MONETA

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

MONETA

Massimo Amato

Il dibattito sulle funzioni della m. è tornato di grande attualità con la crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007, pur avendo lontane radici nella critica del pensiero economico. «Tanto è già stato scritto sulla moneta che, fra quelli che s’interessano a questo tema, solo coloro che si fanno prevenire dai loro pregiudizi possono ignorarne i veri principi» (D. Ricardo, On the principles of political economy and taxation, 1817, in The works and correspondence of David Ricardo, ed. P. Sraffa, 1° vol., 1955; trad. it. in D. Ricardo, Opere, a cura di L. Porta, 1° vol., 1986).

Così esordiva David Ricardo nel ventiseiesimo capitolo della sua maggiore opera, dedicato alla m. e al credito. Per poi continuare con la sua definizione, semplice e autorevole: la m. è una merce.

Tuttavia, gran parte di ciò che fino a lui era stato scritto sulla m., da Aristotele in avanti, e fino allo stesso Adam Smith, aveva lasciato piuttosto propendere per l’opinione opposta, negando alla m. il tratto della merce, e quindi lo statuto di oggetto di scambio, per lasciarle quello di misura e strumento dello scambio.

Un’apparente soluzione a tale eterogeneità di principi (la m. è merce, la m. non è merce) è consistita, per lungo tempo, e in fondo ancora oggi, nell’aggiungere, al sostantivo merce, l’aggettivo universale. In quanto universalmente accettata, la m. sarebbe quella merce che consente di superare le restrizioni del baratto, spezzando l’atto bilaterale dello scambio di beni in un insieme multilaterale e intertemporale di compravendite. Vendendo beni contro m., ciascun operatore si mette nella condizione di poter comprare con quella m. altri beni da altri soggetti e in un altro tempo.

Tuttavia, proprio per via della sua universale accettabilità nel tempo, la merce-m. rischia di essere sottratta indefinitamente alla circolazione. Può smettere di essere uno strumento di scambio per divenire riserva di valore. La m. diviene così l’oggetto di una preferenza sui generis, che John Maynard Keynes chiamerà «preferenza per la liquidità», e che porrà alla base della sua esposizione critica del funzionamento dell’economia contemporanea.

Questa indecisione sui principi si ritrova nelle definizioni della m. nei manuali e nelle enciclopedie, e talvolta come problema anche nelle riflessioni degli economisti, soprattutto in tempi di crisi.

Il problema implicato dalla definizione della m. concerne innanzitutto l’enumerazione delle sue funzioni, e poi il modo in cui essa è chiamata a svolgerle: unità di conto e mezzo di scambio, da una parte; riserva di valore, dall’altra. Mentre sulle prime due non c’è discussione, sulla terza le perplessità possono emergere, giacché la funzione di riserva di valore può entrare in concorrenza con le altre due.

Negli anni Trenta del 20° sec. come oggi, la preferenza per la liquidità, e dunque la prevalenza nella m. della funzione di riserva di valore, ha dato luogo, sui mercati finanziari, a una ‘lotta concorrenziale per la liquidità’ che si è trasformata in una ‘trappola della liquidità’ con effetti reali. La m., trattenuta per se stessa e non spesa, ha effetti deflattivi sull’economia reale e contrattivi sull’erogazione del credito (v. credito).

Questo è il motivo per cui le riflessioni sulle funzioni della m., sulla loro articolazione e quindi sulla natura della

m. emergono con più forza in periodi di crisi intensa. È stato così negli anni Trenta, in cui la letteratura monetaria ha conosciuto un’espansione considerevole, è così ai nostri giorni, dopo la crisi del 2007. In quegli anni i nomi che si legano a una critica della m. così come la conosciamo e alla possibilità di concepirne un’altra, diversa e più efficiente, sono quelli di Keynes, Irving Fischer, Luigi Einaudi, Karl Paul Polanyi. Tutti i loro studi implicano, in modi diversi, una problematizzazione della funzione di riserva di valore.

Le perplessità e i paradossi originati dalla posizione ricardiana non sono tuttavia stati dettati solo dagli eventi, ma anche da orientamenti di fondo, che hanno dato origine a due indirizzi fondamentali.

Da una parte (si tratta della corrente decisamente maggioritaria) vi è stato lo sforzo concettuale di mostrare che, in una situazione di equilibrio di lungo periodo, la merce m. non conti: se lasciata alla sua tendenza all’autoregolazione, un’economia di mercato è tale che gli scambi monetari, che le consentono di superare le limitazioni del baratto, convergono necessariamente a una situazione di equilibrio in cui tutti i beni sono scambiati contro beni,come se ci si trovasse in un’economia di baratto. È il senso dell’equilibrio economico generale di Léon Walras, ma è anche il senso della cosiddetta legge di Say, che statuisce la convergenza dell’economia di mercato verso il pieno impiego delle risorse grazie al fatto che ‘l’offerta crea la propria domanda’. La m. funge essenzialmente da numerario, e la sua quantità determina il livello dei prezzi, ma non la struttura dei prezzi relativi.

Tuttavia, la presenza ineliminabile della m. da un’economia di scambio è stata assunta da altri (minoritari ma non marginali) come il segno di una tendenza di quest’ultima non all’autoregolazione, ma al disequilibrio, soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra risparmio e investimento. È la posizione di Keynes, che passa per la critica sistematica della legge di Say, e di coloro che vi si sono variamente ispirati (v. risparmio e investimento).

Di solito si tende a conciliare le due posizioni riferendo la tendenza al disequilibrio al breve periodo, ossia a situazioni in cui le prospettive degli agenti economici possono divergere, anche largamente, dalla realtà dei mercati. Il lungo periodo sarebbe invece il momento in cui tale divergenza è riassorbita, in forza dei meccanismi stabilizzatori di una pura economia di scambio decentrata o di un’economia di scambio regolata da un prestatore di ultima istanza, chiamato a determinare la quantità ottimale di m. al fine di stabilizzare il livello dei prezzi.

Il breve periodo sarebbe dunque la situazione in cui, per motivi essenzialmente legati ad aspettative incerte sul futuro, possono mutare «le abitudini del pubblico nell’uso del denaro e dei servizi bancari, e la pratica delle banche riguardo alle loro riserve» (J.M. Keynes, A tract on monetary reform, 1923; trad. it. 1978, p. 65), mentre il lungo periodo quello in cui tali abitudini si stabilizzano diventando pienamente calcolabili.

Resta che tale apparente conciliazione non fa che spostare il problema di un livello, ponendo il dilemma di quale sia il rapporto fra breve e lungo periodo. È nota la frase di Keynes sul lungo periodo: «Nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti si attribuiscono un compito troppo facile e troppo inutile, se, in momenti tempestosi, possono dirci soltanto che, quando l’uragano sarà lontano, l’oceano tornerà tranquillo» (p. 65). Tuttavia è ancora Keynes a ricordare che la m., quando funzioni debitamente, non conta: «non è facile, a quanto sembra, per gli uomini comprendere che la loro moneta è un mero intermediario, senza significato in sé, e che scorre da una mano all’altra, è ricevuto e speso, e, quando il suo lavoro è compiuto, sparisce dalla somma delle ricchezze di una nazione» (p. 124).

Peraltro è lo stesso Fisher, uno dei padri dell’equazione quantitativa secondo cui la m. è neutrale nel lungo periodo, ad affermare che essa non vale in quelli che egli chiama periodi di transizione: aggiungendo immediatamente che i periodi di transizione sono la regola e quelli di equilibrio l’eccezione. Che i periodi di crisi siano anche periodi di transizione, è cosa che non lascia molti dubbi. Così come il fatto che siano anche periodi in cui i difetti di costruzione delle architetture monetarie e finanziarie invalse tendono a emergere con forza, anche se non sempre si ha generale volontà o interesse a riconoscerli. Ma prima ancora, ciò che riemerge con la crisi è che la m., anche quando sia costruita per funzionare in modo automatico sulla base di un’ipotesi di autoregolazione dei mercati, è una costruzione istituzionale; e che, così come è stata messa in una determinata forma, può esser riformata. A partire dal 2007, molte proposte di riforma sono state presentate, a ogni livello: del sistema monetario internazionale (con il richiamo alla necessità di una nuova conferenza di Bretton Woods), dell’euro, di reintroduzione di m. a livello nazionale o addirittura di introduzione di m. locali, o private, come il BitCoin. Il titolo di una raccolta di saggi pubblicata in Francia appare in merito emblematico: La monnaie dévoilée par ses crises (2007). Gli autori mettono l’accento sul fatto che nelle crisi la m. è rimessa in questione e denaturalizzata, e che l’accettazione di una forma monetaria riposa non soltanto su ragioni economiche, ma anche politiche e simboliche.

Levando ai fenomeni monetari ordinari l’apparenza di una regola, la crisi ha permesso non solo di denaturalizzare la m., ma anche di chiedersi quale sia la sua natura. The nature of money è il titolo, semplice e classico, che un sociologo economico, Geoffrey Ingham, ha dedicato a uno studio del 2004 sulla m. nel quale viene rimessa al centro della riflessione una funzione della m. tanto essenziale quanto dimenticata negli anni del trionfo del capitalismo finanziario: quella di denominare i debiti in vista del loro pagamento.

In generale, tutte le proposte di riforma hanno preso le mosse da disfunzionamenti della m. attuale. Per ritornare alle considerazioni di apertura, il principale disfunzionamento è la tendenza della m. a non circolare. Nel 2009, la ripresa del progetto di Keynes a Bretton Woods, promossa dal governatore della banca centrale cinese, ha avuto il merito di riproporre all’attenzione il tratto fondamentale della m. proposta da Keynes (bancor) come m. internazionale: che fosse unità di conto e mezzo di scambio, ma non riserva di valore (Keynes 1980). Una m. fatta per circolare, per pagare i beni e i debiti, anche al prezzo di non valere più come forma certa di detenzione della ricchezza: questa sembra essere la cifra delle riflessioni non convenzionali che la crisi ha riacceso, e che, sempre in nome dell’impossibilità di essere ‘convenzionali’ in periodi di transizione, sembra cominciare a toccare anche le analisi teoriche e l’attività pratica delle banche centrali.

Bibliografia: J.M. Keynes, Activities 1940-44: shaping the post-war world: the clearing union, London 1980 (trad. it., Eutopia. Proposte per una moneta internazionale, a cura di L. Fantacci, Milano 2011); G. Ingham, The nature of money, Cambridge 2004; La monnaie dévoilée par ses crises, ed. B. Théret, Paris 2007; M. Amato, L’enigma della moneta e l’inizio dell’economia, Milano 2010; G. Ruffolo, Testa e croce. Una breve storia della moneta, Torino 2011.

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