LEOPARDI, Monaldo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 64 (2005)

LEOPARDI, Monaldo

Nicola Del Corno

, Nacque a Recanati il 16 ag. 1776 dal conte Giacomo e da Virginia dei marchesi Mosca. La famiglia, fra le più nobili della zona e da sempre di parte guelfa, si era perciò procurata la stima e la protezione dei pontefici. Perso ad appena cinque anni il padre, dal quale ereditò un cospicuo patrimonio, il giovane L. fu educato, secondo costumi patrizi, all'austero rispetto dei valori tradizionali. Suo precettore fu il gesuita messicano J. Torres, rifugiatosi in Italia dopo l'espulsione della Compagnia dai domini spagnoli. Uomo dotto, Torres difettava però di metodo nell'insegnare; il L. lo ricordò come "l'assassino degli studi miei", puntualizzando: "io non sono riuscito un uomo dotto perché egli non seppe studiare il suo allievo e perché il suo metodo di ammaestrare era cattivo decisamente" (Autobiografia, 1883, p. 8). Il giovane decise perciò di formarsi culturalmente da sé, dando così vita a una ricca biblioteca, tanto disorganica quanto poi preziosa per l'erudizione del figlio Giacomo.

Appena raggiunta la maggiore età, il L. stabilì di doversi vestire di nero, con calzoni corti e cravatta bianca, secondo l'uso della nobiltà d'ancien régime; per aggiungere un ulteriore elemento di aristocraticità alla sua figura era inoltre solito portare al fianco la spada, tanto da definirsi lui stesso "l'ultimo spadifero dell'Italia" (ibid., p. 36). Tali atteggiamenti non erano dovuti a mera ostentazione dell'appartenenza al primo stato, quanto alla meditata convinzione che un nobile dovesse sempre distinguersi dalla gente comune.

La vita di provincia del L. scorse inizialmente abbastanza tranquilla, fra un matrimonio annullato all'ultimo momento, al costo di una cospicua penale, e uno concretizzatosi con Adelaide Antici (1778-1857), donna di forte personalità; pure il passaggio di Napoleone Bonaparte nel febbraio del 1797 sotto le finestre del suo palazzo lo lasciò indifferente, "giudicando non doversi a quel tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo" (ibid., p. 75).

Ma nel 1798, in seguito alla nuova invasione dei Francesi e alla conseguente occupazione dello Stato della Chiesa, egli si trovò suo malgrado coinvolto in prima persona nella politica attiva. Infatti, nel giugno del 1799, una banda di controrivoluzionari, che definì "briganti" (ibid., p. 112), liberò per breve tempo Recanati, affidandogli il ruolo di governatore, cui avrebbe rinunciato volentieri poiché aveva realisticamente compreso la provvisorietà di tali insorgenze: i focolai di resistenza antifrancese erano sporadici, mal organizzati e soprattutto spesso diretti da comuni banditi, senza alcun preciso disegno politico. Sebbene nei pochi giorni in cui rimase in carica si fosse attivamente adoperato per evitare vendette e regolamenti di conti nei confronti di chi si era compromesso con gli invasori, al ritorno dei Francesi venne condannato a morte; l'esecuzione fu però evitata per intercessione del cognato, il marchese Carlo Antici.

L'infelice esperienza spinse il L. ad abbandonare per lungo tempo la vita pubblica e a dedicarsi alla sua biblioteca, divenuta sempre più consistente a scapito del patrimonio di famiglia, eroso anche in seguito ad alcune fallimentari speculazioni, a tal punto da spingerlo a chiedere che i suoi beni venissero affidati a un amministratore giudiziario; in pratica, però, fu l'oculata consorte a occuparsene. Di questo periodo (1800) è la sua prima opera politica, Le cose come sono, tuttora inedita: radicale confutazione dei principî e delle dottrine rivoluzionarie, cui viene opposta la necessità dell'origine trascendente della società e del potere politico. L'opera si compone di due parti, i cui titoli - Apologia del trono e Apologia dell'altare - esplicitano su quale inossidabile binomio si incentrasse l'ideologia del Leopardi.

Nel giugno 1798 gli era intanto nato il primogenito Giacomo. Seguirono Carlo (1799-1878), Paolina nel 1800, Luigi (morto dopo soli nove giorni di vita, nel febbraio 1803), un altro Luigi (1804-28) e Pierfrancesco (detto familiarmente Pietruccio, 1813-51). A dispetto della cattiva fama tramandata, il L. fu padre esigente ma attento, premuroso e soprattutto orgoglioso dei figli, come testimonia una lettera del 1815 ad Antici dove, descritti i loro progressi negli studi, termina: "che mai desistano dall'essermi, come ora, di compiacenza e di gloria" (Il monarca delle Indie, p. 299). Con la Restaurazione si prospettò un suo ritorno alla politica attiva, allorché entrò a far parte con il ruolo di consultore della Congregazione di governo della provincia di Macerata. In questa veste si distinse per la condotta moderata; contro il legato pontificio F. Tiberi, fautore di uno smantellamento dell'intero apparato di persone e istituzioni compromesso con il passato regime napoleonico, il L. propose che almeno gli uomini migliori potessero restare nella pubblica amministrazione. Quella esperienza durò però ben poco; esausto per i continui contrasti con Tiberi, si dimise dopo soli quattro mesi.

Per comprendere appieno tale decisione va tenuto presente che il L. era poco propenso a ricoprire ruoli non di primo piano, come lui stesso riconosceva con franchezza: "il fatto sta che la natura o l'abitudine a sovrastare mi è sempre rimasta, e mi adatto malissimo, anzi non mi adatto in modo veruno alle seconde parti" (Autobiografia, 1883, p. 6). Preferì allora la carica di podestà, o gonfaloniere, di Recanati, che ricoprì in due successivi periodi, dal 1816 al 1819 e dal 1823 al 1826. Si trattava certamente di una funzione meno importante, ma che gli permetteva di essere il primo cittadino; per un sostenitore convinto delle piccole autonomie municipali come il L., ciò assumeva un valore particolare. Roma dimostrò però di non apprezzare la sua personalistica amministrazione, e inoltre fu messo sotto inchiesta per presunte irregolarità amministrative, risultate poi inesistenti. Appartengono a questo periodo pure due saggi storici: Notizie sulla Zecca e sulle monete recanatesi (Recanati 1822), e Serie dei vescovi di Recanati, con alcune brevi notizie di quella Chiesa e città (ibid. 1828).

Nel 1831, in seguito ai moti scoppiati nell'Italia centrale, con la speranza che un suo moderato coinvolgimento potesse evitare guai maggiori al sistema politico per cui si era sempre battuto, si sentì in dovere di entrare nel Comitato provvisorio governativo nato a Recanati dopo l'insurrezione, sia pur mantenendosi sempre un fedele suddito del pontefice e dichiarandosi alieno da simpatie rivoluzionarie. Una volta sconfitti i liberali, il L. prese decisamente posizione a favore del potere legittimo con la pubblicazione dei Dialoghetti sopra le materie correnti nell'anno 1831, un breve opuscolo uscito anonimo, senza indicazioni editoriali, e solamente siglato, in cifre romane, MCL, ossia Monaldo Conte Leopardi (il L. usò questa sigla anche in cifre arabe). Il pamphlet ebbe un successo clamoroso, tanto da essere ristampato più volte in poco tempo (dopo cento giorni si erano già pubblicate sei edizioni).

Lo scritto esprimeva le sue idee passatiste con franchezza e vivacità, così da risultare di più allettante lettura. Invece di impegnarsi in dissertazioni dottrinarie, usava il dialogo serrato, la battuta anche salace - si veda il gioco di parole fra costituzione e costipazione - e il paradosso per sostenere la causa del trono e dell'altare. L'opuscolo non mancava però di una certa sua critica originalità rispetto ad altri di eguale parte politica, come si può constatare nella ferma condanna delle risoluzioni del congresso di Vienna, che in nome della ragion di Stato avevano stravolto, agli occhi del L., le più elementari norme della giustizia e dell'etica con il restaurare i governi legittimi secondo la logica del compromesso.

Dato il successo dei Dialoghetti, e a compimento delle idee controrivoluzionarie ivi esposte, negli anni immediatamente successivi diede alle stampe una serie di opuscoli, più o meno sulla stessa falsariga retorica, ossia molto semplici e chiari nei concetti presentati ma vigorosi e coraggiosi nelle conclusioni, e per questo definiti dallo stesso autore "la mitraglia dei piccoli scritti" (Manifesto d'associazione, in La Voce della ragione, I [1832], p. III). Uscirono così in rapida successione, spesso anonimi, le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (Pesaro 1832); il Testamento di don Pietro di Braganza, ex imperatore del Brasile (ibid. 1832); Un'oretta di conversazione tra sei illustri matrone della buona antichità (s.l. 1832); Sulle riforme del governo. Una parola ai sudditi del papa (Pesaro 1832); le Aggiunte alla sesta edizione dei Dialoghetti (s.l. 1832); il Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori (Pesaro 1832); La città della filosofia (ibid. 1833), e altri ancora.

Il L. divulgò inoltre la sua polemica ultraconservatrice dalle colonne de La Voce della ragione, quindicinale di cui fu fondatore, direttore e quasi unico redattore. Il periodico riprendeva, anche nel titolo, gli intenti della più famosa gazzetta modenese, La Voce della verità, nel dichiarare una risoluta lotta contro chiunque attentasse agli equilibri della società di allora, assumendosi pertanto l'impegno, come si può leggere nel Manifesto d'associazione, di "confutare i sofismi e gli errori dell'empietà e dello spirito di rivolta" e di "propagare le dottrine della religione e della morale, dell'ordine sociale e della fedeltà"; il sottotitolo della testata, Proeliare bella Domini, testimoniava ulteriormente i principî informativi dell'iniziativa. Il giornale si distinse subito sia per la consueta causticità stilistica del L., sia per le traduzioni di importanti autori controrivoluzionari stranieri dovute alla figlia Paolina, conquistandosi così una buona accoglienza da parte dell'opinione pubblica reazionaria; piacque meno al governo pontificio, che lo costrinse alla chiusura dopo soli tre anni di pubblicazione, a causa dei non rari, e nemmeno tanto celati, attacchi che gli indirizzava.

Il L. fu sempre risoluto e coerente nel far sentire alta la propria voce, spinto dalla convinzione di avere critiche importanti da esprimere, anche a rischio dell'emarginazione all'interno dello schieramento legittimista, e idee salutari per cui battersi, qualunque fosse il governo in carica. La chiusura della Voce della ragione e la censura che colpì alcuni pamphlets, imposte dalle autorità pontificie che pur era intenzionato a difendere, suonano come la più sicura prova dell'indipendenza della persona. Così, per dare finalmente libero sfogo alla propria verve critica, finì per pubblicare in Svizzera, sia sulle pagine del quindicinale conservatore Il Cattolico, sia affidandosi a una serie di opuscoli editi presso l'editore Veladini, assai polemici non solo verso i consueti avversari liberali ma anche verso alcuni ambienti romani. Fra questi scritti vanno ricordati Le illusioni della pubblica carità (1837), Un errore del tempo. Il sistema ipotecario (1838), La proprietà letteraria (1841). Il L. non fu solamente un prezioso bibliomane ("niente è inutile in una biblioteca", annotava nel 1822 in un commentario rimasto inedito: Appendice, in Autobiografia, 1883, p. 182). Fu anche scrittore prolifico ed eclettico: politica, storia, economia, filosofia, giurisprudenza, religione, critica, archeologia, medicina furono infatti gli argomenti preferibilmente affrontati nella sua multiforme e versatile produzione, che non disdegnò neppure la matematica, la poesia e il teatro, ulteriore testimonianza di una non comune vivacità intellettuale e di uno spiccato interesse per le cose che avvenivano nel mondo, fuori dal natio e famoso "borgo selvaggio".

Il L. morì a Recanati il 30 apr. 1847, in tempo per non assistere con sofferenza ai moti europei del 1848. Ma, in un certo senso, le sue delusioni politiche non cessarono nemmeno dopo la morte. Nell'orazione funebre il barnabita A. Gavazzi non mancò di inneggiare alla libertà e al progresso, suscitando la reazione del figlio minore del L., Piefrancesco, le cui idee politiche non differivano da quelle del padre, anzi parevano ancor più radicalmente conservatrici.

Alcuni lavori inediti del L. si conservano nel palazzo avito di Recanati; fra essi, oltre al citato Le cose come sono, una raccolta di opere giovanili, Discorsi sacri e profani, una Aritmetica semplice e complessa, un Indice istorico dell'Italia, una raccolta di Leggi e costumi degli antichi Recanatesi e Memorie genealogiche della famiglia Leopardi. Le numerosissime lettere (stimate in circa 20.000) sono disperse in varie biblioteche italiane. Il Centro nazionale di studi leopardiani di Recanati trae copia di quelle che riesce a catalogare.

L'Autobiografia è stata pubblicata per la prima volta con Appendice, a cura di A. Avoli, Roma 1883. Successive edizioni: Autobiografia e Dialoghetti a cura di A. Briganti, Bologna 1972; Autobiografia, a cura di A. Leopardi, Ancona 1992; Autobiografia, a cura di G. Cattaneo, Roma 1997. Sono stati inoltre pubblicati: "Ammonimenti de uno sapiente homo" e altri pensieri, a cura di F. Foschi, Rimini 1981; Il monarca delle Indie: corrispondenza tra Giacomo e M. L., a cura di G. Pulce, Milano 1988.

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