Moneta e sistema monetario internazionale

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Moneta e sistema monetario internazionale

Tommaso Padoa-Schioppa

SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La moneta internazionale. 3. Il regime valutario. 4. Il regime di cambio. 5. Il regime di riserva e la liquidità internazionale. 6. Le regole dell'aggiustamento. 7. Il sistema di Bretton Woods. 8. Il sistema dopo il 1973. 9. Una valutazione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

La moneta e il sistema monetario - ossia l'insieme delle istituzioni, delle regole e delle consuetudini che presiede all'uso del segno monetario - rappresentano elementi essenziali di un'economia fondata sulla divisione del lavoro e sullo scambio, grazie ai quali è possibile ridurre i costi di transazione, ottimizzare l'allocazione delle risorse, massimizzare la produzione e il reddito. Poiché ciò che conferisce carattere di moneta a un particolare strumento è la fiducia nel suo effettivo valore, storicamente l'emissione della moneta è stata prerogativa, anche se non esclusiva, del ‛principe'; il perimetro di accettazione della moneta ha quindi coinciso in larga misura con il perimetro di applicazione della sovranità politica di uno Stato, del suo potere esecutivo, delle sue leggi. Già anticamente le monete impiegate nei traffici internazionali erano quelle provenienti da Stati politicamente ed economicamente forti.

Nel corso del XX secolo è avvenuta nei sistemi monetari una profonda trasformazione, determinata dall'affermarsi di monete pienamente fiduciarie, il cui valore, cioè, è separato dall'effettivo contenuto di metallo. Il processo, iniziato nella prima metà del secolo con la sospensione dell'ancoraggio all'oro (gold standard), si è compiuto nell'agosto del 1971, allorché venne abolita la convertibilità aurea del dollaro americano. La mancanza di valore intrinseco degli strumenti di pagamento ha accentuato il ruolo dell'autorità emittente, lo Stato, quale garante del valore della moneta. Dopo il secondo conflitto mondiale, con la crescente integrazione tra le economie nazionali, lo sviluppo degli scambi mondiali di beni e servizi e la liberalizzazione dei movimenti di capitali, è stata sempre più intensamente avvertita l'esigenza di una moneta e di un sistema monetario di carattere internazionale. In mancanza di un'entità sovranazionale, un ‛principe', in grado di soddisfare tale domanda, il ruolo è stato assunto da una grande potenza economica - dapprima il Regno Unito, successivamente gli Stati Uniti - e in misura crescente dai mercati privati, con un insieme composito e imperfetto di strumenti, regole, istituti economici e giuridici derivati dagli ordinamenti nazionali.

Questi due aspetti, cioè la mancanza di un ancoraggio reale delle monete nazionali e il dominio dei mercati nel governo internazionale della moneta, pur avendo liberato energie e iniziative economiche attraverso le quali è significativamente cresciuto il livello di benessere, hanno tuttavia concorso anche a determinare i fenomeni di instabilità monetaria e i motivi di contrasto tra le politiche economiche dei singoli paesi che caratterizzano l'attuale sistema monetario internazionale (SMI).

Tale sistema si compone di quattro elementi fondamentali: il regime valutario, il regime di cambio, il regime di riserva, le regole dell'aggiustamento (v. Saccomanni, 1989, p. 403); questi, a loro volta, costituiscono la proiezione a livello internazionale di elementi tipici di un sistema monetario nazionale. Più precisamente: in un ordinamento nazionale il regime valutario trova riscontro nello statuto della moneta e nel potere liberatorio attribuitole; il regime di cambio, nell'unità del metro monetario; il regime di riserva, nella creazione di moneta; le regole dell'aggiustamento, nell'esigenza di coordinare la creazione monetaria con le altre componenti della politica economica. I quattro elementi sono strettamente interdipendenti: la modifica dell'uno ha dirette ripercussioni sull'assetto degli altri. La loro evoluzione nel tempo determina quindi una particolare combinazione di regolamenti valutari, accordi di cambio, regime di riserva, regole di aggiustamento, che caratterizza un sistema monetario internazionale nel suo complesso.

Nei capitoli che seguono si esaminerà dapprima il ruolo di moneta internazionale svolto attualmente dal dollaro e dalle altre principali valute (v. cap. 2) e l'assetto del sistema monetario internazionale, soffermandosi sui quattro elementi del sistema: il regime valutario, il regime di cambio, il regime di riserva e le regole dell'aggiustamento (v. capp. 3-6); quindi si passerà in rassegna l'evoluzione del sistema monetario internazionale nel corso degli ultimi cinquanta anni, dall'accordo di Bretton Woods (v. cap. 7) agli sviluppi intervenuti dopo la crisi di tale accordo nel 1973 (v. cap. 8), per concludere con una valutazione critica del suo funzionamento (v. cap. 9).

2. La moneta internazionale

Si definisce moneta internazionale quella valuta che assolve a una o più delle tre tradizionali funzioni della moneta (mezzo di pagamento, unità di conto, riserva di valore) al di fuori dei confini del paese che la emette. La moneta internazionale viene utilizzata, sia dagli operatori privati, sia dalle autorità ufficiali, soprattutto come mezzo di pagamento nelle operazioni di intervento sui mercati valutari e come riserva di valore, attraverso l'accumulazione di riserve ufficiali. Sovente, nelle transazioni internazionali si fa uso di una moneta diversa da quella di entrambi i paesi contraenti: in questo caso la moneta internazionale si definisce ‛valuta-veicolo'. L'uso di una valuta-veicolo si giustifica per le economie di scala e le efficienze informative che si ricavano dall'impiego di una sola valuta piuttosto che di una pluralità di valute (v. Black, 1985, p. 1158).

L'uso di una determinata moneta per le transazioni internazionali dipende dal grado di fiducia degli operatori nel suo potere d'acquisto, cioè dalla loro disponibilità a riconoscerne sia il potere liberatorio - derivante dallo status politico ed economico del paese emittente - sia la stabilità, tanto nel paese di emissione (bassa inflazione) quanto all'estero (stabilità del cambio; v. Tavlas e Ozeki, 1992). Per guadagnare la fiducia degli utilizzatori è perciò essenziale innanzitutto che la valuta venga emessa da un paese economicamente e politicamente affidabile e potente (v. Mundell, 1983); è per questa ragione che la funzione di moneta internazionale è stata svolta dalla sterlina inglese nel corso del XIX secolo e nella prima parte del XX, e dal dollaro statunitense dopo la seconda guerra mondiale. In secondo luogo, è necessario che il paese di emissione possieda mercati finanziari efficienti, vasti e liberi da restrizioni, nei quali gli operatori possano impiegare la loro liquidità e ottenere finanziamenti. Infine, un terzo fattore che concorre a determinare l'uso internazionale di una moneta è la struttura del commercio internazionale del paese emittente: maggiori sono i flussi commerciali del paese, più diffusa è la conoscenza della sua valuta da parte degli operatori internazionali. Il commercio di manufatti tra i paesi industrializzati viene prevalentemente fatturato nella valuta dell'esportatore; gli scambi tra i paesi in via di sviluppo e quelli industrializzati vengono invece fatturati nella valuta di questi ultimi, sebbene sia frequente l'uso del dollaro; gli scambi di materie prime e gli investimenti finanziari sono generalmente denominati in dollari (v. Tavlas e Ozeki, 1992).

Nel sistema attuale la funzione di moneta internazionale è svolta prevalentemente dal dollaro, la cui importanza relativa si è andata tuttavia riducendo in favore del marco tedesco e dello yen giapponese (v. Bank for International Settlements, 1995, p. 23). Le stime più recenti indicano che nel 1992 le esportazioni dei principali paesi industrializzati venivano fatturate per il 38% circa in valuta americana, per il 23% in marchi tedeschi e per il 9% in yen giapponesi; per quanto riguarda le importazioni, la fatturazione avveniva per il 44% in dollari, per il 19% in marchi, e per il 6% in yen. All'inizio degli anni ottanta, invece, il dollaro risultava la valuta di fatturazione del 41% circa delle esportazioni e del 55% delle importazioni. La percentuale di eurodepositi denominati in dollari presso le banche dei paesi industriali è diminuita da un massimo del 77% nel 1984 al 41% nel giugno del 1995; a quella data gli eurodepositi in marchi erano pari al 20% circa e quelli in yen a meno del 4%. Per quanto riguarda la denominazione dello stock di obbligazioni internazionali, il peso del dollaro è diminuito da un massimo del 63% nel 1984 al 33% nel giugno del 1995; nello stesso periodo la quota del marco è rimasta relativamente stabile, attorno al 10%, mentre quella dello yen è cresciuta dal 5 al 18%. Sul mercato dei cambi, in base alle rilevazioni condotte nell'aprile del 1995, circa l'80% delle transazioni a pronti effettuate nelle principali piazze mondiali ha comportato uno scambio di dollari contro un'altra valuta; la percentuale è pari al 37 per il marco e al 24 per lo yen.

Il dollaro continua peraltro a costituire la principale valuta nelle riserve ufficiali delle banche centrali. Dopo il calo degli anni settanta e ottanta, la quota di dollari nelle riserve in valute convertibili detenute da tutti i paesi del mondo è nuovamente cresciuta nel corso degli anni novanta, soprattutto a causa della considerevole accumulazione di dollari nell'Estremo Oriente; alla fine del 1994 essa aveva raggiunto il 57%, mentre per il marco e per lo yen la quota era pari al 15 e all'8%, rispettivamente.

3. Il regime valutario

Per regime valutario si intende l'insieme delle norme che disciplinano i pagamenti dei residenti con l'estero. Tali norme possono essere di natura amministrativa, nella forma di vincoli all'utilizzo della valuta nazionale nelle transazioni con l'estero (convertibilità), o di natura fiscale (imposte sugli scambi di valuta estera); storicamente le prime hanno avuto, e hanno tuttora, una maggiore rilevanza nel disciplinare i pagamenti internazionali. La convertibilità esterna della valuta nazionale è quindi uno degli aspetti essenziali, ma non l'unico, di un regime valutario. Una valuta si definisce pienamente convertibile allorché residenti e non-residenti possono scambiarla liberamente con valuta straniera a un tasso di cambio unico, non necessariamente fisso, per regolare qualsivoglia tipo di transazione con l'estero, di parte corrente o in conto capitale (v. McKinnon, 1979, p. 6).

Alla convertibilità sono stati imposti storicamente diversi limiti a seconda della tipologia di transazioni con l'estero. Nel sistema di Bretton Woods, si preferì consentire la convertibilità per le sole transazioni relative agli scambi di beni e servizi (convertibilità di parte corrente) e fu accettato che venissero mantenute restrizioni all'acquisto di valuta per le transazioni relative ai movimenti di capitale (non-convertibilità in conto capitale), allo scopo di salvaguardare la stabilità dei cambi e l'autonomia delle politiche macroeconomiche nazionali (v. McKinnon, 1993). Al Fondo Monetario Internazionale fu quindi assegnato il compito di assistere i paesi membri nel realizzare un sistema multilaterale di pagamenti per le transazioni di parte corrente e nel rimuovere le restrizioni valutarie allo scopo di sviluppare il commercio mondiale (art. I dello Statuto). Inoltre, fu fatto divieto di introdurre restrizioni sui pagamenti di parte corrente senza l'approvazione del Fondo Monetario (art. VIII, sez. 2); nessun obbligo equivalente venne previsto per pagamenti in conto capitale.

Dopo il secondo conflitto mondiale, la convertibilità di parte corrente fu ripristinata: negli Stati Uniti e in Canada già nel 1945, nella maggior parte dei paesi europei alla fine del 1958, in Giappone nel 1964. Attualmente, anche se permangono in quasi tutti i paesi limitazioni di tipo commerciale alle importazioni, sotto forma di licenze, le restrizioni alla convertibilità di parte corrente sono scomparse in tutti i paesi industrializzati e vengono continuamente ridotte in quelli non industrializzati: in questi ultimi la riduzione ha tratto impulso dal processo di riforma economica e di liberalizzazione, avviato nella seconda metà degli anni ottanta. Sebbene solo 8 paesi non industrializzati mantengano ancora restrizioni quantitative all'acquisto di valuta per il pagamento delle importazioni, permangono altri tipi di limitazioni: regimi di cambi multipli che discriminano tra i diversi tipi di importazioni (ancora in vigore in una decina di paesi alla fine del 1994); il deposito previo sull'acquisto di valuta per le importazioni (in vigore in 9 paesi alla fine del 1993); tasse e/o sussidi sugli scambi di valuta; arretrati di pagamento conseguenti a provvedimenti delle autorità nazionali (in vigore in 52 paesi alla fine del 1993); vincoli ai pagamenti di servizi (in vigore in 79 paesi alla fine del 1993), ancora largamente diffusi sotto forma di limiti all'acquisto di valuta per spese di viaggio, per cure mediche e per l'istruzione.

La piena convertibilità per le transazioni in conto capitale è stata conseguita in tutti i paesi industrializzati solo all'inizio degli anni novanta, a conclusione di un lento processo di liberalizzazione avviato sul finire degli anni settanta e progredito, con velocità diversa nei singoli paesi, di pari passo con la riforma e la deregolamentazione dei mercati finanziari nazionali. In alcuni casi permangono, tuttavia, restrizioni per quanto riguarda gli investimenti esteri in particolari settori e taluni strumenti finanziari. Nella maggior parte dei paesi non industrializzati, invece, sono in vigore limitazioni alla convertibilità in conto capitale, sebbene dalla seconda metà degli anni ottanta siano stati compiuti significativi progressi sulla strada della liberalizzazione. Tra il 1991 e il 1993, una decina di quei paesi ha stabilito la piena convertibilità della propria valuta, aggiungendosi ai circa altrettanti che già da tempo lo avevano fatto; complessivamente, 130 paesi mantenevano ancora qualche restrizione alla fine del 1993.

4. Il regime di cambio

I diversi regimi di cambio si collocano tra due estremi: il cambio fisso e il cambio fluttuante. Nel primo caso le autorità si impegnano ad acquistare e vendere la moneta nazionale contro valuta estera a un prezzo fisso (parità), mantenendo quindi invariato il tasso di cambio. Nel secondo caso, invece, il rapporto di scambio tra due valute viene determinato esclusivamente dalle forze di mercato, che equilibrano la domanda e l'offerta.

Di fatto la grande maggioranza dei regimi esistenti si discosta dai casi estremi sopraindicati, differenziandosi per il maggiore o minore grado di flessibilità del cambio. La forma più radicale di cambio fisso è quella in cui un paese attribuisce corso legale alla valuta di un altro paese, come nel caso della lira italiana nella Repubblica di San Marino o del dollaro statunitense a Panama e in Liberia. Le unioni monetarie sono invece accordi tra più paesi all'interno dei quali circola un'unica valuta, la cui emissione è affidata a un'istituzione sovranazionale. Ad esempio, i sei paesi che formano l'Unione monetaria dell'Africa centrale hanno adottato quale valuta comune il franco CFA (o franco della Comunità Finanziaria Africana), emesso dalla Banque des États de l'Afrique Centrale (BEAC), il cui cambio è fissato al franco francese. In un regime di currency board (commissariamento valutario) il cambio è rigidamente fisso e la valuta nazionale viene ancorata alla valuta di un grande paese; per accrescere la fiducia degli operatori nel mantenimento del vincolo di cambio si stabilisce che la quantità di moneta nazionale debba corrispondere a una proporzione fissa delle riserve ufficiali detenute nella valuta a cui è ancorato il cambio. Accordi di questo genere erano in vigore alla fine del 1995 in Argentina, Estonia, Hong Kong, Lituania e Singapore.

In generale i regimi a cambio fisso ammettono la possibilità di modificare le parità allo scopo di correggere gli squilibri. Allorché le parità vengono fatte variare in modo discontinuo e discrezionale, il regime si definisce a parità ‛fisse ma aggiustabili' (adjustable peg): il Sistema Monetario Europeo (SME) e il sistema di cambi previsto dagli accordi di Bretton Woods rientrano in questa fattispecie. Laddove invece le parità vengono modificate automaticamente in relazione all'andamento di qualche indicatore, il regime si definisce a parità ‛striscianti' (crawling peg). In generale, nei regimi in cui il cambio è fisso i corsi delle valute mantengono pur sempre la possibilità di fluttuare intorno alla parità entro margini di oscillazione più o meno ristretti: nel sistema di Bretton Woods i margini erano fissati a ± 1%, rispetto alla parità; nel Sistema Monetario Europeo al 2,25%, fino a quando nel 1993 furono elevati a ± 15%.

Anche i regimi di cambio flessibile si discostano, nei casi concreti, dai modelli di libera fluttuazione descritti nella teoria. Nessun paese, infatti, abbandona completamente la determinazione del cambio al solo interagire delle forze di mercato. Di fatto, le autorità si riservano di intervenire, secondo le circostanze, utilizzando vari strumenti: tassi di interesse, operazioni di vendita o di acquisto di valuta, restrizioni valutarie. L'intervento delle autorità può avere l'obiettivo di raggiungere un dato livello del cambio oppure semplicemente quello di attenuarne la variabilità. Per guidare la politica del cambio, le autorità possono avvalersi di diversi indicatori, quali il cambio reale, il saldo della bilancia dei pagamenti, il livello delle riserve ufficiali.

La letteratura accademica ha individuato numerosi criteri per determinare il regime di cambio ottimale di un paese (v. Flood e Marion, 1992). Tali criteri possono essere raggruppati in quattro grandi filoni, secondo che la scelta del regime sia basata su: a) la natura dei disturbi esogeni, ossia delle variazioni inattese delle condizioni di domanda e offerta, che colpiscono il paese; b) le caratteristiche strutturali dell'economia; c) l'efficacia delle politiche antinflazionistiche; d) gli obiettivi di integrazione regionale. Recentemente, accanto alle considerazioni prettamente economiche è stato dato rilievo anche agli elementi di carattere politico-istituzionale nella scelta del regime di cambio ottimale (v. Eichengreen, 1993). Poiché le interrelazioni tra questi criteri sono rilevanti e le implicazioni di ciascuno di essi non sono univoche, nella teoria economica resta vasto il dissenso sul regime ottimale e, come si dirà, l'attuale sistema monetario internazionale si caratterizza per la diversità delle soluzioni adottate dai singoli paesi.

Per quanto riguarda il criterio basato sull'origine dei disturbi esogeni, sviluppato soprattutto negli anni cinquanta e sessanta, l'analisi si fonda sulla capacità dei diversi regimi di stabilizzare il prodotto interno. Le principali conclusioni cui perviene questo filone possono essere così sintetizzate. I cambi flessibili sarebbero preferibili a quelli fissi per minimizzare le variazioni del prodotto nazionale (output) a fronte di disturbi esogeni provenienti dall'estero, in quanto sarebbero in grado di isolare l'economia (v. Friedman, 1953); la variazione dei prezzi esteri verrebbe allora compensata da una variazione di uguale ammontare e di segno opposto del cambio, che manterrebbe invariato il valore esterno della valuta nazionale. Va peraltro osservato che gli argomenti in favore della fluttuazione del cambio furono sviluppati nel corso degli anni sessanta in un mondo di limitata mobilità dei capitali, di ridotta integrazione commerciale tra i paesi industrializzati e di forte leadership nella gestione del sistema monetario internazionale da parte degli Stati Uniti, un paese poco importatore - a causa delle sue dimensioni - e quindi relativamente al riparo dalle ripercussioni interne delle variazioni del tasso di cambio.

Se si guarda invece ai disturbi di origine interna - è questo il caso, ad esempio, dell'unificazione monetaria tedesca - il criterio di minimizzare le oscillazioni dell'output porta a preferire i cambi flessibili solo se tali disturbi hanno origine nel settore reale, poiché le variazioni della domanda interna verrebbero allora compensate con variazioni della domanda estera attivate dal mutamento del cambio. Viceversa, i cambi fissi sono preferibili quando i disturbi interni abbiano natura monetaria; uno squilibrio tra la domanda e l'offerta di moneta nazionale verrebbe, infatti, compensato da una variazione delle riserve ufficiali del paese.

Per quanto attiene alla scelta del regime ottimale di cambio fondata sulle caratteristiche strutturali dell'economia, numerosi sono gli aspetti rilevanti. Tra questi, il grado di apertura nei confronti dell'estero, misurato, ad esempio, dalla percentuale di importazioni ed esportazioni sul prodotto; ma anche sulla base di questo criterio non è possibile pervenire a scelte univoche. È stato argomentato che in una economia molto aperta la volatilità del cambio può provocare una ‛disintermediazione' della valuta nazionale, nelle sue funzioni di mezzo di pagamento, riserva di valore o unità di misura (v. McKinnon, 1963). Ma è stato anche sostenuto che un'elevata apertura verso l'estero espone il paese a disturbi esogeni che, come ricordato in precedenza, è difficile correggere senza ricorrere alla variazione del cambio. Quest'ultimo argomento assume particolare rilievo per paesi che sono importanti esportatori di materie prime e quindi più esposti alle fluttuazioni delle ragioni di scambio (v. Blundell-Wignall e Gregory, 1990); alla fine degli anni ottanta, ad esempio, l'Australia e la Nuova Zelanda scelsero un regime di cambio flessibile per contrastare l'apprezzamento del cambio reale derivante dal miglioramento delle loro ragioni di scambio. Un secondo aspetto strutturale rilevante è il livello d'integrazione del mercato finanziario nazionale con quello mondiale. Con una forte integrazione e un regime di cambio fisso, il tasso di interesse nazionale è determinato sul mercato mondiale, mentre, secondo la teoria economica, un regime di cambio flessibile dovrebbe consentire di mantenere un certo grado di autonomia nella determinazione del tasso di interesse. A questo proposito va sottolineato che, nel contesto di un'economia mondiale caratterizzata da un forte e crescente livello di interdipendenza economica tra paesi, nessun regime di cambio, nemmeno la libera fluttuazione, è in grado di isolare completamente un'economia nazionale. I costi imposti dall'interdipendenza sono del resto compensati dai benefici che essa produce in termini di maggior benessere economico e di pace tra le nazioni.

Il grado di indicizzazione è un altro importante aspetto di cui tenere conto nella scelta del regime di cambio (v. Flood e Marion, 1992). Se l'indicizzazione è elevata, la svalutazione del cambio risulta uno strumento inefficace a controllare la domanda interna e stimolare quella estera, poiché le variazioni del cambio nominale si trasmettono rapidamente ai prezzi e ai salari lasciando invariato cambio e salari reali. Peraltro, è stato osservato che il grado di indicizzazione di un'economia non è indipendente dal regime di cambio adottato.

Il terzo filone della letteratura, che ha origine nel dibattito tra regole e discrezionalità, ha messo in evidenza come, al fine di ridurre l'inflazione, un cambio fisso sia preferibile a un cambio flessibile. Fissare il cambio disciplina la conduzione della politica monetaria e fiscale. Inoltre, il paese che ancora la propria valuta a quella di un paese a più bassa inflazione, adotta di fatto la politica monetaria di quest'ultimo, accrescendo la credibilità del proprio impegno antinflazionistico e favorendo un più rapido adeguamento del comportamento da parte di operatori privati, famiglie e imprese; ne possono derivare anche modifiche strutturali, quali l'eliminazione delle indicizzazioni di prezzi e salari o il calo del premio al rischio sui tassi di interesse, che a loro volta contribuiscono al rientro dell'inflazione. Un esempio importante dell'efficacia dei cambi fissi nel promuovere la riduzione dell'inflazione è costituito dallo SME nel corso di tutti gli anni ottanta.

Infine, l'obiettivo che si prefigge il quarto filone è quello di salvaguardare e rafforzare l'integrazione commerciale ed economica tra un gruppo di paesi. Anche in questo caso vengono privilegiati cambi relativamente stabili, attraverso i quali sviluppare gli scambi commerciali, evitare svalutazioni competitive, favorire la libera circolazione dei fattori produttivi - capitale e lavoro - e la loro efficiente allocazione. Da questo punto di vista lo SME costituisce un importante esempio di regime di cambio sotto la cui egida si è andata realizzando una crescente integrazione tra i paesi dell'area interessata (v. Padoa-Schioppa, 1992, p. 57). È chiaro che vi è una reciproca influenza tra regime di cambio e livello di integrazione - e anche contenimento dell'inflazione - giacché la presenza di forti legami commerciali ed economici favorisce la stabilità del cambio; e infatti le oscillazioni del dollaro statunitense nei confronti della valuta canadese, la cui economia è fortemente integrata con quella americana, sono più contenute delle oscillazioni nei confronti del marco e dello yen (v. Frenkel e altri, 1991, p. 12).

Nel corso degli anni ottanta e novanta i regimi di cambio utilizzati dai singoli paesi si sono andati diversificando con una tendenza verso l'accrescimento della flessibilità (v. tab. I). Secondo la rilevazione effettuata periodicamente dal Fondo Monetario Internazionale, la percentuale di paesi con cambi fissi o a flessibilità limitata è diminuita costantemente, scendendo dal 74% del 1978 al 47% del 1994. In tale anno i paesi che privilegiavano cambi più flessibili risultavano essere 94, dei quali 33 con un regime di fluttuazione controllata (managed floating) e 61 a fluttuazione libera (independently floating). La tendenza alla flessibilità del cambio si è accentuata negli anni novanta: tra il 1991 e il 1994, 39 dei 45 paesi che hanno modificato il regime di cambio ne hanno adottato uno più flessibile, mentre solo 6 si sono mossi in direzione opposta.

Tabella 1

5. Il regime di riserva e la liquidità internazionale

Per regime di riserva si intende l'insieme degli strumenti - detti liquidità internazionale - di cui le autorità dispongono per regolare gli squilibri dei pagamenti con l'estero o per influenzare il livello esterno della propria valuta (v. Crockett, 1992). Nella sua accezione più ampia la liquidità internazionale comprende non solo le attività che, stricto sensu, costituiscono le riserve ufficiali e che possono essere liberamente utilizzate (liquidità incondizionata), ma anche la liquidità che può essere mobilizzata con il ricorso ai mercati finanziari internazionali o mediante i prestiti di organismi internazionali (liquidità condizionata). Storicamente la liquidità internazionale è stata dapprima costituita da metalli preziosi - segnatamente dall'argento e dall'oro (sistema bimetallico e gold standard, in vigore dagli inizi dell'Ottocento sino alla prima guerra mondiale) - e in seguito anche dal dollaro e dalla sterlina inglese che erano convertibili in oro (gold exchange standard).

Attualmente il regime di riserva è basato su una pluralità di strumenti: valute convertibili, posizione di riserva presso il Fondo Monetario Internazionale, Diritti Speciali di Prelievo (DSP), oro (v. tab. II). Caratteristica essenziale dell'attuale regime di riserva è che lo sviluppo dei mercati finanziari mondiali e la libertà dei movimenti di capitale consentono ai paesi di approvvigionarsi di liquidità a seconda delle esigenze, dal momento che quest'ultima si crea endogenamente attraverso la concessione di crediti internazionali. Per questo aspetto l'attuale sistema è radicalmente diverso da quello di Bretton Woods, nel quale la creazione di liquidità, determinata dalla produzione aurea e dal disavanzo della bilancia dei pagamenti americana, era prevalentemente esogena al sistema.

Tabella 2

Poiché è impossibile valutare l'ammontare di risorse mobilizzabili con il ricorso all'indebitamento, abitualmente la liquidità internazionale viene misurata in base alle riserve ufficiali possedute da un paese. Alla fine del 1994, le riserve lorde dei 180 paesi membri del Fondo Monetario Internazionale ammontavano a oltre 1.500 miliardi di dollari, così ripartite: 1.130 miliardi in valute convertibili, prevalentemente in dollari; 23 miliardi di DSP; 46 miliardi sotto forma di posizione di riserva sull'FMI; circa 350 miliardi di riserve auree valutate ai prezzi di mercato. Tra le valute convertibili possedute dalle banche centrali europee sono anche compresi gli ECU (European Currency Unit) emessi dall'Istituto Monetario Europeo in contropartita di oro e dollari, che vengono abitualmente utilizzati per regolare i saldi debitori derivanti dalle operazioni di intervento effettuate nell'ambito degli accordi di cambio dello SME; alla fine del 1994 gli ECU così creati ammontavano a circa 70 miliardi di dollari.

In seguito alla decisione degli Stati Uniti di abolire la convertibilità aurea del dollaro (15 agosto 1971) e all'abbandono definitivo (1973) del regime di cambi fissi che era stato stabilito con gli accordi di Bretton Woods (v. cap. 7), l'oro ha cessato di essere utilizzato come mezzo di regolamento, anche se esso è liberamente convertibile sul mercato: di conseguenza il ruolo del metallo prezioso nelle riserve ufficiali è andato diminuendo. La quantità di oro detenuta dalle banche centrali è scesa da oltre 1 miliardo di once alla fine del 1973 a circa 900 milioni alla fine del 1994; la quota dell'oro nelle riserve si è dimezzata, passando dal 45 al 22%; la quota delle valute convertibili è cresciuta dal 48 al 73% e quella dei DSP si è ridotta all'1,5%, poiché dal 1981 non sono state più effettuate allocazioni di DSP da parte dell'FMI. Nello stesso periodo la distribuzione delle riserve ufficiali tra paesi industrializzati e non industrializzati si è modificata a favore di questi ultimi, passando dal 25% delle riserve mondiali nel 1973, a circa il 40% nel 1994. In relazione all'ammontare annuo delle importazioni, le riserve totali lorde dei paesi industrializzati, alla fine del 1994, risultavano pari a circa il 31%, quelle dei paesi non industrializzati al 44.

I fattori che concorrono a determinare la domanda di riserve di un paese sono molteplici: l'ammontare degli scambi con l'estero, la dimensione degli squilibri esterni, gli obiettivi della politica del cambio, l'esigenza di presidiare la posizione finanziaria esterna (v. Buira, 1995). Le indagini empiriche effettuate mostrano che vi è una relazione stabile tra domanda di riserve e livello del prodotto interno, tra propensione a importare e variabilità delle entrate e delle uscite della bilancia dei pagamenti. È stato osservato che l'elasticità della domanda di riserve rispetto al reddito e agli scambi con l'estero è più elevata nei paesi non industrializzati che in quelli industrializzati e che essa è aumentata negli anni successivi alla crisi debitoria dei paesi in via di sviluppo (PVS). Entrambi i fenomeni riflettono il fatto che i paesi non industrializzati non hanno facile accesso ai mercati internazionali dei capitali per soddisfare esigenze impreviste di liquidità e quindi, a parità di ogni altra condizione, debbono mantenere uno stock di riserve ufficiali superiore a quello dei paesi industrializzati. È stato altresì rilevato che l'elasticità della domanda di riserve è più bassa per i paesi - come gli Stati Uniti - la cui valuta costituisce uno strumento di riserva internazionale.

6. Le regole dell'aggiustamento

I tre elementi del sistema monetario internazionale fin qui esaminati (regime valutario, regime di cambio, liquidità internazionale) concorrono a definire sia la sostenibilità degli squilibri esterni, sia i meccanismi cui il paese può fare ricorso per fronteggiare i disturbi esogeni e per ripristinare l'equilibrio desiderato; l'insieme di questi elementi determina le regole, formali e informali, che presiedono al cosiddetto processo di aggiustamento esterno di un paese.

La caratteristica fondamentale dell'attuale sistema monetario è la libertà di cui i paesi, soprattutto quelli di maggiore dimensione, dispongono nel gestire il processo di aggiustamento. A questo riguardo, il grado di libertà era molto minore nel regime di Bretton Woods, caratterizzato da cambi fissi e limitata mobilità dei capitali. I paesi dispongono dunque oggi di varie possibilità di scelta. La prima tra queste è se finanziare o eliminare gli squilibri della bilancia dei pagamenti: l'elevata mobilità internazionale dei capitali e lo spessore dei mercati permettono infatti di rinviarne la correzione, anche per periodi lunghi. Una seconda scelta, che discende dalla presenza diffusa di rapporti di cambio fluttuanti, soprattutto tra le grandi valute, è se correggere gli squilibri con una variazione del cambio nominale o attraverso politiche di contenimento della domanda interna.

L'integrazione e l'interdipendenza economica tra i paesi sono fortemente aumentate con lo sviluppo degli scambi internazionali di beni, servizi e capitali. Ciò significa, in primo luogo, che i saldi di parte corrente dei singoli paesi non sono tra loro indipendenti: al disavanzo di un paese corrisponde l'avanzo di almeno un altro, e la sua correzione comporta un movimento di segno contrario nei saldi del resto del mondo. Inoltre, le scelte di politica economica dei paesi di maggiori dimensioni hanno per l'economia mondiale forti conseguenze (esternalità) di cui occorrerebbe tenere conto. L'interdipendenza determina l'esigenza che il processo di aggiustamento sia per quanto possibile coordinato internazionalmente, allo scopo di individuarne i legami di dipendenza e risolvere le esternalità nella maniera più efficace.

Il Fondo Monetario Internazionale ha una funzione assai importante nel gestire il processo di aggiustamento e nel promuovere il coordinamento delle politiche economiche dei paesi membri. Innanzitutto il suo statuto prevede che sia fornita assistenza finanziaria per correggere gli squilibri, evitando di fare ricorso a provvedimenti dannosi per il benessere nazionale e internazionale (art. I). In secondo luogo, il Fondo ha il compito di sorvegliare che i paesi non facciano ricorso a politiche economiche che ostacolino l'aggiustamento esterno o conseguano iniqui vantaggi concorrenziali (art. IV). La sorveglianza del Fondo riguarda sia l'adeguatezza delle politiche del singolo paese in relazione alla esigenza di correzione degli squilibri interni ed esterni (sorveglianza bilaterale), sia la verifica delle compatibilità internazionali di tali politiche (sorveglianza multilaterale); in questo caso essa si esercita soprattutto nei confronti dei paesi di maggiori dimensioni.

7. Il sistema di Bretton Woods

Sul finire del secondo conflitto mondiale, nel luglio del 1944, i delegati dei 44 paesi riuniti a Bretton Woods (Stati Uniti) definirono l'architettura del nuovo sistema monetario internazionale. Nelle loro deliberazioni furono guidati da due motivi ispiratori: la consapevolezza degli effetti deleteri delle politiche protezionistiche e delle svalutazioni competitive degli anni trenta; la convinzione che un ruolo attivo della politica economica avrebbe potuto accrescere il benessere della collettività. I negoziatori mirarono a realizzare un sistema che promuovesse il libero scambio, stabilizzasse i cambi e assicurasse l'autonomia delle politiche economiche nazionali in un contesto di cooperazione. Ne scaturì un sistema basato su due elementi: regole di comportamento per i paesi partecipanti; nuove istituzioni multilaterali sovranazionali create per vigilare sul rispetto di tali regole e per favorire la cooperazione internazionale.

Per quanto riguarda le regole, fu concordato di fissare le parità di cambio delle valute nei confronti del dollaro, e di questo nei confronti dell'oro, parità che si sarebbero potute modificare solo in presenza di squilibri fondamentali. Si sancì il divieto di introdurre restrizioni nelle transazioni correnti con l'estero (beni e servizi), ma venne consentito l'uso di restrizioni nei movimenti di capitale a breve termine. Furono creati il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale: al primo venne affidato il compito di vigilare sul sistema di cambi fissi, promuovere la convertibilità delle valute e fornire finanziamenti per correggere gli squilibri delle bilance dei pagamenti; alla seconda il compito di assistere finanziariamente il processo di sviluppo. Per completare l'assetto istituzionale era previsto un terzo organismo, che avrebbe dovuto sorvegliare e promuovere la liberalizzazione dei commerci; tuttavia, il negoziato per la sua costituzione, avviato nel 1946 con la Conferenza dell'Avana, si concluse alcuni anni dopo con un nulla di fatto. Per la realizzazione di tale istituzione si è dovuto attendere sino al 1994, quando è stata creata l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO, World Trade Organization).

Nel marzo del 1947 entrava in funzione il Fondo Monetario Internazionale. Tuttavia, la piena realizzazione del sistema di Bretton Woods richiese ancora un certo numero di anni, necessari per rimuovere le numerose restrizioni ai pagamenti correnti e per risolvere il problema della scarsità di riserve ufficiali (v. Bordo, 1993). Nell'immediato dopoguerra la liquidità internazionale era per la maggior parte concentrata negli Stati Uniti che, in seguito agli afflussi di oro avvenuti nel corso del conflitto, detenevano circa i due terzi delle riserve auree mondiali. La scarsità di liquidità era aggravata dal fatto che i paesi europei e quelli asiatici soffrivano di forti disavanzi nella bilancia commerciale a causa del fabbisogno di importazioni che si era reso necessario per sostenere la ricostruzione; da parte loro, gli Stati Uniti soddisfacevano quella domanda di importazioni esportando e accumulando avanzi commerciali. Per economizzare riserve, l'Europa e il Giappone fecero ricorso a estesi controlli e a restrizioni dei pagamenti, realizzati sotto forma di licenze e quote sulle importazioni e sulle esportazioni, accordi bilaterali, razionamento della valuta. Lo smantellamento di tali restrizioni fu completato solo sul finire degli anni cinquanta, allorché fu ripristinata la convertibilità di parte corrente delle valute dei principali paesi europei. Un impulso essenziale in tal senso fu dato dal Piano Marshall, con cui tra il 1948 e il 1952 gli Stati Uniti elargirono circa 13 miliardi di dollari all'Europa occidentale, equivalenti al 3% circa del reddito dei paesi beneficiari. Ebbe notevole influenza anche l'Unione dei Pagamenti Europea (EPU, European Payments Union) che, fungendo da stanza di compensazione per i pagamenti internazionali, consentì ai paesi membri di economizzare l'impiego di riserve ufficiali.

Conseguita la convertibilità delle valute in Europa, il sistema monetario si venne a configurare secondo i canoni ideati a Bretton Woods: ogni paese manteneva la parità del proprio tasso di cambio nei confronti del dollaro statunitense entro un margine di oscillazione pari a ± 1%, mentre gli Stati Uniti mantenevano la parità del dollaro nei confronti dell'oro (35 dollari l'oncia), intervenendo sul mercato dell'oro. Permanevano in quasi tutti i paesi restrizioni ai movimenti internazionali dei capitali. Nel decennio che seguì, l'economia dei principali paesi industrializzati conobbe una fase di crescita sostenuta e di elevata stabilità dei prezzi, dei tassi di interesse e dei cambi (v. Bordo, 1993, p. 81).

Negli stessi anni sessanta si vennero tuttavia manifestando i problemi cruciali che - rimasti irrisolti - avrebbero successivamente provocato il crollo del sistema dei cambi fissi. Essi riguardavano la liquidità internazionale, la fiducia nel dollaro, l'asimmetria negli oneri di aggiustamento.

Il problema della liquidità e quello della fiducia erano congiuntamente determinati dalla mancanza di un meccanismo che creasse moneta internazionale coerentemente con le esigenze degli scambi e della produzione. Poiché la produzione aurea era concentrata in pochi paesi (Unione Sovietica, Sudafrica) ed era potenzialmente insufficiente, la creazione di liquidità venne a dipendere prevalentemente dalla emissione di passività ufficiali da parte degli Stati Uniti, sotto forma di riserve ufficiali in dollari accumulate dal resto del mondo. Ma la crescita delle passività degli Stati Uniti, necessaria per soddisfare la domanda di liquidità, riduceva la copertura aurea dei dollari, e ciò minava la fiducia nella piena convertibilità in oro della valuta americana. Robert Triffin (v., 1960) vide e indicò già agli inizi degli anni sessanta che il sistema ideato a Bretton Woods era destinato o a generare una scarsità di riserve - se gli Stati Uniti avessero limitato la crescita delle loro passività allo scopo di garantirne la piena convertibilità in oro - oppure a sfociare in una crisi di fiducia, se i disavanzi esterni americani fossero cresciuti in linea con la domanda di liquidità internazionale.

Il terzo problema, l'asimmetria dell'aggiustamento, riguardava innanzi tutto il fatto che l'onere della correzione era maggiore per i paesi in disavanzo che per quelli in avanzo, a causa dell'inevitabile limitatezza delle fonti ufficiali di finanziamento degli squilibri esterni. Esso riguardava anche il cosiddetto ‛problema dell'ennesimo paese', cioè il ruolo peculiare degli Stati Uniti nel sistema. Sebbene la configurazione originaria non lo prevedesse, di fatto gli Stati Uniti vennero ad assumere un ruolo passivo in relazione agli impegni di cambio nei confronti degli altri paesi e agli aggiustamenti delle parità, ruolo che veniva giustificato con l'esigenza di mantenere la parità del cambio oro-dollaro (v. McKinnon, 1993). Gli Stati Uniti sostenevano che il disavanzo della bilancia dei pagamenti americana si era reso necessario per soddisfare le esigenze di liquidità internazionale. Da parte loro gli Europei lamentavano il fatto che il mancato aggiustamento dello squilibrio esterno americano esportava inflazione nel resto del mondo e costituiva una forma inaccettabile di ‛signoraggio' perché veniva finanziato con l'emissione di passività da parte degli Stati Uniti.

Tutti e tre questi problemi erano già stati chiaramente identificati nei primi anni sessanta (v. Machlup, 1964); tuttavia, nel dibattito di quegli anni prese il sopravvento il problema della liquidità internazionale, nella convinzione che, risolto questo, gli altri due si sarebbero accomodati di conseguenza. Le principali proposte di riforma del sistema si incentrarono quindi sul modo migliore di fornire liquidità internazionale indipendentemente dall'andamento della bilancia dei pagamenti americana. La soluzione ideata fu l'introduzione dei DSP, un'attività di riserva la cui creazione fu affidata al Fondo Monetario Internazionale. A distanza di anni si può osservare che lo sviluppo considerevole dei mercati finanziari internazionali avrebbe consentito di risolvere il problema della liquidità, anche senza i DSP. Tra il 1963 e il 1967 il mercato degli eurodollari - misurato dai depositi al netto del circuito interbancario - si accrebbe da 7 miliardi di dollari a oltre 91 miliardi.

Gli altri due aspetti problematici restarono irrisolti e furono acuiti dalla crescente mobilità internazionale dei capitali che rese più difficile fronteggiare le pressioni speculative e complicò la gestione della politica monetaria nei singoli paesi. La fiducia nel dollaro venne erosa dalla crescita dell'inflazione, dall'aumento del disavanzo della bilancia dei pagamenti (v. tabb. III, IV e V) e dalla riduzione dello stock di riserve auree negli Stati Uniti. Gli altri principali paesi industrializzati divennero più riluttanti ad accumulare dollari nelle loro riserve, e iniziarono a chiederne la conversione in oro. Allo stesso tempo si rivelò impossibile modificare tempestivamente le parità per correggere gli squilibri esterni: a ciò si opponevano sia i paesi in disavanzo (Stati Uniti, Regno Unito), per motivi di prestigio politico, sia quelli in avanzo (Germania), per il timore di perdere competitività. In generale, tutti i grandi paesi incontrarono difficoltà a subordinare la loro politica economica alle esigenze del coordinamento internazionale.

Tabella 3
Tabella 4
Tabella 5

La crisi del sistema di Bretton Woods evidenziò, ancora una volta, l'impossibilità per una valuta di conciliare per lungo tempo e con successo le funzioni di moneta nazionale e internazionale. È infatti pressoché impossibile che nel corso del tempo le esigenze sistemiche di cui si fa carico il paese leader - assicurare la stabilità monetaria, fornire adeguata liquidità, rispettare le regole dell'aggiustamento - coincidano sempre con gli interessi nazionali dello stesso. È quindi inevitabile, nel caso di conflitto tra gli obiettivi esterni e quelli interni, che siano questi ultimi a prevalere; il ‛paese ancora' abdicherà quindi a una o più delle sue funzioni mettendo in crisi il sistema.

Sul finire degli anni sessanta l'aumento dell'inflazione negli Stati Uniti, conseguente all'espansione della spesa pubblica per finanziare il conflitto nel Vietnam e l'ampliamento dello Stato sociale, fece precipitare la crisi definitiva del sistema. Nel 1968 i principali paesi industrializzati abbandonarono la politica di difesa comune della quotazione ufficiale dell'oro; fu istituito il doppio mercato dell'oro con quotazioni libere per i privati e scambi al prezzo fisso di 35 dollari l'oncia tra le autorità ufficiali; il prezzo dell'oro sul mercato privato aumentò rapidamente, evidenziando la sopravvalutazione del dollaro. Nel 1970 il deficit americano si aggravò considerevolmente e i flussi di capitali statunitensi verso l'Europa e il Giappone provocarono tensioni sui cambi e sui prezzi.

Il 15 agosto del 1971, temendo una massiccia conversione di dollari in oro da parte della Francia e del Regno Unito, le autorità americane sospesero temporaneamente la convertibilità aurea del dollaro, accompagnandola con altre misure volte a sostenere la bilancia dei pagamenti e a contenere l'inflazione. Poche settimane dopo questa decisione, il Giappone decise di lasciare fluttuare lo yen e la Francia introdusse un doppio mercato dei cambi. Nel dicembre dello stesso anno i maggiori paesi industrializzati (Gruppo dei Dieci), riuniti presso la Smithsonian Institution di Washington, concordarono nuove parità di cambio, svalutando il dollaro nei confronti dell'oro e delle altre valute, e fissando più ampi margini di fluttuazione intorno alla parità del ± 2,25%. La nuova configurazione delle parità ebbe tuttavia vita breve: dopo un susseguirsi di crisi valutarie, nei primi mesi del 1973 i principali paesi industrializzati, in rapida successione, decisero di lasciar fluttuare le loro valute.

8. Il sistema dopo il 1973

La dissoluzione del sistema di Bretton Woods fu causata, oltre che dalla impossibilità per il dollaro di svolgere a lungo il doppio ruolo di moneta nazionale e internazionale, anche dal conflitto tra quattro obiettivi tra loro inconciliabili: il libero scambio, la piena mobilità dei capitali, la stabilità dei tassi di cambio, l'autonomia delle politiche macroeconomiche nazionali. Questi quattro elementi, presi insieme, formano un ‛quartetto inconciliabile' e non possono coesistere simultaneamente in un sistema economico (v. Padoa-Schioppa, 1992, p. 136).

La soluzione ideata a Bretton Woods - di limitare la mobilità dei capitali allo scopo di salvaguardare l'autonomia delle politiche nazionali in un contesto di cambi fissi e di promozione del libero scambio (v. McKinnon, 1993) - fu messa in crisi da due fattori: il progressivo sviluppo di mercati finanziari internazionali globali e fortemente integrati, sottratti alle regolamentazioni ufficiali e capaci di esercitare pressioni notevoli sui tassi di cambio, e la difficoltà di subordinare le politiche nazionali alle esigenze esterne, soprattutto negli Stati Uniti, ‛paese ancora' del sistema. Nel 1973 si cercò di uscire dalle incompatibilità del ‛quartetto' lasciando fluttuare i cambi, nella speranza che ciò avrebbe assicurato la compatibilità delle politiche nazionali. Di fatto, nel corso dei decenni successivi ciascuno dei quattro elementi fu limitato in qualche misura per fare spazio agli altri, facendo anche ricorso in alcune occasioni al tentativo di restringere i flussi commerciali.

La fluttuazione dei cambi fra le principali valute fu dapprima incontrastata. In seguito alla prima crisi petrolifera, nel 1973, la preoccupazione principale delle autorità fu di consentire un aggiustamento differenziato delle singole economie. Tuttavia, già nel 1977, in seguito all'emergere di un ampio disavanzo corrente negli Stati Uniti, il cambio divenne nuovamente un obiettivo importante della politica economica americana. In quell'anno si cercò di favorire un deprezzamento del dollaro nei confronti del marco e dello yen; l'indebolimento che ne conseguì l'anno seguente fu giudicato ben presto eccessivo. Negli anni successivi, e soprattutto dopo la seconda crisi petrolifera e l'inizio dell'amministrazione Reagan, il dollaro si apprezzò nuovamente e notevolmente, sostenuto da una combinazione di politica monetaria restrittiva e di politica fiscale espansiva; per i positivi effetti sull'inflazione, l'apprezzamento fu visto con favore dalle autorità, che si astennero a lungo dal contrastarlo (benign neglect).

Intorno alla metà degli anni ottanta, l'atteggiamento delle autorità monetarie, negli Stati Uniti e negli altri principali paesi, nei confronti della libera fluttuazione dei cambi si modificò. Mentre i mercati finanziari nazionali e internazionali si integravano sempre più e aumentava la mobilità dei capitali, il crescere del disavanzo corrente degli Stati Uniti, causato dall'apprezzamento del dollaro, determinava forti tensioni protezionistiche. In queste condizioni si acuiva il contrasto tra l'obiettivo di mantenere la piena autonomia delle politiche economiche nazionali e quello di limitare gli effetti dell'eccessiva fluttuazione dei cambi. La soluzione venne cercata in un migliore coordinamento delle politiche nazionali e in una gestione più attiva dei cambi.

Tra la metà degli anni ottanta e la metà degli anni novanta si misero in atto forme di cooperazione internazionale volte a contenere i movimenti delle grandi valute, con misure di politica interna e interventi sul mercato (v. Funabashi, 1988; v. Catte e altri, 1994), pur con i limiti imposti dall'esigenza di non sacrificare gli obiettivi interni a quelli esterni. Di fatto dal 1987 il cambio del dollaro nei confronti del marco non ha più registrato oscillazioni ampie come quelle dei primi anni ottanta.

In Europa, dove il regime di Bretton Woods aveva per quindici anni assicurato l'ordine monetario necessario alla creazione di un mercato comune, l'esigenza di definire un sistema monetario per la Comunità Europea si era posto sin da quando, verso la metà degli anni sessanta, il regime delle parità fisse aveva dato i primi segni di difficoltà. Dopo la crisi del 1971-1973 fu stabilito un accordo di cambio nel quale le parità venivano fissate nei confronti del marco, che sostituiva quindi in questa funzione il dollaro. Negli anni settanta, però, solo le monete dei paesi europei minori aderirono stabilmente al nascente sistema del marco. Alla fine del decennio, con la creazione dello SME (marzo 1979) il regime di cambi fissi, fondato di fatto sul marco, si consolidò e si estese alle altre grandi economie europee (Francia, Italia). Alla base della costituzione dello SME era la consapevolezza che il prolungarsi dell'anarchia monetaria in Europa stava facendo regredire il processo di integrazione economica avviato alla fine degli anni cinquanta; per evitare ciò, le incompatibilità del ‛quartetto inconciliabile' dovevano essere risolte con un più forte coordinamento delle politiche economiche nazionali (v. Padoa-Schioppa, 1994, p. 222).

Negli anni ottanta lo SME favorì la disinflazione in Europa, salvaguardando l'unità del mercato comune in anni di recessione, e pose le premesse per la completa rimozione dei controlli sui capitali e delle residue barriere non tariffarie al commercio, avvenuta nel 1986 con la firma dell'Atto Unico. In quella prospettiva si accrescevano però fortemente i rischi di incompatibilità tra gli elementi del ‛quartetto', mentre l'esperienza del cambio del dollaro, ricordata più sopra, evidenziava che in un mondo caratterizzato dalla piena mobilità dei capitali il completo isolamento dalle influenze esterne è impossibile anche in un regime di cambi fluttuanti. Consapevole di queste esigenze e di questi condizionamenti, l'Europa scelse di risolvere le contraddizioni del ‛quartetto' con una soluzione radicalmente innovativa: la realizzazione dell'Unione Economica e Monetaria, secondo quanto sancito nel Trattato firmato a Maastricht nel febbraio del 1992. Nell'unione monetaria verso cui muove l'Europa la politica monetaria non verrà più gestita da una molteplicità di paesi, bensì sarà affidata a una istituzione sovrannazionale, il Sistema Europeo di Banche Centrali, superando definitivamente il conflitto del ‛quartetto inconciliabile'.

9. Una valutazione

In base ai quattro elementi fondamentali (v. cap. 1), l'attuale sistema monetario internazionale si caratterizza per la flessibilità dei regimi di cambio, per una pluralità di valute di riserva (il dollaro, lo yen, il marco tedesco), per la crescente liberalizzazione degli scambi di beni e servizi e dei movimenti di capitale, per l'autonomia di cui dispongono i principali paesi industrializzati nell'aggiustare gli squilibri esterni. In questa configurazione, il dilemma del ‛quartetto inconciliabile' viene risolto lasciando i cambi liberi di fluttuare. Di recente, tuttavia, è andata crescendo la disponibilità dei paesi a vincolare le politiche economiche nazionali, in particolare quelle di bilancio, adottando ‛regole di comportamento'. Ad esempio, in base al Trattato di Maastricht, i paesi della UE che potranno essere ammessi a fare parte dell'unione monetaria europea dovranno rispettare precisi criteri di convergenza volti, tra l'altro, a limitare l'ammontare del disavanzo e del debito pubblico; negli Stati Uniti, alla fine del 1995, il Congresso e l'Amministrazione hanno concordato di conseguire il pareggio del bilancio entro l'anno 2002.

All'attuale sistema monetario internazionale vengono riconosciuti alcuni significativi meriti, ma vengono mosse anche importanti critiche. Il sistema ha assorbito senza gravi conseguenze per la crescita due forti crisi petrolifere, nel 1973 e nel 1979; è riuscito a conciliare la diversità degli sviluppi ciclici che hanno interessato i principali paesi industrializzati; è stato capace di adattarsi senza eccessive scosse alla crescente mobilità dei capitali e al rapido sviluppo dei mercati internazionali. Quanto ai principali motivi di insoddisfazione, essi derivano dalla scarsa disciplina nelle politiche nazionali, dall'eccessiva volatilità dei tassi di cambio e dai loro prolungati squilibri; infine dalle insufficienze nell'allocazione mondiale della liquidità internazionale.

Per quanto riguarda il primo aspetto - la scarsa disciplina nelle politiche nazionali - è stato osservato che l'abbandono della convertibilità aurea del dollaro nel 1971, la fluttuazione dei cambi tra le grandi valute e lo sviluppo dei mercati finanziari hanno liberato le politiche monetarie e fiscali dai vincoli cui erano soggette nel sistema di Bretton Woods, ma sono stati accompagnati da un aumento dell'inflazione e da un rallentamento dello sviluppo. Nei principali paesi industrializzati il periodo di fluttuazione dei cambi (dal 1974 in poi) è stato caratterizzato da maggiore instabilità degli aggregati macroeconomici, da inflazione più elevata e da crescita più lenta, rispetto agli anni in cui fu in vigore il regime di cambi fissi codificato a Bretton Woods (v. tab. VI). Inoltre, gli squilibri nei bilanci pubblici e nei saldi di parte corrente si sono andati ampliando considerevolmente: misurati in rapporto al PIL, nei grandi paesi industrializzati hanno raggiunto, nella media degli ultimi dieci anni, livelli senza precedenti nel periodo del dopoguerra (v. Frenkel e altri, 1991).

Tabella 6

La mancanza di disciplina è riconducibile a sua volta alle carenze della funzione di sorveglianza nell'attuale sistema. Come ricordato in precedenza (v. cap. 6), all'FMI è demandato il compito di sorvegliare le politiche economiche di tutti i paesi membri; di fatto, tuttavia, la sorveglianza si esercita in maniera cogente solo su quei paesi che fanno ricorso alla sua assistenza finanziaria, e che quindi concordano con esso programmi di risanamento. Per i paesi in avanzo, o per quelli in disavanzo che hanno accesso alla liquidità internazionale fornita direttamente dai mercati, il Fondo è privo di un efficace potere di persuasione. Attualmente tutti i sessanta paesi che hanno in corso programmi finanziati dall'FMI appartengono all'area non industriale; il ricorso al Fondo Monetario da parte dei paesi industrializzati è cessato sul finire degli anni settanta (prestito all'Italia e al Regno Unito), quando la disponibilità di credito sui mercati internazionali, ampia e senza condizioni, rese superfluo l'utilizzo di altre fonti di finanziamento. L'attività di sorveglianza è stata criticata anche per la tendenza generalmente deflazionistica dei programmi di risanamento finanziati dall'istituzione. È stato infatti osservato che nel corso degli anni settanta e ottanta, i paesi sottoposti alla cura del Fondo hanno registrato miglioramenti degli squilibri esterni, ma al prezzo di una caduta del prodotto, mentre il calo dell'inflazione non è risultato significativo (v. Khan, 1990). Intorno alla metà degli anni ottanta, in seguito alla crisi debitoria che ha evidenziato le gravi carenze strutturali dei paesi in via di sviluppo, il Fondo Monetario ha riconsiderato la sua dottrina dell'aggiustamento. Da allora, nei programmi, si dà rilevanza, oltre che all'esigenza di correggere gli squilibri interni ed esterni, anche all'obiettivo di rimuovere gli impedimenti strutturali, all'uso efficiente delle risorse, in particolare alla mobilizzazione e all'impiego del risparmio interno per accrescere il potenziale di crescita del paese (v. Guitian, 1988).

Un secondo ordine di critiche mosse all'attuale sistema monetario internazionale riguarda il fatto che l'aver affidato la determinazione del tasso di cambio esclusivamente alle forze di mercato ha causato ampie e durevoli deviazioni (i cosiddetti ‛disallineamenti') dei cambi dai livelli coerenti con le determinanti fondamentali e una crescita della volatilità di breve periodo. È vieppiù evidente che i tassi di cambio, così come in generale i prezzi delle attività finanziarie che si formano in mercati orientati al futuro (forward looking), sono influenzati non solo dalle determinanti fondamentali, ma anche da fattori psicologici e da fenomeni di contagio che danno luogo a ‛bolle' speculative (v. Gruppo dei Dieci, 1993; v. Shleifer e Summers, 1990).

I disallineamenti del cambio rispetto ai livelli giustificati dai fondamentali macroeconomici sono considerati preoccupanti, perché possono causare tensioni nei rapporti commerciali e alimentare tendenze protezionistiche; inoltre, essi complicano le decisioni di investimento delle imprese e provocano distorsioni nell'allocazione delle risorse. I più significativi casi di disallineamento registrati dopo l'abbandono dei cambi fissi tra le grandi valute sono stati: tra il 1978 e il 1981, l'apprezzamento della sterlina inglese; nella prima metà degli anni ottanta, il forte apprezzamento del dollaro; l'apprezzamento dello yen dall'inizio del 1993. Gli effetti sulle economie sono stati rilevanti; ad esempio, tra il 1980 e il 1985 all'apprezzamento del dollaro si accompagnò addirittura una diminuzione del volume delle esportazioni in rapporto al PIL e la grave crisi delle imprese esportatrici americane generò forti pressioni protezionistiche nel paese (v. Mussa e altri, 1994).

L'aumento della volatilità dei tassi di cambio nominali (v. tab. VII) dopo l'abbandono del regime di Bretton Woods è stato non meno significativo (v. Mussa, 1990), anche se gli effetti disincentivanti della volatilità del cambio sul commercio, sugli investimenti e sulla crescita sono più difficili da identificare empiricamente; complessivamente, la vasta letteratura scientifica sull'argomento ha individuato un modesto effetto negativo della volatilità sul commercio (v. IMF, 1984; v. Gagnon, 1993) e sugli investimenti internazionali (v. Goldberg, 1993). Fenomeni di elevata volatilità e protratti squilibri dei cambi sono comunque particolarmente dannosi in un'area, come quella europea, fortemente integrata sul piano economico-commerciale. Il riconoscimento - da parte dei paesi europei - dei costi e delle inefficienze derivanti da un regime di fluttuazione condusse, già all'inizio degli anni settanta, alla creazione dei primi accordi di cambio e, nel 1979, alla costituzione dello SME (v. Padoa-Schioppa, 1992, p. 138). Alla fine degli anni ottanta, per assicurare in maniera duratura l'uniformità delle condizioni monetarie in Europa, i paesi della UE si sono posti l'obiettivo - sancito nel 1991 dal Trattato di Maastricht - di realizzare la piena unione monetaria con l'adozione di una banca centrale, una politica monetaria e una moneta unica e con il conseguente abbandono delle singole valute nazionali.

Tabella 7

Il terzo motivo di insoddisfazione nei confronti dell'attuale sistema monetario internazionale riguarda il fatto che la creazione di liquidità internazionale è risultata in più occasioni incoerente con le esigenze dell'economia e in alcuni casi insufficiente. Questa critica attiene prevalentemente all'approvvigionamento di liquidità per i paesi in via di sviluppo. Per molti di questi paesi a medio reddito, l'accesso ai finanziamenti internazionali è stato dapprima, negli anni settanta e nella prima parte degli anni ottanta, abbondante, consentendo una rapida accumulazione del debito estero; poi, con il manifestarsi di difficoltà nel servizio del debito in alcuni dei principali paesi debitori, è divenuto troppo scarso, aggravando le difficoltà dell'aggiustamento (v. Mussa e altri, 1994). I paesi in via di sviluppo a basso reddito, i quali non possono accedere ai mercati per mancanza di merito di credito, devono acquistare la liquidità necessaria, ora come in passato, attraverso la compressione delle importazioni, con elevati costi in termini di ritmo di sviluppo (v. Crockett, 1994).

Alle carenze appena illustrate non è facile porre rimedio; l'odierno sistema monetario internazionale è dominato dalle forze di mercato; il suo funzionamento e la sua evoluzione dipendono dall'interazione di un numero considerevolissimo di operatori privati: istituzioni finanziarie, banche, intermediari. La determinazione del livello del tasso di cambio e l'allocazione mondiale del risparmio sono quindi il risultato di scelte motivate da considerazioni di tipo privatistico, che - riflettendo le preferenze espresse dagli operatori - non necessariamente coincidono con quelle delle autorità politiche.

Da questo stato di fatto non è possibile, e forse neanche auspicabile, tornare indietro. Le tecnologie di telecomunicazione e di informatizzazione, la rapidità con cui è possibile innovare e adattare i processi produttivi e gli strumenti finanziari per eludere le restrizioni poste dalle autorità pubbliche o dalla legge, rendono pressoché impossibile ripristinare vincoli permanenti alla libertà di circolazione dei fattori di produzione. Ed è oramai largamente riconosciuto, dopo la crisi dei modelli di economia pianificata, che il mercato, pur con i suoi limiti, è il migliore meccanismo per allocare le risorse e massimizzarne il rendimento.

Allo stesso tempo, tuttavia, non è facile riformare l'attuale sistema monetario internazionale per eliminarne gli elementi di debolezza. Esso, infatti, presenta su scala internazionale molte delle caratteristiche di un sistema monetario nazionale ma, a differenza di questo, opera in un vuoto di sovranità, che si riflette nella mancanza di una moneta e di una banca centrale uniche, nonché di un unico ordinamento giuridico (v. Padoa-Schioppa e Saccomanni, 1994). A ciò si cerca di ovviare con la cooperazione tra Stati e con il coordinamento delle politiche economiche nazionali. Negli ultimi venti anni si sono estesi e formalizzati i consessi internazionali, i gruppi e i comitati in cui i paesi cooperano per gestire i principali aspetti di un sistema monetario: la vigilanza bancaria, i sistemi dei pagamenti, la politica monetaria con le sue implicazioni in materia di determinazione del tasso di cambio e di interesse, l'assistenza finanziaria a Stati sovrani. Esempi significativi di cooperazione internazionale in questi campi sono la fissazione dei coefficienti minimi di capitale bancario stabiliti dall'Accordo di Basilea nel 1988; gli episodi di interventi coordinati sui mercati valutari per correggere i movimenti del dollaro, effettuati in più occasioni dai principali paesi industrializzati; le risorse messe a disposizione dalle istituzioni finanziarie internazionali, nonché dai paesi più ricchi, per fronteggiare le crisi di liquidità di importanti paesi in via di sviluppo fortemente indebitati. Inoltre, nel corso del Vertice di Halifax (Canada) nel giugno del 1995, i capi di Stato dei principali paesi industrializzati hanno definito, con maggiore chiarezza rispetto al passato, la responsabilità dell'FMI nell'attività di prevenzione e di gestione delle crisi finanziarie che coinvolgono Stati sovrani.

Queste iniziative, che rispondono alla crescente integrazione reale e finanziaria tra le singole economie nazionali, delineano una tendenza a realizzare in un contesto sovranazionale, globale o regionale, l'esercizio delle principali funzioni di banca centrale, inquadrandole per quanto possibile in un adeguato assetto istituzionale. Da questo processo di graduale internazionalizzazione e istituzionalizzazione della gestione dei fenomeni monetari dipenderà l'efficacia e la stabilità del sistema monetario internazionale e, in ultima istanza, lo sviluppo dell'economia mondiale.

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