Mineralogia

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

Mineralogia

Annibale Mottana

Sommario: 1. Introduzione. 2. La mineralogia all'inizio del Novecento. 3. Gli sviluppi nel corso del Novecento. a) Cristallografia. b) Minerochimica e cristallochimica. c) Minerofisica. d) Mineralogia sperimentale. e) Sistematica e nomenclatura. 4. Stato attuale e previsione dei futuri sviluppi. □ Bibliografia.

1. Introduzione

Il grado di avanzamento di una scienza che ha come oggetto di studio la realtà naturale si giudica in base a due criteri: 1) il grado di affidabilità delle leggi generali con cui essa ritiene di poter spiegare e prevedere i fenomeni naturali (criterio teorico); 2) quanta parte della natura sia stata effettivamente scoperta ed efficacemente descritta (criterio sistematico). I due criteri non sono né disgiunti né indipendenti, ma sono anzi intimamente e inscindibilmente connessi. Secondo il metodo galileiano, infatti, per arrivare a leggi che abbiano un significato generale occorre partire da una serie di esempi concreti che servano da base fenomenologica alla deduzione teorica della legge stessa: bisogna cioè già conoscere almeno una parte della realtà naturale. Per converso, una volta che una legge è stata formulata, se ne richiede la verifica, e ciò porta a individuare esempi prima passati inosservati, cioè al riconoscimento di realtà naturali prima ignote: da una legge per sé teorica, insomma, si ricava sempre un ampliamento delle conoscenze oggettive e quindi un avanzamento della conoscenza sistematica.

La scienza che ha come oggetto di studio i corpi solidi (scienza dei materiali) non fa eccezione a queste regole. Per motivi storici, tuttavia, essa tende ad articolarsi e a differenziarsi al punto da assumere almeno due nomi quando tratta dei corpi solidi naturali (i minerali), a seconda che venga privilegiato il primo criterio oppure il secondo. Si chiama ‛cristallografia' la branca della scienza dei materiali che ne studia le leggi generali, valide per qualsiasi tipo di solido: naturale o artificiale, inorganico o organico, già noto o appena previsto e ancora da sintetizzare (quando non è, addirittura, impossibile da sintetizzare al momento attuale per un qualche motivo tecnico). Si chiama invece ‛mineralogia' la branca della scienza dei materiali che si interessa esclusivamente dei solidi naturali (i minerali, appunto) per identificarli, descriverli, caratterizzarli in tutte le loro proprietà, studiandone anche le possibili utilizzazioni. La mineralogia si avvale delle leggi generali sulla costituzione dello stato solido formulate principalmente dalla cristallografia, ma anche dalla fisica e dalla chimica, e le inquadra nelle leggi, per ora molto più empiriche, concepite dalla geologia per tentare di spiegare la distribuzione delle masse solide nella Terra. Inoltre, essa formula leggi empiriche, spesso di natura statistica, tramite le quali si sforza di facilitare il reperimento in natura dell'uno o dell'altro minerale, una volta che ne sia stato chiarito il tipo e si sia capito perché esso si sia venuto a formare nel luogo in cui è stato rinvenuto per la prima volta (località-tipo). Così concepita, la mineralogia diventa una scienza naturale globale. È quindi da essa che si sono staccate in passato diverse branche, via via specializzatesi nello studio di particolari materiali naturali complessi come le rocce (v. petrologia) e i giacimenti minerari. Ciò ha lasciato la mineralogia propriamente detta più povera nei contenuti sistematici, ma comunque sempre in una posizione di riferimento teorico, mentre le branche specifiche da essa derivate sono rimaste legate alla geologia più strettamente di quanto non lo sia la moderna mineralogia. Questa infatti - a differenza di altre scienze naturali come zoologia, botanica, micologia, ecc. - si avvale sempre maggiormente di tecniche sperimentali mutuate soprattutto dalla fisica e dalla chimica e, di conseguenza, è stata talora in grado di influire direttamente sullo sviluppo di queste due scienze, fornendo loro spunti nuovi e conferme sperimentali.

La mineralogia figura nel contesto delle scienze fin da un'epoca molto antica, ed è praticamente coeva alla fisica, anch'essa ‛scienza della natura', almeno così come questa era intesa dai Greci. Tra le varie scienze della Terra che si sono andate differenziando dalla fisica a partire dal Rinascimento, la mineralogia (intesa in modo molto vicino a quello attuale) è nata sicuramente molto prima della cristallografia. Già nella prima metà del Cinquecento, i padri fondatori della mineralogia, Giorgio Agricola (Georg Bauer) e Vannoccio Biringuccio, identificavano minerali e li descrivevano con criteri ancor oggi in gran parte validi; invece, i primi tentativi di razionalizzare le forme dei cristalli sulla base di criteri che, per quanto si riferissero alle loro caratteristiche estrinseche, erano tuttavia derivati dalle leggi della geometria, risalgono a J. Keplero (1611) e N. Stenone (1669), ma hanno avuto successo solo con J. B. Romé de l'Isle (1783) e R. J. Haüy (1784). Per quanto riguarda poi le intime relazioni tra mineralogia e chimica, basti ricordare che J. J. Berzelius è considerato uno dei fondatori di entrambe queste scienze: non solo egli scoprì una dozzina di elementi e formulò una teoria fondamentale sui composti chimici, ma impostò anche una classificazione dei minerali su basi anioniche (1824) che, pur modificata, rimane comunque la premessa indispensabile delle classificazioni attuali. Queste antiche connessioni tra scienze ora nettamente distinte non devono affatto sorprendere, poiché fino alla metà del secolo scorso chimici e fisici dovettero necessariamente avvalersi di minerali per i loro studi e pertanto essi fornirono un sostanziale contributo alla conoscenza dello stato solido naturale e all'avanzamento della mineralogia. Solo dal 1850 circa, infatti, i composti artificiali sono diventati gli oggetti di studio preferiti della chimica e della fisica, sia per la loro relativa semplicità, sia perché erano sempre disponibili e sempre identici, un prerequisito essenziale, quest'ultimo, per verificare i risultati di volta in volta ottenuti. Questa è infatti la caratteristica che rende preferibile, per l'indagine scientifica, un composto sintetico rispetto a un minerale: per usare le parole di P. E. M. Berthelot (1860), ‟la chimica crea il suo oggetto" e il sintetico può essere rifatto più e più volte sempre identico, così da rappresentare un riferimento costante; la mineralogia trova invece il suo oggetto già ‛pronto' in natura, e ogni minerale ha sempre caratteristiche proprie e diverse poiché l'ambiente naturale cambia sempre, da luogo a luogo, da giacimento a giacimento e anche da punto a punto all'interno di uno stesso giacimento.

Nei capitoli che seguono verrà tracciato un profilo storico della mineralogia nel corso del Novecento, partendo dalla situazione iniziale, quando era ancora sostanzialmente dipendente dalla chimica da cui ricavava i metodi per individuare la composizione dei minerali, fino allo stato attuale, che registra una notevole integrazione con la fisica. Il tramite attraverso il quale è avvenuta questa transizione è stato la cristallografia, che da morfologica è diventata strutturale e principalmente basata sulla diffrazione dei raggi X. Attualmente, i rapidi progressi di altre metodologie di impostazione fisica, soprattutto spettroscopiche, fanno presumere che esse diventeranno basilari nel secolo venturo.

2. La mineralogia all'inizio del Novecento

Si suole comunemente affermare che l'Ottocento è stato il secolo della chimica e che il Novecento è il secolo della fisica. Si sostiene, con ciò, che il massimo sviluppo della chimica, dopo che J. Dalton (1803) ebbe formulato l'ipotesi atomica, avvenne, in modo quasi tumultuoso e con straordinari risultati, nei decenni tra il 1820 e il 1880. Ciò non significa che la chimica si sia poi esaurita: essa si è evoluta ancora, ma forse un po' più lentamente e in modo diverso; in seguito, soprattutto dopo la scoperta dei raggi X, si è molto integrata nella fisica, diventandone in qualche misura dipendente. Per converso, non è certo vero che nell'Ottocento la fisica fosse una scienza secondaria; è vero invece che, con la teoria dei quanti formulata da M. Planck (1900) e quelle della relatività sviluppate da A. Einstein tra il 1905 e il 1916, essa ha acquistato nel Novecento un momento tale da determinarne uno sviluppo eccezionale e in direzioni del tutto nuove. Questa situazione si è riflessa sull'evoluzione della mineralogia: durante l'Ottocento essa fu condizionata prevalentemente dalla chimica (identificazione e classificazione dei minerali in base al loro chimismo), non senza derivare, però, nozioni anche dalla fisica dell'epoca (esame ottico e morfologico dei minerali) e dalla matematica (teoria dei gruppi cristallini). A partire dal Novecento, tuttavia, con l'introduzione da parte di fisici quali M. von Laue, W. H. Bragg e W. L. Bragg della teoria e della pratica della diffrazione dei raggi X, la dipendenza culturale della mineralogia si è spostata soprattutto verso la fisica, pur mantenendo ancora, come vedremo, un legame forte con la chimica (anch'essa però evolutasi verso la fisica) e con la matematica. Molte delle leggi della mineralogia dipendono perciò dai risultati della chimica, della fisica e della matematica, oppure sono attualmente un corollario di leggi più generali proposte da queste scienze; invece, è in gran parte autonomo il progresso della mineralogia in campo sistematico.

Per avere un quadro complessivo, anche se un po' semplicistico, di quanto si sia sviluppata la mineralogia nel corso del Novecento, basta un esame della sequenza delle scoperte di minerali avvenute nel corso del secolo (v. fig. 1). All'inizio del Novecento si conoscevano circa 1.000 specie, di cui 888 scoperte tra il 1800 e il 1899. In realtà, i mineralisti sistematici dell'epoca credevano di conoscerne di più (circa 1.350), ma parecchie delle loro specie - che erano state definite su basi prevalentemente chimiche e morfologiche - quando vennero sottoposte a riesame con le nuove tecniche basate sui raggi X risultarono o impure (miscugli di due o più minerali) o semplicemente identiche ad altre, pur essendo le loro forme esterne apparentemente diverse. Nel 1989 le specie mineralogiche riconosciute valide erano diventate 3.611, il che significa un aumento di ben 2.723 specie. Con l'accelerazione delle scoperte, avvenuta soprattutto dal 1950 in poi, si può ragionevolmente prevedere che a fine secolo il numero dei minerali noti supererà le 4.000 unità. È chiaro quindi che il grado di conoscenza del mondo minerale nel nostro secolo è enormemente aumentato: viene a questo punto spontaneo domandarsi che cosa abbia reso possibile un tale progresso, quanto potrà durare e, infine, a che cosa tenda ora la mineralogia. Per poter rispondere a queste tre domande bisogna in primo luogo ripercorrere le tappe fondamentali di tale sviluppo, ricostruendo anzitutto la situazione all'inizio del secolo, per poi aggiornarla via via fino al momento attuale.

3. Gli sviluppi nel corso del Novecento

Come si è già detto, non è possibile scindere la mineralogia dalla cristallografia, almeno per quanto riguarda una parte considerevole delle conoscenze del mondo minerale. Prima di esaminare lo sviluppo della mineralogia nel nostro secolo, conviene perciò considerare l'evoluzione straordinaria che contemporaneamente subiva la cristallografia (v. cristallografia), per passare poi ad analizzare branche specifiche già esistenti ma sviluppatesi o modificatesi in modo radicale, oppure sorte ex novo nel corso del Novecento. Procedendo in questo modo, per parti distinte, si avrà alla fine un quadro completo di ciò che oggi rappresenta quella scienza composita e fortemente articolata che è la scienza dei minerali.

a) Cristallografia

Nell'aprile del 1912, il giovane professore di fisica Max von Laue, stimolato da un quesito postogli dallo studente P. P. Ewald, concepì un'idea nuova sul modo di dimostrare l'eventuale struttura atomica dello stato solido di cui da tempo si parlava, ma solo a livello d'ipotesi o d'intuizione. Essendo però egli un teorico, dovette chiedere la verifica sperimentale della sua idea ai due assistenti W. Friedrich e P. Knipping: essa infatti richiedeva un esperimento basato sull'uso dei raggi X, la radiazione penetrante scoperta nel 1895 da W. Röntgen, fino ad allora usata soprattutto in campo medico.

Per l'esperimento fu usato un cristallo di solfato di rame pentaidrato (un prodotto chimico artificiale, quindi), e dopo un primo insuccesso - dovuto probabilmente a un tempo di posa troppo breve - si ottenne sulla lastra fotografica una serie di macchie che, interpretate teoricamente, dimostravano contemporaneamente due fondamentali concetti scientifici: a) che i raggi X sono radiazioni di lunghezza d'onda sensibilmente minore di quella della luce visibile, comparabile alla distanza che separa tra loro gli atomi di un corpo solido; b) che i solidi sono costituiti da impilamenti tridimensionali di atomi disposti secondo sequenze periodiche regolari, così da essere assimilabili a reticoli di diffrazione tridimensionali.

Nasceva così, dalla fisica, la nuova cristallografia. Essa non era più la scienza ottocentesca che attraverso un meticoloso lavoro - coronato proprio nei primi anni del Novecento dalla pubblicazione dei 20 volumi dell'Atlas der Kristallformen di V. Goldschmidt (v., 1913-1923) - si proponeva di descrivere i cristalli nelle loro forme esterne (morfologia cristallina), ma una scienza completamente diversa, il cui scopo era divenuto quello di determinare la posizione spaziale degli atomi costituenti i materiali, cioè la struttura cristallina. Il legame tra la nuova cristallografia e la precedente sta nel fatto che, in un solido, gli atomi assumono una distribuzione espressa da leggi di simmetria da cui derivano tutte le proprietà dei materiali, incluse quelle geometriche rappresentate dalle sue forme esterne.

Lo stretto legame che univa la nuova cristallografia e la mineralogia fu subito evidente; infatti lo stesso von Laue, per meglio comprendere i fenomeni che andava scoprendo, dovette abbandonare l'uso del solfato di rame, che risultava troppo complesso; egli impiegò invece una sostanza più semplice dal punto di vista chimico, la sfalerite (α-ZnS), un minerale - cioè una sostanza naturale - che si presenta in bei cristalli limpidi e facili da sfaldare (v. fig. 2A). Da allora la mineralogia si avvale della cristallografia strutturale (e dei raggi X) come di uno strumento primario: ne risulta talmente condizionata che sarebbe impossibile per chiunque, ora, pensare di poter descrivere efficacemente un minerale senza darne anche i parametri della struttura cristallina. Per arrivare a questo legame inscindibile, però, si è passati attraverso diversi stadi.

Tra il 1912 e il 1925 la ricerca cristallografica fu centrata anzitutto su problemi pratici, sul modo migliore, cioè, di ottenere e misurare gli effetti di diffrazione dei cristalli tramite strumenti sempre nuovi e diversi: spettrometri, camere rotanti e oscillanti per polveri e per cristalli singoli, con rivelatori fermi oppure dotati di movimenti complessi. Queste innovazioni strumentali furono opera soprattutto di fisici sperimentali (W. H. Bragg, M. de Broglie, P. Debye, P. Scherrer, M. Polanyi, K. Weissenberg, E. Schiebold, E. Seemann, H. Bohlin, ecc.), mentre i fisici teorici (von Laue stesso, W. L. Bragg, C. G. Darwin, P. P. Ewald, G. Friedel, A. Sommerfeld) si dedicarono all'interpretazione dei risultati ottenuti con le nuove apparecchiature e alla formulazione di una teoria d'insieme sulla costituzione dello stato solido dedotta dalle risoluzioni di struttura.

La prima struttura che venne determinata (1913) fu proprio quella della sfalerite, grazie a una fortunata convergenza di interessi tra un fisico, W. L. Bragg - che può, a buon diritto, essere considerato il padre della cristallografia moderna -, e un chimico, W. H. Pope. Il contributo di quest'ultimo, però, fu semplicemente quello di informare Bragg di una congettura, ignorata e caduta nell'oblio, formulata molti anni prima (1883) da un brillante cristallografo matematico, W. Barlow, il quale aveva supposto che la struttura della sfalerite fosse dovuta a un impilamento di atomi di Zn e di S disposti secondo un motivo tetraedrico (v. fig. 2B). Bragg (v., 1913) calcolò quale avrebbe dovuto essere l'immagine di diffrazione dei raggi X della sfalerite se il minerale avesse effettivamente avuto quella struttura (v. fig. 2C), e la confrontò con l'immagine sperimentale pubblicata da von Laue (v. fig. 2D), scoprendo che le due figure corrispondevano davvero. Immediatamente Bragg prese a confrontare altri spettri calcolati a partire da strutture congetturate da Barlow con gli spettri sperimentali che egli stesso realizzava su tali sostanze usando lo spettrometro a raggi X ideato da suo padre, W. H. Bragg. Fu così che egli in pochi mesi riuscì a risolvere la struttura di vari minerali, scelti, peraltro, tra quelli chimicamente più semplici e comuni: diamante (C), salgemma (NaCl), silvite (KCl), fluorite (CaF2), pirite (α-FeS2) e calcite (CaCO3). La strada era tracciata e nell'arco di 15 anni furono studiate e risolte le strutture di circa 200 minerali, alcune delle quali piuttosto complesse, cosicché già nel 1928 era disponibile una casistica sufficientemente ampia da permettere a F. Machatschki (v., 1928) di proporre una classificazione dei silicati, fondata sul principio della polimerizzazione dei tetraedri SiO4, che ne rivoluzionava completamente l'interpretazione, costringendo a rivedere anche la chimica di questi composti fino ad allora basata su presunte reazioni tra basi e acidi silicici (che sappiamo ora essere inesistenti). Con Machatschki, dunque, la mineralogia, scienza minore, portava un contributo fondamentale a una scienza maggiore, la chimica, ponendo anzi le premesse di un suo ulteriore sviluppo (chimica dei composti organici polimerici) tuttora in corso.

I progressi della cristallografia strutturale sono stati costanti, anche se non sempre altrettanto vistosi, fino almeno agli anni sessanta. Sono stati sviluppati metodi pratici che hanno permesso l'impiego di una nozione utile come quella di ‛reticolo reciproco', ideata da Ewald nel 1913. La sua utilità fu dimostrata dallo stesso Ewald nel 1921, ma la nozione è diventata di uso comune solo a partire dal 1926, quando J. D. Bernal la utilizzò per disegnare charts che facilitavano la lettura e l'interpretazione dei fotogrammi ottenuti da un cristallo oscillante. È stata dimostrata l'utilità di metodi matematici, come la serie di Fourier - teorizzata da W. Duane nel 1925, ma usata per la prima volta da B. E. Warren e W. L. Bragg nel 1928 per risolvere la struttura del diopside - e le funzioni di A. L. Patterson (v., 1934). Inoltre, sono stati messi a punto strumenti, come i retigrafi (W. F. De Jong e J. Bouman, 1938) e le camere di precessione (v. Buerger, 1944), i quali permettono di ottenere fotogrammi che sono l'immagine non distorta del reticolo reciproco e contengono perciò tutte le informazioni sulla geometria e sulla simmetria del materiale studiato.

Nel secondo dopoguerra sono stati messi a punto i diffrattometri muniti di contatori Geiger (W. Parrish, 1945), modificando uno strumento inventato nel 1935 da D. P. Le Galley e risultato poco pratico. Essi resero quantitative e sufficientemente precise anche le misure effettuate su polveri di minerali e non su soli cristalli, semplificandole al punto di diventare usuali anche per un mineralista non cristallografo. Quasi contemporaneamente si cominciarono a usare i calcolatori, e ciò permise anzitutto di abbreviare i lunghi calcoli necessari a determinare le strutture (v. Pepinsky, 1947), in seguito di indicizzare gli spettri di polvere e, infine, con l'invenzione dei ‛metodi diretti' (D. Sayre, 1952; J. Karle e H. Hauptman, 1953), di risolvere in poco tempo strutture ignote anche complicate.

Forse fu proprio per il rapido succedersi delle scoperte nel secondo dopoguerra (da una determinazione media annua di 150 strutture nel periodo 1945-1950 si passò a una media annua di 400 nel periodo 1955-1960), oppure per il suo identificarsi quasi esclusivo con un unico metodo (la diffrazione dei raggi X), che la cristallografia tra gli anni sessanta e ottanta ha avuto un periodo di relativa stasi. Sono state raffinate, è vero, strutture sempre più numerose (1.300 nel solo 1969), ma solo grazie allo sviluppo dei diffrattometri a quattro cerchi per cristallo singolo (T. C. Fournas Jr. e D. Harker, 1955) che, dopo esser stati automatizzati (verso il 1970), hanno reso obsoleto il metodo di Weissenberg fino ad allora imperante. Per mezzo di tali strumenti, la determinazione di una struttura è diventata un fatto di assoluta routine, che richiede solo poche ore in un laboratorio ben attrezzato, fuorché in casi molto particolari. Nel corso dei due decenni in questione sembra che non sia stato concepito nulla di veramente nuovo, ma piuttosto che si sia migliorato quanto era già noto. In realtà, questo è il senso implicito del termine ‛raffinamento' tanto usato dai cristallografi: non più la faticosa ma mentalmente stimolante procedura per tentativi, spesso guidata da mera intuizione, di ‛risolvere' la struttura, ma l'elaborazione di una struttura ignota per confronto con quella già nota di un minerale analogo, oppure il semplice miglioramento nella misurazione delle coordinate atomiche di una struttura risolta con metodi meno precisi. In questo periodo di stasi, alla maggioranza dei cristallografi è passato inosservato perfino un metodo innovativo come quello ideato da H. M. Rietveld (v., 1967), che permette di raffinare la struttura di un solido confrontando iterativamente la convergenza tra il suo diffrattogramma misurato e quello calcolato in base a una struttura modello. Questo metodo, ideato per la diffrazione dei neutroni e poi adattato a quella dei raggi X, ha il vantaggio di utilizzare al meglio tutte le potenzialità sia del diffrattometro per polveri sia del calcolatore, permettendo in tal modo non solo di semplificare enormemente la determinazione delle strutture cristalline, ma anche di arrivare a determinare la struttura di materiali che non formano cristalli sufficientemente grandi da poter essere montati sul diffrattometro a cristallo singolo (che ha un minimo dimensionale, attualmente, di circa 50 µm). Malgrado questi indubbi vantaggi, del metodo di Rietveld ci si è accorti solo verso la fine degli anni settanta, quando la cristallografia ha ripreso a svilupparsi, subendo però una modifica d'impostazione che prelude alla sua situazione odierna (v. cap. 4).

b) Minerochimica e cristallochimica

Contemporaneamente allo sviluppo della cristallografia vi era un'altra branca della mineralogia in rapida espansione: la minerochimica. Essa era stata per tutto l'Ottocento uno dei settori principali della mineralogia poiché, essendo la componente più vicina alla chimica e avendo come suo fine proprio la determinazione della composizione chimica dei minerali, ricavava dalla scienza maggiore idee e tecniche analitiche. Come la chimica, però, anche la minerochimica era rimasta praticamente ferma dall'inizio del Novecento: l'unico miglioramento effettivo era stato quello di avere sostituito i classici metodi ponderali d'analisi per via umida, derivati ancora da quelli usati da Berzelius, con metodi rapidi basati su procedure spettroscopiche e colorimetriche. Da qui era derivata una serie di informazioni sui componenti chimici ‛minori' e ‛in traccia', cioè su quegli elementi che non figurano nella formula di un minerale, ma che sono comunque rilevabili dalla sua analisi in quanto sostituiscono in piccola parte gli elementi ‛maggiori' o ‛caratterizzanti', cioè appunto quelli previsti dalla formula chimica. I componenti in traccia hanno un significato ‛genetico' particolare, poiché variano da minerale a minerale e da luogo a luogo per effetto della diversità delle situazioni geologiche in cui i minerali si formano in natura.

I primi decenni del Novecento avevano tuttavia visto anche alcuni sviluppi teorici (sempre però nel contesto delle teorie impostate da Berzelius), come l'introduzione del concetto di sostituzione binata tra ioni, dovuto a F. Zambonini (v., 1922), che affiancava quello di sostituzione semplice già intuito da E. Mitscherlich nel 1818 e successivamente (1865) sviluppato da G. Tschermak nell'ambito della sua teoria dei ‛cristalli misti': tramite la sostituzione binata si poteva spiegare la complessa variabilità composizionale dei feldspati meglio che con la semplice teoria delle soluzioni solide. Inoltre, regole ancor più generali sulla vicarianza tra ioni erano state in un primo tempo accennate in modo empirico e in seguito chiaramente formulate da V. M. Goldschmidt (v., 1937); da esse era venuto un duplice chiarimento, relativo da un lato a come e dove gli elementi minori possono sostituire quelli maggiori, dall'altro a quali ne siano le cause in termini di pressione e temperatura e, di riflesso, quali informazioni possano essi fornire sull'ambiente in cui si sono formati i minerali e le rocce che li contengono.

Tuttavia, il vantaggio maggiore derivato dalle nuove metodologie analitiche e dalle idee e teorie da esse derivate era andato, più che alla mineralogia, a una nuova branca della scienza dei materiali, che aveva assunto una posizione intermedia tra chimica e petrologia: la geochimica (v. geochimica). Il vantaggio che ne era venuto alla mineralogia era meno importante e consisteva soprattutto nel minor tempo necessario per un'analisi chimica; infatti, i metodi spettroscopici garantiscono analisi altrettanto accurate di quelli ponderali, pur utilizzando molto meno materiale; pertanto, non dovendo più usare 1 ÷ 2 g di minerale per effettuare un'analisi quantitativa completa, ma solo 0,1 ÷ 0,2 g, il mineralista aveva ridotto la fase preparatoria, cioè il tempo richiestogli per separare, di solito a vista sotto il microscopio binoculare, il minerale da analizzare da tutti gli altri minerali che lo accompagnano e che ne costituiscono la ganga, causa prima di errori analitici perché fonte dell'inquinamento del campione studiato. Ciò concedeva più tempo per effettuare un maggior numero di analisi, permettendo di ottenere una più ampia casistica sulla variazione composizionale di una stessa specie minerale.

Combinando però i risultati della nuova cristallografia con le più estese informazioni della minerochimica, si andò delineando, già negli anni venti, una nuova disciplina connessa strettamente con la mineralogia: la cristallochimica. Ideata da V. M. Goldschmidt e da Machatschki (v., 1928) e ripresa con entusiasmo e con grande successo da W. L. Bragg (v., 1930), la cristallochimica poté immediatamente fiorire anche perché seppe accogliere e applicare senza indugio le idee di un altro grande scienziato interdisciplinare, L. Pauling. Questi, prendendo l'avvio dalle prime determinazioni delle dimensioni degli atomi e degli ioni effettuate da W. L. Bragg (1920), A. Landé (v., 1920), J. A. Wasastjerna (v., 1923) e da Goldschmidt (1926), in rapida successione determinò una scala dei raggi ionici, formulò una teoria sulla coordinazione dei cristalli ionici e, infine, enunciò le cinque famose regole sul modo di formarsi delle strutture ioniche tramite interconnessione di poliedri di coordinazione (v. Pauling, 1927 e 1929). Questi lavori di capitale importanza, assieme al successivo in cui Pauling estese la regola di G. N. Lewis sulla funzione della differenza di elettronegatività nello stabilire il modo in cui si forma un legame interatomico, costituiscono i presupposti di quella sua teoria comprensiva del legame chimico (v. Pauling, 1939) che, pur se riconosciuta ora troppo semplice rispetto alla realtà, ha posto questo scienziato, tra i chimici del nostro secolo, sullo stesso piano di Berzelius. La sua procedura è stata usata costantemente e lo è ancora da chiunque voglia occuparsi di cristallochimica almeno in forma preliminare, prima di passare a procedure più rigorose che tengano conto sia dei raggi ionici effettivi (R. D. Shannon e C. T. Prewitt, 1969; Shannon, 1976), sia di teorie più approfondite come quelle del legame di valenza e degli orbitali molecolari, per arrivare infine al procedimento attualmente più avanzato che fa uso della teoria del campo cristallino, formulata originariamente da H. Bethe nel 1929, ma ripresa in campo mineralogico solo negli anni sessanta (v. Burns e Fyfe, 1967).

L'applicazione alla mineralogia di tutte queste teorie formulate da fisici e da chimici non sarebbe stata però possibile se non fosse stato eliminato, o per lo meno minimizzato, il problema rappresentato dal fatto che la composizione chimica dei minerali, anche se determinata con i metodi rapidi, non è mai perfettamente conosciuta (soprattutto al livello degli elementi minori) fino a quando non si è ovviato all'inquinamento del campione analizzato. Tale problema cominciò a essere risolto all'inizio degli anni sessanta.

Nel 1951, il fisico francese R. Castaing (v., 1951) - un altro fisico che ha contribuito allo sviluppo della mineralogia non meno di von Laue - mise a punto uno strumento, la microsonda elettronica (EMP, Electron Micro Probe), che sembra solo la combinazione di due strumenti precedenti, ma è impostato in un modo talmente innovativo da aver rivoluzionato tutta la tecnica dell'analisi chimica. I due strumenti combinati sono lo spettrometro di fluorescenza dei raggi X (XRF, X-Ray Fluorescence) - già molto perfezionato all'epoca, ma sostanzialmente non diverso da quello inventato da H. G. J. Moseley (1915) e usato da A. R. Hadding (v., 1922) per dosare quantitativamente gli elementi contenuti in un composto tramite i raggi X che esso emette quando è bombardato da altri raggi - e il microscopio elettronico a scansione (SEM, Scanning Electron Microscope), costruito da M. von Ardenne nel 1938, ma pochissimo usato fino ad allora in campo mineralogico per una serie di problemi nella preparazione del campione. Il principio fisico su cui si basava il nuovo strumento era ben noto: eccitando con un fascio di elettroni un materiale composto da atomi di tipo diverso e in diverso rapporto quantitativo, se ne provoca l'emissione di raggi X secondo frequenze caratteristiche che permettono l'identificazione di ciascun atomo, e con un'intensità proporzionale al numero di atomi di una data specie rispetto a tutti gli atomi presenti nel materiale (a meno di una costante). Con le lenti magnetiche derivate dal microscopio elettronico, la microsonda (v. fig. 3) eccitava e raccoglieva segnali da un'area molto piccola del campione, permettendo così, per la prima volta, di effettuare analisi non distruttive su un qualsiasi minerale e per un gran numero di elementi - inizialmente solo pesanti, ma presto anche leggeri, fino al sodio, comprendendo perciò tutti i più importanti costituenti della maggior parte dei minerali - e, inoltre, con una risoluzione spaziale di pochi micrometri (da 1 a 10 µm). Si possono così determinare le variazioni di composizione (zonature) che si presentano all'interno di un singolo cristallo di minerale, anche quando esse non sono riconoscibili al microscopio. Si può, soprattutto, associare il variare di un elemento a quello di altri elementi che con lui competono nell'occupare un sito della struttura e perciò verificare le leggi generali della vicarianza che, dopo la formulazione conclusiva fattane da V. M. Goldschmidt (v., 1937), non erano mai state applicate ai cristalli in modo completo e coerente proprio perché rimaneva sempre indeterminato il grado di purezza del materiale analizzato.

Grazie alla microsonda, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta è stato dimostrato come la composizione chimica dei minerali cambi non in modo capriccioso, ma perfettamente sistematico e prevedibile al variare della pressione e della temperatura, fermo restando l'ambiente chimico in cui il minerale in questione e i minerali suoi associati si sono venuti a formare. Da qui è sorta la ‛geotermobarometria', un filone importante della mineralogia e della petrologia insieme, che tuttavia non costituisce ancora una branca a sé stante, svincolata dalle due scienze da cui ha avuto origine, così come ancora dipende dalla termodinamica chimica, alla quale peraltro fornisce un cospicuo contributo di idee e di dati.

Lo strumento inizialmente concepito da Castaing è stato sviluppato nei decenni successivi in vari modi (v. cap. 4). La stessa microsonda elettronica è stata molto perfezionata attraverso profonde modificazioni, non ultima quella ottenuta tramite cristalli e pseudocristalli multistrato con cui si riescono a determinare, con elevata sensibilità (decine di parti per milione, ppm) e senza particolari difficoltà, anche elementi leggerissimi come B e Be. Sostituendo i rivelatori a dispersione di energia (EDS, Energy Dispersive Spectroscopy) ai tradizionali cristalli selettori di lunghezza d'onda (WDS, Wavelength Dispersive Spectroscopy), si può ora ottenere in pochi secondi una ripresa dell'intero spettro dei raggi X emessi dal campione; in pochi altri secondi, grazie all'uso di calcolatori, la si può poi elaborare in modo quantitativo. Così, l'analisi in microsonda di un minerale, che all'inizio del secolo richiedeva una settimana e negli anni sessanta almeno un'ora di lavoro anche nel caso più favorevole di un minerale del tutto ‛normale', si effettua ormai in meno di un minuto.

c) Minerofisica

Parallelamente alla minerochimica era quasi inevitabile che si sviluppasse la minerofisica, cioè quella branca della mineralogia che studia non la composizione, ma le proprietà fisiche e inoltre le possibili applicazioni tecnologiche dei minerali. Analogamente a quanto avvenne per la cristallochimica, anche l'impostazione della minerofisica, che era ancora quella ottocentesca, subì un radicale cambiamento dovuto all'interazione con la cristallografia; tuttavia, ciò non ha finora determinato la nascita di una nuova branca specialistica, forse perché l'interazione è stata più lenta ed è avvenuta in forma diversa (per il tramite, cioè, della matematica). Una parte consistente dei suoi progressi è dovuta, come sempre accade, allo sviluppo di nuove tecniche di misurazione, più rapide e più adatte al gran numero di sostanze da misurare, anche se spesso non più precise delle tecniche precedenti. Tra queste nuove tecniche, merita in particolare di essere ricordato il metodo della doppia variazione che, combinato con l'uso di liquidi caratterizzati da una forte dispersione e con un nuovo tavolino universale a cinque assi per la misura degli angoli e delle direzioni ottiche dei cristalli, modificato a partire da quello a tre assi ideato da E. S. Fedorov nel 1893, permise a R. C. Emmons (v., 1929 e 1943) di ottenere gli indici di rifrazione e di ricavare da questi, con opportune formule, tutte le proprietà ottiche di un gran numero di sostanze naturali. Fu così possibile ad A. N. e H. Whinchell (v., 1951) catalogare migliaia di minerali e di composti inorganici in base agli indici di rifrazione e alle altre loro proprietà ottiche: il testo che raccoglie le loro indagini riveste per l'ottica la stessa importanza assunta da quello di Goldschmidt per la morfologia cristallina. La compilazione dei Whinchell ha costituito un punto di riferimento almeno fino agli anni ottanta, quando la diffrazione dei raggi X, con la misura dei parametri di cella, e la microsonda, con la determinazione del chimismo, hanno resi secondari i dati ottici come elemento di caratterizzazione dei minerali. L'atteggiamento assunto dall'IMA (International Mineralogical Association), in base al quale le informazioni necessarie a definire una specie mineralogica nuova debbono comprendere sempre e comunque anche le proprietà fisiche, seppure insolite, può probabilmente apparire un po' retrivo, ma ha il merito di tenere in vita questa branca della scienza dei minerali, nata assieme con la moderna mineralogia (la scoperta della birifrazione dello spato d'Islanda da parte di Erasmo Bartolino è del 1669), che non è detto non debba avere ancora sviluppi in futuro.

Un sorprendente e per lungo tempo del tutto incompreso contributo alla mineralogia è venuto anche dalla matematica, più precisamente dalla teoria delle dislocazioni - prima formulata in modo del tutto teorico da V. Volterra (v., 1907) e in seguito (1915) verificata da C. Somigliana - grazie al ruolo che queste svolgono nella crescita dei cristalli. Le teorie della crescita per gradini (v. Kossel, 1928) e per spirali (v. Franck, 1949) hanno dunque il loro fondamento su un'ipotesi matematica che - solo lentamente, per tentativi e grazie a osservazioni dirette compiute con strumentazioni relativamente complesse come il microscopio elettronico (v. Amelinckx, 1951), oppure con tecniche non complesse ma farraginose come la topografia ai raggi X o la microscopia a effetto tunnel e a forza atomica - si è dimostrata soddisfacente anche se incompleta. Proprio questa è, forse, la limitazione intrinseca che rende la minerofisica d'avanguardia ancora piuttosto lontana dalla mineralogia generale: essa si basa su previsioni teoriche, formulate da studiosi estranei al mondo mineralogico con grande anticipo sulle possibili verifiche, che mal si adattano alla complessa natura dei minerali e con frequenza si fondano su casi estremamente semplici di composti intermetallici, o addirittura organici. A titolo d'esempio, le proprietà degli elettroni nei metalli e nei composti intermetallici, benché siano state previste e studiate, e benché su di esse siano state formulate teorie fisiche universalmente accettate, tuttavia non hanno quasi trovato applicazione in campo mineralogico perché troppo poco esplicative per composti del tipo, per esempio, dei silicati che sono i minerali più comuni. Anche la teoria delle transizioni di fase, formulata negli anni trenta da L. D. Landau, ha dovuto attendere i primi anni ottanta per trovare applicazione in campo mineralogico, pur essendo di estremo rilievo per tutte le scienze della Terra: essa, infatti, lega tra loro proprietà cristallografiche e termodinamiche, e queste alle condizioni di pressione e temperatura di equilibrazione dei minerali. È ovvio che il ritardo con cui sono state accolte queste teorie, peraltro accettate e già verificate per materiali semplici, lascia un amplissimo campo di sviluppo alla futura ricerca minerofisica, tanto più che proprio con un accorto uso di queste loro proprietà fisiche si potrà trarre il massimo vantaggio economico dai minerali.

d) Mineralogia sperimentale

Un campo di studi che ha precedenti fin nel Settecento, ma che è in realtà tipico del nostro secolo, è quello della mineralogia sperimentale, cioè della sintesi in laboratorio di minerali nelle stesse condizioni in cui si formano stabilmente in natura. Per tutto l'Ottocento i lavori di questo tipo ebbero invece un carattere che attualmente consideriamo specifico della ‛minerosintesi': tendevano, cioè, unicamente a ottenere in laboratorio composti identici ai minerali, sia per chimismo sia per caratteri morfologici e proprietà fisiche, senza curarsi però delle condizioni sperimentali e quindi, di norma, in condizioni metastabili.

All'inizio del Novecento ebbe luogo, in ambito mineralogico, un cambiamento d'indirizzo di cui si deve dare merito ad A. L. Day, primo direttore del Geophysical Laboratory, fondato nel 1905 a Washington grazie a un lascito del banchiere A. Carnegie. La figura chiave di questa nuova branca della mineralogia fu però N. L. Bowen (v., 1928). Egli non inventò metodi nuovi né perfezionò idee altrui: il forno elettrico da lui usato per raggiungere le alte temperature necessarie ai suoi esperimenti era già stato costruito da W. C. Heraeus (1902); il metodo del quenching che rese possibili i suoi studi più importanti era stato inventato da E. S. Shepherd, G. A. Rankin e F. E. Wright (1909); l'introduzione, avvenuta nel 1911 a opera di A. L. Day e R. B. Sosman, del termometro a gas per alte temperature aveva già permesso di stabilire la scala termometrica essenziale per qualsiasi lavoro di precisione sul decorso della cristallizzazione. Là dove Bowen eccelse fu nel saper scegliere argomenti di ricerca veramente ‛importanti' per tutte le scienze della Terra. Egli non fu soltanto un abile sintetizzatore e un accurato misuratore delle condizioni di stabilità di alcuni dei più importanti sistemi mineralogici (feldspati, feldspatoidi, olivine, ecc.), ma soprattutto fu capace di collegare la mineralogia con la petrologia, arrivando a dimostrare come il complesso processo di differenziazione dei magmi basaltici (i magmi più diffusi sulla crosta terrestre) si possa essenzialmente spiegare tramite l'evoluzione mineralogica di due serie reazionali, una continua e una discontinua, che coinvolgono entrambe famiglie di silicati la cui caratteristica è di avere tenori di Si e O regolarmente crescenti man mano che la temperatura si abbassa (v. Bowen, 1928; v. fig. 4).

È da un confronto critico tra questo lavoro di Bowen sulle composizioni basaltiche magnesiache e un parallelo lavoro di C. N. Fenner (v., 1929) su composizioni basaltiche ferrifere che presero avvio gli studi sul frazionamento chimico e mineralogico dell'intrusione di Skaergaard in Groenlandia - condotti sia sul terreno sia in laboratorio da L. R. Wager e dai suoi collaboratori tra il 1939 e il 1968 (v. Wager e Deer, 1939) - che hanno modificato molte idee fondamentali sulla formazione dei minerali e delle rocce ignee. È proprio grazie a studi integrati sul terreno e in laboratorio - tra i quali spiccano nel secondo dopoguerra quelli di C. E. Tilley e H. S. Yoder negli Stati Uniti, di D. H. Green e A. E. Ringwood in Australia e di I. Kushiro e K. Yagi in Giappone - che si sono create le premesse per il primo grande progetto di ricerca internazionale finalizzato alla comprensione dello strato terrestre sottostante la crosta: tale progetto, denominato Upper Mantle Project, ha coinvolto l'intera comunità, a livello mondiale, degli studiosi di scienze della Terra. Applicando in laboratorio temperature e pressioni sempre maggiori a composizioni modello desunte dal frazionamento di Skaergaard, si è potuti arrivare alla conclusione che il mantello superiore terrestre deve essere il luogo in cui si generano i basalti primordiali, la cui cristallizzazione segue, a grandi linee, le sequenze di Bowen e Fenner a bassa pressione, mentre ad alta pressione segue processi diversi, messi in luce principalmente da A. E. Ringwood e dai suoi collaboratori (v. Ringwood e Green, 1966). Lo stesso Ringwood è successivamente passato allo studio del mantello inferiore, dimostrandovi l'esistenza di varie fasi cristalline stabili a pressione ancora più alta (v. fig. 5), che sono state prima sintetizzate e poi riscontrate in natura, anche se in condizioni del tutto particolari, quali quelle prodotte dall'impatto di meteoriti. Si è passati, perciò, dalla semplice fase di descrizione dei dati naturali (criterio sistematico) alla fase della loro previsione (criterio teorico), e con ciò la mineralogia (e l'associata petrologia) ha compiuto un salto di qualità veramente significativo, grazie al quale essa è ora una scienza fisica con una solida base teorica, oltre che una scienza naturale.

Attualmente, la mineralogia sperimentale d'altissima pressione è la disciplina tecnologicamente più avanzata tra tutte quelle che confluiscono nelle scienze della Terra. Se infatti nel periodo tra le due guerre mondiali la mineralogia sperimentale si affermò come una delle branche significative della mineralogia, dopo la seconda guerra mondiale essa ne è divenuta una delle forze trainanti. Capitalizzando su tecniche strumentali messe a punto da P. W. Bridgman tra il 1914 e il 1936, utilizzando nuove leghe metalliche di alta resistenza sviluppate per l'industria bellica e infine sfruttando il fatto che negli anni cinquanta l'industria si era lanciata in una vera e propria corsa al diamante sintetico, la mineralogia sperimentale ha ottenuto un enorme avanzamento tecnologico verso le alte pressioni e le alte temperature, le sole utili alla comprensione della struttura interna della Terra. La corsa al diamante fu vinta sul piano industriale dal gruppo della General Electric, formato da F. P. Bundy, H. T. Hall, H. M. Strong e R. H. Wentorf (v., 1955), ma il vero vincitore, in termini strettamente scientifici, fu L. Coes Jr. (v., 1953), che riuscì a sintetizzare una nuova fase densa della silice, l'ossido più comune sulla Terra. Quando questa fase fu poi rinvenuta in natura, in ambienti eccezionali come i crateri d'impatto provocati dalle meteoriti (E. C. T. Chao e collaboratori, 1960) e, successivamente, come inclusione nei granati magnesiaci di certe rocce del cuneese subdotte a 100 km di profondità durante l'orogenesi alpina (v. Chopin, 1984), tale successo gli fu meritatamente dedicato, attribuendo a questa fase cristallina della silice il nome di coesite. Pochi anni dopo (1961) S. M. Stishov e S. V. Popova sintetizzarono, con metodi analoghi, un'altra fase della silice stabile a pressioni ancora più alte, cui fu dato il nome di stishovite, anch'essa rinvenuta più tardi (1962) nei crateri d'impatto dal gruppo di Chao. Si tratta di un'ulteriore rivoluzione scientifica, di significato ancor più vasto rispetto a quella riguardante la coesite, poiché nella stishovite il Si è contornato non da 4 atomi di ossigeno, come in tutti i silicati esistenti sulla superficie terrestre e nella stessa coesite, ma da 6, come era stato previsto potesse verificarsi sotto enormi pressioni. La mineralogia sperimentale, con questo suo risultato, ha quindi portato un contributo determinante alla cristallochimica.

Negli anni cinquanta, altri mineralisti sperimentali - come O. F. Tuttle, H. S. Yoder, H. T. Hall, F. R. Boyd e J. L. England - sviluppavano nuovi tipi di ‛bombe' (apparecchiature per la sintesi che combinano alta pressione e alta temperatura, con tempi prolungati di esercizio e altre condizioni più vicine a quelle naturali, come la possibilità di controllo indipendente della pressione del vapore, della fugacità dell'ossigeno, della miscela dei gas, ecc.) che hanno dapprima permesso di riprodurre in laboratorio le condizioni che si verificano nella crosta terrestre profonda e, in un secondo tempo, anche ben al di sotto di essa, in pieno mantello. I lavori sperimentali resi possibili da queste bombe sono proliferati al punto che non c'è praticamente più alcun sistema chimico di rilevanza mineralogica che non sia stato studiato tra 500 e 1.500 °C e tra 1 e 5 GPa (50 kbar). Tramite questi studi di sintesi e di stabilità sono state finalmente comprese le condizioni in cui si formano quasi tutti i principali gruppi di minerali costitutivi delle rocce e, per conseguenza, la genesi delle rocce stesse che li contengono. Si possono, come esempio, citare i feldspati, che sono i costituenti essenziali dei graniti e delle rocce ignee in generale: fondamentale a questo riguardo è risultato un lavoro di O. F. Tuttle e N. L. Bowen (v., 1958), che ha messo in evidenza quanto la stabilità dei silicati dipenda dalla presenza o assenza di una fase volatile (vapore d'acqua, anidride carbonica, fluoro, ecc.). Inoltre, nel 1973 F. R. Boyd ha individuato l'esistenza di diversi regimi di pressione-temperatura (geoterme) nel mantello e, legando la formazione del diamante a uno di questi, ha reso il diamante stesso, grazie alle inclusioni di diversi minerali che esso presenta, un prezioso collettore di ciò che esiste nella Terra fino a (forse) 670 km di profondità. La recente scoperta di microdiamanti disseminati in rocce di origine crostale (v. Sobolev e Shatskii, 1987) conferma indirettamente come studi che fino a qualche decennio or sono potevano essere considerati del tutto inutili, in quanto privi di un'immediata applicazione alla realtà naturale, abbiano in realtà un importante significato geologico e servano di guida a qualcosa di ben più ampio respiro della geologia tradizionale e cioè alla comprensione dei processi e dei meccanismi tramite i quali si è formato e accresciuto l'intero nostro pianeta (geofisica).

e) Sistematica e nomenclatura

È ampiamente riconosciuto che una valida classificazione sistematica costituisce un vero e proprio strumento di ricerca, poiché rappresenta il presupposto fondamentale per un lavoro teorico coerente: se infatti sono chiari i nessi teorici che mettono in relazione i diversi membri di un insieme, risulta poi facile stabilirne la gerarchia sistematica; se invece ciò non accade, significa che i postulati teorici su cui la classificazione era basata hanno dei difetti di fondo e devono essere corretti o addirittura sostituiti.

Sulla base di questa consapevolezza, i mineralisti hanno da sempre cercato di classificare i minerali secondo un ordine sistematico che non solo ne mettesse in luce peculiarità e relazioni reciproche, ma che, contemporaneamente, fornisse indicazioni su quali altri minerali ancora ignoti si debbano cercare e, possibilmente, in quali ambienti. Il fine era ed è ambizioso, soprattutto se si tiene conto che i minerali da organizzare in modo sistematico sono ormai quasi 4.000. Si rifletta, a titolo di confronto, che per scoprire la regola che ha permesso di classificare in modo completo gli elementi chimici (che sono solo un centinaio) si è lavorato per quasi settant'anni: tanti sono infatti gli anni intercorsi tra la definizione di atomo da parte di J. Dalton (1803) e l'elaborazione della tavola periodica a opera di D. I. Mendeleev e J. L. Meyer (1869). Si è arrivati al successo solo dopo essere passati attraverso vari approcci incompleti, quali le ‛triadi' di J. W. Döbereiner (1829) e le ‛ottave' di J. Newlands (1864), per accennare solo a due ipotesi che hanno comunque contribuito a un progresso, tralasciando i ben più numerosi tentativi infruttuosi.

Per le considerazioni già esposte, nel corso dell'Ottocento predominarono in mineralogia le classificazioni chimiche, come quella di Berzelius (1824), che si sostituirono a quelle miste, tutte più o meno empiriche. Miste erano, per esempio, la classificazione di R. J. Haüy (1801), basata su una combinazione di informazioni chimiche (cationi) e fisiche (proprietà), e quella, fondata su proprietà fisiche e associazione mineraria, di A. G. Werner. L'originaria classificazione puramente chimica di Berzelius, basata unicamente sul tipo di anione o radicale anionico presente nel minerale, fu tuttavia gradualmente sostituita da un'altra classificazione mista, chimico-morfologica (G. Rose, 1852; J. D. Dana, 1854), più attinente alla realtà in quanto, pur senza tralasciare l'aspetto della composizione, rivendicava giustamente l'importanza della simmetria cristallografica (nell'accezione allora possibile, cioè quella basata sulla morfologia dei cristalli). Sono di questo stesso tipo la classificazione di P. von Groth (v., 1906-1919) e quella di C. Hintze (v., 1897-1933), che sono alla base dei ponderosi trattati sistematici tedeschi dell'inizio del secolo.

Con l'avvento della cristallografia moderna - con la dimostrazione, cioè, che la simmetria esterna dei cristalli dipende dalle modalità di ordinamento degli atomi nella struttura interna - la sistematica doveva essere necessariamente cambiata nel senso previsto dalla cristallochimica, intesa qui come combinazione di principî sia chimici sia cristallografico-strutturali. Dopo vari tentativi, parziali e insoddisfacenti soprattutto per l'iniziale mancanza di un numero adeguato di informazioni strutturali, fu H. Strunz (v., 1941) che arrivò a compilare le Mineralogische Tabellen: esse hanno retto il confronto non solo con nuovi dati, ma soprattutto hanno saputo poi accogliere - senza sostanziali modifiche nei principî fondamentali, pur se con molte variazioni nello schema - i numerosissimi minerali nuovi scoperti nella seconda metà del Novecento. Non esiste, al momento, una base sistematica per la mineralogia migliore di quella ideata da Strunz: essa si è dimostrata sufficientemente flessibile da prevedere perfino nuovi raggruppamenti gerarchici e da accogliere i minuziosi riordinamenti che vari ricercatori hanno apportato a singole classi. Questo è il caso, per esempio, di quelli proposti da M. Fleischer (1947), T. Zoltai (1960) e F. Liebau (v., 1985) per i silicati, da W. Nowacki (1968) per i solfosali, da C. L. Christ e J. R. Clark (1977) per i borati, da P. B. Moore (1980) per i fosfati, da P. Keller (1982) per gli ossidi, e così via. Praticamente, la classificazione di Strunz è stata ritoccata in tutte o quasi le sue parti, ma ha comunque resistito nel suo complesso, il che è una dimostrazione della sua intrinseca validità, almeno fino al momento attuale. Il primo principio su cui si fonda la sistematica di Strunz (v. fig. 6) è chimico e berzeliano: a seconda del gruppo anionico presente nella formula, l'intero mondo minerale risulta articolato in prima istanza in 12 ‛classi'; ciascuna di queste si articola poi in ‛sezioni' secondo principî subordinati, che possono essere diversi da classe a classe, ma che essenzialmente tengono conto del rapporto numerico esistente tra i cationi e gli anioni nella formula chimica, e che quindi sono di tipo cristallochimico, derivati dalle regole di Pauling; ogni sezione si articola poi in ‛serie', sulla base del principio della vicarianza di Goldschmidt tra due ioni affini (oppure in ‛gruppi', se gli ioni vicarianti sono tre o più); infine, si arriva all'unità elementare della classificazione, che è la ‛specie mineralogica', definita come ‟l'insieme di tutti i minerali che hanno la stessa composizione e la stessa struttura, la prima descritta dalla formula chimica e la seconda dal gruppo spaziale". Come si evince chiaramente, la sistematica di Strunz tiene conto di tutti i più importanti principî teorici acquisiti dalla ricerca mineralogica nel corso della prima metà del Novecento.

Per una tradizione che risale alle origini della mineralogia, ogni minerale ha un nome e perciò ogni specie mineralogica, così come è stata precedentemente definita, deve avere un suo nome proprio, diverso da quello di tutte le altre specie. Per esempio: calcite è il nome del minerale che per composizione è carbonato di calcio e per simmetria è scalenoedrico ditrigonale o, in breve, CaCO3-R−3c; la formula rende la calcite diversa da ogni altro carbonato (di Mg, Zn, Fe, ecc.) isostrutturale, il gruppo spaziale la differenzia dall'aragonite, che è sempre carbonato di calcio, però con simmetria Pmcn. Ogni altro nome dato in passato o inavvedutamente assegnato in futuro al CaCO3-R−3c (per es., tarnovitzite, spato d'Islanda, pisolite, travertino, zeyringite, ecc.; ne sono stati usati almeno 30) non è valido e quindi non dovrà mai essere usato in un contesto scientifico e neppure essere impiegato per un eventuale nuovo composto naturale completamente diverso. In mineralogia l'importanza di una corretta nomenclatura è tale che nell'ambito dell'IMA è stata appositamente creata (1955) una ‛Commissione per i nuovi minerali e i nomi mineralogici', cui è stato attribuito il compito di dirimere questioni di priorità nella descrizione dei nuovi minerali, di assicurarsi che essi siano descritti con un grado di informazione tale che ne risulti confermata la novità rispetto a tutti gli altri, e di assegnare a ciascuno un nome diverso dai numerosissimi nomi già usati: esistono infatti circa 15.000 sinonimi che non dovranno essere utilizzati mai più.

La nomenclatura mineralogica si è andata formando lentamente nel tempo e di conseguenza risulta incoerente: essa riflette variazioni nelle tendenze e negli usi che si sono prodotte nell'arco di oltre due secoli. Ogni tentativo di riorganizzarla secondo un criterio aprioristico è finora fallito, anche perché è sempre stata riconosciuta la libertà dello scopritore di un minerale nuovo di proporre per esso un nome e di vederlo accettato dall'IMA, a meno che non ci siano validi motivi contrari. A. S. Povarennykh (1966) ha tentato di sostituire ad alcuni nomi tradizionali un nome tratto dalla composizione chimica (per es.: ‛manganomanferasilite' per ‛spessartina', il granato di Mn e Al), ma la sua proposta è stata concordemente e integralmente rifiutata dagli scopritori di minerali: il solo risultato pratico, negativo, è stato quello di incrementare il numero dei sinonimi con alcune centinaia di altri nomi inutili.

L'IMA ha effettuato vari tentativi di mettere ordine anche tra i gradi gerarchici superiori della sistematica, ma arrivando solo in rari casi a risultati positivi. Così un apposito comitato, coordinato da B. E. Leake, ha riordinato il gruppo degli anfiboli (1978), riducendo a una trentina i precedenti 150 nomi e rendendo inoltre la nomenclatura del gruppo agile e versatile tramite un uso appropriato di prefissi. In altri casi, però, il successo non c'è stato o è stato modesto, ed è proprio per questo motivo che la classificazione di Strunz rimane ancora l'organizzazione sistematica di riferimento.

Sono state tentate anche altre sistematiche, ma non altrettanto soddisfacenti poiché basate su principî più ristretti: tra queste ricordiamo quelle di Machatschki (1953) e di I. Kostov (1968), su basi geochimico-genetiche; quelle di R. C. Evans (1939), di G. B. Bokii (1954), di J. Lima de Faria (1983) e di M. O. Figueiredo (1976), di E. Hellner (1984), di F. C. Hawthorne (1983 e 1985) e di altri ancora, su basi puramente cristallografico-strutturali, fondate cioè sulla topologia e sulla connettività (polimerizzazione) esistente tra poliedri di forma diversa (o loro raggruppamenti uniti da legami omogenei in modo da costituire blocchi strutturali fondamentali, detti ‛unità' o ‛moduli strutturali'); ma tutte appaiono o incomplete - nel senso di adattarsi bene a un gruppo di minerali, ma non ad altri - oppure estremamente farraginose.

Nel definire la specie mineralogica, si è accennato al fatto che è essenziale conoscerne la simmetria strutturale, espressa in modo abbreviato col gruppo spaziale. La formulazione dei 230 gruppi spaziali è stata l'ultimo trionfo della cristallografia teorica dell'Ottocento. Nel corso del Novecento, dopo il grande uso fattone in cristallografia strutturale, è stata però avvertita la necessità di arrivare a una loro formulazione sintetica, chiara e senza equivoci, che permettesse di organizzare la massa sempre crescente di dati sperimentali. Questo obiettivo è stato raggiunto tramite un accordo internazionale che ha scelto la nomenclatura simbolica elaborata da C. H. Hermann e C. Mauguin (v., 1935): il simbolo di un gruppo spaziale comprende il tipo di cella di Bravais e un massimo di altre 3 lettere o numeri che indicano gli operatori di simmetria rotazionale presenti. Sono ancora in fase di elaborazione, invece, le nomenclature simboliche per i gruppi bianchi e neri e i gruppi colorati, il cui riconoscimento rappresenta probabilmente il maggior progresso apportato alla cristallografia teorica durante il nostro secolo (v. cristallografia, vol. X).

4. Stato attuale e previsione dei futuri sviluppi

Negli anni ottanta e novanta la mineralogia, proseguendo una tendenza comune anche ad altre scienze, si è andata integrando sempre più con la fisica, al punto da sembrare quasi giustificata la definizione riportata da certi testi (di fisica, per ora), secondo la quale ‟la mineralogia è la fisica dello stato solido naturale". In effetti, i mineralisti fanno sempre maggior uso di metodologie e di strumenti sviluppati originariamente da fisici e che i fisici stessi considerano tuttora d'avanguardia. Questa interazione con la fisica si esplica in forma duplice: da una parte, la ricerca teorica in campo cristallografico sui minerali si basa (come del resto è sempre avvenuto) su teorie, modelli, algoritmi e metodi di calcolo messi a punto da fisici o da chimico-fisici ma sempre per ricerche fisiche; dall'altra, stanno diventando abbastanza comuni tra i mineralisti, in aggiunta alle ben consolidate tecniche di diffrazione dei raggi X (tanto ben consolidate da poter ormai essere definite ‛convenzionali'), nuove metodologie d'analisi che utilizzano altre e più potenti forme di energia, come neutroni, elettroni e radiazione di sincrotrone. Le sorgenti di tali radiazioni, per il loro costo elevato, sono per ora disponibili solo in pochi grandi centri di ricerca essenzialmente fondati e gestiti da fisici, nei quali lo stretto contatto con fisici, chimici, biologi e così via non solo influisce sul lavoro dei mineralisti, ma quasi inevitabilmente li induce ad ampliare i propri interessi al di fuori del mero studio dei minerali: molti si dedicano alle proteine, altri ai vetri, altri alle superfici, e così via. Inoltre, l'applicazione ai minerali di taluni metodi fisico-matematici d'avanguardia, come la dinamica molecolare e la meccanica e termodinamica quantistica, che obbligano ad accedere ai grandi calcolatori, comporta un'altra e diversa forma di stretta interazione con fisici, chimici e matematici, oltre che con i responsabili della gestione di tali calcolatori, cioè gli informatici. Gli effetti che queste interazioni hanno sulla mineralogia sono rappresentati, al momento, da una sua suddivisione in branche sempre più specializzate, al punto che alcune di esse non sono più neppure in comunicazione tra loro. L'unitarietà della mineralogia come scienza sembra perduta, ma vi è in realtà un indubbio risultato positivo per quanto riguarda sia l'avanzamento delle conoscenze sulle proprietà dei minerali, e quindi la cultura mineralogica complessiva, sia il riconoscimento e la considerazione che la mineralogia si va guadagnando in ambiti scientifici sempre più ampi.

Ma la tendenza della mineralogia moderna verso la fisica certamente non ha sminuito il ruolo o la figura del classico mineralista raccoglitore e descrittore, sagace analista di granuli sempre più piccoli e sempre più difficili da caratterizzare. Dal 1980 a oggi nel mondo sono state scoperte e descritte in media 50 specie l'anno, anche perché i mineralisti si sono giovati del fondamentale contributo dei petrologi che, per il loro uso sistematico della microsonda, riservano una particolare attenzione a nuove fasi di composizione insolita. Così i petrologi - che, per quanto nati dal tronco principale della mineralogia, erano inizialmente considerati dei dissidenti dediti unicamente alle rocce - sono diventati un trait d'union essenziale che contribuisce a mantenere legata alle scienze della Terra la nuova mineralogia orientata verso la fisica. Infatti, per caratterizzare adeguatamente una nuova specie mineralogica secondo i requisiti richiesti dall'IMA, la sola analisi chimica non basta e il petrologo deve quindi associare a sé un mineralista sistematico; sarà poi quest'ultimo che, per risolvere problemi specifici, chiederà la collaborazione di un minerofisico, o di un qualche altro specialista che si colloca per competenze ai margini della mineralogia ‛classica'. Da questa catena di collaborazioni finisce per derivare un nuovo tipo di sapiente interazione, il cui esito non potrà che determinare una crescita complessiva della qualità delle ricerche e delle conoscenze mineralogiche (v. anche petrologia, vol. XI).

Ci limiteremo a portare come esempio l'Italia, dove nel periodo 1945-1979 sono state scoperte e descritte 23 nuove specie, delle quali 22 da italiani o da gruppi di ricerca di cui faceva parte un italiano; pochissimi (4) erano i casi di coinvolgimento di petrologi o geochimici. Dal 1980 alla fine del 1997 le specie scoperte in Italia sono già 55, 46 delle quali da italiani: tra gli scopritori - che sono molti di numero, perché è ormai raro che un ricercatore da solo sia in grado di effettuare tutte le determinazioni che occorrono per definire una specie nuova - 22 almeno non possono (o non gradirebbero) essere qualificati come mineralisti, ma piuttosto come petrologi o geochimici. Lo sviluppo recente della mineralogia sistematica, quindi, dipende in parte non piccola proprio da rappresentanti di quelle branche delle scienze della Terra che, pur riconoscendosi derivate dalla mineralogia, hanno ormai assunto una propria fisionomia, ufficialmente riconosciuta fin dal 1968, quando la Società Mineralogica Italiana ha cambiato nome in Società Italiana di Mineralogia e Petrologia.

Il mutamento in senso sempre più fisico della ricerca mineralogica internazionale è apparso più sensibile ed evidente in cristallografia, quella tra le varie discipline mineralogiche che ha senz'altro maggiore valenza teorica. Sono cristallografi gli scienziati che studiano il modo di dare una formulazione matematica generale ai problemi della simmetria, sia essa morfologica o strutturale, inerente la distribuzione degli atomi nelle strutture (cristallografia matematica); sono in buona parte cristallografi anche coloro che si dedicano alla dinamica molecolare e alla fisica quantistica dello stato condensato, tentando di predire le strutture cristalline a partire dalle formulazioni generali enunciate in gran parte dai fisici del primo Novecento, che erano state del tutto ignorate dalla scienza mineralogica. Si considerano invece cristallochimici coloro che usano meccanica e termodinamica quantistica allo scopo di predire le proprietà chimiche dello stato solido; tra essi, recentemente, si sono distinti J. A. Tossel e D. J. Vaughan (v., 1992), autori di un testo fondamentale teso ad aprire questo difficilissimo ma insopprimibile indirizzo alla comprensione del comune mineralista.

Tuttavia, nessun calcolo o modello teorico può avere valore se non è convalidato da misure sperimentali. Per questo negli anni recenti hanno trovato sempre più ampia diffusione metodologie talora anche molto complesse e, di norma, costose. Se ne darà una breve descrizione, limitandosi a quelle che finora hanno fornito i migliori risultati, o che sembrano prometterne in futuro.

Nella mineralogia sperimentale sono state raggiunte condizioni di temperatura e pressione assolutamente impensabili fino a pochi anni fa e ben superiori a quelle che si realizzano effettivamente sulla Terra. Ho-kwang Mao, utilizzando una cella miniaturizzata a incudini di diamante (v. fig. 7) - ottenuta modificando sostanzialmente un prototipo messo a punto da C. E. Weir, E. R. Lippincott, A. Van Valkenburg e E. N. Bunting nel 1959 per studi di spettroscopia in infrarosso a 30.000 atm - ha ottenuto pressioni di 550 GPa (5,5 Mbar, cinque milioni e mezzo di atmosfere circa) e temperature di 7.000 K. È impensabile, almeno in questo momento, che nei prossimi anni si possano superare questi limiti; è certo, però, che in futuro la ricerca mineralogico-sperimentale si dedicherà in misura sempre maggiore a studi sistematici sulle proprietà dei materiali nelle condizioni di pressione e temperatura del mantello inferiore e del nucleo terrestre. Già ora, non sono rari studi a pressioni intorno a 100 GPa (1 Mbar) e a temperature superiori ai 3.000 °C. Un risultato di eccezionale rilievo in questo settore, non solo per la mineralogia, quanto per la scienza dei materiali in genere e per le implicazioni che può avere rispetto alla costituzione geofisica della Terra, è stato la dimostrazione che perfino l'idrogeno - il più leggero e labile di tutti i gas - se sottoposto a pressioni enormi, cristallizza in un solido a legame metallico. Ho-kwang Mao e R. J. Hemley (1989) hanno descritto efficacemente l'emozione provata quando, guardando attraverso il microscopio il piccolissimo campo (50 µm2) visibile nella cella a incudini di diamante, hanno visto mancare progressivamente la luce, mentre l'idrogeno, prima trasparentissimo, si solidificava fino a diventare opaco come tutti i metalli.

Per difficoltà tecniche, la cristallografia strutturale a cristallo singolo di alta pressione è rimasta indietro rispetto alla mineralogia sperimentale che, per caratterizzare i suoi prodotti, tende ad avvalersi soprattutto di tecniche spettroscopiche e, quando usa le tecniche cristallografiche strutturali, preferisce quelle (ad es., il metodo di Rietveld) che utilizzano polveri policristalline. Tuttavia sono già stati eseguiti raffinamenti di struttura su monocristalli mantenuti a pressioni di circa 28 MPa e temperature intorno ai 1.000 °C, ottenendo su alcuni minerali informazioni ancora migliori, per certi versi, di quelle ottenute con gli altri metodi. Esse hanno permesso di confermare il ruolo coniugato che pressione e temperatura svolgono su tutte le proprietà dei solidi e hanno aperto un significativo campo all'interazione tra i mineralisti e i geofisici che studiano la struttura e i moti delle zone più profonde della Terra.

La prova dell'esistenza di una ‛diffrazione dei neutroni', a opera di W. M. Elsasser, risale al 1936 e il primo diffrattometro specifico per neutroni fu messo a punto da W. H. Zinn già nel 1947. Tuttavia, per limitazioni di natura sia intrinseca (la lunghezza d'onda del fascio di neutroni è molto maggiore del diametro del nucleo atomico che diffrange, la sua interazione con la materia molto debole, il potere di diffusione dei vari atomi rispetto ai neutroni non varia in modo regolare col numero atomico, ecc.), sia pratica (scarso numero e debolezza delle sorgenti, dimensione dei campioni, ecc.), questo metodo ha cominciato a fornire dati utili solo a partire dalla fine degli anni sessanta; in particolare, esso ha potuto essere applicato ai minerali solo dopo che Rietveld (1967) prima concepì e poi perfezionò il suo metodo di raffinamento strutturale per iterazione di uno spettro completo. I primi risultati di rilievo, che risalgono agli anni settanta, riguardano le zeoliti, minerali giudicati già allora importanti e degni di studio per il loro elevato potenziale industriale. Dato che la diffrazione dei neutroni dà risultati complementari a quella dei raggi X e, in particolare, è utile per localizzare gli atomi leggeri, mentre i raggi X lo sono per quelli pesanti, essa viene sempre più diffusamente utilizzata per determinare la posizione dell'idrogeno nei minerali ossidrilati (che per questo vengono spesso deuterizzati), oppure la posizione e la distribuzione nel reticolo di elementi leggeri tra loro vicarianti, come Si e Al (quasi indistinguibili ai raggi X), o anche di elementi più pesanti ma molto vicini come numero atomico (per es., Fe e Mn o Ni, Ti e Mo o Nb, ecc.). Dato poi che i neutroni posseggono un momento magnetico, la diffrazione neutronica è usata sempre più spesso anche per studiare le proprietà magnetiche di quegli ossidi che mostrano transizioni di comportamento da ferromagnetico ad antiferromagnetico, come le magnetoilmeniti, che sono di largo impiego nelle scienze della Terra in quanto è possibile individuarvi la presenza di paleomagnetismo residuo. Lo studio dei processi di disidratazione rappresenta un campo nel quale i neutroni hanno recentemente trovato una promettente applicazione: analizzando il campione mentre viene scaldato, è stato possibile seguire il cambiamento di posizione dell'idrogeno all'interno del gruppo ossidrile (per es. brucite, muscovite) o quello dell'acqua di cristallizzazione nel minerale studiato (per es. gesso, bassanite) fino al momento in cui viene espulso dal reticolo, permettendo così un'accurata valutazione termodinamica dell'intero processo.

La ‛diffrazione degli elettroni' è una tecnica molto più diffusa in mineralogia di quella dei neutroni, poiché non necessita di sorgenti particolari come i reattori, ma può avvalersene direttamente utilizzando un buon microscopio elettronico a trasmissione (TEM). Nei suoi principî fondamentali essa differisce totalmente dalle diffrazioni sia dei raggi X sia dei neutroni, poiché la lunghezza d'onda del fascio di elettroni accelerati è straordinariamente breve (〈 0,03 Å) e inoltre perché la capacità di attenuazione del fascio elettronico da parte degli atomi risulta molto maggiore. Occorrono perciò preparati particolari ultrasottili, spesso non facili da ricavare dai minerali, ma che, almeno per ora, rappresentano l'unico metodo sicuro per ottenere informazioni dirette su aree di cristallo estremamente piccole, di poche celle elementari: da queste si può risalire alle irregolarità - come errori di impilamento, microgeminazioni, dislocazioni, e così via - sempre presenti nei cristalli reali. Questa tecnica rappresenta pertanto un importante strumento sia in ambito mineralogico (per i ‛crescitori' di cristalli, sia analoghi di minerali, sia industriali) sia al di fuori di esso, ove solo raramente vengono studiati i difetti dei materiali naturali, notoriamente imperfetti. Accoppiando poi al TEM alcuni accessori, si può anche eseguire uno studio spettroscopico, che può riguardare, a seconda dell'energia di accelerazione usata, sia la superficie sia gli strati più profondi del materiale esaminato.

Anche la ‛radiazione di sincrotrone' sta apportando profondi cambiamenti alla cristallografia strutturale basata sulla diffrazione, e malgrado il suo alto costo e la scarsezza dei laboratori in grado di utilizzarla, viene impiegata sempre più spesso per le ricerche sui materiali; infatti, è stato dimostrato che, pur conservando la sua altissima intensità, fortissima polarizzazione, bassissima divergenza e struttura temporale pulsata, una parte del suo spettro ha la stessa energia dei raggi X. Tramite la radiazione di sincrotrone è pertanto possibile un'esperienza di diffrazione (sia da cristallo singolo, sia da polvere) in un tempo estremamente breve (da minuti a millisecondi) e con una risoluzione e un rapporto picco/fondo che rendono estremamente precisa la determinazione di una struttura. Malgrado alcuni problemi ancora irrisolti, i risultati finora ottenuti, soprattutto su campioni di minime dimensioni oppure costituiti da materiale semiamorfo, hanno apportato informazioni nuove e inaspettate su molti minerali. La radiazione di sincrotrone appare di grande utilità particolarmente nell'ambito di tre campi di ricerca: 1) cristallografia ad altissima pressione, che fa uso delle celle a incudini di diamante: recentemente, ad esempio, è stato possibile rivelare debolissimi effetti di diffrazione nel ghiaccio, la cui elaborazione col metodo di Rietveld ha evidenziato nuovi tipi di struttura; 2) diffrattometria ad alta risoluzione: infatti, permettendo di separare tra loro riflessioni che differiscono di pochi centesimi di grado, essa mette in luce l'esistenza di piccolissime deviazioni dalla simmetria teorica che derivano dalla presenza di minuscole impurezze nel campione, oppure da un suo stato di tensione strutturale; 3) cinetica delle reazioni, in quanto rende possibile raccogliere gli effetti di diffrazione proprio nei tempi brevissimi in cui una fase si trasforma in un'altra.

Il fatto che la radiazione di sincrotrone sia bianca, cioè contenga uno spettro di lunghezze d'onda di intensità variabile con continuità, ha permesso di introdurre ultimamente una nuova tecnica di diffrazione, detta della ‛diffusione anomala' (L. M. Maroney, P. Thompson e D. E. Cox, 1988), che fornisce risoluzioni di struttura incomparabilmente più precise di quelle possibili con sorgenti convenzionali. Essa consiste nel riprendere gli effetti di diffrazione di un campione con fasci resi monocromatici a tre (o più) lunghezze d'onda opportunamente diverse, di cui due ai due estremi dello spettro e una (o più) a una lunghezza d'onda di poco inferiore a quella (o quelle) della radiazione caratteristica dei diversi elementi chimici presenti in quel campione. Dal confronto di queste misure risulta facile raffinare separatamente i fattori termici dei diversi elementi e quindi ricavare una più precisa indicazione sulla posizione degli atomi corrispondenti nella struttura del materiale studiato. La policromaticità della radiazione di sincrotrone ha inoltre riportato in auge il metodo originariamente usato da von Laue, che fin dai tempi dei Bragg era stato praticamente abbandonato in favore dei metodi che usano raggi X monocromatici. Specie se si usano i nuovi rivelatori piani sensibili alla posizione (PSD, Position Sensitive Detector), si possono infatti ottenere in tempi brevissimi migliaia di effetti di diffrazione, simultanei e ben distinti, anche da cristalli di piccolissime dimensioni (meno di 0,05 mm) con strutture che contengono migliaia di atomi (v. fig. 8). Fino a pochi anni fa, anche se fosse stato possibile ottenere questi lauegrammi, le informazioni strutturali in essi contenute sarebbero comunque risultate incomprensibili o quasi; ora però, con i moderni calcolatori, esse risultano elaborabili ed è quindi diventato possibile risolvere strutture anche complesse in tempi ragionevoli. I migliori esempi in questo campo riguardano le proteine e quindi la biocristallografia; in mineralogia ne hanno tratto vantaggio soprattutto gli studi sulle zeoliti, che non solo formano spesso cristalli piccolissimi, impossibili da studiare con sorgenti di raggi X convenzionali, ma hanno inoltre celle elementari costituite dall'impilamento di numerosissimi atomi e con strutture particolarmente complesse a causa di pseudosimmetrie.

Il campo nel quale la radiazione di sincrotrone ha raggiunto la massima diffusione è tuttavia quello della spettroscopia, una tecnica di studio complementare alla diffrazione che per molti anni è stata ingiustamente usata in modo marginale in mineralogia e solo per identificare tracce di impurezze di elementi chimici diversi da quelli caratterizzanti, in genere le terre rare. Nonostante le numerose informazioni che possono essere ricavate dalla diffrazione ottenuta dai nuovi fasci di energia raggiante, sono i metodi spettroscopici quelli che recentemente si sono affermati nella pratica mineralogica, forse perché il loro impiego in questo campo è iniziato dopo un lungo collaudo da parte dei fisici e dei chimici, e quindi dopo che sia la strumentazione sia l'elaborazione dei dati erano già divenute relativamente semplici e più consone ai mineralisti.

La prima spettroscopia ad affermarsi in mineralogia (escludendo quelle di fiamma e di scintilla, usate nel passato in minerochimica per la determinazione degli elementi in traccia) è stata quella di assorbimento nel visibile (VIS), una tecnica anch'essa basata sulla legge di Beer-Bouguer-Lambert ma che ha il vantaggio di non richiedere particolari fonti di energia, in quanto studia il comportamento dei minerali quando sono attraversati da un fascio di luce di lunghezza d'onda fatta variare in modo continuo tra un valore minimo e uno massimo. La luce genera transizioni elettroniche negli orbitali d degli elementi di transizione, trasferimenti di carica da un catione a un altro oppure da un catione a un anione, transizioni dalla banda di valenza a quella di conduzione (in un semiconduttore) oppure a un livello d'impurezza: tutti questi processi comportano assorbimenti selettivi di particolari lunghezze d'onda e quindi con questo metodo si ricavano informazioni sul tipo e la posizione strutturale assunta dai cationi cromofori nella struttura dei minerali, cioè sul colore, che ne è una delle caratteristiche più appariscenti (v. fig. 9). La spettroscopia nel visibile è particolarmente utile nello studio delle gemme.

Recentemente, l'uso della radiazione di sincrotrone ha reso efficace la spettroscopia d'assorbimento dei raggi X (XAS, X-ray Absorption Spectroscopy) ideata fin dal 1922 da L. D. Kronig, ma sempre pochissimo usata per la scarsa affidabilità che si poteva attribuire ai suoi segnali quando essi erano ottenuti con sorgenti convenzionali. Tramite la radiazione di sincrotrone risultano ben risolte le ‛oscillazioni di Kronig' oltre la soglia d'assorbimento dei raggi X di un particolare elemento, per quanto deboli esse siano (v. fig. 10) e possono quindi essere spiegate e utilizzate (F. W. Lytle e E. A. Stern, 1979) per determinare valenza e coordinazione dell'elemento assorbente indipendentemente da tutti gli altri elementi presenti nel materiale e dal suo stato fisico. Questa è infatti la caratteristica che rende i metodi spettroscopici vantaggiosi oltre che complementari a quelli diffrattometrici: essi non dipendono né dallo stato di aggregazione del materiale esaminato (che può essere un solido, un liquido o un gas) né dal suo ordine, che può essere a lungo raggio (cioè con tutti gli atomi nelle posizioni previste dalla simmetria spaziale) oppure a corto raggio (cioè riguardare giusto le interazioni tra l'atomo esaminato e i suoi primi vicini). È evidente che in questo modo si possono studiare particolarità inaccessibili alla diffrazione, quali il fatto di presentare dei difetti locali che, come abbiamo detto, nei minerali sono una regola. L'elevata intensità della radiazione di sincrotrone, inoltre, permette di ottenere segnali da atomi ‛diluiti' (cioè presenti in piccola concentrazione nella sostanza); questo fa sì che si possano determinare con ottima precisione tanto i contenuti (SR-XRF, Synchrotron Radiation-X-Ray Fluorescence), quanto gli intorni locali (EXAFS, Extended X-ray Absorption Fine Structure; XANES, X-ray Absorption Near Edge Structure) non solo degli elementi caratterizzanti, ma anche di quelli minori o addirittura in traccia, sempre presenti nei solidi naturali e che spesso determinano le loro particolarità fisiche. Con opportune tecniche, inoltre, si possono individuare solo gli atomi sulla superficie dei minerali (SEXAFS, Surface Extended X-ray Absorption Fine Structure) e studiare quindi i modi con cui essi reagiscono con gli agenti atmosferici, oppure con i reagenti chimici che vengono usati per estrarne, per esempio, alcuni elementi utili (Au, Pt, Cu, ecc.), con chiare implicazioni sui problemi di inquinamento ambientale, sia naturale sia indotto dal trattamento industriale.

Ben più diffusa della spettroscopia d'assorbimento dei raggi X, tuttavia, è stata negli scorsi decenni la ‛spettroscopia di risonanza dei raggi γ'. Questa tecnica - basata su un effetto fisico, scoperto da L. L. Mössbauer nel 1958, in virtù del quale nuclei atomici investiti da raggi γ irradiati da nuclei identici emettono raggi γ di egual frequenza di quelli incidenti, per una sorta di ‛risonanza nucleare' - si è affermata in mineralogia (G. M. Bancroft e R. G. Burns, 1967) perché è l'unico metodo oggettivo per evidenziare lo stato di valenza del ferro (il quarto degli elementi, nell'ordine di abbondanza in natura) e per definire la proporzione in cui Fe2+ e Fe3+ sono presenti in un minerale. Inoltre, essa permette di ripartire i vari tipi di Fe tra i diversi siti cristallografici, se presenti con energie di campo cristallino differenti, e di determinare in tal modo l'energia di ciascun sito (v. fig. 11). L'unico inconveniente di tale tecnica è che gli atomi che presentano effetto Mössbauer sono pochi (Fe, Sb, Sn, Dy e alcuni altri, tra cui Au), per cui quasi tutti i minerali che li contengono sono stati ormai già studiati. Recentemente, tuttavia, essa ha ricevuto nuovo impulso sia dalla creazione di apposite microsonde adatte per cristalli singoli e piccoli campioni come quelli contenuti nella cella a incudini di diamante (C. McCammon, V. Chaskar e G. Richards, 1991), sia da nuove forme di elaborazione degli spettri dei minerali ferriferi che riescono a metterne in evidenza il comportamento magnetico.

La spettroscopia per risonanza magnetica nucleare (NMR, Nuclear Magnetic Resonance), scoperta nel 1945 da E. Zavoisky, è rimasta ignorata dai mineralisti fino a che non è stata introdotta la tecnica detta ‛per rotazione ad angolo magico' (MAS, Magic Angle Spinning): facendo ruotare su se stesso il campione con un'inclinazione di 54,7° rispetto alle linee di forza del campo magnetico, si ottengono nei solidi picchi altrettanto ben risolti quanto nei liquidi. Lo studio sistematico del comportamento del 29Si nei silicati, effettuato da E. Lippmaa, M. Mägi, A. Samoson, M. Tarmak e G. Engelhardt nel 1980, non è riuscito a dimostrare l'effettiva potenzialità di questo metodo, messa in luce da un successivo (1982) studio congiunto di J. Klinowski, S. Ramdas, J. M. Thomas, C. A. Fyfe e J. S. Hartman su 27Al e 29Si in zeoliti: è divenuto allora chiaro come essa sia in grado di distinguere in modo univoco il ruolo assunto dai singoli atomi di questi elementi nell'anello degli alluminosilicati, e da quel momento essa è stata diffusamente applicata tanto che non c'è ormai alcun minerale che non sia stato oggetto di studio tramite NMR (v. fig. 12). Anche altri cationi più rari (come H, B, P) o anioni (come O e F) possono essere studiati con grande precisione per mezzo di questa tecnica, che rappresenta uno dei più promettenti o, per meglio dire, dei più adatti metodi di studio per approfondire la conoscenza dello stato solido naturale, permettendo di andare oltre la diffrattometria a cristallo singolo che tende a fornire informazioni mediate a lungo raggio e spesso solo ipotetiche. Non v'è dubbio che in un prossimo futuro ne trarranno vantaggio anche gli studi di cinetica, come quelli sulla transizione da stato solido a liquido (processo di fusione), in quanto la NMR, come tutte le spettroscopie, prescinde dallo stato fisico del materiale studiato.

Questa rassegna delle nuove tecniche sperimentali recentemente entrate in uso nella mineralogia deve essere necessariamente breve ed è quindi lungi dall'essere esauriente. Non sarebbe però giusto interromperla senza ricordare che il successo ottenuto dalla microsonda di Castaing ha determinato numerose imitazioni specifiche, ciascuna delle quali ha portato informazioni quantitative nuove su particolari minerali. Nella tecnica denominata SIMS (Secondary Ions Mass Spectroscopy) come sorgente di eccitazione sono stati utilizzati ioni invece che elettroni (microsonda ionica), il che ha permesso di determinare non solo elementi leggeri e leggerissimi (H, B, Be, ecc.), con livelli di rivelabilità dell'ordine delle ppb (parti per miliardo), ma anche gli isotopi dei diversi elementi. Un'altra sonda, detta microsonda protonica (PMP, Proton Micro Probe), fa uso dei protoni: anche in questo caso il livello di rivelabilità scende alle ppb, però per gli atomi pesanti (Sc, Th, U, Au, ecc.). Questi strumenti, insieme all'EMP, hanno determinato un enorme aumento delle nostre conoscenze sulla cristallochimica specifica e sull'omogeneità dei minerali, che a loro volta consentono di ricavare maggiori informazioni sulle condizioni in cui i minerali nucleano e crescono in natura. Ne è seguita, però, la necessità sempre più pressante di introdurre una modifica all'attuale paradigma sulle vicarianze e sulle soluzioni solide, che tenga conto, oltre che della pressione e della temperatura, come già avviene, anche delle proprietà termodinamiche dei materiali. Ciò sarà possibile solo se si riprenderanno in modo nuovo sia gli studi sistematici su minerali formatisi in diverse condizioni di temperatura, pressione e ambiente chimico, sia le ricerche sperimentali di laboratorio su analoghi sintetici di minerali, allo scopo di riorganizzare i risultati ottenuti dagli studi sistematici.

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