SANMICHELI, Michele

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 90 (2017)

SANMICHELI, Michele

Maria Beltramini

SANMICHELI (da San Michele, Sanmichele, da San Michiel), Michele. – Figlio di Giovanni, nacque a Verona tra il 1487 e il 1488, in una rinomata famiglia di scalpellini lombardi originari della parrocchia di S. Michele a Porlezza, presso il lago di Lugano.

Della madre non si hanno notizie, se non che morì prima del marito, che le volle essere sepolto accanto nella chiesa di S. Eufemia. L’anno di nascita di Michele è ancora discusso: al 1484, indicato da Giorgio Vasari e apparentemente confermato da una testimonianza autografa del 1556 nella quale l’architetto dichiara di avere settant’anni «et ultra» (Biadego, 1892, p. 181), sembra preferibile l’intervallo compreso tra il 1487 e il 1488, precisato da un documento notarile del 9 settembre 1505 dal quale egli risulta «annorum 17» (Da Re, 1919, pp. 49 s.).

Giovanni e suo fratello Bartolomeo, a Verona dagli anni Settanta del Quattrocento, furono coinvolti nella realizzazione della loggia del Consiglio, il più prestigioso edificio pubblico cittadino del tempo (in costruzione dal 1482). A questo periodo risale la loro amicizia con Bernardino e Matteo Mazzola, membri di un’altra stirpe di architetti e lapicidi (di cui faceva parte anche Giovanni Antonio, noto come Panteo, conoscitore di Vitruvio e studioso delle antichità romane veronesi), che forse sostennero Michele nella fase di formazione. Giovanni, infatti, morì entro l’agosto del 1497 (Bartolomeo invece si trasferì subito dopo in Piemonte con i figli Pietro Paolo e Matteo), lasciando Michele poco più che bambino assieme a tre fratelli maschi, dei quali il secondogenito Jacopo, scalpellino anch’egli, aveva raggiunto a quella data l’età adulta ed era suo tutore (del primogenito Zeno e dell’ultimogenito, Alessandro, di cui s’ignorano le date di nascita e di morte, si sa che furono entrambi canonici regolari di S. Agostino, il secondo a Bologna). Le condizioni economiche dei Sanmicheli erano abbastanza solide, avendo il padre garantito in parti uguali la proprietà della casa presso piazza delle Erbe, di terreni ad Azzano Veronese e di altri beni a Porlezza e dintorni.

Nulla sappiamo dell’educazione artistica di Michele; l’alta qualità delle sue sculture eseguite nei primi anni di attività suggerisce tuttavia che, oltre a una preparazione tecnica all’intaglio della pietra connesso ai cantieri edili ottenuta dall’entourage familiare, abbia praticato il disegno e frequentato artisti figurativi, forse addirittura a Venezia in una bottega di scultori-architetti come quella dei fratelli Tullio e Antonio Lombardo.

Il 6 agosto 1505 Michele non era a Verona quando il fratello Jacopo fece testamento nominandolo erede universale; il successivo 9 settembre dispose la vendita delle proprietà di famiglia ad Azzano, estinse i debiti e si accinse a lasciare il Veneto: è verosimile, come sostenuto da Vasari (il quale lo conobbe di persona), che puntasse subito verso Roma, sebbene nulla sia emerso finora né circa le tappe intermedie del viaggio, né riguardo ai particolari del suo soggiorno nell’Urbe, dove potrebbe aver completato la sua formazione in uno dei tanti cantieri architettonici e decorativi aperti durante il pontificato di Giulio II (forse già allora nell’orbita dei Sangallo, in documentato contatto con lui negli anni successivi).

La prima notizia certa che lo riguarda dopo la partenza da Verona è un atto notarile del 1512, dal quale risulta presente a Rieti tra il 4 e il 15 giugno e in società con lo scultore fiorentino Federico di Filippo di Ubaldo, di cui era garante per il completamento della decorazione di una cappella nel duomo locale; dal 27 novembre è invece documentato a Orvieto in qualità di capomaestro della fabbrica della cattedrale. La chiamata seguiva la rinuncia dello scultore senese Lorenzo di Mariano Fucci, detto il Marrina, artista decorativo e figurativo di notevole reputazione ed esperienza. Se ne deduce che Sanmicheli, sebbene di circa dieci anni più giovane, offrisse all’Opera orvietana credenziali sufficienti non solo in quanto intagliatore, ma anche come organizzatore di un complesso cantiere (non ancora concluso in facciata) e coordinatore di maestranze, con responsabilità nell’approvvigionamento dei materiali.

Sanmicheli fu subito impegnato nell’ambizioso progetto, approvato l’8 gennaio 1513, della marmorea cappella dei Magi nel transetto destro, di cui l’Opera deteneva il patronato congiuntamente alla nobildonna Giovanna Monaldeschi della Cervara (ne eseguì solo il doppio basamento: la parte inferiore con inserti colorati di gusto veneto-lombardo e quella superiore con girali d’acanto all’antica). Oltre al controllo di tutti gli interventi in cattedrale, l’incarico orvietano, prestigioso sebbene sottoposto a forti restrizioni, gli fornì soprattutto visibilità professionale, consentendogli di entrare in contatto con committenti di rango anche al di fuori della cerchia cittadina e di orientare progressivamente le loro scelte artistiche verso Roma: già nell’estate del 1513 Michele vi veniva inviato a consultare Antonio da Sangallo il Giovane in merito alla costruzione del timpano della facciata del duomo (altri viaggi a Roma per conto dell’Opera sono documentati nei primi anni Venti); Sangallo stesso visitò Orvieto in autunno, rinsaldando un rapporto di collaborazione forse già stretto in precedenza.

Ispirata dalla sapienza strutturale sangallesca (e da un’interpretazione dei modelli antichi da subito personale e inventiva) appare infatti la cappella dell’esule senese Girolamo Petrucci nella chiesa di S. Domenico: il progetto implicava il ridisegno dell’intero presbiterio, sotto cui venne collocata la sepoltura, con un ingegnoso sistema di collegamento tra i piani. Il contratto, datato 19 aprile 1516, stabiliva l’avvio delle opere dalla lastra pavimentale in marmo a scomparti figurati da porsi di fronte all’altare maggiore, completa di grate metalliche per l’illuminazione degli ambienti sotterranei, a conferma della progettazione integrata dei due livelli. I lavori dovettero procedere con celerità fino alla primavera del 1519 e sostanzialmente concludersi entro l’agosto del 1524. L’adeguamento della cappella maggiore ai criteri liturgici postridentini ne ha sensibilmente modificato l’assetto generale, mentre le camere sepolcrali voltate sono rimaste relativamente intatte e apprezzabili nella loro scabra monumentalità. Per Petrucci l’artista progettò, dopo il 1516, anche un palazzetto sulla strada principale del centro (attuale corso Cavour), la cui facciata con finestre a tabernacolo e timpani alternati mostra di conoscere le recenti soluzioni adottate da Raffaello a Roma.

Sanmicheli fu inoltre impegnato a Orvieto e dintorni in opere pubbliche, anche di carattere militare. Ottenuta la cittadinanza, la sua reputazione si diffuse in altri centri dell’Umbria e del Lazio settentrionale, dove è documentata la sua presenza con vari incarichi; a Montefiascone (Viterbo) un suo impiego nella cattedrale di S. Margherita, sostenuto da Vasari e oggi difficile da precisare, merita considerazione, dato che dal 1501 al 1519 vi fu vescovo Alessandro Farnese, grande sponsor di Antonio da Sangallo il Giovane, che avrebbe potuto raccomandargli il «Verona» (il soprannome compare sul recto del disegno sangallesco Uffizi 958A relativo all’altare dei Magi orvietano, che proprio Sangallo portò a termine negli anni Trenta con alcuni collaboratori).

Sanmicheli era certamente a Orvieto il 9 dicembre 1525; all’inizio del 1526 fu incaricato da Clemente VII di far parte del gruppo di esperti, sotto la guida di Sangallo il Giovane, inviati in ricognizione nelle Romagne per ispezionare e ammodernare le fortificazioni lungo il confine settentrionale dello Stato pontificio, in vista di un attacco da parte delle truppe imperiali (il viaggio si concluse entro aprile). I mesi a fianco di Sangallo, Antonio Labacco, Pier Francesco Florenzuoli (o Pierfrancesco da Viterbo) e Giuliano Leno segnarono in maniera decisiva la sua carriera, non solo consolidando le sue competenze in ambito militare fino a quel momento solo episodicamente testate, ma soprattutto ampliando e affinando la sua cultura architettonica. Secondo Vasari, verso la fine del viaggio Sanmicheli avrebbe fatto tappa a Verona e poi a Treviso e Padova, per studiare le strutture difensive veneziane potenziate dopo i drammatici eventi bellici d’inizio Cinquecento: arrestato con l’accusa di spionaggio, avrebbe ottenuto licenza dalla Serenissima di tornare in Italia centrale con la promessa di un incarico al suo rientro.

La decisione di tornare in patria, abbandonando la posizione acquisita a Orvieto, deve essere stata sollecitata da una prospettiva lavorativa concreta e vantaggiosa; a Verona poteva d’altronde contare sull’appoggio di Pietro Paolo, figlio dello zio Bartolomeo, che rientrato dal Piemonte aveva continuato a esercitarvi la professione di scalpellino e che gli offrì ospitalità nella sua casa all’Isolo inferiore (la sistemazione divenne stabile, tanto più che Michele non ebbe mai una propria famiglia; di casa Sanmicheli, demolita nel 1890, sopravvive solo l’elegantissimo portale marmoreo esemplato su quello antico di S. Salvatore a Spoleto, oggi murato in vicolo cieco Pozza).

La convivenza con Pietro Paolo si sarebbe evoluta in accordo professionale, formalizzato nel 1546: Michele gli affidò la direzione dei cantieri veronesi e l’amministrazione della bottega, inviandogli indicazioni durante le sue lunghe assenze (lo prova l’indirizzo vergato di suo pugno sul verso dell’unico disegno che gli è stato riconosciuto come autografo, l’Uffizi 1759A). Affiancarono Pietro Paolo, nel tempo, il figlio Giangirolamo (formato da Michele come architetto militare e particolarmente attivo lungo la costa dalmata), il genero Alvise Brugnoli, e il figlio di lui Bernardino, che ereditò la bottega e curò la conclusione di alcune delle opere veronesi rimaste incompiute alla morte dell’illustre ‘zio’.

A Verona Sanmicheli risultò subito impegnato in opere pubbliche durante il governatorato di Giovanni Emo (1526-28); dal gennaio 1529 fu assegnato come ingegnere militare a Legnago, cittadina della Bassa veronese, in uno dei principali punti di attraversamento dell’Adige e dunque d’importanza strategica nel sistema di difesa veneziano di Terraferma. Posto inizialmente sotto la direzione di Sigismondo de Fantis, Sanmicheli lo sostituì a fine 1530, dopo il successo riscosso dalla porta di S. Martino (elogiata da Vasari, fu demolita nel 1887). Rientrato a Verona, venne nominato responsabile delle opere di fortificazione nell’ottobre del 1530, in sostituzione di Michele Leoni, e confermato dal doge Andrea Gritti nel gennaio del 1532. Il nuovo progetto per l’intera ‘macchina’ difensiva cittadina, approvato a luglio di quello stesso anno, si concentrò in questa fase sul tratto meridionale del perimetro fortificato, con le prime proposte per un nuovo varco protetto e per la ridefinizione dell’area della cittadella medievale immediatamente retrostante.

Concepita come parte integrante delle mura, la porta Nuova doveva funzionare da struttura offensiva a cavaliere tra i bastioni S. Trinità e dei Riformati e facilitare, grazie alla sua notevole profondità e ampiezza, le manovre dei pezzi d’artiglieria posti alla sommità. Il prospetto esterno ricalcava solo in parte lo schema dell’arco di trionfo antico (impiegato estesamente da Giovanni Maria Falconetto nelle porte di Padova), anche a causa dell’altezza contenuta (che la rendeva meno vulnerabile al tiro dei cannoni); il rivestimento integrale in marmo bianco veronese grezzamente sbozzato, associato al marziale ordine dorico di semicolonne e paraste, puntava verso prototipi antichi locali (in primis l’Arena) e moderni, specie del Giulio Romano mantovano. I lavori alla facciata principale possono considerarsi conclusi verso il 1535, quando cominciò la costruzione del fronte posteriore (un’iscrizione ivi murata, e oggi perduta, riportava, con i nomi dei magistrati in carica, anche la ‘firma’ dell’architetto).

La rapidissima ascesa professionale di Sanmicheli in ambito militare si spiega alla luce della sua intesa con Francesco Maria Della Rovere – duca d’Urbino e capitano generale dell’esercito veneziano – in merito al senso da attribuire al «munire et ornare», cioè al ruolo riservato all’architettura nella celebrazione del potere veneziano promossa da Gritti dopo il trauma delle guerre cambraiche: l’adozione rigorosa nelle strutture fortificate del linguaggio universale degli antichi rappresentava alle città soggette e alle potenze confinanti la legittimità del primato territoriale della Serenissima (poi ribadito dalla renovatio marciana affidata a Jacopo Sansovino). In questo quadro il viaggio compiuto da Michele nel Ducato di Milano tra il febbraio e il maggio del 1531, durante il quale progettò le fortificazioni di Alessandria, Pavia e Lodi, acquista il senso di una missione diplomatica. Francesco Maria, che si servì di lui anche come consulente e progettista di opere nel suo stesso ducato (specie a Pesaro, per la sua nuova villa disegnata da Gerolamo Genga), gli attribuì progressivamente il ruolo di esperto del sistema complessivo delle difese dello Stato, conducendolo con sé o inviandolo ripetutamente nei territori della Repubblica sia in Terraferma sia nel Dominio da mar (lungo la costa dalmata, qui affiancato dall’erudito di architectura navalis Vittore Fausto). Al ritorno dalla prima spedizione a Zara, nel dicembre del 1534, Michele ottenne l’incarico dal Consiglio dei dieci di redigere una proposta per la fortificazione della stessa Venezia.

Tra la fine degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta s’infittirono gli impegni anche al di fuori dell’ambito militare. Epicentro della sua attività di architetto civile fu ancora Verona, dove mise a punto un linguaggio architettonico originale che, pur radicato – attraverso la mediazione sangallesca – nell’esperienza di Bramante, Raffaello e la sua cerchia, si caratterizzava per l’intelligenza strutturale e spaziale e per un’idea di venustas basata sulla profonda conoscenza della morfologia e della sintassi degli ordini architettonici antichi e delle loro possibilità combinatorie (nonché sulla capacità di manipolarle in funzione espressiva), sulla fedeltà al vasto ed eccentrico repertorio formale antico veronese e sulla predilezione per il trattamento plastico delle superfici in pietra, con caratteristica integrazione tra architettura e decorazione scultorea (cui non fu forse estranea anche l’esperienza diretta di edifici della Grecia classica durante i viaggi nel Mediterraneo).

Sulla principale via d’accesso al sistema centrale delle piazze di Verona Sanmicheli progettò entro il 1528 il palazzo del conte Lodovico Canossa (membro delle corti di Giulio II e Leone X, nonché amico di Baldassarre Castiglione e di artisti del calibro di Raffaello e Giulio Romano), affiancato nel ruolo di committente dai nipoti, in particolare Galeazzo, alla cui famiglia l’edificio era prevalentemente destinato dopo il matrimonio (1526) con un’aristocratica mantovana del milieu gonzaghesco. Nel 1533 il palazzo era certamente in costruzione e risultava parzialmente abitabile nel 1537: oggi a forma di U, ma forse in origine pensato con un cortile centrale chiuso, è attraversato da una successione di grandiosi spazi voltati – vestibolo, atrio, loggia – che introduceva nella città veneta il modello della domus antica citando il progetto sangallesco per palazzo Pucci a Orvieto (disegno Uffizi 969A). È stato invece proposto l’intervento di Giulio Romano sull’astratto disegno della facciata.

Il progetto per palazzo Canossa attirò su Sanmicheli l’interesse dell’élite veronese. Iniziarono a stabilirsi in quegli anni rapporti con membri d’importanti famiglie aristocratiche locali, comunque fedeli alla Dominante, e con le loro reti di parentele e alleanze politiche, che poi lo coinvolsero in vari progetti in città e nel contado, nonché con ecclesiastici e intellettuali che diventarono suoi committenti e punti di riferimento culturali della sua vita privata e professionale. Grazie ai veronesi Gian Matteo Giberti, Girolamo Fracastoro, Giulio e Raimondo della Torre, dovette inoltre maturare l’amicizia con il trevisano Giovanni Battista Ramusio, classicista, geografo e segretario della Serenissima, che nel 1534 risultava presente a Venezia alla stesura del suo primo testamento nonché possessore di un suo ritratto eseguito da Francesco Torbido (perduto con un secondo, entrambi menzionati da Vasari); fu probabilmente Ramusio il tramite con Pietro Bembo, sulla cui casa padovana Michele intervenne verso il 1536 e in onore del quale avrebbe realizzato, alla metà degli anni Quaranta, un monumento commemorativo in S. Antonio a Padova, ascritto anche a Palladio giovane o a Danese Cattaneo.

Solo in apparenza circoscritto fu il ruolo svolto da Sanmicheli nella sistemazione del presbiterio del duomo di Verona durante il vescovado di Giberti (1524-43), all’interno del generale ammodernamento dell’antica cattedrale avviato dal prelato nella seconda metà degli anni Venti. In una prima fase Giberti si servì del «molto suo dimestico amico» Giulio Romano (Vasari, 1550 e 1568, p. 62 ), che progettò la decorazione ad affresco dell’abside e delle pareti del retrocoro (poi eseguita dal Torbido entro il 1534). Successivamente, tra il 1532 e il 1533, deciso a onorare Canossa, morto nel frattempo, ponendo la sua tomba dietro l’altare, il vescovo avrebbe coinvolto Sanmicheli non solo per la sontuosa transenna marmorea semicircolare che separa il presbiterio dalla navata – il cosiddetto tornacoro –, ma per la ridefinizione di tutta l’area fino all’abside, innalzata sul nuovo pavimento e imperniata sull’altare maggiore versus populum con un tabernacolo eucaristico spettacolare (in lavorazione nel 1534, oggi perduto; presso il duomo per due vescovi della famiglia Lippomano – Luigi e Agostino – Sanmicheli iniziò inoltre la costruzione del campanile, rimasto poi a lungo incompiuto).

L’incarico della sontuosa cappella Pellegrini in S. Bernardino gli giunse dalla vedova di Benedetto Raimondi, Margherita Pellegrini, in memoria del figlio Niccolò appena scomparso. Alla data del primo testamento della nobildonna, nell’ottobre del 1529, i lavori erano già avviati e proseguirono sotto la supervisione diretta di Sanmicheli almeno fino al 1534. Nel 1538, quando il cantiere aveva raggiunto il livello della balaustra, i rapporti tra la committente e la bottega sanmicheliana si guastarono: Margherita ottenne la rescissione del contratto per inadempienza e l’attribuzione dell’incarico a un’impresa concorrente. Impiegando materiali meno pregiati e riducendo al minimo la costosa ornamentazione, entro il 1539 fu possibile arrivare alla quota d’imposta della cupola, chiusa tuttavia solo nel 1558.

L’invenzione spaziale che «gir[a] a tondo perfetto» (Vasari, 1550 e 1568, 1984, p. 368) e la rigorosa intelaiatura architettonica della fodera marmorea integrale (squisitamente eseguita a intaglio di gusto, in parte, ancora lombardo), inedite a quelle date nell’Italia settentrionale, affondavano le loro radici nelle sperimentazioni bramantesche sul tema del tempio radiale (e trovano un inaspettato precedente nella cappella Caracciolo di Vico a S. Giovanni a Carbonara a Napoli, del 1514-15, forse nota a Sanmicheli tramite disegni).

Entro la metà degli anni Trenta Sanmicheli progettò a Verona il palazzo dei ricchi fratelli Niccolò e Giovan Francesco Lavezola, pensato per un profondo lotto d’angolo lungo la sponda sinistra dell’Adige, presso l’antico teatro romano. L’edificio era probabilmente in costruzione nel 1536 e la realizzazione della facciata iniziò forse già nel 1540, anche se venne terminata solo molto più tardi. Le particolarità dell’impianto furono dettate dalle preesistenze, in particolare la rotazione di 90 gradi dell’asse di penetrazione che, superato il primo ampio androne abilmente voltato, incontra l’accesso laterale determinando l’espansione trasversale della corte, con una disinvoltura che si trova nei progetti di Baldassarre Peruzzi (e che Sanmicheli ripropose più tardi a palazzo Corner Spinelli a Venezia). La facciata a due livelli, interamente in pietra, è fortemente chiaroscurata, forse anche per richiamare l’attenzione nella veduta da lontano che la prossimità al fiume rendeva possibile.

Contemporaneamente Michele non tralasciava di coltivare i rapporti con l’aristocrazia veneziana, rappresentata a Verona dai magistrati incaricati del governo della città e impegnati nell’ammodernamento delle proprie sedi istituzionali: tra questi Giovanni Dolfin, per il quale disegnò il portale del palazzo del podestà (datato 1533), un’ambiziosa incorniciatura ionica, esemplata sull’antico arco dei Gavi veronese.

Nel corso del 1534, non ancora cinquantenne, Sanmicheli si trasferì a Venezia (risiedeva a S. Severo, sestriere di Castello). La sua relazione dedicata alla fortificazione della città, letta in Senato nel gennaio del 1535, convinse il Consiglio dei dieci a nominarlo, il 14 aprile, ingegnere capo della Repubblica e, poco dopo, architetto dei Savi ed esecutori alle acque. Lo status professionale raggiunto è sancito dall’elogio di Sebastiano Serlio nell’introduzione alle sue Regole generali sopra le cinque maniere de l’architettura (Venezia, settembre 1537, c. III; sbrigativo, viceversa, il trattamento riservato a Jacopo Sansovino, proto dei procuratori di S. Marco sin dal 1529). Proprio quando l’in folio serliano usciva dai torchi, Sanmicheli rientrava da un secondo viaggio a Zara (dove aveva avviato la progettazione della porta Terraferma, lasciata alle cure del nipote Giangirolamo) ed era in procinto – ormai nel vivo della guerra contro l’Impero ottomano – di partire per Corfù, bisognosa di rafforzamenti difensivi dopo il recente assedio di Solimano il Magnifico. Da Corfù nei primi mesi del 1538 Sanmicheli raggiunse Creta, dove si trattenne per quasi tre anni potenziandovi le basi costiere, per tornare in patria solo verso la fine del 1540, in concomitanza con la deludente conclusione del conflitto.

Il rientro comportò una ripresa degli impegni in ambito civile: le numerose richieste di progetti e di consulenze di vario ordine e rilevanza gli giungevano ormai da tutto il territorio veneto. Per il veneziano Alvise Soranzo, Sanmicheli elaborò, su un’idea peruzzesca e forse già prima della partenza per la missione in Grecia, una villa presso Castelfranco Veneto (abitabile nel 1548, probabilmente mai compiuta e infine demolita; quasi certamente fu l’architetto a suggerire per la decorazione interna i nomi di tre artisti veronesi, tra cui spicca Paolo Caliari). Nel novembre 1541 Sanmicheli si recò a Vicenza, interpellato in merito alle logge del palazzo della Ragione: è possibile che in questa circostanza abbia conosciuto il giovane Andrea Palladio, che si aggiudicò l’incarico nel 1546 (e fu condizionato dai modelli sanmicheliani per un lungo tratto della sua carriera). Poco prima della fine degli anni Quaranta avrebbe fornito un progetto di massima ai fratelli Giovanni e Antonio Roncale per il loro nuovo palazzo a Rovigo. Per l’ammiraglio veneziano Alessandro Contarini, morto nel 1553, progettò il monumento funebre in S. Antonio a Padova (ascritto anche a Palladio giovane o a Danese Cattaneo), mettendo nuovamente a frutto la lezione sangallesca.

Intaccando il monopolio sansoviniano, Sanmicheli esordì come architetto di palazzi anche a Venezia, ammodernando per Giovanni Corner gli interni della sua residenza sul Canal Grande (oggi palazzo Corner Spinelli): qui raccomandò l’impiego di Vasari, che vi dipinse nel 1541 la decorazione di uno dei soffitti durante il suo primo soggiorno veneziano. Sempre per Corner ristrutturò completamente il palazzo di S. Polo, distrutto da un incendio (il cantiere si aprì verso il 1551); per il fratello di lui, Girolamo, elaborò una villa a Piombino Dese, distrutta, attigua a quella, ancora esistente, elaborata da Palladio per Giorgio, figlio minore di Girolamo.

A Verona, intanto, dove su suo disegno si concludeva la costruzione (iniziata verso il 1536) della notevole cupola di S. Giorgio in Braida (con la definizione degli altari sottostanti, poi del pavimento autografo e del campanile a cura della bottega sanmicheliana), tra la fine del 1540 e il 1541 si avviava anche la lunga e accidentata progettazione del lazzaretto, il cui unico precedente tipologico a Milano era forse noto all’architetto dal viaggio lombardo del 1531. Al 1542 risalirebbe anche la realizzazione della discussa porta S. Zeno all’estremità occidentale della cinta difensiva, attribuitagli da Vasari. Con l’elaborazione della facciata di chiesa Sanmicheli si misurò invece per la prima volta (1546) a S. Maria in Organo. La sua partecipazione alla progettazione dei più tardi palazzi Onori in piazza Brà e Della Torre a San Fermo è sostenuta su base stilistica.

Pur conservando la carica ufficiale di responsabile delle fortificazioni di Terraferma e della laguna, la posizione di Sanmicheli come esperto della materia nel corso degli anni Quaranta – scomparsi nel frattempo sia Andrea Gritti sia Francesco Maria della Rovere – lentamente s’indebolì, a causa della mutata considerazione del ruolo dell’architetto in ambito militare a vantaggio dei condottieri, considerati i più idonei a rispondere alle sfide poste dall’evoluzione delle tecniche offensive e favoriti dalle procedure decisionali: con Guidubaldo II della Rovere, figlio di Francesco Maria, responsabile delle difese veronesi e, dal 1546, capitano generale delle forze della Serenissima, il suo declassamento a mero esecutore di direttive altrui divenne progressivamente più chiaro. In questo ridimensionato scenario, nel 1543 Sanmicheli, per decreto del Consiglio dei dieci, progettò il forte sull’isola di S. Andrea sottostando alle indicazioni strategiche del capitano d’artiglieria Antonio da Castello (la costruzione proseguì fino al 1549).

La pressione delle esigenze funzionali sulla componente retorica dell’architettura non incise comunque sul disegno della fronte che, posta lungo il principale canale di accesso alla città, assunse l’aspetto di una poderosa porta urbica di pietra d’Istria in miracoloso equilibrio sull’acqua. Porta Palio a Verona, prevista a cavaliere tra il bastione di S. Bernardino e la rondella di S. Spirito sin dai tempi di Francesco Maria ma ultima a essere progettata (e iniziata solo nel 1550), comunica un’impressione d’invincibile robustezza grazie alle diverse gradazioni di bugnato impiegato e al sofisticato gioco di arretramenti e aggetti che saggiano lo spessore della struttura; tuttavia proprio la ricchezza dei materiali e la raffinatezza delle citazioni architettoniche, mai così splendide, vennero da alcuni giudicate poco appropriate all’uso militare, e ne determinarono di fatto l’incompiutezza.

Magnificenza materica e finezza di linguaggio furono viceversa le qualità che caratterizzarono i più importanti progetti d’architettura civile dell’ultimo decennio d’attività: sia il palazzo sul Canal Grande presso Rialto dell’ambizioso Girolamo Grimani, sia, come si è ricostruito solo di recente, la facciata della residenza veronese dei ricchissimi fratelli Bevilacqua – Antonio in particolare, ma anche il più giovane Gregorio –, cantieri entrambi avviati da Sanmicheli nel 1557, dunque nella fase estrema della sua vita. Già Vasari, nuovamente a Venezia nel 1566, lamentava, riguardo al caso Grimani, le modifiche subite dal progetto in fase esecutiva; tuttavia l’impianto, certamente autografo, si segnala per l’atrio all’antica sostenuto da quattro coppie di colonne e per l’ingegnosa gestione delle asimmetrie imposte dal sito irregolare e dalle preesistenze; il grandioso prospetto è organizzato sui tre livelli in cinque campate di dimensioni alternate, le tre centrali del livello inferiore segnalate dal prevalere dei vuoti contro un colossale palinsesto d’ordine corinzio, che intona trionfalmente il tema tradizionale del portego (e in alternativa alle parallele proposte sansoviniane).

La facciata di palazzo Bevilacqua a Verona, realizzata solo in parte, ha sette campate e due livelli. Di essa risulta ancora difficile ipotizzare lo sviluppo definitivo (è noto ora almeno che Mario Bevilacqua, nipote di Antonio, avviò tra il 1581 e il 1584 le opere d’intaglio per un’aggiunta mai compiuta); è un vero intarsio modulare di autocitazioni e prelievi antichi e moderni che esplicita la passione antiquaria dei proprietari e nel contempo «assume il carattere di una summa della poetica sanmicheliana, una sorta di testamento artistico e di rivisitazione dei modelli giovanili» (Marcorin, 2013, p. 128). Per i Bevilacqua, Sanmicheli delineò anche il monumento di famiglia presso i Ss. Apostoli (1557-59); più arduo determinare invece l’entità del suo intervento al castello di Bevilacqua, pur ricordato da Vasari.

Nella primavera del 1559 Sanmicheli avviò il cantiere della Madonna di Campagna – un santuario di pellegrinaggio nel sobborgo orientale di Verona lungo la strada per Vicenza –, poi ereditato da Bernardino Brugnoli e ultimato solo nell’inoltrato Seicento. La complessità del progetto, che prevedeva la saldatura di due corpi cupolati di diverse forme e dimensioni, tradiva l’interesse per un tema compositivo – quello del tempio centralizzato – che lo aveva occupato sin dagli esordi (trovando poi modo di esprimersi, oltre che nel tempietto al centro del lazzaretto veronese, nella cappella della villa di Giulio della Torre a Fumane in Valpolicella, 1555 circa, segnalata anche da Vasari). La stratificazione dei riferimenti culturali si ricompose tuttavia all’esterno in una disarmante semplicità volumetrica e formale, decorosamente conforme tanto alla spiritualità popolare che era chiamata a rappresentare, quanto al suo ruolo di presidio religioso sul territorio.

Sanmicheli morì a Verona verso la fine di agosto del 1559 e venne sepolto, come da lui stesso stabilito nel testamento del precedente 29 aprile, a S. Tommaso Cantuariense, presso cui abitava e dove è ancora oggi conservata la sua lastra tombale.

Progetti e opere, non in ordine cronologico, dal 1521 al 1555: tamburo di S. Maria delle Grazie (oggi S. Filippo Benizzi), Todi; tomba di Orsino e Rodolfo di Marsciano, Orvieto, duomo; S. Rocco, Orvieto; chiostro di S. Agostino, Bagnoregio; Ponte Nuovo, Verona; portale del palazzo del capitano, Verona; piazza Contarena, Udine; corte Spinosa, Mantova; palazzo Balladoro, Verona; rifacimento della sala dei Giudici e dell’Udienza del podestà in palazzo della Ragione, Verona; rifacimento della sala del Camerlengo in Palazzo del capitanio, Verona; tomba di Bartolomeo Averoldi, S. Maria della Ghiara, Verona; villa Cornaro, Poisolo (Treviso); villa Ramusia, Marsango (Padova); palazzo Bragadin a S. Marina, Venezia; tomba di Tommaso Lavagnoli, S. Eufemia, Verona; tomba di Francesco Sambonifacio, S. Maria della Scala, Verona; Chiesa e convento dei Ss. Biagio e Cataldo, Venezia; Scala d’oro, Palazzo ducale, Venezia; arco trionfale temporaneo per l’ingresso di Bona Sforza, Padova; palazzo della Torre a San Fermo, Verona; palazzo Saibante, Verona. Fortificazioni a: Monteleone di Orvieto, Padova, Vicenza, Chioggia, Rettimo, Suda, Canea, Candia, Sitia, Mirabello, Gerapetra, Napoli di Romania, Peschiera del Garda, Marano Lagunare, Chiusa.

Fonti e Bibl.: S. Serlio, Le regole generali sopra le cinque maniere di architettura, Venezia, Marcolini, 1537; G. Vasari, Le vite (1550 e 1568), a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, V, Firenze 1984, pp. 362-375; A. Pompei, Li cinque ordini dell’architettura civile di Michel Sanmicheli, rilevati dalle sue fabbriche e descritti e pubblicati con quelli di Vitruvio, Alberti, Scamozzi, Serlio e Vignola, Verona 1735; F. Milizia, S. M., in Dizionario delle belle arti del disegno, Bassano 1787, Paris 1791, ad vocem; A.C. Quatremère de Quincy, San Micheli (Michele), in Encyclopédie méthodique. Architecture, Paris 1791, ad vocem; F. Albertolli, Porte di città e fortezze, depositi sepolcrali ed altre principali fabbriche pubbliche e private di M. S. veronese, Milano 1815; F. Ronzani - G. Lucciolli, Le fabbriche civili, ecclesiastiche e militari di M. S., Verona 1823; A. Bertoldi, M. S. al servizio della Repubblica Veneta. Documenti tratti dal Regio Archivio generale di Venezia, Verona 1874; G. 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