MILES

Federiciana (2005)

MILES

SStefano Gasparri

Il termine miles si associa per lo più, nel linguaggio delle fonti medievali, al combattente a cavallo, il cavaliere, ma le sue possibili valenze sono molteplici, e tali rimangono sempre: combattenti a cavallo, vassalli, cavalieri di rito (ossia che hanno acquisito la dignità cavalleresca tramite un'apposita cerimonia) rappresentano figure diverse, anche se variamente sovrapposte e confuse a seconda delle epoche e dei luoghi ai quali si fa riferimento, e tutte sono definite milites nelle fonti (v. Cavalleria).

Nelle società barbariche e in quella carolingia c'erano già stati gruppi numerosi di combattenti a cavallo, ma fu solo nella generale crisi dei poteri centrali di natura pubblica, verificatasi tra la fine del IX e la fine dell'XI sec. nella maggior parte dei paesi dell'Europa occidentale, che il guerriero a cavallo assunse una fisionomia e una consapevolezza nuove. Alla base di questa trasformazione ci fu il processo di affermazione della signoria territoriale, segnato da una progressiva militarizzazione della società, dalla proliferazione dei castelli (l'incastellamento) e dal radicamento locale dei vari rami delle grandi famiglie aristocratiche.

È questo un fenomeno generale, ma che si verificò al più alto grado nella maggior parte dell'antico Regno franco occidentale, erede diretto delle contraddizioni sociali dell'ultima età carolingia. Grandi e piccoli signori ‒ che già utilizzavano talvolta per loro stessi il termine miles ‒ erano attorniati dai loro guerrieri, che nel linguaggio delle fonti del tempo vengono definiti milites, parola con la quale si identificava sia il guerriero a cavallo sia, a partire dal X-XI sec., il vassallo. In effetti, si trattava di guerrieri di professione, ma, se molti di loro erano vassalli dei castellani, non tutti lo erano, soprattutto nel periodo più antico. Erano cadetti o bastardi delle principali linee familiari, ricchi allodieri, contadini arricchiti che avevano denaro bastante per comprarsi un cavallo e un equipaggiamento e tempo sufficiente per addestrarsi; erano anche, in qualche caso, semplici servitori armati (costoro, nelle terre dell'Impero, prenderanno il nome di ministeriales e conosceranno in età sveva una singolare fortuna e ascesa sociale). Essi formavano il gruppo di cavalieri, la masnada, che attorniava un signore e che lo aiutava a proteggere e ampliare il suo potere signorile. In cambio della loro indispensabile funzione, essi ‒ oltre a ricevere, sempre più spesso, terre in beneficio ‒ erano riconosciuti esenti dal banno signorile, che invece si esercitava sui rustici. A questa frattura verso il basso se ne aggiungeva naturalmente un'altra, verso l'alto, fra i signori detentori delle fortezze e i milites; la variegata composizione interna di questi ultimi tendeva nel frattempo a semplificarsi nella suddivisione fra guerrieri domestici, 'nutriti' nel castello signorile, e vassalli casati.

A partire dall'XI sec., i milites (in questo caso da identificarsi con i vassalli) si organizzarono in curie, veri e propri tribunali di pari presieduti dal signore, che soli avevano il potere di giudicare i membri del loro gruppo. Collettivamente, essi avevano acquisito una forte contrattualità nei confronti del loro signore. Alla base di tale contrattualità c'era anche il fatto che i feudi da loro detenuti tendevano a essere sempre più interpretati in senso ereditario. La protezione collettiva della curia dei pari metteva al riparo i milites da atti arbitrari del signore, garantendo loro, nella grande maggioranza dei casi, una successione ereditaria nei feudi di famiglia. Questo processo, che deve ritenersi frutto di un'autonoma evoluzione sociale, confortata dalla consuetudine, verificatasi nei vari paesi dell'Occidente europeo, trovò la sua significativa sanzione a livello giuridico in terra italiana con l'Edictum de beneficiis promulgato dall'imperatore Corrado II nel 1037.

Un elemento di forte coesione dei milites fu loro fornito dalla Chiesa, che non subì passivamente l'espansione signorile, talvolta anche violenta, dell'aristocrazia laica. In Francia, il paese nel quale i processi ora descritti presero la loro forma più tipica, fin dal 989 (a Charroux) furono riuniti grandi concili, nel corso dei quali i vescovi, appoggiati dagli stessi duchi e conti (anch'essi minacciati dal troppo impetuoso sviluppo della signoria di banno), imposero la "pace di Dio", dichiarando intoccabili, sotto pena di dannazione eterna, i beni della Chiesa, i membri del clero e i monaci, oltre ai pauperes, ovvero i deboli, gli inermi. I destinatari del messaggio erano proprio i milites, i guerrieri, e i loro signori, la cui aggressività veniva bloccata da una serie di divieti spirituali e, al tempo stesso, controllata con mezzi materiali. Non era infrequente, infatti, che dalle assemblee di pace partisse una spedizione armata contro signori e cavalieri riluttanti a sottostare alle decisioni prese.

A fronte della debolezza del potere regio, la Chiesa assumeva su di sé la protezione del popolo cristiano, mantenendo vivo l'ideale carolingio della militia. Ma, proprio muovendosi in questa direzione, il significato negativo del termine miles come "cavaliere predone" delineato dai concili della "pace di Dio" si poteva riempire di contenuti positivi. Già intorno al 930, la Vita di Geraldo conte di Aurillac scritta dall'abbate di Cluny Oddone aveva mostrato che costui era pervenuto alla santità proprio perché aveva esercitato la sua funzione politico-militare, secondo la tradizione carolingia, in difesa delle stesse categorie che qualche decennio più tardi cercherà di proteggere la "pace di Dio": gli inermi e il clero.

Nell'ambito del concetto di militia, già elaborato in età carolingia in riferimento ai sovrani e ora applicato dai chierici al ceto dei milites, era possibile dunque intravedere una funzione positiva del miles all'interno della società cristiana. Il tutto avveniva in un'atmosfera nella quale le ricorrenti spinte millenaristiche si sposavano a istanze di riforma della Chiesa ‒ quando da più parti si avanzava l'idea di una militia sancti Petri che potesse rappresentare il braccio armato della Chiesa contro i suoi nemici ‒, alla diffusione della "tregua di Dio" e a pulsioni sempre più numerose verso il pellegrinaggio in direzione della Terrasanta. Quando il concilio di Narbona del 1054, portando a logico compimento la parabola iniziata nel 989, stabilì per i cavalieri il divieto totale di versare sangue cristiano, ai milites, in aggiunta ai compiti di protezione del popolo cristiano, fu additato allora implicitamente, come loro scopo ulteriore, quello di combattere i nemici della fede. Così, dopo il prologo nella Spagna della Reconquista, le crociate aprirono alla cavalleria lo spazio più autentico per la sua realizzazione: parafrasando Fulberto di Chartres, potremmo dire che la parabola ideologica da raptores a milites Christi si era ormai compiuta.

Non è un caso che, contemporaneamente, si verificasse un significativo mutamento nelle tecniche di combattimento. Infatti la cavalleria sfruttò pienamente il suo potenziale solo quando poté far esplodere la sua forza nella carica, effettuata dal cavaliere con la lancia in resta. Questo modo di combattere, nonostante che già il mondo franco conoscesse la staffa (che ne era la necessaria premessa), si impose solo con estrema lentezza. Nella raffigurazione della battaglia di Hastings del 1066 tra normanni e sassoni, presente nel ricamo di Bayeux (tessuto verso la fine del sec. XI), si vedono i normanni ‒ che allora erano all'avanguardia delle tecniche cavalleresche ‒ usare la lancia a cavallo in tre modi differenti, che evidentemente ancora coesistevano: la lancia veniva scagliata, vibrata come arma da taglio e infine usata in resta. Ciò significa che il nuovo modo di combattere si stava imponendo solo allora; esso riuscì a prevalere su tutti gli altri proprio in coincidenza dell'età della prima e della seconda crociata, tra la fine dell'XI e la metà circa del XII secolo. Il suo successo coincise con quello dei tornei, che furono un potente fattore di diffusione del nuovo modo di combattere.

Come conseguenza indiretta dei mutamenti dell'età delle prime crociate, la figura del miles acquistò un prestigio sociale sempre crescente; gli stessi tornei divennero ben presto la maggiore attrattiva per l'aristocrazia europea. Il titolo di miles fu adottato anche dagli esponenti della più alta aristocrazia, sia pure accompagnato da aggettivi come nobilis, nobilissimus, inluster e così via, che dovevano servire a distinguere i personaggi di più alto rango dai semplici cavalieri. L'ascesa sociale del gruppo dei milites, che rimase sempre molto diversificato al suo interno, tanto che è impossibile parlare di una vera e propria classe cavalleresca, fu tuttavia un processo abbastanza lento, al punto che una sostanziale fusione fra cavalleria e nobiltà si verificò non prima della fine del XIII secolo. In questo processo ebbero una grande importanza i rituali della cavalleria, le cui radici vanno ricercate al di fuori dei condizionamenti che l'ambiente ecclesiastico voleva imporre ai milites.

Il rito principale della cavalleria, le cui prime tracce nelle fonti risalgono al sec. XI, è l'investitura o adoubement. All'inizio essa consisteva semplicemente nella consegna della spada (più tardi anche degli speroni d'oro) al neocavaliere da parte di un altro cavaliere, che vibrava pure un colpo, con la lama aperta (collata), sul collo o sulla guancia del candidato, che doveva sopportare un impatto che in origine doveva essere piuttosto forte. Questa cerimonia si arricchì poi (XII-XIII sec.) di molte altre fasi, che andavano da una parte nel senso di trasformare la cerimonia quasi in un sacramento ‒ il bagno purificatore, la veglia d'armi in chiesa, la messa, le armi consacrate sull'altare, il vescovo che dà le armi ‒, dall'altra nell'accentuazione del suo carattere laico e mondano: il banchetto, la parata in armi, il torneo. Quest'ultimo, a partire dalla fine dell'XI sec., fu il luogo dove, negli scontri di gruppo o nei duelli individuali, i giovani milites potevano far ammirare a tutti la loro bravura. Nell'ambiente in cui vivevano questi iuvenes ‒ ovvero i cavalieri non sposati, cadetti di famiglie aristocratiche ‒ si sviluppò nel corso del XII sec. una nuova ideologia cavalleresca, veicolata nelle forme della cultura cortese, che arricchì il materiale grezzo fornito dalle più antiche chansons de geste della Francia del Nord con l'apporto della poesia dei trovatori provenzali, i cantori del fin'amour, e che trovò la sua più completa esemplificazione nei romanzi del ciclo bretone (v. Cultura cavalleresca).

In Italia, il termine miles appare poco prima del Mille, con una connotazione sociale elevata, in documenti emessi dai vescovi dell'Italia centrosettentrionale (Novara, Modena, Vercelli, Piacenza, Arezzo). Insieme al clero e al popolo, in questi documenti i milites costituiscono uno dei tre ordines della società cristiana cui si rivolgono i vescovi; in modo analogo essi appaiono citati in documenti della cancelleria imperiale dello stesso periodo. Si tratta in sostanza di vassalli vescovili, spesso di lontana origine nella vassallità pubblica, cui si additano i compiti tipici della militia carolingia, quelli della difesa degli elementi deboli della società cristiana. Per una più precisa definizione di questo gruppo ebbe un grande valore l'Edictum de beneficiis, che non a caso fu emanato in Italia, "in obsidione Mediolani": i milites già allora erano parte integrante della realtà cittadina, e al possesso di terre ‒ talvolta di castelli ‒ univano l'intensa partecipazione alle lotte interne alle città; il caso milanese (ma non solo), dove i milites, titolari di benefici vescovili, si scontrano con i cives fin dal 983, è al riguardo chiarissimo. L'autonomia conseguita nelle curie dai vassalli vescovili consentì poi ai milites di ritagliarsi uno spazio importante all'interno del nuovo ordine cittadino che si andava pian piano delineando a fianco del governo vescovile, che poi sostituirà con quello comunale.

Nell'Italia comunale, dall'XI-XII sec. in poi, i milites, nonostante la loro forte connotazione feudale originaria, non costituirono mai un ceto socialmente e giuridicamente chiuso. Il termine si arricchì infatti di altri significati, quale quello di partecipazione alla militia cittadina, ossia al combattimento militare a cavallo a favore del comune. Nelle città, dunque, la pars militum, oltre a comprendere elementi feudali, ebbe al suo interno anche quelle famiglie che ab antiquo avevano servito a cavallo il comune e che, per ciò stesso, ne ricavavano privilegi sociali e fiscali. La diffusione della cultura cortese nelle città italiane contribuì ulteriormente a delineare la fisionomia di un gruppo sociale diversificato al suo interno, a carattere aristocratico ma altamente permeabile all'ingresso di elementi nuovi. Fu insomma il complesso delle ritualità cavalleresche ‒ addobbamenti, tornei, feste (le curiae cavalleresche) ‒ a segnare nettamente il genere di vita dei milites cittadini, accanto alla loro organizzazione in consorterie, spesso proprietarie di dimore fortificate in città. Non è certo un caso che i magnati fiorentini di fine Duecento, costretti al sodamentum come garanzia per le loro possibili violenze contro i popolani, venissero individuati ‒ sia pure con una selezione politicamente orientata ‒ sulla base del possesso della dignità cavalleresca acquisita tramite l'adoubement, che fossero intesi cioè come dei milites nel senso della cavalleria di rito.

Nell'Italia meridionale, nel corso dell'XI sec. era stata la conquista normanna che aveva aperto la strada per lo sviluppo della cavalleria. I conquistatori, provenienti da quella Francia del Nord che era una delle culle della cavalleria, erano precisamente un gruppo di milites: degli avventurieri, di condizione sociale non particolarmente elevata, accomunati dalla professione delle armi e dal genere di vita cavalleresco (ciò che Amato di Montecassino definiva faire chevalierie); a tutto questo essi univano la conoscenza e la pratica delle istituzioni feudo-vassallatiche, del tutto assenti fino a quel momento nel Mezzogiorno. Il Regno di Sicilia, accanto a una significativa organizzazione burocratica, conobbe così una rigida organizzazione feudale al cui vertice era il re e che appare già totalmente compiuta al momento della redazione del Catalogus Baronum nel 1150. La feudalità assolveva compiti innanzitutto militari: il servizio militare all'esercito regio era dovuto in modo proporzionale alla consistenza del possesso feudale. C'era dunque una sostanziale equivalenza fra feudalità e cavalleria. I milites erano in primo luogo i feudatari in capite regis, i quali partecipavano all'esercito con i loro contingenti di cavalieri; accanto a loro c'erano altre categorie di minore importanza, come i milites delle città e dei castelli demaniali, nella maggior parte usciti dalle fila della vecchia aristocrazia indigena del Sud. Già introdotti dai normanni, i rituali cavallereschi, così come la cultura cortese in generale, ebbero poi anch'essi una grande diffusione fra i milites dell'Italia meridionale sia sotto gli Svevi, con Federico II e Manfredi, sia sotto gli Angioini.

Il fatto che la più antica norma che limitava l'accesso alla cavalleria provenga dall'Italia meridionale è significativo del ruolo centrale dei sovrani all'interno di tale processo. Nelle Assise di Ariano (v.) del 1140, Ruggero II con la norma De nova militia stabilì, sia pure in modo tortuoso, che ‒ a meno di un'autorizzazione da parte del re ‒ gli unici che potevano far parte della militia erano coloro che discendevano "a militari genere". La preoccupazione principale di Ruggero non era quella di garantire il carattere aristocratico della militia, bensì quella di mantenere il controllo sul reclutamento del suo esercito, evitando che qualcuno, non di stirpe cavalleresca, potesse ottenere la dignità di cavaliere "contra regni nostri beatitudinem", ossia evitando che il reclutamento fosse lasciato al puro e semplice arbitrio dei signori feudali. Che il provvedimento di Ruggero fosse la spia di un fenomeno generale, che vedeva la militia avvicinarsi alla nobiltà e dunque progressivamente chiudersi verso il basso, è provato dal fatto che la norma di Ruggero non rimase isolata. Nel 1152, con la costituzione De pace tenenda, Federico Barbarossa riservò il duello giudiziario ai soli milites di stirpe cavalleresca; con più chiarezza, nel 1186 (costituzione Contra incendiarios), l'imperatore svevo proibì l'accesso alla militia ai figli di chierici e diaconi e ai contadini. Nel XIII sec. queste norme ‒ che sono accompagnate anche da evoluzioni analoghe, talvolta più antiche, nelle zone a prevalente diritto consuetudinario (Catalogna, Hainaut, Normandia, Friuli), oltre che da normative ecclesiastiche, come la seconda redazione della regola dei Templari ‒ si fanno più frequenti, a significare un avvicinamento, che non vuol dire mai totale sovrapposizione, fra cavalleria e nobiltà. Nel 1231, le Costituzioni di Melfi di Federico II stabilirono che solo i figli dei milites potessero ottenere il cingulum militiae, ossia passare la cerimonia dell'adoubement; pur se valida solamente per il Regno di Sicilia, cui si riferiscono le Costituzioni, e non per tutto l'Impero, tale norma dimostra il prestigio aristocratico assunto dalla militia e al tempo stesso la volontà sovrana di mantenere il controllo sul suo accesso, in quanto l'unica possibilità di diventare cavalieri, per coloro che non fossero "de genere militum", era quella di ottenere una "specialis licentia" da parte del monarca. L'investitura cavalleresca, accanto alla volontà regia, diventa così il filtro principale attraverso il quale impedire l'entrata delle categorie sociali ritenute inferiori in un gruppo dal carattere nettamente aristocratico, in via di definizione giuridica in senso nobiliare e disegnato ormai con i tratti della militia.

È bene ribadire che non ci si trova mai di fronte a normative onnicomprensive, anche se quella descritta è un'evoluzione generalizzata. Essa verso la fine del XIII sec. conosce la sua ultima mutazione, quando lo stesso adoubement non sarà più ritenuto necessario per ottenere l'accesso allo status di miles e ai privilegi ad esso connessi (fiscali, ereditari, giudiziari). Da allora in poi sarà sufficiente essere figli di milites: la cavalleria si era sposata ormai con il principio dell'ereditarietà del sangue e si era confusa con la nobiltà.

Fonti e Bibl.: J. Bumke, Studien zum Ritterbegriff im 12. und 13. Jahrhundert, Heidelberg 1964; G. Tabacco, Su nobiltà e cavalleria nel medioevo. Un ritorno a Marc Bloch?, "Rivista Storica Italiana", 91, 1979, pp. 5-25; F. Cardini, Alle radici della cavalleria medievale, Firenze 1981; E. Köhler, L'avventura cavalleresca, Bologna 1985; A. Barbero, L'aristocrazia nella società francese del medioevo, ivi 1987; F. Cardini, Il guerriero e il cavaliere, in L'uomo medievale, a cura di J. Le Goff, Roma-Bari 1987, pp. 83-123; S. Gasparri, Imilites cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, Roma 1992; H. Keller, Signori e vassalli nell'Italia delle città (secoli IX-XII), Torino 19952, con una nuova introduzione (Tübingen 1979); J. Flori, Chevaliers et chevalerie au Moyen Âge, Paris 1998; E. Cuozzo, La cavalleria nel Regno normanno di Sicilia, Atripalda 2002; J.-C. Maire Vigueur, Cavaliers et citoyens. Guerre, conflits et société dans l'Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Paris 2003.