MICROSCOPIO

Enciclopedia Italiana (1934)

MICROSCOPIO (dal gr. μικρός, "piccolo", e σκοπέω, "osservare")

Vasco Ronchi

La stima ad occhio nudo della grandezza degli oggetti è la conclusione di un processo molto complicato, per quanto quasi istantaneo, che utilizza i seguenti elementi:1. la grandezza angolare o apparente dell'oggetto osservato, ossia l'angolo solido sotto cui l'oggetto stesso è visto dal punto nodale anteriore dell'occhio; 2. la distanza tra questo punto e l'oggetto. La valutatazione del primo elemento si fa in base all'estensione dell'immagine dell'oggetto sulla retina e alla distanza fra questa e il secondo punto nodale; alla stima del secondo elemento concorrono l'accomodazione, la visione binoculare, l'addestramento e l'esperienza dell'osservatore.

D'altra parte l'occhio, sia per la struttura della retina, sia per i fenomeni di diffrazione, sia per i difetti di cui nessun occhio è privo, ha un potere risolutivo, cioè una capacità limitata di vedere distinti i particolari dell'oggetto osservato. Per quanto vi siano forti variazioni da individuo a individuo e, anche nella stessa persona, a seconda delle condizioni di osservazione, il potere risolutivo si aggira intorno a un valore medio definito angolarmente così: l'occhio è capace di vedere distinti due punti dell'oggetto, quando la loro distanza apparente supera un minuto primo.

Dunque per vedere più e meglio i particolari di un oggetto, occorre portarlo nel punto prossimo, che è il punto più vicino all'occhio, in cui è ancora possibile vederlo nitidamente. La distanza del punto prossimo dall'occhio, per quanto variabile da individuo a individuo, nelle persone normali e giovani si aggira intorno ai 25 centimetri. In un oggetto a questa distanza l'occhio normale è capace di discernere ancora particolari di poco inferiori al decimo di millimetro. Per oltrepassare questo limite, è necessario ricorrere a strumenti ottici: e questi si dicono genericamente microscopî.

Si sogliono dividere in microscopî semplici e microscopî composti, ma in pratica quelli del primo gruppo si chiamano lenti d'ingrandimento e gli altri, semplicemente, microscopî.

Cenni storici. - La storia del microscopio semplice, ossia della lente d'ingrandimento nei suoi primordî, coincide con la storia, assai nebulosa invero, delle lenti in generale; e a questo proposito si potrebbero citare varî passi, più o meno chiari, di scrittori greci e latini, da cui risulta che qualche osservazione d'immagini ingrandite date da oggetti trasparenti foggiati a forma lenticolare fu fatta certamente anche nell'antichità più remota. Come è stato notato da varî autori, in antico era nota l'arte di tagliare e lavorare le pietre dure, tra cui il cristallo di rocca, e siccome molti pezzi assumevano forme sferiche concave o convesse, è troppo naturale che almeno gli artefici vi abbiano osservato attraverso e abbiano notato l'effetto d'ingrandimento ottico.

Ma è stato anche rilevato che non in questa fase si può parlare di storia del microscopio veramente detto, intendendo con questo lo strumento atto a fare distinguere dei particolari più fini di quelli osservabili (sia pure in dimensioni apparenti più piccole) a occhio nudo. Perché la lavorazione antica delle pietre dure, e più tardi anche di blocchi di vetro fuso, era troppo rudimentale dal punto di vista ottico, per aspettarsene dei vantaggi dall'uso loro come parti ottiche.

Ancora in questo senso si debbono considerare le osservazioni dei numerosissimi costruttorì di lenti, sorti ovunque nel sec. XIII, dopo l'invenzione degli occhiali.

Invece deve essere considerato come un precursore dei microscopisti Bernardo Rucellai, che nel poemetto Le Api scritto attorno al 1523-24 riferisce interessanti osservazioni fatte su membra sezionate di api, servendosi di uno specchio concavo come dispositivo ottico.

Per trovare strumenti che veramente si debbano dire microscopî, bisogna trascorrere ancora un secolo e arrivare alla prima decade del 1600, quando l'ottica fece un progresso meraviglioso in seguito all'invenzione del cannocchiale. Quasi contemporaneamente nacque anche lo strumento destinato all'osservazione delle cose piccole e il merito è conteso tra varî costruttori di strumenti ottici dell'epoca.

È quasi sicuro, tanto è naturale, che i primi microscopî composti fossero telescopî, dapprima normali, poi di dimensioni più ridotte, con cui, allontanando l'oculare dall'obiettivo più di quanto non convenisse per l'osservazione telescopica, si potevano vedere anche immagini di oggetti vicini, notevolmente più ingrandite che non a occhio nudo. Ma, data l'elevatezza mentale delle persone che in quel tempo si dedicarono a questi studî e l'interesse che suscitarono, il telescopio da una parte e il microscopio per conto suo assunsero fisionomia propria e fecero progressi portentosi in pochi anni.

Non bisogna dimenticare che al principio del sec. XVII le comunicazioni fra gli scienziati erano piuttosto lente e molto del lavoro scientifico avveniva in modo segretissimo. Non c'è dunque da meravigliarsi se gli storici dei varî paesi hanno trovato documentazioni incomplete, spesso inesatte e raramente concordanti e se è ancora numeroso l'elenco degli aspiranti all'onore di avere inventato questo portentoso strumento. In Italia è concorde l'attribuzione a Galileo anche di questa invenzione; sono ben note le prime osservazioni di F. Cesi e di F. Stelluti fatte con un "microscopio" ricevuto da Galileo.

Sempre in Italia, il microscopio fece progressi considerevoli per opera di ottici insigni, quali G. Fontana, E. Divini, F. Campani e G. Bonanni: si conservano ancora esemplari interessantissimi di apparecchi costruiti da questi autori. Tra l'altro il Bonanni nella sua opera Micrographia curiosa, edita in Roma nel 1691, descrive per la prima volta il sistema di porre l'oggetto in osservazione tra due lastre piane di vetro premute l'una contro l'altra da una molla a spirale.

Però anche all'estero, e specialmente in Inghilterra, fioriscono valenti costruttori di microscopî; col volgere degli anni si assiste a un'evoluzione continua, prevalentemente nella parte meccanica e nel corredo degli accessorî, con l'intenzione di assicurare l'osservazione più accurata, più precisa e più semplice possibile. Gli stativi, dapprima di cartone, vengono sostituiti con quelli di legno, poi di avorio, poi di ottone o di altro metallo.

Ma la parte ottica rimase sempre il punto debole, finché non fu possibile ricorrere all'impiego di combinazioni di lenti per correggere le aberrazioni cromatiche. Anche dopo questo progresso, la potenza di penetrazione era fortemente diminuita dai residui di aberrazioni geometriche, di difficilissima eliminazione in sistemi di apertura angolare così grande come quella richiesta nei microscopî. Nella prima metà del sec. XIX G. B. Amici (1784-1863) tenta di risolvere il problema mediante l'uso di strumenti agenti per riflessione; ma si occupa a fondo anche del calcolo di obiettivi da microscopio, e introduce l'uso della lente semisferica frontale, che diviene di uso generale in tutti gli strumenti potenti.

Meritano menzione, sul finire dello stesso secolo, gli studî di E. Abbe, intesi a stabilire la teoria della formazione delle immagini nel microscopio, e i notevoli progressi raggiunti nella costruzione mediante il calcolo degli obiettivi acromatici, apocromatici, a secco e a immersione.

Bisogna giungere al principio del sec. XX, per vedere in uso i primi ultramicroscopî.

Microscopio semplice. - Una lente convergente (o un sistema di lenti che risulti convergente) dà di un oggetto posto tra essa e il suo fuoco un'immagine virtuale, dritta (cioè orientata come l'oggetto) e ingrandita. Perciò una lente convergente funziona da "lente d'ingrandimento", quando, attraverso di questa, si guardi l'oggetto da osservare e questo si trovi presso il fuoco della lente stessa.

Però il concetto d'ingrandimento di questa "lente", come si usa in pratica, è alquanto diverso da quello definito nella teoria delle lenti semplici, dove si dà questo nome al "rapporto tra la lunghezza dell'immagine di un segmento normale all'asse ottico e quella del segmento stesso". Per rispondere meglio allo scopo per cui la misura viene eseguita, si definisce come "ingrandimento convenzionale il rapporto della tangente trigonometrica dell'angolo sotto il quale l'immagine appare all'osservatore e la tangente dell'angolo sotto il quale apparirebbe l'oggetto posto a 25 cm. dall'occhio (punto prossimo) e senza l'interposizione della lente". Numericamente l'ingrandimento convenzionale di una lente è dato, per l'occhio accomodato all'infinito, dal numero di volte che la distanza focale della lente stessa, misurata in cm., entra in 25. Il massimo ingrandimento raggiunto si aggira intorno a 200.

La lente d'ingrandimento deve poi rispondere ad altri requisiti: l'immagine deve apparire nitida, scevra di colorazioni, simile all'oggetto; il campo abbracciato dall'occhio attraverso alla lente deve essere il più vasto possibile; lo strumento deve essere maneggevole, e non deve richiedere di essere avvicinato troppo all'occhio o all'oggetto. Per questo si sono costruiti sistemi di più lenti, che soddisfano assai bene. Accessorî di ordine meccanico (sostegni, tavolini d'osservazione, dispositivi d'illuminazione, ecc) rendono l'apparecchio più pratico e più comodo, ma insieme ne allontanano il carattere da quello della semplice lente d'ingrandimento per avvicinarlo a quello del microscopio composto.

Microscopio composto. - La fig. i mostra un modello da cui ormai poco si discostano i tipi costruiti da tutte le fabbriche del mondo. L'insieme metallico che porta il sistema ottico si dice stativo e consta principalmente delle parti seguenti: B = base; C = comando del movimento traslatorio del tavolino Ta; m = morsetto atto a fissare nella voluta inclinazione tutto il resto dello stativo; Br = braccio portante le parti principali del microscopio; Q = comando del movimento di elevazione di tutto il sistema d' illuminazione; P = comando del movimento di elevazione di tutto il sistema di osservazione (P = movimento rapido; p = movimento micrometrico); Ta = tavolino forato al centro per sostenere il preparato da osservare O.

Il sistema ottico consta dello specchio S e di un condensatore, costituenti l'apparato d' illuminazione dell'obiettivo Ob e dell'oculare Oc, costituenti l'apparato di osservazione. Il preparato, ossia l'oggetto da osservare, ridotto a uno strato sottilissimo e racchiuso tra due lastrine di vetro, una detta portaoggetti e l'altra coprioggetti, si trova sul tavolino Ta in O.

L'organo ottico più importante è l'obiettivo, che deve fornire un'immagine reale, ingrandita e rovesciata del preparato, posto poco oltre il suo fuoco. Quest'immagine poi sarà osservata mediante l'oculare che agisce come microscopio semplice. L'ingrandimento di tutto il complesso è dato da N = d0 Δ/f1 f2, dove d0 è la distanza (= 25 cm.) del punto prossimo dall'occhio, Δ è la lunghezza ottica del tubo, cioè la distanza fra i fuochi più vicini dell'obiettivo e dell'oculare; f1 e f2 sono le distanze focali di questi due rispettivamente.

L'obiettivo deve avere dunque una distanza focale piccolissima; ma insieme deve avere una quantità di altri requisiti, tra cui un'ottima correzione sferica e cromatica. Il modello più perfezionato è detto apocromatico, e in questo non solo lo spettro secondario nella correzione cromatica è ridotto ai minimi termini, ma sono soddisfatte anche le condizioni di aplanetismo.

L'oculare è una parte secondaria dello strumento; tuttavia anche questa, negli strumenti più fini, è chiamata a portare il suo contributo: infatti gli oculari detti compensatori sono calcolati in modo da eliminare alcuni residui di aberrazioni, specie cromatiche.

Lo specchio e il condensatore hanno lo scopo di concentrare sul preparato la luce opportuna, perché l'osservazione si possa fare comodamente.

La teoria del microscopio composto merita considerazione da due punti di vista: 1. quello teorico, quando s'indaghi quali leggi regolino la formazione delle immagini e quindi la possibilità di rilevare le finezze più spinte degli oggetti osservati, e questo con strumenti teoricamente perfetti, ossia prescindendo da tutte le complicazioni pratiche che nella realizzazione impediscono allo strumento di raggiungere la perfezione; 2. quello pratico; quando si seguano gli sforzi fatti dagli ottici più valenti per giungere al grado odierno di potenza effettiva di questi strumenti.

Teoria del microscopio. - Nella trattazione elementare dell'ottica si suole considerare la luce composta di raggi, ossia di rette uscenti dalla sorgente e ubbidienti alle leggi della riflessione e della rifrazione. Le traiettorie della luce sono rette, finché questa procede in un mezzo omogeneo e isotropo; divengono spezzate, se incontrano superficie di discontinuità tra mezzi d'indice di rifrazione diverso; divengono curve, se attraversano mezzi a indice variabile con continuità.

L'effetto di un sistema ottico perfetto qualsiasi è così definito: un fascio di raggi che provengono, divergendo, da un solo punto S della sorgente (fig. 2), dopo avere attraversato il sistema ottico, convergono in modo da passare tutti per un altro punto I, da cui poi divergono di nuovo. Questo nuovo punto è chiamato l'immagine del punto oggetto, perché ciò corrisponde effettivamente all'esperienza quotidiana, pur di non prendere le cose troppo alla lettera, come vedremo.

Una sorgente estesa, composta di un insieme di punti, ha come immagine un insieme di punti, ciascuno immagine per conto suo di un punto della sorgente. Perciò la finezza dei particolari dell'immagine dovrebbe essere uguale a quella dell'oggetto, sempre, s'intende, facendo astrazione da ogni difficoltà pratica di realizzazione e da ogni difetto strumentale. Ne segue che qualora si riesca ad aumentare l'estensione apparente dell'immagine ultima fornita da un sistema ottico, immagine vista e osservata dall'occhio osservatore, si deve riuscire anche ad aumentare la finezza dei particolari osservabili. Non vi dovrebbe essere un limite teorico alla potenza di penetrazione di un sistema ottico qualsiasi, e in particolare del microscopio.

L'esperienza ha contraddetto queste conclusioni, e non v'è da meravigliarsene, perché il ragionamento era basato su troppe astrazioni: maneggiare punti e rette è facile, finché lo si fa sulla carta, ma in pratica gli oggetti hanno tre dimensioni. È risultato che la finezza dei particolari di un'immagine ottica, anche fornita da sistemi ottici praticamente perfetti (cioè tali che nessuna imperfezione sia rivelabile neppure coi metodi più sensibili conosciuti), non è sempre uguale a quella della sorgente oggetto, ma raggiunge al massimo un limite che dipende dalle caratteristiche dello strumento e della luce impiegata.

Per rendersi conto di questo fatto si dovette studiare il comportamento degli strumenti ottici, ricorrendo a un modello più complesso per rappresentare la luce; e cioè il fascio o stella di rette divergenti dal punto oggetto è stato sostituito con un succedersi di onde (per lo scopo attuale non importa neppure definirne la natura) diramantisi dal punto luminoso con velocità grandissima (299.796 km/sec. nel vuoto).

Queste onde, quando provengono da una sorgente puntiforme, sono sferiche, finché si propagano nel vuoto o in un mezzo omogeneo e isotropo; subiscono deformazioni diverse, quando l'indice di rifrazione del mezzo attraversato varia o con continuità o con discontinuità. Il comportamento di un sistema ottico qualsiasi ora si può rappresentare in modo generale così: da un punto luminoso S (fig. 3) parte un'onda sferica col centro nel punto stesso; dopo avere attraversato il sistema ottico, quest'onda è trasformata in un'altra sempre sferica (l'essere piana equivale a essere sferica con raggio infinito) col centro di curvatura in un punto diverso dal precedente; l'onda che arriva all'occhio dell'osservatore ha dunque tutte le caratteristiche come se fosse partita da questo nuovo centro I, il quale dunque è l'immagine del punto dato.

I difetti di realizzazione possono fare sì che l'onda finale non sia perfettamente sferica, ma ciò non interessa in questa fase dello studio. Si deve notare invece che il centro di quest'onda finale, proprio quando è perfettamente sferica, non è un punto; cioè l'immagine di un punto dell'oggetto non è un punto, ma una figura caratteristica (fig. 4) detta figura di diffrazione (perché la sua struttura è stata spiegata con tutta la precisione desiderabile, ricorrendo alla trattazione del gruppo di fenomeni che si dicono di diffrazione della luce) e composta sempre di un dischetto contornato da anelli, d'intensità degradante (vedi interferenza e diffrazione).

Tutte le figure di diffrazione che si presentano nel piano normale all'asse di un'onda sferica e passante per il centro di questa hanno lo stesso aspetto: ne possono variare soltanto le dimensioni e in funzione di due sole grandezze: una, la lunghezza d'onda λ caratteristica della luce; l'altra, l'apertura angolare 2a dell'onda che si concentra (fig. 5), caratteristica dello strumento che la raccoglie e la deforma. Il raggio r del primo anello oscuro, raggio che si suole prendere come quello del dischetto luminoso (circa l'84% di tutta la luce è concentrata in questo e non si tiene conto quasi mai degli anelli circostanti): è dato da

se la luce si propaga nel vuoto; se invece la figura si forma in un mezza d' indice di rifrazione n, dato che allora la lunghezza d'onda della luce risulta λ′ = λ/n, si scrive

Il formarsi della figura di diffrazione esclude la conclusione che a un punto della sorgente corrisponda un punto nell'immagine, perché vi corrisponde un dischetto. Di conseguenza, la possibilità di distinguere i particolari di un oggetto con l'osservazione mediante uno strumento ottico, dal momento che ciò porta inevitabilmente alla formazione di un'immagine, non è più teoricamente illimitata, ma deve essere studiata in base alle regole secondo le quali si formano le figure di diffrazione.

Se la sorgente è composta di due punti luminosi, anziché di uno solo, l'immagine è composta di due figure di diffrazione. La distanza fra i centri di queste è quella che spetterebbe geometricamente alle immagini considerate puntiformi secondo lo schema geometrico primitivo. Sarà dunque possibile vedere distinte le due figure, se i raggi dei due dischetti sono assai piccoli; altrimenti una si compenetra talmente nell'altra, che non è più possibile decidere se la sorgente era composta di due parti puntiformi separate, o di una sola slargata, o di una sola puntiforme. Una lunga esperienza ha portato a concludere che il limite generalmente si ha quando il centro di una figura cade sul primo anello oscuro dell'altra; o, in altre parole, quando la distanza fra i centri delle due figure è uguale al raggio r del dischetto, come si è riferito sopra (fig. 6).

Secondo le leggi della formazione delle immagini, la distanza Σ dei due punti dell'oggetto che hanno per immagine i due punti in queste condizioni, è data da

dove a ora va intesa come la semiapertura angolare dell'onda che partendo dal punto luminoso è accolta entro il sistema ottico osservatore (fig. 7); e n è l'indice di rifrazione del mezzo compreso tra l'oggetto e lo strumento stesso, mezzo nel quale si misura l'angolo a.

Σ rappresenta così la distanza minima tra due punti dell'oggetto che ancora si possono vedere distinti, quando si osservi con quello strumento; il numero 1/Σ si prende per misura della capacità dello strumento stesso a distinguere particolari, ossia del cosiddetto potere risolutivo o potere separatore.

Nel caso del microscopio, il prodotto "n sen a" si chiama apertura numerica. Come si vede, la potenza di un microscopio dipende da questa e non dall'ingrandimento. Per questo negli strumenti moderni si cerca di raggiungere le aperture numeriche più elevate possibili; e si sono costruiti obiettivi, detti a immersione (mentre a secco sono chiamati quelli ordinarî) che funzionano mediante l'interposizione di un liquido speciale; acqua, olio di cedro, monobromonaftalina, ecc. tra la prima superficie dell'obiettivo e il coprioggetti. Gli obiettivi a secco al massimo possono raggiungere un'apertura numerica di 0,95; tra gli altri, quelli alla monobromonaftalina hanno raggiunto 1,60.

Lo schema di ragionamento, come è stato riferito qui sopra, che vale per ogni strumento ottico, vale anche senza dubbio per il microscopio; esso si deve a lord Rayleigh e generalmente si trova riferito piuttosto a proposito degli strumenti telescopici che non a proposito dei microscopî. La ragione non è soltanto occasionale: se coi microscopî capitasse sovente di esaminare corpi luminosi (o autoluminosi, come si dice per mettere in evidenza la caratteristiea loro di emettere direttamente le onde luminose) si dovrebbe ragionare così, e il corpo oggetto tipico sarebbe il puntino luminoso. Ma invece nella enorme maggioranza dei casi, al microscopio si osservano oggetti illuminati, che non emettono le onde incidenti sul sistema ottico, ma modificano le onde emesse da altra sorgente, prima che penetrino nel microscopio. Si deve all'Abbe lo studio del fenomeno in questa nuova forma e per quanto le conclusioni siano le stesse alla fine, o quasi, come col ragionamento di lord Rayleigh, è interessante un cenno schematico del nuovo modo di ragionare.

L'oggetto tipico è un reticolo, ossia un oggetto a struttura reticolare. Per lo scopo attuale conviene considerare il tipo di reticolo più semplice, quello formato di tanti tratti paralleli ed equidistanti (fig. 8). Si chiama periodo la distanza costante fra due tratti (oscuri o trasparenti) consecutivi; si chiama frequenza l'inverso del periodo.

Quando un'onda piana attraversa il reticolo (supposto trasparente, come in generale sono quelli che si osservano al microscopio), d'accordo con le conclusioni della teoria della diffrazione della luce, si scompone (anziché in tanti filetti, come verrebbe naturale di pensare) in tante onde senza traccia di discontinuità, almeno dopo che si sono allontanate alquanto dal piano del reticolo. Una di queste, che si dice onda centrale, o di ordine zero, continua seguendo la traiettoria stessa che avrebbe seguito l'onda incidente se il reticolo non vi fosse stato; la nuova onda differisce da questa soltanto per l'entità dell'energia che trasporta, essendo quella incidente andata suddivisa in varie onde. Tra queste ve ne sono due, che si chiamano onde di prim'ordine, dotate della stessa forma di quella centrale, ma deviate rispetto a questa di un angolo β1 tale che essendo i l'angolo d'incidenza dell'onda incidente sul piano del reticolo e m la frequenza di questo. Gli angoli i e β1 debbono essere misurati nel piano perpendicolare a quello dei tratti del reticolo (fig. 9). Le due onde di primo ordine sono una da una parte e una dall'altra dell'onda centrale.

Analogamente vi possono essere due onde di secondo ordine, pure disposte quasi simmetricamente rispetto a quella centrale, e deviate rispetto a questa di un angolo β2, tale che

E così via; vi possono essere in generale due onde di ordine k, disposte quasi simmetricamente rispetto a quella centrale e inclinate su questa di un angolo βk, tale che

Qualche cosa di analogo, sebbene in forma un po' più complicata, ha luogo se l'onda incidente è sferica o di altra forma. Ma restiamo ancora nel caso schematico più semplice.

Ricordiamo che un'onda piana proviene (a parte i mezzi pratici per ottenere questo) da una sorgente puntiforme a distanza infinita. Orbene, se non vi fosse il reticolo, e l'onda piana incidente entrasse dentro l'obiettivo del microscopio, verrebbe resa sferica col centro nel fuoco e quivi si avrebbe l'immagine della sorgente; poi l'onda proseguirebbe divergendo (fig. 10). Nel piano coniugato (secondo lo schema gaussiano o geometrico) di quello in cui verrà posto il reticolo si ha così una superficie uniformemente illuminata, che denota l'assenza di corpi oscuri sul percorso della luce della sorgente illuminante.

Interponendo il reticolo (fig. 11), di frequenza così elevata e così lontano dall'obiettivo che in questo non penetrano neppure le onde di prim'ordine, ma solo quella centrale, avviene ancora come nel caso precedente: nel piano coniugato di quello del reticolo non si ha che una superficie uniforme, senza traccia di rigatura, ma soltanto illuminata meno intensamente di quella di prima.

Se invece il reticolo è a frequenza così bassa, o così vicino all'obiettivo, che in questo entrano le due onde di prim'ordine (fig. 12), allora ciascuna delle tre onde segue la sua sorte come se le altre non ci fossero; cioè quella centrale si comporta come nei casi precedenti e quelle di primo ordine in modo analogo, soltanto deviate dell'angolo β1 rispetto a quella centrale. Di modo che nel piano focale dell'obiettivo si hanno tre immagini della sorgente e nello spazio successivo si ha la sovrapposizione di tre onde omogenee e coerenti, e come tali capaci di interferire. Dato che le onde sono tre, si hanno tre sistemi di frange d'interferenza, rettilinee ed equidistanti, nonché parallele tra loro e ai tratti del reticolo materiale. Tutto questo secondo le regole generali delle interferenze luminose.

Risulta ancora da queste che nel piano coniugato di quello del reticolo, le frange più intense hanno proprio la larghezza che compete all'immagine geometrica di questo e i varî sistemi non si disturbano affatto un con l'altro.

Se poi entro l'obiettivo penetrano 2 k + 1 onde diffratte dal reticolo, nel piȧno focale si formano 2 k + 1 immagini della sorgente illuminante e in seguito molti sistemi di frange, che si accordano ancora tutti nel piano coniugato di quello del reticolo. Non solo, ma in questo piano le frange stesse sono localizzate, ossia hanno una posizione del tutto indipendente da quella della sorgente illuminante e di conseguenza il ragionamento vale anche quando si tratti di condizioni molto più complicate di quelle schematiche considerate qui sopra.

Abbe chiamò immagini primarie quelle della sorgente che si formano nel piano focale (se la sorgente è all'infinito) dell'obiettivo; e chiamò immagine secondaria quella del reticolo nel piano gaussiano.

A parte molteplici conferme, tra cui interessante quella per cui intercettando con certe leggi alcune immagini primarie si ottengono delle immagini secondarie che non hanno alcuna somiglianza con l'oggetto reticolare, specie in casi più complicati di quello esaminato sopra, è il caso di notare che se la frequenza del reticolo supera un certo limite, in rapporto alla distanza dall'obiettivo e alle dimensioni di questo, non più di un'onda diffratta può penetrarvi contemporaneamente e non si può aver più l'immagine secondaria. Il limite evidentemente si raggiunge quando l'angolo a della formula di lord Rayleigh è uguale circa alla metà dell'angolo β1 che l'onda di prim'ordine fa con quella centrale (fig. 13); si conclude che se il periodo a del reticolo è inferiore a quello per cui β1 ≅ 2 α, il reticolo non è più visibile con quel microscopio; dunque questo a ha lo stesso significato del Σ della formula di lord Rayleigh; ma confrontando le due formule:

si vede che il risultato è lo stesso a meno del coefficiente numerico 1,22; e la cosa è molto notevole data la completa indipendenza dei due ragionamenti.

La teoria poi non si limita a un'indagine così sommaria e schematica, ma si occupa anche della riproduzione nell'immagine dei particolari più minuti dell'oggetto, ossia della sua struttura fina. Da questa infatti dipende non l'orientamento, ma l'intensità delle varie onde diffratte e più i particolari sono fini e più l'influenza si fa sentire sulle onde di ordine k più elevato. L'effetto di quest'influenza si può riscontrare nell'immagine soltanto se l'obiettivo è capace di accogliere contemporaneamente tutte le onde diffratte dall'oggetto reticolare, almeno fino a quelle di ordine k.

Segue anche di qui l'importanza dell'apertura numerica. Ma è notevole anche un'altra conclusione: se anche l'apertura numerica raggiungesse il valore massimo teoricamente possibile (sia pure praticamente irrealizzabile) e cioè con n = 1,62, e sen α = 1, si avrebbe

usando la luce violetta all'estremo dello spettro visibile. Questo numero rappresenta dunque un limite teorico alla potenza di penetrazione dei microscopî.

Realizzazione dell'obiettivo da microscopio. - La necessità di aperture numeriche rilevanti, come si è dimostrato sopra, ha portato a urtare contro difficoltà enormi quando si è trattato di tradurre in atto i dettami della teoria. Perché è noto che nei sistemi ottici le aberrazioni in generale divengono sempre più sensibili quanto maggiore è l'apertura angolare delle onde luminose che li attraversano. E qui è proprio il caso di lavorare con onde dell'apertura massima possibile.

È notevole che mentre a Galileo (1610) si deve certamente l'introduzione del microscopio tra gli strumenti ottici, a G .B. Amici (1816) si debbono quei perfezionamenti che hanno portato gli obiettivi al grado attuale di potenza, superando le molte e diverse difficoltà di cui abbiamo fatto cenno.

L'idea fondamentale, che è stata introdotta da G. B. Amici, e che poi è stata applicata fino a tutt'oggi, consiste nell'usufruire della proprietà dimostrata da K. Weierstrass per cui rispetto a un diottro sferico esiste una coppia di punti corrispondenti aplanetici. Così l'Amici costruì il suo obiettivo con una lente emisferica frontale, che, ricevendo un'onda di grandissima apertura angolare, la trasformava in un'altra di apertura media. Un menisco successivo trasformava questa in un'onda di piccola apertura, che per mezzo di uno o due obiettivi del tipo astronomico era poi resa convergente per dare l'immagine reale dell'oggetto (fig. 14). Compito di questi ultimi obiettivi è anche la correzione dell'aberrazione cromatica introdotta dai primi diottri sferici.

Ultramicroscopio. - Come si è ricordato sopra, nel caso di sorgenti autoluminose, l'immagine di una sorgente puntiforme, cioè di dimensioni trasversali inferiori a λ/2n sen a, è una figura di diffrazione, dalla cui struttura dipende il limite del potere risolutivo dello strumento di apertura numerica n sen a, ossia il limite della possibilità di percepire i particolari dell'oggetto osservato.

Ma se la possibilità di vedere i particolari di un oggetto complesso è limitata, almeno fino a oggi, dalla regola suddetta, la possibilità di rivelare la presenza di particelle luminose piccolissime è limitata soltanto dalla sensibilità dell'osservatore alla luce e al contrasto. Generalmente non si vedono i granellini di polvere sospesi nell'aria, non perché le loro dimensioni apparenti siano inferiori al potere risolutivo dell'occhio, ma perché la luce che diffondono è troppo debole. Quando un fascio di luce solare entra in una stanza oscura, si vedono benissimo le particelle sospese e vaganti per l'aria, come tante stelline, purché si guardi sopra uno sfondo scuro.

Lo stesso principio, applicato al microscopio, ha portato all'ultramicroscopio, con cui si osservano oggetti a struttura polverulenta, come fumo, polvere, sospensioni colloidali, ecc. I corpuscoli sospesi debbono essere illuminati con condensatori potentissimi; ma in modo che nel microscopio penetri soltanto la luce diffusa dalle particelle, escludendo il fascio potente che le ha illuminate. Ciò si ottiene mediante varî dispositivi, tra cui primeggiano i condensatori paraboloidi di H. Siedentopff e R. Zsigmondy. La fig. 15 dà un esempio dell'aspetto del campo di un ultramicoscopio. (V. tavv. LXI e LXII).

Bibl.: C. Koristka, Il Microscopio, Milano 1930; V. Ronchi, Lezioni di ottica fisica, Bologna 1928; G. Giotti, Lez. di ottica geom., Bologna 1931; R. S. Clay e T. H. Court, The history of the Microscope, Londra 1932.