Modifiche in materia di contrattazione collettiva. L'articolo 8 del d.l. n. 138/2011

Libro dell'anno del Diritto 2012

Modifiche in materia di contrattazione collettiva. L'articolo 8 del d.l. n. 138/2011 (l. n. 148/2011)

Tiziano Treu

Modifiche in materia di contrattazione collettiva
L’art. 8 d.l. n. 138/2011 (l. n. 148/2011)

Il saggio dà conto delle controversie giudiziarie riguardanti gli accordi aziendali FIAT; offre un primo commento all’art. 8 del d.l. 13.8.2011, n. 138, di sostegno alla cd. contrattazione collettiva di prossimità, segnalandone i più importanti aspetti problematici.

La ricognizione. Gli antecendenti e gli accordi FIAT

L’accordo del 28 giugno ha mostrato la capacità delle maggiori confederazioni sindacali di reagire a condizioni particolarmente difficili con una decisione e un’unità che sembravano improbabili a molti. L’impatto che l’intesa saprà esercitare sul futuro delle nostre relazioni industriali è legato a molte variabili. Sarà misurato anzitutto sul piano dell’effettività, cioè della capacità degli attori di sostenerne coerentemente l’applicazione e di estenderla alle diverse situazioni contrattuali italiane. Gli eventi successivi agli accordi del 2009 e del 2011 hanno fornito indicazioni diverse in ordine all’applicazione delle intese. I rinnovi dei contratti nazionali di categoria si sono susseguiti con regolarità (maggiore che in passato) e senza grandi conflitti e sono stati firmati unitariamente dai sindacati con le due eccezioni del contratto dei metalmeccanici e del commercio. I nuovi contratti presentano variazioni dei contenuti economici, soprattutto nella loro distribuzione e destinazione nel tempo, ma non tali da stravolgere le linee guida dell’accordo del 2009. In tal modo, al contratto nazionale è stato riconfermato il ruolo di strumento centrale del sistema per la tutela del potere d’acquisto e per la definizione delle regole base comuni, valide per tutta la categoria. Non hanno avuto invece seguito finora i propositi indicati nello stesso accordo del 2009 di sfoltire il numero pletorico dei contratti e di alleggerirne i contenuti per lasciare spazio alla contrattazione decentrata. Lo sviluppo del livello contrattuale decentrato, specie aziendale, perseguito come obiettivo principale dalle parti sindacali, specie da CISL e UIL, ha dovuto fare i conti con l’imperversare della crisi economica che ha ridotto i margini economici delle aziende per accordi «acquisitivi» e ha impegnato le parti soprattutto nella difficile gestione di processi di ristrutturazione e nella definizione di «accordi in deroga» del contratto nazionale, spesso implicanti modifiche peggiorative rispetto alle condizioni di lavoro previgenti. Le polemiche e le controversie giuridiche hanno avuto come epicentro le iniziative della FIAT, con i vari accordi in deroga di Pomigliano e di Mirafiori, contestati dalla FIOM; ma, com’era prevedibile, hanno investito l’equilibrio dell’intero sistema definito nel 2009 e dello stesso contratto nazionale. La vertenzialità giudiziaria su queste vicende è senza precedenti nella storia delle nostre relazioni industriali, finora sottratte quasi completamente a interventi della magistratura. Le implicazioni si sono manifestate in tutta la loro criticità, in quanto le decisioni finora intervenute hanno palesato divergenze di fondo su tutti gli aspetti del tema, ponendo così una pesante ipoteca sui fragili equilibri raggiunti con gli accordi interconfederali. L’incertezza della situazione giuridica è stata denunciata ripetutamente dalla FIAT che ha minacciato di uscire dal sistema confindustriale se non veniva garantita la «esigibilità» degli accordi, mettendo in difficoltà la stessa Confindustria firmataria degli ultimi accordi interconfederali. Le previsioni dell’accordo del 2011, come dell’intesa del 2009, riconoscono la possibilità degli accordi in deroga, ma non danno le garanzie richieste dalla FIAT. Una sanatoria retroattiva di questi accordi, che era stata ipotizzata nel corso delle trattative del 2011, non sarebbe stata comunque nelle disponibilità delle parti per il fatto stesso che esse operano con strumenti contrattuali privatistici. Appunto per questo è intervenuto il legislatore con l’art. 8 d.l. 13.9.2011, n. 138, come vedremo. In realtà, la FIAT ha già rotto il sistema vigente di contrattazione nazionale, in quanto l’accordo di Mirafiori del 29.12.2010 rappresenta un contratto nazionale; il primo che viene a sostituire quello nazionale. Le decisioni giudiziali finora intervenute affrontano due questioni giudiziali: in primo luogo, l’ambito di applicazione del contratto nazionale del 2008 firmato unitariamente dai sindacati metalmeccanici e quello del 2009 non firmato dalla FIOM. In secondo luogo, la configurabilità di una condotta antisindacale in capo alle decisioni delle aziende, non solo la FIAT, di dare seguito al contratto del 2009 (i ricorsi sono stati introdotti essenzialmente ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori da parte della FIOM). Sulla prima questione, la maggior parte delle decisioni ritengono in vigore e quindi applicabili ambedue i contratti nazionali. Il secondo si applicherebbe ai lavoratori iscritti ai due sindacati firmatari (FIM-UILM) e il primo agli iscritti alla FIOM che ha firmato solo quello del 20081. Tale conclusione è stata raggiunta applicando ai contratti collettivi i principi della rappresentanza privatistica, in base ai quali i contratti valgono per le parti stipulanti e per i lavoratori ad essi aderenti, appunto quello del 2008 agli iscritti alla FIOM e quello del 2009 agli iscritti a FIM e UILM. I giudici ritengono valido il contratto «separato del 2009 ancorché stipulato prima della scadenza di quello del 2008 (fine 2011)». Secondo tale decisione, ciascuna delle parti stipulanti tale contratto fruisce della libertà sindacale garantita dall’art. 39 Cost. e questa può essere esercitata anche per rinegoziare un contratto non ancora scaduto. In senso contrario si è espresso il tribunale di Modena il 22.4.2011, che ha affermato l’illegittimità del recesso unilaterale ante tempo dal CCNL con durata predeterminata, ma senza approfondire i motivi, considerando la questione estranea al giudizio. Le conclusioni (prevalenti) raggiunte da tali decisioni sono conseguenti alla concezione privatistica del contratto collettivo2. E non ammettono alternative, come ribadiscono gli stessi giudici, osservando che in presenza di diverse posizioni sindacali come in ipotesi non compete al giudice ricomporle e scegliere il contratto applicabile. Il giudice può solo prendere atto che nel nuovo contesto «ciascun sindacato riacquisisce la piena rappresentatività dei propri iscritti» (Trib. Torino, 26.4.2011)3; con la conseguenza che il datore di lavoro è tenuto ad applicare partitamente i due contratti. La compresenza di due contratti nella stessa azienda è una anomalia che può essere fonte di complicazioni e per la gestione aziendale, fino a essere di difficile applicazione per le norme riguardanti l’organizzazione del lavoro, come il regime delle pause e dei turni, che coinvolgono in modo uniforme il sistema produttivo aziendale. È questo, come si ricorderà, un argomento utilizzato in passato per affermare la necessaria efficacia generale dei contratti aziendali per tutti i dipendenti interessati4. Valutare i contratti collettivi con le regole privatistiche è discutibile, perché contrasta con gli orientamenti del diritto vivente fin qui prevalsi. Ma gli argomenti usati in passato per valorizzare i contratti nel senso ricordato non sono automaticamente applicabili alla fattispecie in questione. Qui non si tratta di valorizzare l’effettività dei contratti unitari, ma di scegliere fra due contratti diversi e separati. In mancanza di regole certe sulla rappresentatività sindacale e di eventuali referendum, è dubbio chi possa decidere e come. Oltretutto, il peso dei tre sindacati metalmeccanici è diverso nelle varie aziende e territori italiani. La scelta potrebbe farla il datore di lavoro, come già ha fatto la FIAT che, ricorrendo all’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, non ha riconosciuto la FIOM, perché questa non ha firmato i contratti aziendali; ma questa scelta si può esporre secondo alcuni giudici all’accusa di comportamento antisindacale (v. infra). Le conclusioni raggiunte dai giudici sulla seconda questione, cioè sulla configurabilità in capo all’azienda di una condotta antisindacale, sono invece divergenti. Le decisioni che ritengono esistente tale condotta imputano all’azienda di aver negato l’applicabilità del contratto del 2008 ai lavoratori iscritti alla FIOM, oltretutto non previamente informati della contemporanea vigenza dei due contratti collettivi, e di aver applicato a tutti i dipendenti solo il nuovo contratto del 2009. Alcune decisioni hanno altresì imputato all’impresa convenuta di aver indotto i lavoratori non iscritti al sindacato a ritenere non più applicabile il contratto del 2008 (Trib. Torino, 18.4.2011)5 e di aver loro richiesto il versamento della contribuzione straordinaria a favore di FIM e UILM per il contratto del 2009, omettendo di informare i lavoratori stessi della contemporanea applicazione in azienda del contratto del 2008 (Trib. Modena, 22.4.2011)6. I giudici concludono che tali comportamenti non sono solo lesivi dei diritti individuali dei lavoratori di vedersi applicato il con- tratto stipulato dalla propria organizzazione, quelli della FIOM, e dei non iscritti che lo richiedono, ma finiscono per negare la funzione stessa di tale sindacato, il suo ruolo di agente contrattuale, la sua capacità di far applicare i contratti collettivi sottoscritti e di tutelare in tal modo le posizioni dei lavoratori nei confronti delle parti datoriali (Trib. Modena, 22.4.2011) finendo in definitiva per aggirare il meccanismo della rappresentanza associativa. Tanto basta per configurare la condotta aziendale come limitativa delle libertà e attività sindacali, perché non riveste nessuna rilevanza la presenza da parte aziendale di un intento lesivo delle stesse prerogative7. Le decisioni che rigettano il ricorso ex art. 28 procedono dall’assunto della piena validità di ambedue i contratti e della loro applicabilità in base all’iscrizione dei singoli alle organizzazioni stipulanti ovvero ad atti di adesione dei singoli al contratto. Per altro verso escludono che possa ritenersi antisindacale la mera disdetta unilaterale di un contratto per applicarne un altro (Trib. Torino, 2.5.2011)8. La conclusione è poi avvalorata dalle risultanze di fatto, secondo cui le imprese in causa avrebbero applicato agli iscritti alla FIOM il contratto da questa stipulato e avrebbero informato i dipendenti sulla compresenza dei due contratti, anche in relazione al versamento della quota dei contributi al sindacato9. A maggior ragione tali principi comportano la medesima conclusione nell’ipotesi che il nuovo contratto «separato» intervenga dopo la scadenza del precedente. La clausola di ultrattività inserita nel contratto non comporta l’obbligo di stipulare il nuovo contratto con le stesse organizzazioni firmatarie di quello scaduto e non può escludere la libertà di alcune di negoziarlo separatamente. A ragionare diversamente, un’eventuale impossibilità di trovare l’accordo unanime, combinandosi con la clausola di ultrattività, finirebbe per trasformare il contratto collettivo scaduto in una fonte di disciplina a tempo indeterminato e potenzialmente perpetuo (Trib. Torino, 2.5.2011). Anche la decisione più recente riguardante l’accordo sulla cd. newco di Pomigliano (Trib. Torino 15.9.2011) ha raggiunto conclusioni differenziate: da una parte, riconosce la legittimità degli accordi separati del 29.12.2010 e del 17.2.2011 conclusi con la FIAT da FIM, UILM e FISMIC, dall’altra considera antisindacale il comportamento aziendale di escludere la FIOM dal godimento dei diritti sindacali sanciti dallo Statuto dei lavoratori. La validità degli accordi è riconosciuta in base all’argomento secondo cui essi sono espressione dell’autonomia di soggetti sindacali che sono sicuramente rappresentativi. D’altra parte, la sentenza avvalora la qualificazione dell’accordo del 29.12.2010 come accordo di primo livello, sottolineando che esso contiene una regolazione compiuta dei rapporti di lavoro. Tale accordo sarebbe quindi atto a sostituire la disciplina del contratto nazionale e in base al principio di effettività, vincolerebbe il datore di lavoro ad applicare le regole a tutti i dipendenti. La conclusione si spiega perché qui il giudice deve decidere dell’applicazione di un accordo aziendale, che sostituirebbe il contratto nazionale e non, come nei casi sopra discussi, di quella di due contratti nazionali compresenti. Rilevo come questa conclusione dia per acquisita l’efficacia generale del contratto aziendale (anche se definito di primo livello), secondo un orientamento giurisprudenziale risalente, ma non consolidato (v. supra).

La focalizzazione. Efficacia generale dei contratti decentrati

L’incertezza giuridica resa evidente dalle sentenze sul caso FIAT ha motivato le sollecitazioni provenienti da più parti al legislatore ad intervenire in materia. In un primo momento tali sollecitazioni sono rimaste inascoltate dal Governo, che ha più volte ribadito la volontà di non prendere l’iniziativa se non su richiesta espressa dalle parti sociali. Tale orientamento è bruscamente cambiato a seguito dell’emergenza finanziaria che ha costretto l’esecutivo alla manovra d’urgenza contenuta nel d.l. n. 138/2011 (legge 148/2011). Con l’art. 8 del decreto10, intitolato «sostegno alla contrattazione di prossimità », il legislatore ha introdotto una normativa senza precedenti in ordine ai contenuti e all’efficacia della contrattazione collettiva (decentrata). La norma, che si è rivelata una delle più controverse del d.l. n. 138/201111, contiene una vera e propria innovazione di sistema per diversi aspetti. Anzitutto perché il sostegno legislativo si rivolge alla contrattazione di secondo livello, aziendale, ma anche territoriale. Questa è una novità, perché finora la contrattazione territoriale è stata utilizzata dalle parti solo in settori specifici e sostanzialmente non considerata dal legislatore. Nel primo comma dell’articolo il sostegno si sostanzia nella attribuzione agli accordi collettivi di tale livello di efficacia generale nei confronti di tutti i lavoratori interessati. Tale efficacia è riconosciuta a condizione che gli accordi siano conclusi da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ovvero dalle loro rappresentanze operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti (nella versione del testo presentata all’aula del Senato sono state aggiunte anche le associazioni rappresentative «sul piano territoriale»). Questo primo comma dell’art. 8 risolve una questione, quella dell’efficacia generale dei contratti collettivi, su cui si sono affaticate da decenni dottrina e giurisprudenza. In passato, sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno ritenuto, sia pure con argomenti discutibili, che l’efficacia generale possa riconoscersi ai contratti aziendali anche al di fuori delle procedure dell’art. 39 Cost., per il motivo che il loro ambito di applicazione riguarda il solo datore di lavoro firmatario del contratto12. Ma gli argomenti utilizzati per arrivare a tale conclusione per i contratti aziendali non sono estendibili ai contratti di categoria né a quelli territoriali, perché estendere l’efficacia di questi contratti porterebbe a vincolare al contratto anche datori non consenzienti, né associati alle organizzazioni rappresentative13. Per questo l’art. 39 Cost. appare qui più difficilmente eludibile o aggirabile (v. infra). Oltretutto la stessa lettera della norma si rivela impropria, perché parla di «efficacia per tutti i lavoratori interessati», mentre l’estensione prevista coinvolgerebbe tutti i datori di lavoro, anche non associati alle loro organizzazioni rappresentative. L’art. 8, co. 1, si riferisce a intese «finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività». Si tratta di un’elencazione di obiettivi che rinvia a contenuti propri della contrattazione decentrata, compresi, ma non solo, gli accordi in deroga («specifiche intese» è il termine usato dall’accordo 28.6.2011 per indicare tali accordi). L’elenco è così generico da ricomprendere pressoché qualunque contenuto contrattuale e quindi potrebbe ritenersi di scarso rilievo definitorio. Se invece si volesse riconoscere tale rilevanza, ne conseguirebbe che accordi non finalizzati agli obiettivi indicati dalla norma resterebbero privi di efficacia generale e non potrebbero derogare alla legge nelle materie indicate al secondo comma dell’art. 8. Resterebbero contratti con rilevanza «privatistica» come quelli finora esistenti. E si rappresenterebbero ancora gravi incertezze. Chi volesse contestare i contenuti di tali accordi, potrebbe sollevare dubbi sulla loro «finalizzazione» agli obiettivi previsti dal primo comma. E il giudice potrebbe essere chiamato a pronunciarsi in proposito, intervenendo in un ambito del tutto improprio come l’oggetto di contratti collettivi e la loro qualità. Anche questo punto della norma andrebbe corretto o chiarito.

I profili problematici. Gli agenti negoziali

Secondo l’art. 8, co. 1, d.l. n. 138/2011 i soggetti abilitati a stipulare gli accordi in questione sono di due tipi. Il primo agente negoziale è indicato con la formula tradizionale «associazione di lavoratori comparativamente più rappresentative ». Ma la norma riferisce la misura di tale rappresentatività non solo alla dimensione nazionale, finora utilizzata dalla normativa in materia, ma anche alla dimensione territoriale. L’introduzione di questo nuovo criterio di misura14 implica un cambiamento radicale del senso della rappresentatività. La dimensione nazionale è stata tradizionalmente richiesta per individuare soggetti sindacali in grado di esprimere nelle loro scelte interessi dell’intera comunità nazionale, secondo l’orientamento generalista tendenzialmente proprio del nostro sindacalismo. Il riferimento a una rappresentatività territoriale, sollecitata in particolare dalla Lega Nord, sembra ricollegarsi all’ispirazione federalista che dovrebbe così estendersi dall’ambito delle politiche e delle amministrazioni pubbliche a quello delle relazioni industriali. Ma, a prescindere dalle controversie tuttora esistenti circa il senso del nostro federalismo, le soluzioni ricercate in ordine alla sua accezione istituzionale non sono trasferibili meccanicamente nel sistema contrattuale, tanto meno secondo indicazioni generiche come quelle dell’art. 8, co. 1. Il federalismo istituzionale presuppone una definizione condivisa nell’intero ordinamento circa gli ambiti, i poteri e gli obblighi delle diverse autonomie territoriali, salvo adottarne una versione separatista estranea alla nostra Costituzione. Il riferimento dell’art. 8 alla rappresentatività territoriale, invece, è del tutto indeterminato e privo di criteri orientativi, per cui questa rappresentatività può essere espressione di ambiti territoriali variabili, anche molto circoscritti (Provincia, Comune, oppure ambiti più ristretti), senza nessun ancoraggio a dimensioni significative alla stregua di parametri riconoscibili e accettati15. Il che presenta il rischio di una frammentazione arbitraria del sistema delle relazioni industriali e può legittimare il potere negoziale di organizzazioni portatrici di interessi particolaristici e micro-corporativi. Si tratta di una norma contrastante con l’accordo del 28.6.2011, che ha inteso dare un assetto unitario alla contrattazione collettiva. Proprio per sostenere l’unitarietà del sistema contrattuale anche la legittimazione degli agenti negoziali a livello aziendale è stata tradizionalmente ancorata nel nostro ordinamento al loro legame, variamente configurato, con soggetti rappresentativi esterni (di carattere nazionale). Il legame con le organizzazioni sindacali esterne all’azienda (nazionali o territoriali) è confermato dall’art. 8, co. 1, per quanto riguarda il secondo tipo di agenti negoziali abilitati a concludere gli accordi in questione, cioè le rappresentanze sindacali operanti in azienda. È peraltro da notare che la rappresentatività attribuita dalla norma alle associazioni sindacali non è qualificata dalle condizioni previste dall’accordo interconfederale del 28.6.2011 (soglia minima del 5% calcolato su iscritti e voti delle associazioni e certificazione degli iscritti). Infatti, il richiamo all’accordo del 2011 è operato solo con riferimento alle rappresentanze sindacali operanti in azienda e non con valore generale tale da potersi riferire anche alla rappresentatività dei sindacati esterni. È una sfasatura interna alla norma, non facilmente correggibile in via interpretativa16; anche se è poco giustificabile in rapporto al senso complessivo dell’intervento legislativo che ha voluto valorizzare l’accordo interconfederale, sia pure in extremis (il riferimento a tale accordo non compariva nel d.l. n. 138/2011 ed è stato inserito nel testo presentato in aula al Senato). La valutazione della maggiore rappresentatività dei sindacati nazionali resta dunque affidata ai parametri tradizionali. L’accertamento della rappresentatività «territoriale» dipenderà dalla dimensione di volta in volta assunta dal territorio di riferimento. Se si considerano le dimensioni territoriali fin qui usate a fini istituzionali e contrattuali, in particolare le Province17, la posizione dei sindacati aderenti alle maggiori confederazioni storiche potrebbe non essere alterata, in quanto esse possano dimostrare la loro maggiore rappresentatività comparativa anche in tali ambiti territoriali. Per quanto riguarda il secondo agente negoziale indicato all’art. 8, «rappresentanze sindacali operanti in azienda», la formula si può riferire sia alle RSU che alle RSA. Entrambe hanno competenze negoziali anche secondo l’accordo del 28.6.2011 che in questo innova sulle precedenti intese confederali, a cominciare da quella del 1993. L’art. 8, co. 1, nel riconoscere la capacità negoziale di queste rappresentanze aziendali, precisa che essa va esercitata secondo le regole di legge e dagli accordi interconfederali vigenti, compreso quello del 28.6.2011. L’accordo del 2011 indica due procedure diverse (v. supra) per la conclusione di accordi aziendali destinati ad avere efficacia generale. Il rinvio dell’art. 8 a questo accordo come fonte regolatrice delle procedure negoziali implica che tali procedure devono essere rispettate in ogni caso di contrattazione, non solo in aziende rientranti nell’ambito di applicazione dell’accordo (quelle dell’industria), ma anche in imprese di altri settori. Per questo aspetto si realizza così l’estensione delle regole definite fra i contraenti del settore industriale a tutto il sistema di relazioni industriali, sancendo per legge una tendenza solo in parte affermatasi di fatto nei decenni passati. Nel testo presentato in Aula, l’art. 8, co. 1, specifica che le intese in questione devono essere sottoscritte «sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali ». È dubbio quale sia il valore di tale indicazione, dato che il principio maggioritario è già contenuto nell’accordo del 2011, con puntuali specificazioni ai punti 4 e 5 (v. supra). Il fatto che tale criterio sia riferito dalla legge «alle predette rappresentanze aziendali» potrebbe essere inteso come una implicita esclusione dell’uso del referendum. Ma una simile ipotesi sembra difficilmente accettabile, perché contrasterebbe con il rinvio dello stesso art. 8 all’accordo del 2011 e lo vanificherebbe, introducendo un’altra aporia nel testo.

3.1 Poteri «derogatori» degli accordi collettivi decentrati

Il secondo comma dell’art. 8 attribuisce alle specifiche intese indicate al primo comma il potere di regolare materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA; f) alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro ed alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio; g)il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio; h) il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino; i) il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. Come si vede, l’elenco è ampio ed eterogeneo; anzi l’indicazione «disciplina del rapporto di lavoro» è comprensiva dell’intero settore centrale del diritto del lavoro, quello riguardante le regole del rapporto individuale18. Non è la prima volta che il legislatore delega alla contrattazione poteri di deregolazione/flessibilizzazione di norme di legge. Questa tecnica è stata utilizzata da tempo per introdurre elementi di flessibilità negoziata in singoli aspetti della regolazione del rapporto di lavoro ritenuti rilevanti per un migliore funzionamento del mercato del lavoro (contratti a termine, lavoro intermediato, orario di lavoro, assunzioni nominative, ecc.). In questi precedenti, peraltro, i poteri di flessibilità negoziata sono stati sempre contenuti entro limiti più o meno ampi definiti dallo stesso legislatore, in conformità con l’idea che quelli conferiti alla contrattazione collettiva sono poteri «delegati». Qui, viceversa, la delega alla contrattazione è senza limiti e senza criteri direttivi, pur riguardando anche materie fondamentali dell’ordinamento, a cominciare da molte di quelle contenute nello Statuto dei lavoratori19. Si tratta dunque di una innovazione senza precedenti, anche se annunciata in passato dal governo con una bozza di Statuto dei lavori, peraltro con la dichiarata intenzione di definirla previa consultazione con le parti sociali. Non sorprendono quindi le riserve rivolte alla norma da varie parti, anche da commentatori non contrari a valorizzare la contrattazione decentrata. Le riserve riguardano sia l’ampiezza dei poteri attribuiti a tale contrattazione sia il fatto che tali poteri non sono riferiti alla contrattazione nazionale, com’è stato nelle versioni originarie di flessibilità negoziata, ma a intese aziendali e territoriali, concluse anche da soggetti aziendali o da rappresentanti territoriali, con i rischi sopra richiamati. La scelta del legislatore apre la strada a una frammentazione senza criteri dalla disciplina dei rapporti di lavoro, che può portare ad avere regole diverse in aziende operanti fianco a fianco e in territori contigui. Il carattere del tutto indifferenziato della delega alla contrattazione contenuta nel testo del d.l. n. 138/2011 è stato temperato nel corso del dibattito, con l’aggiunta del comma 2 bis, ove si precisa che anche nella contrattazione in deroga restano fermi il rispetto della Costituzione e i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Si tratta di una precisazione diretta a prevenire possibili obiezioni di legittimità anche costituzionali e che riecheggia in parte la modifica introdotta dal parlamento nella versione finale del cd. collegato lavoro (art. 31, co. 8, l. n. 183/2010), dopo il richiamo del presidente della Repubblica, per definire i limiti da rispettarsi dal lodo arbitrale, anche in senso di arbitrato di equità. Il riferimento dell’art. 8 alla sola contrattazione decentrata dà una indicazione non conforme alle indicazioni degli accordi confederali che mantengono un equilibrio tra i due livelli, e introduce un’alterazione ingiustificata nel sistema20. Tale livello contrattuale è il più appropriato per adattare la gestione dei rapporti di lavoro e le regole relative all’organizzazione del lavoro e ai trattamenti economici, alle specificità delle singole realtà produttive ed economiche. Ma non lo è quando si tratta di cambiare leggi come quelle in questione che stabiliscono standard generali. Le modifiche eventualmente necessarie richiedono in principio una valutazione altrettanto generale, da parte della stessa legge o della contrattazione nazionale. In ogni caso, anche a voler ammettere interventi derogatori da parte di contratti decentrati, sempre entro limiti di deleghe specifiche, tale attribuzione non può essere esclusiva e non comprendere i contratti nazionali. La esclusione del livello nazionale da simili interventi derogatori non è giustificabile neppure richiamandosi agli argomenti sopra citati circa la compatibilità dell’art. 8 d.l. n. 138/2011 con l’art. 39 Cost. Tali argomenti ostacolerebbero l’attribuzione ai contratti nazionali di efficacia generale fuori dalle procedure costituzionali. E così abbiamo giustificato come il primo comma dell’art. 8 parli di efficacia generale dei soli contratti decentrati (in realtà dovrebbe farlo solo per i contratti aziendali). Ma la questione si pone diversamente quando si tratta di abilitare per legge la contrattazione a modificare singole normative indicate dalla stessa legge (co. 2). Deleghe legislative del genere attribuite in passato alla contrattazione anche nazionale si sono sottratte a censure di costituzionalità perché, come si è ampiamente argomentato, la situazione configurata da tali deleghe è distinta dall’ipotesi considerata dall’art. 39 di estensione erga omnes dei contratti. L’incidenza generale di questi contratti «derogatori» è derivata: cioè consegue al fatto che essi esercitano un potere delegato dalle leggi a modificare certe regole del rapporto di lavoro. Per questo, le modifiche negoziate vincolano tutti i datori di lavoro e i loro poteri di gestione del rapporto dovranno essere esercitati alle condizioni concordate nei confronti di tutti i dipendenti21. Un’altra indicazione dell’art. 8, che lo pone fuori del quadro storico del nostro sistema, consegue alla modifica introdotta nel corso dell’iter parlamentare, che ha attribuito agli accordi collettivi decentrati, aziendali e territoriali il potere di modificare non solo le norme di legge, ma anche le clausole del contratto collettivo nazionale. L’ampiezza della delega, che riguarda le stesse materie indicate al secondo comma, conferisce alla contrattazione decentrata un potere di derogare al contratto nazionale ben più ampio di quello attribuito dall’accordo del 28.6.2011 e invero da tutta la tradizione delle relazioni industriali italiane22. L’opinione giurisprudenziale e dottrinale da tempo prevalente non riconosce alla contrattazione collettiva di livello superiore il potere di limitare con effetti reali i contenuti dei contratti decentrati. Ma averlo sancito per legge costituisce un cambiamento istituzionale importante. Si pone in controtendenza con l’impegno delle parti sociali, concretatasi da ultimo nell’accordo interconfederale del 2011, di mantenere un controllo sul decentramento contrattuale e di ribadire il ruolo baricentrico del contratto nazionale. L’impatto della norma sui rapporti contrattuali dipenderà dall’uso che ne faranno le parti sociali. Esse potranno comunque seguire le direttive dell’accordo del 2011, come si sono impegnate a fare con la nota integrativa dei sottoscrittori dell’accordo siglata il 21.9.2011, riaffermando la loro volontà e capacità di controllo centrale del sistema. Ma la norma autorizza scelte diverse, che potrebbero affermarsi anche solo in singoli settori, territori o aziende a seconda delle circostanze. Le pressioni centrifughe sollecitate dalle trasformazioni produttive e dalla concorrenza potrebbero indurre gli attori ad accettare forme di decentramento fuori dal quadro nazionale e potrebbero portare a un progressivo depotenziamento del contratto di categoria.

3.2 Sanatoria degli accordi precedenti al 28.6.2011

Il terzo comma dell’art. 8 attribuisce efficacia generale anche alle disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, sottoscritti prima dell’accordo 28.6.2011. Il riferimento alla data della stipula, come la condizione che l’accordo sia stato approvato con votazione a maggioranza dai lavoratori, è tale da ricomprendere molti accordi aziendali conclusi prima del 28 giugno, compresi quelli FIAT oggetto delle controversie sopra ricordate. In tal modo, il legislatore ha sancito quella sanatoria retroattiva di tali accordi che le parti sociali non hanno voluto né avrebbero potuto concordare. Anche questa norma non mancherà di sollevare possibili rilievi di costituzionalità perché, interviene in una materia caratterizzata da giudizi pendenti23. Dubbi possono riguardare l’ambito della sanatoria. L’attribuzione di efficacia generale agli accordi non dovrebbe comportare la sanatoria di eventuali vizi delle intese: si pensi alle controversie circa la qualificazione della cd. newco di Pomigliano come trasferimento d’azienda e alle conseguenze in ordine ai rapporti di lavoro trasferiti. Per altro verso, la condizione richiesta dal terzo comma dell’approvazione per referendum dell’accordo destinato ad avere efficacia generale è diversa da quelle stabilite al primo comma, perché la procedura dell’accordo 2011 non richiede il referendum come condizione necessaria per l’efficacia delle intese. Ancora una volta si è di fronte a una sfasatura normativa, non facilmente giustificabile.

3.3 Contrattazione nel settore ferroviario

Il comma 3 bis dell’art. 8, comparso nell’emendamento del governo presentato in Aula al Senato, introduce una modifica all’art. 36, co. 11, d.lgs. 8.7.2003, n. 188, con la quale si fa obbligo alle imprese ferroviarie e alle associazioni internazionali di imprese ferroviarie operanti in Italia di osservare, oltre alla normativa regolamentare, «anche i contratti collettivi nazionali di settore» relativamente non solo ai vari standard tecnici previsti dal predetto art. 36, ma anche alle «condizioni di lavoro del personale». Anche questa è una norma che innova radicalmente sulle regole generali riguardanti la efficacia dei contratti collettivi. Infatti, essa comporta l’attribuzione ai contratti collettivi nazionali di settore di efficacia generale per tutte le imprese indicate. A parte le possibili obiezioni di merito, tale innovazione si espone, per i motivi già accennati, a possibili obiezioni di incostituzionalità per contrasto con l’art. 39 Cost.

Note

1 Tesi simili riferite, all’accordo interconfederale del 2009, si trovano già in Trib. Monza, 6.10.2009, in Dir. prat. lav., 2009, 978.

2 C’è chi ha sostenuto che debba ritenersi in vigore solo il contratto del 2009, argomentando dal principio di effettività e dalla dinamica della autonomia collettiva. Tale dinamica ha portato una parte delle organizzazioni sindacali, significativa se non prevalente, a ritenere superato il contratto del 2008 e a rinegoziarlo. Una volta che tale posizione ha prevalso sulle tesi favorevoli al mantenimento del contratto precedente, il principio di effettività indurrebbe a ritenere che il nuovo contratto sia sostitutivo del precedente e non si limiti ad affiancarsi ad esso (Pandolfo- Consolini, Applicazione del CCNL come condotta antisindacale, in Dir. prat. lav., 2011, 22).

3 In Mass. giur. lav., 2011, 580, con nota di Vallebona, L’efficacia dei contratti collettivi al tempo della divisione sindicale: col diritto non si scherza!

4 Lunardon, Il contratto collettivo aziendale, Relazione AIDLASS, 2010.

5 In Mass. giur. lav. 2011, 580 con nota di Vallebona, cit.

6 Ibidem.

7 È questa un’opinione dottrinale e giurisprudenziale del tutto consolidata.

8 In Mass. giur. lav. 2011, 580 con nota di Vallebona, cit.

9 È controverso quale sia la sorte degli aumenti economici previsti dal nuovo contratto del 2009, per gli iscritti al sindacato dissenziente. La tesi che si tratterebbe di trattamenti di miglior favore, come tali intangibili, in base al principio di non discriminazione, ex art. 16, Statuto dei Lavoratori è infondata; ma non risulta che sul punto siano state sollevate contestazioni a livello individuale (il che fa ritenere che tali aumenti siano stati di fatto applicati a tutti).

10 Cfr. tra i primi commenti Magnani, La manovra di Ferragosto e il diritto del lavoro, in Cuore e critica, 2011, in www.cuorecritica.it,; Maresca, La contrattazione collettiva aziendale dopo l’art. 8 d.l. 13 agosto 2011, n. 138, ivi.

11 Tanto che un o.d.g. approvato all’unanimità dalla Camera dei deputati impegna il Governo a riconsiderarla. Le stesse parti stipulanti hanno siglato il 22.9.2011 una nota integrativa all’accordo del 28 giugno, ove concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti. Conseguentemente, «si impegnano ad attenersi all’accordo interconfederale del 28 giugno, applicandone compiutamente le norme e a far sì che le rispettive strutture, a tutti i livelli, si attengano a quanto concordato nel suddetto accordo sindacale». Tale nota, pur senza riferimento esplicito all’art. 8, indica la volontà delle parti di volersi muovere nel rispetto dell’accordo del 28 giugno, di mettere la sordina sulle possibili controversie riguardanti l’applicazione dello stesso art. 8.

12 Rimando per le motivazioni all’ampia letteratura in proposito: da ultimo Lunardon, Il contratto collettivo aziendale, cit.

13 Per Maresca, La contrattazione collettiva aziendale, cit., la questione di costituzionalità ex art. 39 si pone invece solo per i contratti di categoria.

14 Un precedente (l’unico) è costituito dall’art. 7, co. 2, del cd. «collegato lavoro» (l. n. 183/2010), peraltro di portata circoscritta in quanto la rappresentatività territoriale è qui rilevante limitatamente alla contrattazione in materia di orario di lavoro dei marittimi.

15 Maresca, La contrattazione collettiva aziendale, cit., propone invece una interpretazione correttiva per cui, qui come in altre parti dell’art. 8 andrebbe fatto riferimento ai criteri dell’accordo del 28.6.2011.

16 Cfr. invece la proposta correttiva di Maresca, La contrattazione collettiva aziendale, cit.

17 Il livello provinciale è usato per la contrattazione di varie categorie e per definire l’ambito di istituzioni riguardanti la gestione del mercato del lavoro e la composizione delle controversie (commissioni di conciliazione, di arbitrato e di certificazione).

18 Il riferimento di questo comma dovrebbe comprendere solo le deroghe alle leggi nazionali non alle norme regionali, che non sono competenti a regolare il rapporto di lavoro. D’altra parte, sembra escluso che i contratti collettivi possano derogare alla normativa regionale in materie di loro competenza (es. in tema di formazione).

19 Un rilievo simile in Magnani, La manovra di Ferragosto, cit.

20 Così in Magnani, La manovra di Ferragosto, cit.

21 Lunardon, Il cotratto collettivo aziendale, cit..

22 Così anche Maresca, La contrattazione collettiva aziendale, cit.

23 Magnani, La manovra di Ferragosto, cit..

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