Misure cautelari [dir. proc. pen.] 3. Criteri di scelta

Diritto on line (2016)

Claudio Papagno

Abstract

Scevro da rigidi automatismi, il sistema cautelare propone la tipizzazione di un “ventaglio” di misure, di gravità crescente (artt. 281-285), la cui scelta è condotta sulla base del criterio di “adeguatezza” e “proporzionalità” (art. 275, co. 1 e 2, c.p.p.), dando corpo al principio del “minore sacrificio necessario”, per cui si impone al giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto. Tuttavia, una delle fasi più delicate del procedimento cautelare diviene terreno fertile per scelte contingenti del legislatore, il quale, allargando le maglie di applicazione della presunzione di adeguatezza di cui all’art. 275, co. 3, c.p.p., ha provocato l’intervento, a più riprese, della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’incompatibilità con il dettato costituzionale.

Premessa

Sebbene l’idea di misura cautelare personale si identifichi con quella carceraria, questa non è l’unica che viene predisposta dal codice di rito penale per fronteggiare le esigenze cautelari indicate nell’art. 274 c.p.p. Anzi, nell’ottica del principio del “minor sacrificio necessario” alla libertà personale, il legislatore prevede espressamente che «la misura cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata» (art. 275, co. 3, c.p.p.). La misura carceraria rappresenta, quindi l’extrema ratio cui ricorrere ove tutte le altre misure ivi previste non siano in grado di fronteggiare le pressanti esigenze cautelari che deriverebbero dallo status libertatis del soggetto sottoposto.

Prima di giungere a disporre l’applicazione della misura maggiormente afflittiva, il giudice deve valutare, in astratto, se le esigenze cautelari siano fronteggiabili con una misura “semplicemente” interdittiva che, cioè, impedisca al sottoposto di esercitare talune prerogative ricollegabili alle proprie caratteristiche soggettive (v. Misure cautelari [dir. proc. pen.] 2. tipologia). Cosicché, ove si proceda per un reato per il quale è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore, nel massimo, a tre anni (art. 287 c.p.p.), potrà farsi luogo alla sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori (in questo caso l’essere genitore è la qualifica soggettiva cui è collegata la prerogativa inibita: la potestà sulla prole, art. 288 c.p.p.), alla sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 c.p.p.), al divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290 c.p.p.). Se le esigenze cautelari non sono direttamente ricollegabili alla qualifica soggettiva rivestita dal soggetto da sottoporre, ma alle sue caratteristiche intrinseche che prescindono dalle eventuali qualità rivestite e sempre che si proceda per un reato punito con la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni (quattro anni per la custodia cautelare in carcere, art. 280 c.p.p.), allora occorrerà “scegliere” fra le seguenti misure di carattere coercitivo che il codice dispone, idealmente, in ordine crescente di afflittività: partendo dal divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.), continuando per l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282 c.p.p.), l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p., norma introdotta dall’art. 1 l. 4.4.2011, n. 154), il divieto e obbligo di dimora (art. 283 c.p.p.), gli arresti domiciliari (art. 284 c.p.p.), per giungere, se si ritiene che nessuna di queste misure sia capace di arginare i rischi paventati nell’art. 274 c.p.p., sino alla custodia cautelare in carcere (art. 285 c.p.p.) o in luogo di cura qualora la persona da sottoporre a custodia cautelare si trovi in «stato di infermità di mente che ne esclude e ne diminuisce grandemente la capacità di intendere e volere» (art. 286 c.p.p.).

Il criterio di adeguatezza

La l. 16.4.2015, n. 47 e le restrizioni al ricorso alla custodia in carcere

Alla luce delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato l’Italia per il “trattamento inumano o degradante” dovuto al sovraffollamento carcerario, determinato in parte dall’alta percentuale di detenuti non ancora condannati definitivamente, il legislatore – dopo una serie di interventi “di emergenza” – ha approvato un provvedimento più organico, destinato a ricondurre la custodia cautelare in carcere al ruolo di extrema ratio, in aderenza ai principi generali del sistema, e a favorire l’uso di misure alternative, come l’arresto domiciliare, il braccialetto elettronico o le misure interdittive. È in questo senso, che va letta la riforma di cui alla l. 16.4.2015, n. 47 in cui – proprio nei criteri di scelta della misura cautelare – si attenuano alcuni automatismi applicativi che spingono verso l’assimilazione della custodia cautelare alla pena anticipata. Uno dei cardini del codice di rito  in materia rimane pur sempre il principio di adeguatezza, in base al quale la misura deve essere commisurata alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare, che devono essere indicate nella motivazione del provvedimento proprio perché la misura si giustifica solo in relazione alla legittima e specifica finalità che si intende perseguire nel caso concreto. Cosicché, si è agito sull’art. 275, co. 3, c.p.p. e sulle altre presunzioni assolute (artt. 276, co. 1-ter, e 284, co. 5-bis, c.p.p.) dirette a vincolare in maniera irragionevole il convincimento del giudice.

Il nuovo testo dell’art. 275, co. 3, c.p.p., dunque, è stato allineato alla giurisprudenza della Corte costituzionale, mantenendo la presunzione assoluta di adeguatezza esclusivamente per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. Oltre ad escludere le altre fattispecie di reato la cui inclusione era stata già giudicata incostituzionale (v. infra, § 2.3), si restringe drasticamente anche il precedente generico riferimento all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p., ove è elencata una serie di ipotesi, che seppure occasionalmente riferibili ai delitti di mafia o contraddistinte dalla finalità di terrorismo, non presentano necessariamente quei caratteri che giustificano il carcere come unico strumento idoneo a recidere i rapporti con l’associazione criminale. Per questi delitti, e per gli altri in precedenza assoggettati al medesimo regime, vige ora la regola della doppia presunzione relativa, con riferimento tanto alle esigenze cautelari quanto alla scelta della misura. Va, inoltre, ricordato che analoga conclusione vale per il concorso esterno in associazione mafiosa (che sarebbe astrattamente riconducibile all’art. 416 bis c.p.), in virtù della sentenza C. cost., 26.3.2015, n. 48, ultima fra quelle pronunciate dalla Consulta sull’art. 275, co. 3, c.p.p.

Il contenimento del ricorso alla custodia carceraria passa, inevitabilmente, dalla valorizzazione delle misure non carcerarie. Per quanto riguarda in particolare l’applicabilità degli arresti domiciliari, oltre ai ritocchi esaminati nel paragrafo precedente, la modifica più evidente è quella introdotta dal co. 3-bis dell’art. 275 c.p.p., che prescrive l’indicazione delle specifiche ragioni per le quali non sia idonea la misura degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico in luogo della custodia in carcere. Questa modifica, come è facile constatare, è più significativa di quella all’art. 275 bis c.p.p. che l’ha preceduta.

Se ne ricava la precisa intenzione del legislatore di considerare, in linea di principio, gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico ugualmente idonei, rispetto alla custodia in carcere, a tutelare le esigenze cautelari poste alla base della misura, stabilendo in pratica una presunzione (relativa) in tal senso, questa volta favorevole all’imputato.

Un’altra modifica che dovrebbe favorire l’uso delle misure alternative alla custodia in carcere è quella che consente espressamente l’applicazione cumulativa di misure coercitive o interdittive. Tale possibilità era in precedenza prevista solo per il caso di trasgressione alla prescrizioni inerenti ad una misura cautelare (art. 276, co. 1, c.p.p.) o di scarcerazione per decorrenza dei termini (art. 307, co. 1-bis, c.p.p.). Al riguardo le Sezioni Unite, in applicazione del principio di stretta legalità, avevano – ineccepibilmente – affermato che l’applicazione congiunta di due distinte misure non fosse consentita al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (Cass. pen., S.U., 30.5.2006, La Stella, in C.E.D. Cass., n. 234138). Ora, anche l’art. 275, co. 3, c.p.p., nella parte in cui si riferisce alla scelta della custodia in carcere come extrema ratio, e l’art. 299, co. 4, c.p.p., riguardante la richiesta del pubblico ministero di sostituzione della misura nel caso di aggravamento delle esigenze cautelari, contemplano questa possibilità che, sia pure in maniera indiretta, diventa una regola generale. Sembra cioè doversene dedurre che l’applicazione congiunta di misure anche eterogenee (purché compatibili fra loro) sia ammissibile non solo come alternativa alla custodia in carcere, ma anche come oggetto principale della domanda cautelare, oppure come opzione del giudice in luogo di qualunque altra misura più grave che sia stata richiesta dal pubblico ministero.

Il criterio di sussidierietà della custodia in carcere

Come detto, a fondamento del principio del minor sacrificio necessario si pone l’art. 275, co. 3, c.p.p., il quale recita che «la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata», stabilendo che la limitazione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato deve essere contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari emergenti nel caso concreto oggetto del procedimento.

Ciò sta a significare che il ricorso alla custodia in carcere è consentito solo quando le esigenze processuali non possono essere soddisfatte con soluzioni alternative, così come previsto dalla Corte costituzionale (C. cost., 4.5.1970, n. 64), in una lettura costituzionalmente orientata della disciplina dei termini massimi della custodia cautelare. Si riconosceva, in quella sede, che la detenzione preventiva (oggi custodia cautelare) – esplicitamente prevista dalla Costituzione (art. 13, ult. co., Cost.) – va disciplinata in modo da non contrastare con una delle fondamentali garanzie della libertà del cittadino: la non considerazione di colpevolezza dell’imputato. Il rigoroso rispetto di tale garanzia – che vincola, per altro, non il solo legislatore, ma anche le pubbliche autorità (polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudice), alle quali sono affidate le attività processuali – necessariamente comporta che la detenzione preventiva in nessun caso possa avere la funzione di anticipare la pena da infliggersi solo dopo l’accertamento della colpevolezza: essa, pertanto, può essere predisposta unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo.

Contrariamente ad altri sistemi processuali, in cui le esigenze cautelari sono sufficientemente salvaguardate con un’unica misura (si pensi al processo amministrativo regolato per lunghi anni sulla “sospensiva” dell’efficacia del provvedimento amministrativi), il processo penale presenta un sistema cautelare “a geometria variabile”, in cui vi è un ventaglio di misure cautelari in grado di soddisfare, in via gradata, le esigenze cautelari che possono sorgere.

All’interno del procedimento penale, il perché di questa differenza è presto detto: il processo penale si informa ai principi nobili della “non considerazione di colpevolezza” di cui all’art. 27, co. 2, Cost. che ha indotto il Giudice costituzionale ha ricordare, con forza, il valore sussidiario della carcerazione preventiva rispetto alle finalità del processo, affermando che «la tutela della libertà personale che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall’art. 13, co. 5, Cost., è quindi un valore unitario ed indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali» (C. cost., 22.7.2005, n. 299), confermando, altresì, il principio per cui la compressione della libertà personale deve essere contenuta entro i limiti minimi necessari a soddisfare le esigenze cautelari concretamente ravvisabili nella fattispecie di riferimento. Conseguentemente, sotto il profilo quantitativo, l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere è consentita solo quando le esigenze processuali non possano essere soddisfatte con misure di minore incisività: quando, cioè, «ogni altra misura risulti inadeguata» ai sensi dell’art. 275, co. 3, c.p.p.

Sul punto sussiste un obbligo di motivazione poiché, a pena di nullità, il giudice deve esporre «le concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure», come previsto dall’art. 292, co. 2, c.p.p.

Il compito di adeguare la scelta della misura cautelare all’entità delle esigenze cautelari da salvaguardare è compito precipuo del giudice. Anzi, come è stato opportunamente messo in evidenza da una sentenza della Corte costituzionale (C. cost., 21.7.2010, n. 265) «tratto saliente complessivo del regime ora ricordato – conforme al quadro costituzionale di riferimento – è quello di non prevedere automatismi né presunzioni». Insomma, le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale devono essere apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piena «individualizzazione della coercizione cautelare» (C. cost. n. 265/2010, cit.). D’altronde, l’attività di conformare alle circostanze del caso concreto è insita nel concetto di “adeguare” il cui protagonista è il giudice, il quale è chiamato ad applicare la misura cautelare che maggiormente si conformi al caso sottopostogli. Ogni astrazione, in questo senso, che tenda, cioè, a “tipizzare” per via legislativa l’adeguatezza di una misura cautelare a determinate esigenze cautelari rischia di divenire un “fuor d’opera”, se la previsione legislativa non è legata a rigorosi parametri empiricamente dimostrabili.

Può apparire legittima, come vedremo, una presunzione di conformità della misura cautelare custodiale, che escluda ogni potere discrezionale da parte del giudice quando si proceda per determinati reati che, secondo l’id quod plorumque accidit, non consentono, per le loro caratteristiche intrinseche, di ritenere che altre misure meno afflittive siano capaci di fronteggiare le esigenze cautelari avvertite nell’ambito processuale.

Quanto detto sino ad ora è frutto di un’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che varca i confini nazionali per confrontarsi con i principi fondamentali che regolano la materia della libertà personale con specifico riferimento alla fase di applicazione e modifica delle misure cautelari personali nella proporzione e, in particolare, nell’adeguatezza, rintracciabili nella normativa convenzionale internazionale (tra cui, rileva l’art. 5, co. 1, lett. c, e co. 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – CEDU – firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848, unitamente al Protocollo addizionale alla Convenzione stessa firmato a Parigi il 20 marzo 1952).

Più precisamente, la Corte di Strasburgo pronunciandosi su un ricorso volto a denunciare l’irragionevole durata della custodia cautelare in carcere applicata ad un indagato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e la conseguente violazione dell’art. 5, par. 3, CEDU non ha mancato di rilevare come una presunzione quale quella prevista dall’art. 275, co. 3, c.p.p., potesse, in effetti, impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze del caso concreto e, dunque, «apparire eccessivamente rigida».

Nondimeno, secondo la Corte europea, la disciplina in esame rimaneva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso» e, segnatamente, in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in questione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (C. eur. dir. uomo, sent. 6.11.2003, Pantano c. Italia).

In linea generale, possiamo affermare che – salvo le eccezioni legate ai reati di più forte allarme sociale – il principio di adeguatezza è antitetico, salvo pochissime eccezioni, a qualsiasi forma di automatismo decisionale che non implichi un supporto giustificativo in grado di dare contezza, sotto il profilo argomentativo, alla restrizione della libertà personale dell’individuo. Adeguare, quindi, significa “dover scegliere” la misura che più si ritiene confacente alle esigenze avvertite nell’ambito del procedimento penale e, di conseguenza, “dover motivare” la scelta effettuata in ossequio alla imprescindibile regola che informa la giurisdizione che vuole un onere di motivazione ogni qualvolta vi sia un potere discrezionale del giudicante.

È lo stesso art. 13, co. 2, Cost. che statuisce la non ammissibilità di qualsiasi forma di detenzione che prescinda da un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Orbene, è chiaro che ove l’operazione di scelta della misura venga effettuata “a monte” dal legislatore, il giudice sarà esonerato quanto meno dal motivare circa la sussistenza delle «concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» diverse dalla carcerazione (art. 292, co. 2, lett. c-bis, c.p.p.). Basterà, all’uopo, indicare il reato per cui si procede, l’esistenza delle esigenze cautelari e scatterà quell’automatismo decisionale che indicherà nella custodia cautelare in carcere l’unica misura applicabile al caso di specie; con buona pace dell’onere motivazionale sancito a livello costituzionale.

Come si è detto (supra, § 2.1), il testo dell’art. 275, co. 3, c.p.p. rinveniente dalla modifica di cui alla l. n. 47/2015, è stato allineato alla giurisprudenza della Corte, mantenendo la presunzione assoluta di adeguatezza esclusivamente per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p., nonché agli artt. 270 e 270 bis c.p. Oltre ad escludere le altre fattispecie di reato la cui inclusione era stata già giudicata incostituzionale, si restringe drasticamente anche il precedente generico riferimento all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p., ove è elencata una serie di ipotesi, che seppure occasionalmente riferibili ai delitti di mafia o contraddistinte dalla finalità di terrorismo, non presentano necessariamente quei caratteri che giustificano il carcere come unico strumento idoneo a recidere i rapporti con l’associazione criminale. Per questi delitti, e per gli altri in precedenza assoggettati al medesimo regime, vige ora la regola della doppia presunzione relativa, con riferimento tanto alle esigenze cautelari quanto alla scelta della misura. Va, inoltre, ricordato che analoga conclusione vale per il concorso esterno in associazione mafiosa (che sarebbe astrattamente riconducibile all’art. 416 bis c.p.), in virtù della sentenza n. 48/2015, ultima fra quelle pronunciate dalla Corte costituzionale sull’art. 275, co. 3, c.p.p.

È previsto, altresì, il divieto di concessione degli arresti domiciliari a chi fosse stato condannato per evasione nei cinque anni precedenti (art. 284, co. 5-bis, c.p.p.). Tuttavia, la riforma in parola consente al giudice di non tener conto della condanna qualora, sulla base di specifici elementi, ritenga che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere ugualmente soddisfatte con la misura non carceraria. È, dunque, ora richiesto un apprezzamento, caso per caso, della condotta che ha configurato il reato di evasione già accertato, la qual cosa può realizzarsi soltanto prendendo visione della motivazione della sentenza, con le complicazioni pratiche che possono derivare dalla necessità di acquisirla agli atti. In caso di giudizio favorevole sulla lieve entità, è poi necessaria una valutazione comparativa sulla persistente maggiore adeguatezza degli arresti domiciliari: in altre parole, si richiede al giudice una motivazione che dimostri la non necessità della custodia in carcere, rovesciando il criterio generale secondo cui tale misura andrebbe applicata solo quando tutte le altre risultino inadeguate.

Ma se il principio di adeguatezza implica necessariamente il potere discrezionale del giudice in ordine alla scelta della misura cautelare da applicare, tale prerogativa giurisdizionale incontra un preciso limite in un altro principio che informa l’istituto delle misure cautelari: quello di legalità (art. 272 c.p.p.). È inibito, infatti, al giudice la possibilità di “creare”, in base alle esigenze cautelari emergenti dagli atti del procedimento penali, figure nuove di misure cautelari che meglio si adattino alle esigenze del caso concreto.

Il problema è quello dell’applicazione congiunta di più misure cautelari.

A dirla tutta, la questione è piuttosto dibattuta: ad un primo indirizzo (Cass. pen., sez. VI, 30.3.2004, Milloni), che ammette espressamente l’applicazione simultanea di misure coercitive, che siano tra loro compatibili, anche fuori dalle ipotesi disciplinate dall’art. 276 c.p.p. (provvedimenti in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte) e art. 307 c.p.p. (provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini), se ne contrappone un altro, più ligio al principio di legalità, che informa la materia cautelare, per cui, al di fuori dei casi in cui sia espressamente prevista da singole norme processuali (art. 276, co. 1, c.p.p., e art. 307, co. 1-bis, c.p.p.), non è ammessa l’applicazione simultanea, in un mixtum compositum, di due diverse misure cautelari tipiche, omogenee o eterogenee, che pure siano tra loro astrattamente compatibili (Cass. pen., sez. IV, 15.5.2003, Zazzarro).

Provvidenziale è stato l’intervento delle Sezioni Unite, le quali, partendo da una cognizione dei vari indirizzi interpretativi, optano risolutamente per la tesi maggiormente garantista, statuendo che «la possibilità di cumulo delle misure cautelari resta riservata all’unica fattispecie normativamente prevista dall’art. 276, co. 1, c.p.p. per la quale, solo in caso di trasgressione alle prescrizioni imposte con una misura cautelare, il giudice, alle condizioni previste e sempre che non vi sia un’intrinseca incompatibilità tra alcune misure, può disporre, oltre la sostituzione, ‘il cumulo con altra più grave’, anche di natura coercitiva se si tratta di violazione delle prescrizioni inerenti a una misura interdittiva» (Cass. pen., S.U., 30.5.2006, n. 29907).

La l. 17.4.2015, n. 47 ha, in questo senso, introdotto una modifica che dovrebbe favorire l’uso delle misure alternative alla custodia in carcere, vale a dire l’espressa possibilità di applicazione cumulativa di misure coercitive o interdittive. L’art. 275, co. 3, c.p.p., nella parte in cui si riferisce alla scelta della custodia in carcere come extrema ratio, e l’art. 299, co. 4, c.p.p., riguardante la richiesta del pubblico ministero di sostituzione della misura nel caso di aggravamento delle esigenze cautelari, contemplano questa possibilità che, sia pure in maniera indiretta, diventa una regola generale. Sembra cioè doversene dedurre che l’applicazione congiunta di misure anche eterogenee (purché compatibili fra loro) sia ammissibile non solo come alternativa alla custodia in carcere, ma anche come oggetto principale della domanda cautelare, oppure come opzione del giudice in luogo di qualunque altra misura più grave che sia stata richiesta dal pubblico ministero.

La possibilità di cumulo delle misure non deroga al principio di tipicità delle stesse, poiché non è consentito creare forme atipiche di cautela mescolando i caratteri di misure diverse, dal momento che resta valido l’insegnamento delle Sezioni Unite secondo cui è inammissibile l’imposizione aggiuntiva di prescrizioni non previste dalle disposizioni regolanti le singole misure, perché si verrebbe altrimenti a creare una nuova misura non corrispondente al paradigma normativo. L’art. 272 c.p.p., infatti, non è sovrapponibile, quasi ne rappresentasse il “doppione”, con la previsione di cui all’art. 13 Cost., riflettendosi in essa piuttosto il proposito di ridurre a un “numero chiuso” le figure di misure limitative della libertà utilizzabili in funzione cautelare nel corso del procedimento penale, sicché non possono essere applicate misure diverse da quelle espressamente considerate. In questo senso, l’impiego dell’avverbio «soltanto» è provvidenziale nel accentuare il principio di tassatività, in quanto diretto a vincolare rigorosamente alla previsione legislativa l’esercizio della discrezionalità del giudice in materia di limitazioni, di per sé eccezionali, della libertà della persona. Non è un caso che l’art. 275 c.p.p., indicando i «criteri di scelta delle misure», declina queste sempre al singolare – «ciascuna», «ogni», «ogni altra» – sembrando evidenziare l’intento legislativo di fare riferimento ad una misura coercitiva per volta e non all’applicazione cumulativa delle stesse.

La presunzione per i reati di criminalità organizzata

La struttura dell’istituto delle misure cautelari, così come delineata originariamente dal codice di rito, ben presto si è dovuta confrontare con i fenomeni di particolare allarme sociale che hanno funestato la cronaca nazionale poco dopo l’entrata in vigore del codice medesimo. Questi episodi mettono in luce come sia difficile contrastare la criminalità organizzata di indole mafiosa con gli strumenti ordinari messi a disposizione dalla disciplina codicistica. Nasce, così, un fenomeno legislativo molto controverso, denominato “doppio binario”, che prevede una disciplina “particolare” – il più delle volte meno garantista per l’accusato – affianco a quella ordinaria, da utilizzare, rispetto a quest’ultima, quando si procede per reati di stampo mafioso.

Accanto a una disciplina ordinaria, quindi, prevista per i reati comuni, vi è una disciplina particolare per i reati di stampo mafioso che, rispetto alla prima, rappresenta una svolta in senso decisamente meno garantista. Mentre per i cd. “reati comuni”, la custodia carceraria rappresenta l’ultima ratio da utilizzare in presenza di «concrete e specifiche ragioni» (art. 292, lett. c-bis, c.p.p.) che fanno ritenere inidonee le altre misure meno afflittive, per i reati di indole mafiosa «è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari» (art. 275, co. 3, c.p.p.).

Si assiste, insomma, ad una sorta di capovolgimento di prospettive, laddove la misura che, ordinariamente, dovrebbe rappresentare, in ossequio ai canoni costituzionali, l’ultima soluzione adottabile, nei reati mafiosi rappresenta la prima e anche l’unica scelta perché la disciplina fa salvo solo il caso in cui manchino le esigenze cautelari (e, quindi, la stessa ragion d’essere della misura), mentre non è prevista alcuna alternativa in fatto di misure adottabili.

Il legislatore, in pratica, sostituendosi ad una valutazione che dovrebbe essere effettuata dal giudice caso per caso, adotta a monte la valutazione di adeguatezza della misura cautelare carceraria in presenza di determinate fattispecie criminose, presumendo che, in tali casi, non vi possa essere strumento cautelare più idoneo per fronteggiare le esigenze cautelari ivi percepite.

La presunzione, introdotta per la prima volta con il d.l. 13.5.1991, n. 152, riguarda originariamente i reati previsti dagli artt. 285, 286, 416 bis, 422, 575, 628, co. 3, 629, co. 2, e 630 c.p., i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis o al fine di agevolare l’attività di tali associazioni, i reati commessi per finalità di terrorismo o eversione per i quali fosse stabilita la pena non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, i delitti ex art. 73 d.P.R. 9.10.1990, n. 309 aggravati ai sensi dell’art. 80, co. 2, dello stesso decreto, nonché l’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990. Nella formulazione originaria del decreto era prevista la possibilità che non si faccia luogo alla restrizione se si acquisiscano elementi dai quali risulti la mancanza delle esigenze cautelari o che le stesse possano essere soddisfatte con altre misure. Si tratta, a ben vedere, di una presunzione relativa, superabile laddove si fosse in grado di dimostrare la possibilità di fronteggiare le esigenze cautelari con misure meno afflittive. Già dopo pochi mesi, tuttavia, e segnatamente con il d.l. 9.9.1991, n. 292, convertito, con modificazioni, dalla l. 8.11.1991, n. 356, la presunzione di adeguatezza diviene ancor più rigida, poiché l’unica possibilità di prova contraria lasciata all’indagato si riduce alla dimostrazione dell’insussistenza di esigenze cautelari, e non anche dell’idoneità di misure di entità inferiore (Marinelli, C., Crimine organizzato: doppio binario cautelare e diritto penale, in Cass. pen., 2001, 941).

Dopo qualche anno, nel 1995, i reati interessati dalla previsione sono stati ridotti, per effetto dell’art. 5, co. 1, l. n. 332/1995, ai soli «delitti di cui all’articolo 416 bis del codice penale» e «ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo».

Ora, quale che sia l’assetto adottato dalla norma e i reati interessati dalla presunzione, occorre porsi alcuni interrogativi circa la compatibilità di siffatta presunzione con il quadro delle garanzie costituzionali. Più approfonditamente, può una disposizione di legge che sottrae al giudice il potere di scegliere la misura definirsi compatibile con il principio del minor sacrificio necessario che discende direttamente dalla lettura combinata degli artt. 3, 13, co. 1, e 27, co. 2, Cost.?

Interrogata sul punto, la Corte costituzionale, con l’ordinanza 24.20.1995, n. 450, si è schierata nettamente per la legittimità della norma in questione, osservando, da un lato, la mancata lesione dei principi costituzionali, una volta che permanga comunque in capo al giudice l’accertamento, sia pure in negativo (per il tramite della emersione di elementi rivelatori della loro insussistenza) delle esigenze cautelari e, dall’altro, la competenza esclusiva del legislatore in ordine all’individuazione del punto di equilibrio tra le diverse esigenze rappresentate. Tali esigenze sono riconducibili alla minore restrizione possibile della libertà personale e all’effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari; segnatamente, in ordine a tale punto, precisava la Corte come «la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso» renda manifesta la non irragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità legislativa, atteso il coefficiente di pericolosità per le condizioni primarie di base della convivenza e della sicurezza collettiva connaturato a tali illeciti.

Secondo la Consulta non vi sarebbe uno “svuotamento” delle prerogative del giudice, atteso che a questi spetterebbe comunque il compito di valutare l’esistenza delle esigenze cautelari; ciò che, invece, gli verrebbe sottratto sarebbe solo il quomodo delle misura, vale a dire il tipo di misura da adottare in presenza di tutti i presupposti perché un provvedimento restrittivo possa essere adottato. Sottrazione che – pur nell’ambito della discrezionalità legislativa – si spiega sulla base dell’id quod plorumque accidit, per cui è plausibile che in presenza di tali reati, l’unica misura idonea per fronteggiare le esigenze cautelari sia la custodia in carcere.

Sulla stessa linea la Corte di Strasburgo, la quale, allineandosi al decisum della Corte costituzionale, con la decisione del 6.11.2003, Pantano c. Italia, ha ritenuto non confliggenti con le regole fissate dall’art. 5 CEDU, meccanismi di presunzione di pericolosità idonei a consentire la prosecuzione della custodia cautelare in carcere in presenza di situazioni peculiari quali i «fenomeni di criminalità organizzata ... di tipo mafioso» .

La Corte di Strasburgo, unitamente alla Corte costituzionale, pur “sdoganando” la disciplina interna che pareva essere in contrasto con le regole dell’equo processo relative alla durata ragionevole della carcerazione preventiva (art. 5 CEDU), ha lanciato un monito, chiedendo che simili previsioni siano circoscritte a fenomeni del tutto peculiari (criminalità mafiosa) che il legislatore nazionale, tuttavia, non coglierà quando estenderà la presunzione di cui all’art. 275, co. 3, c.p.p. anche ad altri reati, del tutto eterogenei.

L’allargamento della presunzione di adeguatezza

Se i moniti provenienti da più parti fossero stati ascoltati, probabilmente il legislatore non sarebbe incorso nelle plurime dichiarazioni di incostituzionalità che hanno riguardato il “pacchetto sicurezza” (d.l. 23.2.2009, n. 11 convertito, con modificazioni, dalla l. 23.4.2009, n. 38) nella parte in cui ha sensibilmente ampliato il ventaglio dei reati per cui opererebbe in sede cautelare la presunzione di adeguatezza.

Infatti, con l’art. 2 d.l. n. 11/2009 si è provveduto a modificare l’art. 275, co. 3, c.p.p. attraverso l’estensione della presunzione di esclusiva adeguatezza della custodia cautelare in carcere a nuovi ed ulteriori reati rispetto a quelli già presenti nel catalogo della norma. Cosicché, la risultante per effetto delle modifiche in oggetto comprende quattro sostanziali insiemi di reati, segnatamente individuabili nei reati di cui all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p. (plurime fattispecie che vanno dai reati associativi, ai reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ai reati di riduzione e mantenimento in schiavitù, di tratta di persone, di acquisto e alienazione di schiavi, al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, ai reati di repressione del contrabbando di tabacchi lavorati, sino ad arrivare ai reati consumati o tentati con finalità di terrorismo), nel reato, a sé stante, di omicidio, nei reati di pedopornografia e nei reati contro la libertà sessuale, fatte salve, relativamente a questi ultimi, le ipotesi attenuate di minore gravità di cui agli artt. 609 bis, co. 3, e 609 quater, co. 4, c.p. e l’ipotesi attenuata di cui all’art. 609 octies, co. 3, c.p.

Se la presunzione assoluta di adeguatezza della misura cautelare in carcere rappresenta un’eccezione tollerabile in ragione delle caratteristiche del reato di associazione mafiosa, non altrettanto può dirsi per i reati a cui la presunzione è stata estesa con il “pacchetto sicurezza” del 2009. Questi reati, il più delle volte, rappresentano il frutto di una spinta criminogena prettamente individuale (la violenza sessuale o l’omicidio), piuttosto che il frutto di un diffuso clima di omertà e timore dovuto all’egemonia dei clan dominanti.

Che la norma modificata con il d.l. n. 11/2009 sia funzionale all’esigenza di contrastare situazioni di particolare allarme sociale è circostanza nota, ma, come esplicitamente afferma la Corte costituzionale (C. cost. n. 265/2010, cit.), «la eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o della situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere … annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione».

È necessario utilizzare strumenti processuali consoni ed appropriati alla situazione all’esame del giudicante poiché, nel caso in cui si privilegi una diversa ratio, come nell’ipotesi del censurato d.l. n. 11/2009, si orienta l’istituto custodiale «verso finalità metacautelari, che nel disegno costituzionale devono essere riservate esclusivamente alla sanzione penale inflitta all’esito di un giudizio definitivo di responsabilità» (C. cost. n. 265/2010, cit.).

La custodia cautelare non può essere considerata un’anticipazione della pena e i limiti di legittimità costituzionale delle misure coercitive sono espressi e segnati con costante riferimento alla considerazione di non colpevolezza, secondo cui l’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva.

Ad aprire la strada è stata la sentenza n. 265/2010, cit., con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, co. 3, c.p.p., nella parte in cui configura una presunzione assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo sessuale: in particolare, per i reati di induzione o sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale e atti sessuali con minorenne (artt. 600 bis, co. 1, 609 bis e 609 quater c.p.).

Ad analoga declaratoria di illegittimità costituzionale, la Corte è altresì pervenuta, con la sentenza 12.5.2011, n. 164, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui assoggetta a detta presunzione assoluta anche il delitto di omicidio volontario (art. 575 c.p.).

In entrambe le occasioni, la Corte ha rilevato come i limiti di legittimità delle misure cautelari risultino espressi, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, co. 1, Cost.) – oltre che dalle riserve di legge e di giurisdizione (art. 13, co. 2 e 4, Cost.) – anche e soprattutto dalla considerazione di non colpevolezza (art. 27, co. 2, Cost.), a fronte della quale, le restrizioni della libertà personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità. Nell’ultima pronuncia (C. cost., 22.7.2011, n. 231) analogo trattamento è stato riservato alla norma in questione nella parte in cui la presunzione assoluta di adeguatezza coinvolge l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990.

A nessuna delle fattispecie contemplate poteva estendersi la ratio giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – legate alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere.

Sulla base di questa considerazione, la Corte costituzionale ritiene che l’art. 275, co. 3, c.p.p. sia illegittimo costituzionalmente nella parte in cui estende la presunzione assoluta di adeguatezza anche ai reati diversi da quello di cui all’art. 416 bis c.p. perché si pone in frizione sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi; sia con l’art. 13, co. 1, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27, co. 2, Cost., in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

Tuttavia, la Corte ritiene che non si possa rimuovere completamente la presunzione di adeguatezza, considerando che la stessa è frutto di una scelta discrezionale del legislatore. Per contemperare le esigenze costituzionali e non invadere il campo della discrezionalità del legislatore, la Corte ha rimosso solo il suo carattere assoluto, che implica un’indiscriminata e totale negazione del principio del “minore sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo, per tale verso, non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.

Il legislatore, con la riforma dell’aprile 2015 (l. n. 47/2015) ha recepito tutti gli insegnamenti che la Corte costituzionale ha ribadito a più battute, razionalizzando il sistema delle presunzioni in materia di scelta della misura cautelare che, sebbene non si sia spinto fino all’abolizione del meccanismo presuntivo, ha sostanzialmente eliminato le storture riscontrate nella precedente disciplina. In tal senso, il nuovo testo dell'art. 275, co. 3, c.p.p. come più volte ribadito, è stato allineato alla giurisprudenza della Corte, mantenendo la presunzione assoluta di adeguatezza esclusivamente per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p., nonché agli artt. 270 e 270 bis c.p. Oltre ad escludere le altre fattispecie di reato la cui inclusione era stata già giudicata incostituzionale, si restringe drasticamente anche il precedente generico riferimento all’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p., ove è elencata una serie di ipotesi, che seppure occasionalmente riferibili ai delitti di mafia o contraddistinte dalla finalità di terrorismo, non presentano necessariamente quei caratteri che giustificano il carcere come unico strumento idoneo a recidere i rapporti con l’associazione criminale.

Il criterio di proporzionalità

L’art. 275, co. 2, c.p.p. prescrive che «ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata». È la disposizione normativa che crea un collegamento tra la pena irrogata o che si presume venga irrogata con il provvedimento definitivo (sempre che non si giunga a sentenza assolutoria) e la misura cautelare che si intende disporre. Tra queste due grandezze, in termini di durata della restrizione della libertà personale, la norma prescrive che vi sia proporzione, vale a dire la «indefettibile correlazione che deve stabilirsi tra il differenziato livello di compressione della libertà personale, tipico di ciascuna misura, e l’entità della sanzione che si ritiene possa essere irrogata» (cfr. C. cost., ord. 22.7.1996, n. 278).

Correlazione che l’ordinamento impone anche in sede di computo della pena da espiare, come prescrive l’art. 657, co. 1, c.p.p. secondo il quale «il pubblico ministero, nel determinare la pena detentiva da eseguire, computa il periodo di custodia cautelare subita per lo stesso o per altro reato, anche se la custodia è ancora in corso». In questo senso, la misura cautelare non solo non può equipararsi, in termini quantitativi, alla pena definitiva, ma deve essere ragionevolmente inferiore rispetto alla pena che si ritiene possa essere irrogata. Diversamente, si assisterebbe alla paradossale situazione per cui, al termine del processo, non vi sarebbe alcuna pena da eseguire essendo, la stessa, già del tutto espiata nel corso del processo. Senza dire che siffatta situazione si tradurrebbe in un’inaccettabile, sotto l’aspetto costituzionale, anticipazione della pena in fase cautelare.

Il tema dell’an e del quomodo delle misure limitative della libertà personale si permea su due parametri in apparente frizione logica tra loro: da un lato, il principio di inviolabilità della libertà personale, con i relativi corollari di tipicità, riserva di legge, giurisdizionalità e limitazione temporale che ne assistono le eccezionali deroghe, sancito dall’art. 13 Cost. e, dall’altro, la non considerazione di colpevolezza, previsto dall’art. 27, co. 2, della medesima Carta.

L’apparente contraddizione tra una previsione espressa che legittima la privazione massima della libertà personale e la regola per la quale nessuna anticipazione di pena può ritenersi costituzionalmente compatibile con il principio che considera «non colpevole» la persona fino alla pronuncia della condanna irrevocabile, si risolve assegnando a questo secondo principio il valore di limite che, in negativo, contrassegna la legittimità della limitazione della libertà personale ante iudicium.

La proporzionalità, al pari del criterio dell’adeguatezza, è un parametro che deve informare la misura cautelare per tutto il tempo di esecuzione della stessa. In tal senso, una recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione statuisce che «il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all’art. 275, co. 2, c.p.p., opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale» (Cass. pen., S.U., 31.3.2011, n. 16085).

La proporzionalità opera su due versanti: in senso orizzontale, in termini di proporzione della durata della misura cautelare irrogata rispetto alla pronosticata pena finale; in senso verticale, in ordine all’afflittività della misura prescelta, ragione per cui, a fatti contestati dalla scarsa carica offensiva, ovvero a misure cautelari restrittive già de tempo in itinere può applicarsi altra misura cautelare meno afflittiva che tenga conto dell’entità del fatto (e, quindi, della pena che, ai sensi dell’art. 133 c.p., potrebbe essere irrogata) o al tempo già trascorso in una delle misure massimamente afflittive. Considerazioni che, parimenti, potrebbero condurre ad una revoca della misura medesima. Infatti, l’art. 275 c.p.p. riferisce il parametro della proporzionalità sia al rapporto tra misura cautelare e «entità del fatto», sia a quello tra misura cautelare e «sanzione» (che sia stata o si ritiene possa essere irrogata): posta l’eterogeneità tra i possibili termini del confronto, la disposizione sembra delineare due distinti ambiti di estrinsecazione del principio (cfr. Valentini, E., Principio di proporzionalità e durata della cautela, in Giur. mer., 2011, 446).

Ove ci destreggiassimo tra misure omogenee – quali ad esempio custodia in carcere e pena detentiva – il rapporto di proporzione può essere declinato in termini prettamente matematici come relazione tra due dimensioni uniformi espresse in termini numerici.

Questo rapporto matematico è in continua evoluzione, poiché muta all’aumentare del presofferto, con il decorso del tempo; per tale ragione, la verifica della permanente proporzionalità deve operare durante tutta la vita della misura, e non soltanto nel momento applicativo.

Il giudizio di proporzionalità rispetto alla sanzione non è necessariamente prognostico: per come è formulato l’art. 275, co. 2, c.p.p., esso può investire tanto la previsione di pena quanto la sanzione che sia stata già irrogata. Visto che le cautele vengono in genere applicate durante la fase preliminare, il richiamo alla «sanzione che ... sia stata già irrogata», per essere significativamente operativo, andrà riferito, più che al momento genetico della misura cautelare, al costante monitoraggio cui il giudice è chiamato durante la vigenza della restrizione cautelare (Valentini, E., Principio di proporzionalità, cit., 446).

L’esplicito riferimento alla sanzione che già sia stata irrogata impone al giudice di controllare costantemente il rispetto del canone di proporzionalità: rispetto alla pena prevedibile ma anche, nell’ipotesi in cui il procedimento principale sia già approdato ad un momento successivo alla pronuncia di una sentenza di condanna, rispetto alla pena concretamente imposta, sia pure in via non definitiva (Valentini, E., Principio di proporzionalità, cit., 446).

L’art. 275, co. 2, c.p.p. e l’art. 299, co. 2, c.p.p. attuativi della direttiva di cui all’art. 2, n. 59, d.lgs. 16.2.1987, n. 81 (legge delega sul codice di rito penale), fissano un principio, per così dire, autosufficiente, nella parte in cui stabiliscono che il giudice è chiamato a valutare la ragionevolezza del permanere della limitazione della libertà personale derivante dall’applicazione della misura cautelare, in relazione al prevedibile risultato finale del processo (Aprile, E., Le modifiche della misura cautelare personale dopo l’emissione dell’ordinanza genetica, in Giur. mer., 2005, 223). Al giudice, pertanto, sarebbe innanzi tutto richiesto di effettuare una prognosi, ovviamente provvisoria e circoscritta negli effetti, in ordine alla sanzione che potrà essere inflitta in caso di condanna e, in secondo luogo, di valutare se, tenuto conto della presumibile decisione finale e della durata che la misura cautelare ha già avuto, sia proporzionato – e, dunque, ragionevole – il protrarsi della stessa. In tale prospettiva, si è affermato, il difetto di proporzione sarà tanto più certo, quanto più la specifica situazione risulterà prossima ai parametri indicati dall’art. 304, co. 4, c.p.p.

Che vi debba essere un rigido e costante confronto tra la pena applicabile in previsione della condanna e la misura cautelare adottata nell’ambito del procedimento penale è testimoniato dalla disposizione normativa contenuta nell’art. 275, co. 2-bis, c.p.p. che contempla l’impossibilità di disporre la custodia cautelare se il giudice ritiene che, con la sentenza, possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Il divieto è chiaramente mosso dalla volontà di evitare che l’imputato patisca, in regime cautelare, una restrizione della libertà che non sarà tenuto a scontare neppure a titolo sanzionatorio. Questa disposizione legislativa, inserita dall’art. 4 l. 8.8.1995, n. 332, conferma lo stretto legame che unisce la misura cautelare con la pena definitiva e pone un argine a possibili manovre elusive tese a irrogare una pena, sotto forma di misura cautelare, laddove la legge ne esclude l’applicazione (Marzaduri, E., Commento all’art. 4 l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legisl. pen., 1995, 616).

Fonti normative

Artt. 13-27 Cost.; artt. 272, 273, 275, 276, 280, 292, 299, 657 c.p.p.; d.l. 23.2.2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla l. 23.4.2009, n. 38; l. 26 marzo 2001, n. 128; d.l. 24.11.2000, n. 341, convertito, con modificazioni dalla l. 19.1.2001, n. 4; l. 8.8.1995, n. 332; d.l. 13.5.1991, n. 152, convertito dalla l. 12.7.1991 n. 203; l. 16.2.1987, n. 81.

Bibliografie essenziale

Nuove norme sulle misure cautelari e sul diritto di difesa, a cura di E. Amodio, Milano, 1996; Sistema penale e «sicurezza pubblica»: le riforme del 2009, Milano, 2009; Il «pacchetto sicurezza» 2009, a cura di F. Mazza e O. Viganò, Torino, 2009; Profili del processo penale nella Costituzione europea, a cura di M.G. Coppetta, Torino, 2005; Processo penale. Nuove norme sulla sicurezza dei cittadini, a cura di P. Gaeta, Padova, 2001, 285; Il decreto antiscarcerazione, a cura di M. Bargis, Torino, 2001; Libertà personale e ricerca della prova nell’attuale assetto delle indagini preliminari, Atti del convegno di Catania-Noto Marina (30 settembre-2 ottobre 1993), Milano, 1993; AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale. Nuovi diritti della difesa e riforma della custodia cautelare, Padova, 1995, 84; Aprile, E., Le modifiche della misura cautelare personale dopo l’emissione dell’ordinanza genetica, in Giur. mer., 2005, 223; Bernasconi, A., Richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere per motivi di salute e regime degli accertamenti medico-peritali, in Cass. pen., 1999, 3099; Di Bitonto, M.L., Le Sezioni unite individuano il pericolo di fuga legittimante il ripristino della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 307 comma 2 lett. b) c.p.p., in Cass. pen., 2002, 3; Di Chiara, G., Il carcere come extrema ratio: emergenze normative, emergenze giurisprudenziali e recenti polemiche, in Foro it., 1992, II, 1; Fanuele, C., Pericolo concreto di fuga e ripristino della custodia carceraria per i delitti ex art. 275 comma 3, in Cass. pen., 2002, 1443; Grevi, V., Le garanzie della libertà personale dell'imputato nel progetto preliminare: il sistema delle misure cautelari, in Giust. pen., 1988, I, 485; Marandola, A.A., I profili processuali delle nuove norme in materia di sicurezza pubblica, di contrasto alla violenza sessuale e stalking, in Dir. pen. e processo, 2009, 958; Marinelli, C., Crimine organizzato: doppio binario cautelare e diritto penale, in Cass. pen., 2001, 941; Marzaduri, E., Il ricorso alla decretazione d’urgenza condizionato dal diffuso allarme sociale, in Guida dir., 2009, fasc. 39, 57; Marzaduri, E., Commento all'art. 4 l. 8 agosto 1995, n. 332, in Legisl. pen., 1995, 616; Moscarini, P., L’ampliamento del regime speciale della custodia in carcere per gravità del reato, in Dir. pen. e processo, 2010, 227; Scaglione, A., I «pacchetti» sicurezza del 2009: profili processuali; prospettive de iure condendo, in Cass. pen., 2010, 450; Valentini, E., Principio di proporzionalità e durata della cautela, in Giur. mer., 2011, 446.

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