, emessa a un valore nominale superiore al reale. Assai più che nel caso precedente è necessario che questa moneta venga emessa solamente dallo stato, che è l'unico ente che può imporre valore e fiducia a una moneta convenzionale, e può compensare con i guadagni relativi la perdita che soffre nel cambio della moneta aurea usata. In Italia l'emissione e circolazione della moneta divisionale è soprattutto regolata dal decr. legge 30 dicembre 1917, n. 2111, dal decr. legge 13 luglio 1919, n. 1618, e dal decr. legge 23 gennaio 1927, n. 1148 (v. anche sull'argomento decr. legge 2 maggio 1920, n. 627; decr. legge 23 gennaio 1921, n. 32; decr. legge 21 gennaio 1923, n. 215; r. decr. 16 settembre 1926, n. 1506).

Vi è poi il monopolio dell'emissione dei biglietti di banca. In sostanza si tratta di emissione di moneta di carta, di moneta fiduciaria, di un titolo di credito avente corso legale, e che diventa così un mezzo di pagamento delle obbligazioni. Il valore intrinseco del biglietto è tutto dipendente dal credito che gode chi lo emette, e chi lo emette consegue, mediante lo stesso, credito senza corrispondere interesse alcuno, mentre può impiegare il capitale da esso rappresentato. C'è chi ha sostenuto che dovesse essere libero a tutti di emettere simili titoli: ma ciò non potrebbe dare a tali biglietti alcun valore di surrogato della moneta. Dato l'interesse che ha lo stato a che alcuni biglietti abbiano corso legale, oramai non si contesta più che l'emissione del vero biglietto debba essere sottratta all'industria privata. E quindi, o lo stato emette direttamente e solamente a mezzo d'una banca di stato i biglietti, oppure concede il monopolio dell'emissione a uno o più istituti privati. In Italia il monopolio, prima concesso a più banche, e poi ristretto a tre, col 30 giugno 1926, in base al decr. legge 6 maggio 1926, n. 204, è stato accordato alla sola Banca d'Italia. D'altra parte lo stato, che dà il monopolio dell'emissione a un concessionario, ha diritto di partecipare ai guadagni che la banca ricava da esso, e quindi da un lato colpisce la circolazione normale del biglietto con una tassa (v. testo unico 28 aprile 1910, n. 204 e r. decr. legge 17 settembre 1926, n. 1506) e, dall'altro, partecipa agli utili che la banca ricava oltre il 5% sul capitale versato.

Anche in materia di pesi e misure lo stato stabilisce prima e impone ai privati il sistema legale dei pesi e misure e poi assume come monopolio la verifica dei pesi e delle misure stesse (v. testo unico 23 agosto 1890, n. 7088). Ogni strumento di peso e misura dev'essere sottoposto a una verifica prima d'essere usato e poi a una verifica periodica (annuale; v. anche reg. 12 giugno 1902, n. 226, circa la fabbricazione dei pesi, delle misure e altri strumenti atti a pesare e misurare). I fabbricanti di pesi e misure e i commercianti che li adoperano ricavano un vantaggio da tale verifica, e quindi è giustificata la tassa ehe viene al proposito da essi corrisposta (regio decr. 21 ottobre 1923, n. 2367, all. A). Caratteristica di tale monopolio è però l'obbligatorietà imposta a taluni di chiedere questo servizio monopolizzato, e il carattere quindi di vera e propria tassa che assume la retribuzione stessa.

Data la delicatezza della funzione, è stato monopolizzato dallo stato anche il servizio del marchio dei metalli preziosi, che ne assicura la identità e la purezza. Esso è un servizio facoltativo (legge 2 maggio 1872, n. 806).

Anche il servizio postale (monopolizzato già in tempi antichi per ragioni fiscali) è monopolizzato (v. testo unico 24 dicembre 1899, n. 801, art.1). La natura stessa del servizio, troppo importante per la collettività perché esso possa essere abbandonato a imprese private, lo fa tendere al monopolio.

Così per la legge 23 giugno 1853, n. 1563 (completata da altre, specie per la radiotelegrafia: v. legge 30 giugno 1910, n. 395) è riservato (art.1) allo stato lo stabilimento e l'esercizio delle linee telegrafiche nell'interno dello stato. Le ragioni che inducono al monopolio sono analoghe a quelle che giustificano il monopolio postale: non è esclusa la concessione ai privati. Tanto ai telegrafi quanto alle poste sovraintende un'amministrazione speciale dello stato: l'amministrazione postale e telegrafica (r. decr. legge 23 aprile 1925, n. 520). A essa presiede il ministro delle Comunicazioni, assistito da un consiglio d'amministrazione (i cui membri sono nominati per decreto reale su proposta del ministro delle Comunicazioni, sentito il Consiglio dei ministri), e coadiuvato da un direttore generale. L'amministrazione ha un bilancio proprio, annesso a quello del Ministero delle comunicazioni, verificandosi così un'autonomia, un'individualità patrimoniale dell'azienda.

Cosi pure è monopolizzato il servizio tetefonico pubblico (testo unico 3 maggio 1903, n. 196), il quale però è stato per molte reti (decr. 8 febbraio 1923, n. 329) affidato a privati concessionarî e gestito per lo stato (decr. legge 14 giugno 1925, n. 884) da un'azienda speciale, governata da un direttore, anch'essa con un bilancio proprio, amministrata dal consiglio di amministrazione dell'amministrazione postale e telegrafica, di cui si è parlato precedentemente.

Anche le ferrovie per natura tendono al monopolio: in generale la concorrenza o non è possibile o non è vantaggiosa. D'altro lato l'industria ferroviaria interessa altamente lo sviluppo commerciale e intellettuale della società. Perciò in Italia fino dalla legge sui lavori pubblici (all. F della legge 20 marzo 1865), le strade ferrate (art. 206) furono divise in pubbliche e private. Le pubbliche, destinate al servizio pubblico per il trasporto di persone, merci o cose, non possono venire concesse che dallo stato; il quale quindi si è costituito una rete propria ed è l'unico ente il quale permette la costruzione e l'esercizio delle ferrovie a concessionarî privati (v. le leggi 22 aprile 1905, n. 137, e 7 luglio 1907, n. 429, che regolano l'esercizio ferroviario di stato e la legge 9 maggio 1912, n. 1447, che regola l'esercizio delle ferrovie concesse a industrie private).

Riteniamo in sostanza monopolio anche l'esercizio di tramvie a trazione meccanica e di servizî pubblici automobilistici. Specialmente per quanto riguarda le tramvie si tratta di un monopolio naturale. Ma la circostanza che tali servizî non possano impiantarsi senza concessione delle pubbliche autorità ne fa dei veri monopolî, che l'amministrazione eserciterà a mezzo di concessionarî (v. la succitata legge 2 maggio 1912 e il decr. legge 9 dicembre 1926, n. 2443, contenente le norme per le concessioni di servizî pubblici automobilistici).

Tra i monopolî potevano annoverarsi le concessioni minerarie, quando in molte parti d'Italia esse erano ancora regolate sulla base del sistema industriale. Dopo che in tutto il regno il r. decr. 28 luglio 1927, n. 1443 (legge delegata), ha esteso il sistema demaniale, per cui in sostanza la miniera diventa una speciale proprietà dello stato, è chiaro che si è andati al di là del monopolio, e cioè alla proprietà pubblica. È vero d'altro lato che lo sfruttamento della miniera è affidato a concessionarî, ma non ci sembra che tale istituto giuridico possa più concepirsi come monopolio: è lo sfruttamento della cosa propria riservato al proprietario o a un suo concessionario.

La conservazione del monopolio per parte dello stato è garantita da sanzioni penali. Non è neppure il caso di parlare del monopolio della monetazione, e dell'emissione di biglietti di banca, di quello della verifica dei pesi e misure e del marchio dei metalli preziosi, la cui trasgressione porta naturalmente a reati, alcuni dei quali assai gravi (v. per es. articoli 453, 454, 457, 460, 694, 693, 472, 468, 469, 470, 472, 692 cod. penale; v. anche articoli 27 e 31 della legge 1890 sui pesi e misure). Ma è anche garantito da pene il monopolio postale, telegrafico, ferroviario (v. art. 3 legge postale; art. 2 legge telegrafica; articoli 374 e 378 legge sui Lavori Pubblici).

Si può dire che in tutti i paesi civili monetazione, posta, telegrafo, sono monopolizzati dallo stato e si fa strada una spiccata tendenza al monopolio dei telefoni. Negli Stati Uniti non è monopolizzata, benché severamente controllata, l'emissione dei biglietti di banca; negli Stati Uniti e nell'Inghilterra non sono monopolizzate le ferrovie. Soltanto nei paesi germanici sussiste la regalia delle miniere. In tutti i paesi civili esiste pure il monopolio della verifica dei pesi e misure: soltanto però in Francia, in Baviera e in qualche altro stato, troviamo l'imposizione della verifica obbligatoria annua. Generalmente, invece, il marchio dei metalli preziosi è lasciato a privati i quali presentino speciali garanzie (specie di periti).

Per quanto riguarda le privative fiscali, i finanzieri annoverano le entrate relative fra le imposte indirette, parallele alle imposte di fabbricazione, ma dal punto di vista giuridico non è facile indicarne la vera natura. Tali proventi hanno qualche cosa dell'imposta, molto della tassa impropria, e qualche elemento di diritto privato. La monopolizzazione, le penalità che colpiscono i trasgressori delle leggi che stabiliscono il monopolio, lo scopo che lo stato si propone (colpire o consumi generali o consumi voluttuarî, al fine di ricavarne proventi di larga base o di largo reddito) inquadrano le privative fra le pubbliche imposizioni. D'altro lato la circostanza che, in sostanza, pagando la merce monopolizzata, si paga una cosa o un servizio, adegua i proventi delle privative fiscali a tasse improprie. Infine lo stato, sia per procurarsi e fabbricare la merce, sia per venderla, si sottopone spesso alle norme che regolano l'industriale e il commerciante privato, e quindi la privativa assume aspetto privatistico. Abbiamo, quindi, un'imposta, che retribuisce una merce e un servizio, spesso prodotto e venduto secondo norme di diritto privato: il monopolio dello stato costituirebbe in sostanza la preminente caratteristica per cui l'atto commerciale si trasfomia in riscossione d'imposta, in quanto impedisce che alcun altro guadagni nell'esercizio di quel commercio, e fa sì che i prezzi possano spesso essere fissati al di sopra di quello che avverrebbe nel libero commercio. Le privative di stato sono, in Italia, il sale, il tabacco, il lotto, gli accenditori automatici e le affissioni sulle strade gestite dall'azienda statale della strada.

a) Monopolio del sale. - È uno dei più antichi e dei più redditizî, data la necessità del sale nell'alimentazione. Esso è criticato per varî ordini di motivi, che sarebbero - ci sembra - fondati soltanto quando i prezzi di monopolio fossero esagerati e impedissero il necessario consumo alle classi povere: esagerazione che, d'altro lato, razionalmente non potrebbe praticarsi poiché ne risulterebbe una contrazione del reddito prevedibile. Il monopolio comprende l'estrazione del sale dall'acqua del mare, dalle sorgenti saline, dalle miniere, la produzione di esso in qualunque altro modo, la raccolta, l'importazione, la vendita del sale (vedi legge 21 gennaio 1929, n. 67); ed è considerata sale ogni miscela di sali solubili, in cui il cloro sia in proporzione maggiore del 15,2% e il sodio del 9,8%. Sono escluse dal monopolio la Sicilia, la Sardegna e le isole minori ad esse adiacenti, la provincia di Zara e i comuni di Livigno e Campione. Speciali autorizzazioni e limitazioni occorrono per l'esportazione, per l'uso di sale a scopi scientifici e terapeutici e per l'importazione di alcuni sali o di materie contenenti elevate quantità di sale. Ad alcune industrie (produzione della soda, riduzione dei minerali, colori, ecc.), e con cautele rigorose, è concessa l'esenzione dall'imposta, ad altre il sale è ceduto a prezzi speciali. Disposizioni minute sono stabilite per la tutela preventiva del monopolio. L'inftazione di molte di queste norme costituisce contravvenzione. La produzione e l'importazione illecita del sale sono punite come contrabbando.

b) Monopolio del tabacco. - Questo monopolio, contro il quale dal punto di vista scientifico-economico non può sollevarsi alcuna obiezione, ha assunto proporzioni grandiose ovunque è stato istituito. In Italia comprende la fabbricazione, preparazione, importazione e vendita dei tabacchi e dei prodotti derivati dal tabacco. È vietata la produzione, fabbricazione, importazione e vendita dei succedanei del tabacco (v. la sopra citata legge del 21 gennaio 1929). Sono esclusi dal monopolio la provincia di Zara e i comuni di Livigno e Campione. In tali territorî, a ogni modo, non si possono fabbricare tabacchi similari a quelli del monopolio. La coltivazione del tabacco nello stato può essere proseguita dall'amministrazione dei monopolî o concessa per l'approvvigionamento delle manifatture dello stato o per l'esportazione, e regolata da apposito minuto e restrittivo regolamento. Sono vietati la seminagione, la coltivazione, il trapiantamento del tabacco, e il detenere o costruire meccanismi e utensili preordinati alla sua lavorazione, senza licenza. Disposizioni analoghe a quelle relative al monopolio del sale tutelano preventivamente il monopolio del tabacco: l'infrazione delle norme che lo riguardano è punita con pene contravvenzionali ed è previsto il reato di contrabbando.

Ai monopolî del sale e tabacco provvede un'amministrazione autonoma dei monopolî di stato" (decr. legge 8 dicembre 1927, n. 2258), cui presiede il ministro delle Finanze, assistito da un consiglio d'amministrazione e coadiuvato da un direttore generale; anch'essa con spiccata autonomia funzionale e patrimoniale.

c) Privativa del lotto e delle lotterie. - Il lotto (v.) come privativa fiscale è un'eredità che il regno d'Italia ebbe da tutti gli stati preesistenti all'unificazione, e che esso conservò, dichiarando che tale conservazione doveva ritenersi provvisoria (anche ora lo si dichiara "temporaneamente mantenuto").

Lo stato difende il suo monopolio soprattutto con repressioni penali. L'art. 64 del testo unico (29 luglio 1925, n. 1456) proibisce "come violazione della privativa dello stato" qualsiasi giuoco del lotto fatto clandestinamente "sotto promessa ai giocatori di premî in danaro o mediante raccolta o sottoscrizione di poste sopra combinazione di numeri ordinati in modo eguale o simile al lotto pubblico". Gl'imprenditori o raccoglitori e quelli che concorrono alle operazioni degl'intraprenditori o raccoglitori sono puniti con pena pecuniaria da L. 1000 a 5000 e l'arresto da uno a due mesi (si discute se il reato sia considerato delitto: prevale l'opinione affermativa; v. anche art. 2, legge 7 gennaio 1929, n. 4). I semplici giocatori sono puniti con ammenda da L. 100 a 200 (trattasi certo di contravvenzione). È punito anche con multa da L. 100 a 300 chi riceve giuoco sul lotto pubblico o esercita l'ufficio di ricevitore senza essere autorizzato dall'amministrazione. Vengono confiscati tutti i registri, biglietti, il denaro, tanto costituente la posta quanto se vinto o lucrato. Le pene pecuniarie sono commutabili in carcere in caso di mancato pagamento. Le trasgressioni punibili con sola pena pecuniaria possono definirsi amministrativamente dall'intendente di Finanza. Mentre la legge civile (art. 1802-1804 cod. civ.) non accorda azione per il pagamento di un debito di giuoco, la legge speciale invece regola minutamente il giuoco del lotto, come speciale obbligazione intercedente fra lo stato, da un lato, e chiunque del pubblico prenda parte al giuoco, dall'altro. Principî fondamentali in materia sono che sulle otto estrazioni di cinque numeri che si fanno pubblicamente ogni sabato in otto città del regno, si possono fare giocate per un numero, oppure due, tre, quattro insieme, di quei novanta numeri da cui vengono estratti i cinque, in base a poste, di cui è fissato il massimo e il minimo, e contro un premio pure fissato per ogni combinazione vincitrice. Il giuoco si riceve solo su bollettarî con bollette preordinate e riempite con alcuni requisiti determinati, nonché firmate dal ricevitore. Il giuoco è valido quando vi sia da parte dell'amministrazione l'accettazione, che avviene col deposito delle matrici delle bollette in archivio prima dell'estrazione. Il termine di prescrizione delle vincite è di 30 giorni dalla data dell'estrazione, senza interruzioni e sospensioni. Il pagamento si fa contro esibizione della bolletta, integra e senza alterazioni e correzioni, corrispondente alla matrice, in regola con tutte le norme di legge sulle poste e sulle giocate. Il che assimila il biglietto delle giocate a un titolo al portatore. Le vincite sono esenti da imposta di ricchezza mobile.

Il giuoco è amministrato dal ministro delle Finanze, è posto sotto il controllo diretto delle intendenze di Finanza, e si svolge a mezzo di banchi geriti da ricevitori. In località, dove non può essere agevole la raccolta del giuoco, s'istituiscono banchi succursali o collettorie rette da persone idonee scelte e proposte dalle intendenze. I ricevitori sono responsabili, tenuti al personale esercizio del banco, e solo aiutati da commessi. Sono sottoposti a pene disciplinari, tra le quali speciale la multa.

La privativa del lotto e la conseguente concorrenza che la lotteria può portare al giuoco del lotto ha fatto sì che vengano dalla legge proibite tutte le lotterie. Uniche eccezioni sono le seguenti: 1. Il governo può autorizzare comuni e provincie ad aggiungere premî in forma di lotteria ai prestiti che contraggono per opere di pubblica utilità: ma la somma destinata a premî non può superare un quinto degl'interessi annuali e il prestito dev'essere rappresentato da obbligazioni indivisibili non inferiori a L. 100 di valore nominale e con versamenti non minori di L. 20. 2. Il prefetto può permettere vendite di biglietti, limitate nella provincia, per concorrere mediante estrazione alla vincita di premî consistenti in oggetti, purché siano promosse da enti morali, il prodotto sia esclusivamente destinato a scopi di beneficenza o incoraggiamento alle belle arti e l'importo dei biglietti non superi 100.000 lire. 3. Il prefetto può autorizzare vendite dei biglietti (limitate alla provincia) per tombole promosse e dirette da corpi morali, sempre a scopo di beneficenza o incoraggiamento artistico. 4. Leggi speciali possono autorizzare altre tombole o lotterie, ma l'importo dei loro biglietti o cartelle non deve eccedere in ogni esercizio finanziario i 4.000.000 di lire (anzi, dopo che sono state esaurite le concessioni fatte dalla legge 2 luglio 1908, la somma è ridotta a 3.000.000).

Sono quindi proibite e represse con sanzioni penali tutte le forme di lotteria e tutte le inosservanze alle condizioni cui sono sottoposte le concessioni di lotterie. E l'art. 68 specifica che cosa deve intendersi per lotteria: è tale qualsiasi operazione in cui si faccia dipendere il guadagno o l'attribuzione di un premio da un'estrazione a sorte, tanto se l'estrazione venga fatta appositamente, quanto se si riferisce ad altra estrazione: l'assimilazione si estende a qualunque premio offerto da giornali agli abbonati o lettori. È pure proibita come lotteria ogni speculazione od operazione che abbia per base la cessione di obbligazioni di prestiti a premî autorizzati e le riffe offerte al pubblico. La legge 3 gennaio 1929, n. 151, vieta i concorsi a premî di qualsiasi forma intesi ad accreditare con mezzi e per fini reclamistici determinati prodotti e a eccitarne la diffusione e lo smercio. È proibito vendere, distribuire o acquistare nel regno biglietti di lotterie aperte all'estero o titoli d'imprestiti stranieri a premî. E sono puniti anche i giocatori, non solo, ma anche gli stampatori e direttori dei giornali, o di fogli volanti, o coloro che pubblicano o fanno pubblicare programmi e avvisi di lotterie o di prestiti a premî esteri o fanno conoscere il luogo dove ne sono aperte le iscrizioni.

I rapporti fra gl'imprenditori di lotterie e i giocatori portatori di biglietti, sono retti dalle norme sulle obbligazioni del diritto privato.

d) Monopolio degli accenditori automatici. - A ovviare gl'inconvenienti cui potevano condurre le frodi sull'imposta dei fiammiferi, furono con r. decr. legge 2 febbraio 1922, n. 281 (v. anche r. decr. 30 giugno 1927, n. 1315) riservate allo stato o a suoi concessionarî l'importazione o la vendita di qualsiasi apparecchio di accensione automatica e l'importazione a sua volta di parti di ricambio e pietrine relative. Il r. decr. legge 26 febbraio 1930, n. 105 ha riservato la fabbricazione, importazione e vendita per il consumo nell'interno del regno di tali apparecchi al consorzio industrie fiammiferi.

e) Monopolio delle affissioni sulle strade gestite dall'azienda statale della strada. - Come è noto, la legge 17 maggio 1928, n. 1094 ha costituito un'azienda autonoma statale della strada che presiede a tutti i servizî relativi alle strade di stato. Tra i proventi di detta azienda l'art. 36 di detta legge prevede quelli del monopolio sulla pubblicità e il r. decr. 14 marzo 1929, n. 410 ha regolato tale monopolio, dimodoché tutte le esposizioni di cartelli, stendardi e quadri (permanenti o provvisorî), targhette e diciture su pali e fili aerei, serbatoi di benzina, richiami, chioschi luminosi, proiezioni, strisce e tele pubblicitarie, avvisi stampati o litografati o manoscritti, prospicienti le strade statali o affini al suolo delle stesse o collocati in modo da essere comunque visibili dalle strade, non sono ammessi senza l'osservanza delle norme stabilite dal decreto stesso e i contravventori sono puniti a norma dell'art. 445 cod. penale.

È da aggiungersi che anche in favore dei comuni sono ammesse privative fiscali. Oltre la partecipazione al provento della privativa sul sale a titolo di dazio consumo riconosciuta per un certo tempo (r. decreto legge 20 ottobre 1925, n. 1994, r. decr. legge 24 settembre 1928, n. 2148), i comuni hanno privative sia in base alla legge comunale, sia in base alla legge sulle municipalizzazioni. L'art. 93, n. 3 del testo unico, legge com. e prov., l'art. 10, n. 4 e l'art. 209 e segg., testo unico sulla finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175, consentono ai comuni di "esercitare direttamente o dare in appalto l'esercizio con privativa dei diritti di peso pubblico e della misura pubblica, e la privativa di concedere in affitto banchi pubblici, purché tutti questi diritti non rivestano carattere coattivo". D'altra parte il testo unico, 15 ottobre 1925, n. 2578 della legge sull'assunzione diretta dei pubblici servizî da parte dei comuni e delle provincie all'art. 1 ammette che i comuni possono assumere, anche con diritto di privativa, i seguenti quattro servizî: a) trasporti funebri (eccetto i trasporti dei soci di congregazioni, confraternite e altre associazioni costituite a tal fine e riconosciute come enti morali); b) costruzione ed esercizio di stabilimenti per la macellazione; c) costruzione ed esercizio di mercati pubblici; d) pubbliche affissioni (eccettuati i manifesti elettorali e gli atti della pubblica autorità).

Le privative comunali presentano spesso meno spiccato il carattere di entrate a sussidio del fisco e più accentuato invece quello di servizio reso anche al privato. Infatti il cosiddetto staderatico (diritto di peso e misura pubblico), oltreché fornire una rendita al comune, garantisce anche i privati nelle loro contrattazioni. S'intende che i privati possono usare dei proprî pesi legali, ma nessuno può pesare pubblicamente per mercede nel comune in concorrenza con la privativa.

Il diritto di plateatico (affitto di banchi) in parte ora è compreso nel diritto di costruire ed esercire mercati, proveniente dalla legge di municipalizzazione, in parte si estende oltre le parole della legge in quanto può comprendere i chioschi costruiti dal comune nei giardini pubblici e nelle vie e piazze del comune. È però ammesso che il venditore ambulante possa compiere il suo mestiere nei limiti dei regolamenti di polizia e che non sia obbligato a occupare i banchi e i chioschi apprestati dal comune. La prestazione gratuita di pesi, banchi e misure tra privati è ammessa, salvo che, per la sua frequenza, danneggi l'esercizio del diritto di privativa del comune. Le tariffe sono deliberate dal podestà e sono determinate unicamente in base alle quantità pesate e misurate e alle dimensioni dei banchi.

Gli altri quattro servizî geriti in privativa dal comune si connettono a quell'istituto giuridico molto interessante conosciuto sotto il nome di municipalizzazione dei pubblici servizî (v. servizi pubblici), per cui certi servizî, diretti a procurare utilità collettive, vengono elevati a servizî pubblici e gestiti dal comune. E sulla utilità o meno di questo istituto non è qui il luogo d'insistere, ma è soltanto da notare che nello stesso s'inserisce la facoltà di esercitare con privativa i quattro servizî sopra indicati, per i primi tre dei quali furono prevalenti, per indurre alla privativa, motivi igienici, e per l'ultimo motivi finanziarî. E se il comune avesse, prima di gestirlo in monopolio, concesso a qualche privato l'esercizio di tali servizî, dovrebbe provvederne al riscatto nei limiti e con le condizioni stabilite nella stessa legge sulle municipalizzazioni (articoli 24, 25 e 26). Più grave fu la questione sorta a proposito dell'indennizzo da corrispondersi dal comune ai privati i quali (prima dell'assunzione da parte del comune) avessero esercitato per loro conto il servizio suscettivo di monopolio, in quanto tale obbligo non risulta espressamente dalla legge. Ma giustamente dalla giurisprudenza e dalla dottrina fu conchiuso che precisamente tale silenzio della legge importi facoltà di divieto di continuazione alle imprese che esercitino i servizî, senza obbligo d'indennizzo in loro favore.

Altre privative fiscali che furono proposte e attuate altrove, effettuate parzialmente o totalmente in Italia (in quanto si ritiene si riferissero a merci che presentano tutte le qualità di produzione e di reddito per consigliarne la privativa) sono l'alcool, i fiammiferi (monopolio in Italia nel periodo intercorrente tra il decr. legge 31 agosto 1916, n. 1090 e il decr. legge 3 luglio 1921, n. 842; v. anche r. decr. legge 11 febbraio 1923, n. 860 relativo al consorzio fabbricanti), le carte da giuoco, gli esplosivi, il petrolio (in Italia: decr. legge 27 novembre 1919, n. 2298 - decr. legge 3 luglio 1921, n. 848), il caffè, le assicurazioni e specialmente le assicurazioni sulla vita (in Italia: legge 4 aprile 1912, n. 305 - decr. legge 29 aprile 1923, n. 966), le lampadine elettriche.

Il monopolio del sale è ancora in vita nell'Austria, nell'Ungheria, nella Polonia, nella Iugoslavia, in Grecia, in Turchia: quello del tabacco in Francia, Austria, Polonia, Iugoslavia, Romania, Turchia, Spagna, Giappone. Il lotto in Austria; le lotterie in Ungheria, Polonia, Spagna. L'alcool è monopolizzato in Germania, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Turchia. I fiammiferi in Francia, Polonia, Iugoslavia, Bulgaria, Romania, Grecia, Turchia, Spagna. Le carte da giuoco in Romania e in Grecia. La polvere e i prodotti esplodenti in Francia, Svizzera, Austria, Iugoslavia, Romania. Il petrolio nella Iugoslavia, Grecia, Spagna. Ma il dopoguerra è stato fecondo di nuovi monopolî: la Germania ne ha introdotto uno sull'acido acetico; l'Ungheria e la Iugoslavia sulla saccarina; la Norvegia sul vino; la Iugoslavia, la Bulgaria, la Romania, la Grecia sulle carte da sigarette; la Turchia sullo zucchero e prodotti zuccherati (ora soppresso). Non parliamo dell'U.R.S.S., che, partendo da punti di vista differenti, ha monopolizzato le principali industrie, gran parte del commercio interno e tutto il commercio con l'estero.

Bibl.: S. Romano, Principii di diritto amministrativo, Milano 1912; W. Gerloff e F. Meisel, Handbuch der Finanzwissenschaft, Tubinga 1927; A. de Viti de Marco, I primi principii dell'economia finanziaria, Roma 1928.