ANTONIONI, Michelangelo

Dizionario Biografico degli Italiani (2015)

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ANTONIONI, Michelangelo

Sandro Bernardi
Carlo di Carlo

Nacque il 29 settembre 1912 a Ferrara da Ismaele ed Elisabetta Roncaglia, appartenenti a una famiglia della media borghesia. Due anni prima era nato il fratello Carlo Alberto.

Da Ferrara a Roma

Quando il regista parlava della sua giovinezza a Ferrara ricordava la madre, una donna buona e intelligente, diceva, e poi gli odori – di terra, di fiume, di donna – le strade, lunghe e larghe, da città di pianura, belle e quiete.

A Ferrara frequentò il ginnasio presso il Regio liceo L. Ariosto dal 1922 al 1925, per poi conseguire la maturità con abilitazione tecnica – commercio e ragioneria – nel 1933 presso il Regio istituto tecnico V. Monti. Si laureò nel 1938 in economia e commercio presso l’Università di Bologna con una tesi su I problemi di politica economica nei 'Promessi Sposi'.

Ferrara fu il luogo dell’educazione sentimentale di Antonioni, con quelle ragazze figlie di una spregiudicatezza complessa e antica, ben dentro la tradizione anche artistica e storica della città: il terreno dal quale sarebbe nato l’Antonioni analista delle passioni e della loro malattia.

A Ferrara Antonioni formò il suo gusto di intellettuale e di artista partecipando all’attività di un club letterario che si riuniva in casa dello scrittore Giorgio Bassani.

Il suo primo contatto con il mondo dello spettacolo avvenne negli anni Trenta quando un gruppo di amici organizzò una rivista satirica, Il Ludovico. Dall’animatore Angelo Aguiari, suonatore di banjo, attore, ma soprattutto dotato per la regia, Antonioni apprese l’amore per il jazz e per il teatro. Ben presto organizzò una compagnia studentesca con la quale mise in scena testi di Luigi Pirandello, Henrik Ibsen, Anton P. Čechov e anche alcuni suoi, convinto che fosse l’unico modo per reagire all’ambiente culturalmente inerte di Ferrara. Il 12 febbraio 1936 divenne titolare della rubrica cinematografica del Corriere padano, il giornale quotidiano di Ferrara, e tentò di girare a 16mm un cortometraggio sui malati di mente. Lo ricordò più tardi in un articolo Fare un film è per me vivere: «Al momento di girare, quando accendemmo i proiettori, la stanza divenne una bolgia infernale: non sopportando la luce, cominciarono a rotolarsi, dimenarsi, urlare. Davanti a quello spettacolo terribile fui incapace di dare un ordine qualsiasi e rinunciai al documentario. Fu intorno a quella scena indimenticabile che cominciammo a parlare, senza saperlo, di neorealismo» (Cinema nuovo, marzo-aprile 1959, 138, poi in Fare un film è per me vivere, a cura di C. di Carlo - G. Tinazzi, 1995, p. 13).

Ma Ferrara era anche il deposito di tutto, o di moltissimo, del materiale visivo del quale avrebbe continuato a nutrirsi il cuore profondo della sua arte: le strade lunghe e molte volte deserte, l’uniforme orizzonte dove si toccano la pianura e un cielo spesso grigio o nebbioso, il paesaggio del Po verso la foce, portatore di quel ‘mistero dell'immagine’ che il suo sguardo avrebbe continuato a interrogare, film dopo film: «Conoscevo l’immagine, il suo mistero. Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, nasce di lì» (M. Antonioni, prefazione a Id., Sei film, 1964, p. XVI).

Nel 1940 affrontò l’avventura del cinema a Roma. In questa città complicata che a stento cominciava a capire, Antonioni fu costretto nei primi tempi a impiegarsi in un ufficio presso l’Esposizione universale di Roma (E42), poi venne assunto, in qualità di redattore, dalla rivista Cinema al fianco di Gino Visentini e Francesco Maria Pasinetti, con i quali strinse un’affettuosa amicizia. La rivista era diretta da uno dei figli di Benito Mussolini, Vittorio, ma fu uno dei luoghi di formazione della cultura del neorealismo che sarebbe esploso nel dopoguerra.

Nel 1941 si iscrisse al Centro sperimentale di cinematografia e iniziò la sua attività di sceneggiatore scrivendo per duemila lire un copione senza firmarlo e continuò a dare il suo contributo critico alla rivista Cinema, ma pochi mesi dopo venne licenziato, pur seguitando a tenere contatti utili e a collaborarvi. Fu così che ebbe modo di partecipare alla stesura di Un pilota ritorna di Roberto Rossellini, uscito nel 1942. In quello stesso anno, il 21 novembre, sposò Letizia Balboni (la cui sorella, Loredana, avrebbe sposato nel 1945 Francesco Pasinetti), da cui divorziò nel 1954, dopo dodici anni di matrimonio.

Dopo aver frequentato per tre mesi il Centro sperimentale, riuscì a ottenere il primo posto in graduatoria con la realizzazione di un corto come saggio di regia, purtroppo andato perduto, e nel 1942 entrò come sceneggiatore alla Scalera dove strinse amicizia con il direttore della fotografia Ubaldo Arata, che sollecitò a sperimentazioni fotografiche. Lo indusse infatti a fotografare il bianco (cosa inammissibile per quei tempi: tutto ciò che era bianco veniva tinto di rosa o di giallo), a evitare le solite ombre di frasche o inferriate sulle pareti nude, oppure a usare spesso, anche nei primi piani, gli obiettivi quadrangolari per avere il fondo a fuoco.

Dall’esperienza francese al neorealismo

A lungo andare, l’ormai anziano operatore cominciò a stimare il giovane aiuto e a parlare di lui a Scalera in termini molto positivi. E lo stesso Scalera propose ad Antonioni di recarsi in Francia in qualità di coregista di Marcel Carné – l’uomo nuovo del cinema europeo – per Les visiteurs du soir (1942; uscito poi in Italia nel 1949 con il titolo L’amore e il diavolo), una coproduzione italo-francese. Contratto che Antonioni accettò, ma che mai avrebbe osato mostrare a Carné.

Era il periodo dell’occupazione italiana nella Francia meridionale e verso questo italiano che, assunta una seconda licenza, si presentò una domenica pomeriggio nei teatri di Jonville-le-Pont, Carné nutrì subito un rancore che mai si curò di nascondere. L'accoglienza («Eh bien, mon vieux, vous avez des jeux, regardez!») fu una doccia fredda per Antonioni che aveva aspettato questo momento con impazienza, a Nizza, in attesa del visto per oltrepassare la linea di demarcazione tedesca e raggiungere Parigi. Qui scrisse un film ambientato in un grande albergo, fece visita ad alcuni pittori (quella a Matisse, immaginaria, è descritta in un articolo del 1944) e in questo periodo molte furono le sue letture importanti, tra le quali Albert Camus, di cui in quei giorni usciva Lo straniero (Antonioni fu il primo a parlarne in Italia il 19 aprile 1945 su Cosmopolita).

Nonostante l’offerta vantaggiosa di partecipare ad altri film (di Jean Cocteau e Jean Grémillon), fu costretto a rientrare in Italia per il precipitare degli eventi. Nella situazione caotica e difficilissima che il Paese stava attraversando – il cinema era semiparalizzato – tra difficoltà di ogni sorta, finalmente nel 1943 Antonioni riuscì a organizzare e a girare il suo primo cortometraggio, Gente del Po, che riuscì a portare a termine solo dopo la guerra.

Per la sua prima esperienza diretta scelse un ambiente che gli era caro per avervi trascorso la giovinezza: il fiume Po, a cui quattro anni prima, il 25 aprile 1939 aveva già dedicato sulle pagine di Cinema un testo e un fotoservizio. Antonioni non si occupava tanto di luoghi e di cose quanto di uomini, della gente umile, delle loro condizioni di vita, dei loro sentimenti. In questo suo primo film sperimentò un genere di scrittura cinematografica che non voleva essere collocato né dentro il cinema narrativo tradizionale, dove il paesaggio è scelto in funzione della storia raccontata, né dentro il cinema documentario dove, mediante la descrizione di paesi e culture, si espongono tesi e idee di carattere sociale, politico o antropologico. Gente del Po, seguendo il corso del fiume, riesce a raccontare almeno tre storie: una bambina malata su una casa-barca, un ciclista che raggiunge la fidanzata, una tempesta sul delta, con un bimbo abbandonato che piange fra le capanne dei pescatori. Il rapporto fra storia, narrazione e paesaggio tipico del cinema tradizionale è rovesciato: non è la storia a determinare la scelta del luogo, ma la storia nasce dal luogo, anzi, ogni luogo reale può contenere molte vite e molte storie.

Intanto, negli stessi mesi, sull’altra riva del fiume, Luchino Visconti girava Ossessione, Roberto Rossellini di lì a poco avrebbe dato prova di quello sguardo rivoluzionario che avrebbe caratterizzato Roma città aperta e Paisà, mentre l’incontro di Cesare Zavattini con Vittorio De Sica stava per dare vita ad altre opere fondamentali della storia del cinema e della cultura italiana. Stava per nascere il neorealismo cinematografico: un movimento composito e complesso, così come complesso e problematico sarebbe sempre stato il rapporto che con esso avrebbe avuto il nostro autore. Ma nel 1943 su questo terreno Antonioni era davanti a tutti.

Frattanto, tornato a Roma, si rifugiò assieme ad Antonio Pietrangeli in un paese dell’Abruzzo, poi in un baita sui monti.

Quando solo nel 1947 iniziò il montaggio del suo documentario scoprì che a causa della guerra la maggior parte del materiale era andata perduta.

Nel 1948 realizzò N.U. (Nettezza Urbana), Nastro d’argento per il miglior documentario ex aequo con Piazza San Marco di Francesco Pasinetti e, subito dopo, L’amorosa menzogna (1949), una breve inchiesta sulla vita dei divi dei fotoromanzi. Dovevano seguirne altri sui camerieri, sugli strilloni, sulle prostitute, sui fattorini del telegrafo, sul Monte di Pietà, sulle donne che puliscono i treni, sulle indossatrici, ma i produttori li giudicarono troppo ‘crudi’. Intanto Antonioni collaborava ad alcune sceneggiature: Caccia tragica di Giuseppe de Santis, uscito nel 1947, Furore e Il processo di Maria Tarnowska di Visconti, progetti, questi due, mai realizzati.

Il tema dei fotoromanzi venne sviluppato da Antonioni in un soggetto che scrisse sempre nel 1948: Caro Ivan (poi Lo sceicco bianco) che avrebbe dovuto essere il suo primo film. Scelti come collaboratori Federico Fellini e Tullio Pinelli, nacquero ben presto i primi contrasti: Antonioni insisteva per una articolazione libera e antitradizionale del racconto, ma non vi riuscì («Nella mia sceneggiatura non c’era un plot molto preciso, una serie di fatti concatenati. Era una narrazione piuttosto libera, un po’ come quella dei film di Federico oggi. Allora invece Fellini e Pinelli mi rimproveravano proprio questa frammentarietà del racconto», in C. Biarese - A. Tassone, I film di Michelangelo Antonioni, 1985, p. 35) e così, mentre girava il documentario Superstizione, cedette il soggetto a Carlo Ponti, cui era piaciuto moltissimo, il quale lo affidò a Fellini, concedendo ad Antonioni solo l’opzione per un altro film.

Risale al 1949 anche il soggetto di Stanotte hanno sparato, un giallo insolito a cui Antonioni teneva molto, un film di atmosfere sottili e rarefatte. Al centro un delitto, due giovani testimoni e un ambiente frequentato da omosessuali: questa la ragione principale del parere negativo della censura preventiva vigente allora in Italia che lo fece desistere dal realizzarlo.

Intanto girava altri documentari: La villa dei mostri (1949), Sette canne, un vestito (1949), La funivia del Faloria (1950, di cui oggi rimangono solo 4' con il titolo Vertigine) e produsse il documentario sull’emigrazione di Nicolò Ferrari Uomini in più (1950).

Ma il film che da alcuni anni Antonioni avrebbe voluto realizzare e che gli avrebbe lasciato un grande rimpianto, come ricordava Renzo Renzi coinvolto dal regista nel progetto, fu Le allegre ragazze del ’24 che non venne mai realizzato.

Oltre i confini del neorealismo

Nel 1950 Antonioni girò il suo primo lungometraggio, Cronaca di un amore. A finanziare il film fu in parte Franco Villani e in parte Stefano Caretta, arrivato a riprese iniziate dopo il rocambolesco tentativo dell'amico Marco Ferreri di trovare fondi firmando cambiali e contando su finanziamenti spariti all'ultimo minuto.

Il film, che si impose solo all’attenzione della critica e del pubblico più attento e pronto ad aprirsi al nuovo, segnò una vera svolta nella storia del cinema italiano del dopoguerra.

Con Cronaca di un amore Antonioni rivolse la sua attenzione al mondo borghese e all’universo delle passioni e delle ossessioni individuali. Sembrava, e almeno in parte lo era, una rottura con il neorealismo: «Era un periodo – quello dell'immediato dopoguerra – nel quale tutto quello che accadeva intorno a noi era anormale, la realtà era scottante, vi erano fatti e situazioni eccezionali, per cui i rapporti fra individuo e società erano forse la cosa più interessante da esaminare [...] Quello era il motivo predominante dei film neorealistici di allora. Quando invece ho cominciato a fare del cinema sono partito da un'altra osservazione [...]: che cosa, in questo momento è importante esaminare, prendere come argomento delle proprie storie? E mi è sembrato che fosse più importante non tanto esaminare i rapporti fra personaggio ed ambiente, quanto fermarsi sul personaggio, dentro il personaggio, per vedere cosa di tutto quello che era passato – la guerra, il dopoguerra... – che cosa era rimasto di tutto questo dentro i personaggi, quali erano non dico le trasformazioni della loro psicologia, del loro sentimento, ma i sintomi di quella evoluzione» (M. Antonioni, La malattia dei sentimenti, in Bianco e Nero, febbraio-marzo 1961, ora in Id., Fare un film è per me vivere, cit., p. 22).

La storia di Paola e Guido, spenta da tanti anni, che si riaccende per una curiosa indagine sul passato di lei, diventa il pretesto per mettere a confronto due vite uscite dalla guerra: una donna che, per la sua bellezza, ha sposato un industriale ed è così entrata nell’alta borghesia, e un uomo che, nonostante la sua bellezza e la sua forza, è rimasto un disoccupato vagabondo. Il confronto fra la povera gente di prima della guerra e i neoricchi del dopoguerra non potrebbe essere più crudo, e si accompagna a quello fra la vecchia Ferrara, dov’era nata la loro storia d’amore, e la nuova Milano industriale, dove questa storia finisce miseramente. Guido è Massimo Girotti, lo stesso vagabondo di Ossessione (Gino), anche qui un vagabondo, di fronte a una giovane donna, che è anche simbolo della nuova Italia, ricca, elegante, ma debole e vile. Famoso è il piano-sequenza in cui i due amanti progettano l’omicidio del marito, in una curva della strada, mentre invece questi morirà per caso, in un incidente, ma proprio in quella curva, cosicché, a differenza dei due amanti di Ossessione, i due protagonisti non riusciranno nemmeno a mettere in atto il loro piano delittuoso: il destino si fa beffe di loro. La cinepresa gira intorno ai personaggi come per studiarli, cogliere i loro pensieri, le loro debolezze, senza pietà, come fossero strani insetti. Cronaca di un amore non ha più gli eroi e le grandi figure del neorealismo, ma solo le figure mediocri del presente, uomini e donne senza qualità.

Dopo la realizzazione del film Antonioni rimase inattivo per due anni, nonostante le numerose proposte. Nel 1952 un colloquio con Diego Fabbri (che aveva appena fondato la Film Costellazione) lo convinse a realizzare I vinti, il suo film più travagliato. Antonioni voleva raccontare semplicemente tre delitti di giovani in tre Paesi diversi, senza appesantire il film di significati; i produttori invece esigevano che il film avesse un carattere inequivocabilmente moralistico e dopo violente discussioni che durarono mesi, si raggiunse un compromesso: sostituire all’episodio italiano già sceneggiato, un altro dello stesso Fabbri e di Turi Vasile (anche se era l’unico che non convinceva Antonioni) e aggiungere una prefazione costituita da materiale di repertorio sui giovani, un quadro della ‘gioventù bruciata’ europea.

I vinti, comunque, scritto con Suso Cecchi d’Amico e uscito nel 1953, anticipò tutta una serie di film sulle stesso argomento. Illustra le vite delle giovani generazioni rovinate dal desiderio del benessere, dall’ambizione, dal vuoto della modernità. Ambientato in tre città d’Europa, Parigi, Roma e Londra, descrive la non vita, i non luoghi, i crimini senza scopo, la solitudine delle nuove metropoli. L’episodio di Londra, in cui un giovane uccide una prostituta in un parco, senza motivo, solo per sfidare la polizia, sembra una prova generale dei futuri enigmi di Blow-up.

Durante la realizzazione degli episodi francese e inglese, Suso Cecchi d’Amico preparò la sceneggiatura de La signora senza camelie, modificata durante le riprese.

Terminare un film e iniziarne subito un altro, senza un giorno di interruzione, rappresentava per il regista ferrarese una terribile esperienza. Infatti cominciò a girare senza convinzione, senza entusiasmo e per di più con un’attrice che non corrispondeva al personaggio. Dopo il rifiuto di Gina Lollobrigida, già scritturata per questo film, di interpretare il ruolo di protagonista, Antonioni propose in un primo tempo di sostituirla con una generica di nome Sofia Scicolone (di lì a poco Sofia Loren), ma i distributori non accettarono e venne scelta Lucia Bosé, già protagonista di Cronaca di un amore.

La protagonista del film è Clara (appunto la Bosé), una giovane attrice senza talento o, meglio, senz’altro talento che quello del suo giovane corpo affascinante. Cercherà di passare dal cinema commerciale al film d’arte, ma dopo avere studiato per ben ‘due mesi’ ritornerà a vendere il suo corpo alla cinepresa per interpretare le odalische e regine seminude del cinema commerciale.

La Signora senza camelie, uscito nel 1953, non ottenne alcun successo. Soprattutto per questo motivo e per un gesto di cortesia nei confronti dell’amico Marco Ferreri, che come detto aveva tentato di aiutarlo per Cronaca di un amore e che ora stava organizzando L’amore in città (uscito nel 1953), Antonioni accettò di girare l’episodio Tentato suicidio che risultò più lungo del previsto e fu molto tagliato.

Passarono altri due anni, i peggiori per Antonioni, senza che gli venisse fatta un’offerta mentre lui invano proponeva idee, soggetti, sceneggiature. Di molti di essi non c’è più traccia: tra gli altri Un pacchetto di Morris, un poliziesco che gli fece vincere un concorso indetto da un settimanale; un altro dal titolo Con il tuo perfido cuore; poi, ancora, Ida e i porci, sceneggiato con Rodolfo Sonego ed Ennio De Concini, la storia di una bambina che diventa una prostituta. Gli vennero prima offerte e poi revocate le regie dei film Peccato che sia una canaglia, girato da Alessandro Blasetti, e La diga sul Pacifico, dal romanzo di Marguerite Duras Un barrage contre le Pacifique del 1950, che avrebbe diretto Clement.

Tra i tanti c’era un soggetto che gli stava particolarmente a cuore dal titolo Il grido, ma nessuno ne volle sapere.

Solo nel 1955 riuscì a interessare un piccolo produttore, Franco Cancellieri, a un soggetto basato sul racconto di Cesare Pavese, Tra donne sole. Dopo un mese di riprese il film si interruppe per mancanza di fondi; trascorsero due mesi e mezzo e finalmente un produttore, Giovanni Addessi, della Trionfalcine, lo rilevò e lo fece portare a termine. Le amiche (1955) è forse il primo film di Antonioni in cui non succede nulla: a Torino, con la sua nascente borghesia industriale, elegante, rozza e ignorante, con le sue strade colme di operai e impiegati, una giovane imprenditrice, un’artista, e altre donne ricche si conoscono, lavorano, si annoiano, fino al suicidio di un’amica. Antonioni osserva le incomprensioni, i dispetti nascosti dietro gli abbracci, i lunghi silenzi, le parole sprecate. L’affinità fra Pavese e Antonioni va ben oltre la critica alla borghesia: si spinge fino alle radici della società moderna. Entrambi descrivono un mondo senza eroi e senza miti, dove le antiche passioni non sono altro che ombre.

Le amiche ottenne un successo commerciale e conquistò numerosi premi, ma occorsero altri due anni prima di poter realizzare Il grido.

La tragica storia di Aldo (Steve Cochran), un operaio che, abbandonato dalla sua compagna Irma (Alida Valli), vaga per la periferia e per le campagne del delta padano e alla fine si getta dalla torre dello zuccherificio, sembra nascere dalle regioni nebbiose, confuse, fredde e tristi che l’uomo attraversa durante il film. Una prostituta, una benzinaia, nemmeno la sua bambina, rimasta con lui ormai alla deriva, riescono a rallentare questa caduta.

In questo suo primo capolavoro il protagonista è il paesaggio o, meglio, la mancanza di un paesaggio. La natura sembra infatti non avere niente di accogliente: Aldo attraversa uno spazio senza forma, senza direzioni, in cui gli uomini non sono più personaggi, ma figure, fantasmi di passaggio, e muore gettandosi da un punto elevato in cui di solito si dovrebbe ammirare il panorama, e dal quale invece non si vede altro che nebbia e acqua, come se venisse ucciso dallo spazio diventato un buco bianco, un grigiore che non è più natura.

Effettuato un provino per il doppiaggio de Il grido, Monica Vitti divenne la voce di Dorian Gray (che interpretava Virginia) e da questo momento ebbe inizio un sodalizio artistico e sentimentale che durò dieci anni.

Dopo Il grido, vi fu un altro importante incontro per Antonioni, quello con Tonino Guerra: ne nacque una grande amicizia e un importante rapporto professionale che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Sollecitato dai suoi racconti sull’esperienza nei campi di concentramento tedeschi, scrisse con lui la sceneggiatura di Makaroni. Quasi tutti i reduci parlavano del ‘giorno dopo’ come del giorno più bello della loro vita: l’arrivo degli americani e la fuga dei tedeschi. Era proprio questo momento di disordine, di caos, di avventura e di libertà a interessare Antonioni.

Intanto a Parigi usciva Il grido e Alexandre Astruc scrisse un articolo entusiasta sul film, parlando di capolavoro (Le cri, in L'Express, 11 dicembre 1958). Gli fecero eco molti altri critici e il nome di Antonioni cominciò a circolare in Francia e finalmente cominciò ad avere risonanza anche in Italia. Il film ottenne inoltre il Gran premio della critica al Festival di Locarno.

Ancora una volta il film venne accolto glacialmente dal pubblico che disertò le sale. Furono pochissimi i critici che lo esaltarono, i più lo trovarono frammentario, freddo e formalista. I produttori continuavano intanto a insistere e a sollecitare Antonioni perché invece di ‘storie tristi’ pensasse a film adatti al grande pubblico. Per un regista che godeva ormai di una grande stima presso le produzioni, queste proposte rappresentarono senza dubbio, anche economicamente, provocanti tentazioni, ma Antonioni, per principio, rifiutò, come sempre, ogni compromesso. Per vivere girava sequenze di film di altri colleghi (diresse la seconda unità per La tempesta, di Alberto Lattuada, e per Nel segno di Roma, di Guido Brignone, entrambi usciti nel 1958).

La grande avventura

Su uno yacht, durante una crociera, nacque il soggetto de L’avventura, ma i produttori cui lo propose continuavano a domandargli la sorte della ragazza che scompare, sostenendo che era assurdo pretendere di non spiegare il mistero. Fortunatamente un amico, l’organizzatore di Cronaca di un amore, Gino Rossi, gli venne in aiuto e si entusiasmò al soggetto.

Dopo un vertiginoso susseguirsi di difficoltà produttive, Antonioni cominciò a girare, ma dopo una settimana dall’inizio delle riprese rimase senza produttore. Aveva comunque con sé ventimila metri di pellicola e gli attori, bloccati a Panarea a causa dell’interruzione del collegamento del battello con la Sicilia. Girò quindi ogni giorno qualche inquadratura tra scioperi della troupe e fughe di attori che riuscì però sempre a far ritornare, mentre continuava a mantenere i contatti con Roma, con ministeri, produttori, amici per trovare una soluzione economica, riuscendo alla fine a terminare il film.

L’avventura è, in primo luogo, un’avventura della cinepresa. È anche uno scontro di culture: quella povera, patriarcale e maschilista della vecchia Italia e quella ricca, spregiudicata e arrogante del nuovo mondo. Durante una gita alle isole Eolie di un gruppo di gitanti su uno yacht privato scompare una ragazza, Anna (Lea Massari). Dopo vani tentativi di ritrovarla, il fidanzato, Sandro (Gabriele Ferzetti), e la migliore amica della ragazza, Claudia (Monica Vitti), vanno in Sicilia alla sua ricerca. La città di Messina impazzita dietro a una soubrette inglese, la città di Noto con le sue chiese superbe e la sua popolazione tutta maschile, ottusa, attratta dalla bella Claudia, altre cittadine dal sapore dechirichiano, sospese nel silenzio metafisico, le feste aristocratiche di Taormina, dove tutti si cercano e si fuggono nello stesso tempo, come in un castello ariostesco, ogni dettaglio conferisce al film un’aura misteriosa, come se qualcuno stesse spiando i due protagonisti che a loro volta guardano l’isola. Cercando Anna, Sandro e Claudia finiscono per mettersi insieme, ma poco dopo lui finirà fra le braccia mercenarie della soubrette inglese. Claudia lo scopre, ma alla fine, davanti a una veduta dell’Etna, mentre lui piange di pentimento, lo accarezza in silenzio. Essere insieme ed essere soli, con Anna o senza di lei, è la stessa cosa. L’inquadratura finale li mostra su una panchina, davanti alla veduta dell’Etna, ma il fotogramma è diviso da un muro che copre metà della vista.

Ultimato tra molte difficoltà, il film venne presentato al Festival di Cannes nel 1960. Fischiato clamorosamente dal pubblico, suscitò invece un’ondata di autentico entusiasmo tra i critici e i colleghi più attenti che sottoscrissero una petizione nella quale espressero indignazione per l'accaduto e il loro giudizio entusiastico sul film. La prima di tante firme autorevoli era quella di Rossellini.

Il film ebbe in Francia un successo commerciale straordinario e ottenne ovunque consensi e premi, tra cui, dopo il Premio speciale della giuria e quello della FIPRESCI (Fédération International de la Presse Cinématographique) al Festival internazionale del film di Cannes, il Premio Stampa estera a Monica Vitti in Italia, l'importante Premio del circolo dei critici cinematografici di New York per il miglior film straniero, ex aequo con La ciociara di De Sica. Questa volta Antonioni non ebbe quindi difficoltà a realizzare il successivo La notte con un produttore coraggioso, Emanuele Cassuto, che da poco aveva iniziato la sua attività.

Nel film si narra la storia di una coppia, Giovanni (Marcello Mastroianni) e Lidia (Jeanne Moreau), e la fine del loro matrimonio, ma fondamentali sono «altri due livelli di senso»: la fine della vecchia Milano, cui si sostituisce la nuova megalopoli industriale, e l’avvicendarsi del vecchio mondo e della vecchia cultura (rappresentati da Tommaso, lo studioso amico della coppia malato di cancro) che muoiono e lasciano il passo alla nuova pseudocultura (rappresentata da Giovanni, lo scrittore alla moda). Ma anche il contrasto tra la vita e la morte che prende spunto dal racconto di James Joyce The dead. Fondamentale è anche la vitalità della figura femminile rispetto alla vacuità di quella maschile, confronto che appare schiacciante in tutto il film e nella splendida e poetica sequenza finale nel parco con le ventisei inquadrature in cui il punto di vista su Giovanni resta sempre lo stesso, mentre cambia costantemente quello su Lidia. Le ultime inquadrature mostrano Giovanni che abbraccia inutilmente la moglie rotolandosi sull’erba, mentre la cinepresa si allontana da loro vorticosamente.

Se La notte riscosse molto successo, ancora più grande fu quello del successivo L’eclisse (1962), che consolidò il prestigio di Antonioni a livello internazionale; sorprendente fu l’affermazione del film in Giappone, dove risultò ai primi posti nelle classifiche degli incassi e dei migliori film selezionati dalla critica.

Roma: Vittoria (Monica Vitti) lascia il compagno e si avventura da sola a scoprire una città ferita dalla dolorosa mancanza della natura e da una esplosione di speculazioni finanziarie, edilizie e sentimentali. L’incontro con l’affannato Piero (Alain Delon) che, immerso nelle operazioni di Borsa, non riesce a interessarsi a lei per più di dieci minuti, la passeggiata notturna nella zona dell’EUR, che appare come una parodia della natura, con antenne-alberi, montagne-palazzi, sentieri asfaltati nella savana di automobili, sono scene agghiaccianti nella loro semplicità fotografica. Più agghiacciante ancora la scena del crollo della Borsa, dove una folla incredibile si pigia dentro l’inquadratura compiendo gesti forsennati come in un incomprensibile rituale pagano-cannibalesco. Il finale, con le sue 57 inquadrature dell’EUR nella desolazione della sera che scende, è un ritorno al cinematografo dei fratelli Lumière, che era osservazione del mondo: qui però non siamo nella Parigi dell’Ottocento, ma in un quartiere-dormitorio senza vita, dove il giorno e la città si spengono insieme. L’eclisse è un’opera sul vuoto, in cui la cinepresa guarda il nulla, il puro e semplice spazio che però è un vuoto risonante di echi, di vite invisibili e passate, di storie e vite possibili e non realizzate.

Con Il deserto rosso (1964), ultimo film della cosiddetta tetralogia dei sentimenti iniziata con L’avventura, Antonioni portò a piena maturità la sua poetica dello sguardo. Il film segna una data nella storia delle ricerche espressive sul colore nel cinema. Per il regista ferrarese – che sulla questione teorica del colore intervenne a più riprese con osservazioni assai acute che si ricollegano alla classica riflessione di Béla Balázs e di Sergej M. Ejzenštejn, ma anche di Ludwig Joseph Wittgenstein, Vasilij V. Kandinskji, Johann Wolfgang von Goethe – il colore nel cinema non può essere un fatto puramente riproduttivo in senso naturalistico, o puramente decorativo, o statico: il colore è l'esperienza del colore, e deve quindi essere proposto come una realtà dinamica, in trasformazione, in divenire, non assoluta. Per il suo cinema, oltre che di ‘colore dei sentimenti’, è opportuno parlare di sentimento del colore, di attenzione al colore come uno dei modi di manifestazione dell'esperienza emozionale, percettiva, estetica.

Sensibile al dibattito culturale di quegli anni su letteratura e industria, Antonioni ambientò la storia in uno scenario industriale (l’ANIC di Ravenna) per mostrare la natura umiliata e violentata e affrontare con largo anticipo un altro grande problema dei nostri tempi, quello ecologico.

La cinepresa, ancora una volta, si aggira per gli spazi, desolati o affollati che siano, sempre smarrita e confusa come i personaggi del film, cercando di comprendere il mondo in cui si trova. Il cinema è come lo sguardo dell’uomo, un tentativo di comprendere, che spesso approda alla conclusione che è impossibile capire, che occorre accettare la differenza che caratterizza ogni essere umano rispetto agli altri, e rispetto all’ambiente. La protagonista, Giuliana (ancora Monica Vitti), malinconica, solitaria, si aggira come una straniera nei dintorni della raffineria, che è tutta un’esplosione di macchine, di colori fiammeggianti, belli e violenti, oppure vaga per una Ravenna deserta, ridipinta con i colori smorti di Morandi, in cui le case, le strade sono stinte e anche la frutta di una bancarella è falsa, di gesso. Il colore non solo riflette lo stato d’animo soggettivo della protagonista, come si ritenne al tempo, ma ci mostra un mondo che diventa sempre più irreale, a metà fra natura e industria, fra vero e falso, fra vita e morte, fra benessere e smarrimento della propria identità. In questo mondo bello e artificiale, l’uomo è sempre di più un’appendice della macchina, un supplemento inutile, confuso, smarrito. Unico essere vivente in una realtà di ombre, Giuliana è anche un’estranea in casa propria, e ci conduce attraverso le rovine della natura, dove le navi passano fra gli alberi, i pesci sanno di petrolio e i fiumi hanno il colore del gesso.

Con Il deserto rosso Antonioni conclude il viaggio analitico attraverso la «malattia dei sentimenti», come egli stesso la definì in un ormai celebre colloquio con gli allievi del Centro sperimentale di cinematografia nel 1961.

Nel 1964 l’editore Einaudi gli chiese di ripubblicare in un unico volume le sceneggiature dei suoi ultimi film, già apparsi nella collana Dal soggetto al film di Renzo Renzi. Antonioni colse l’occasione per rileggere e riscrivere i testi e riflettere nell’importante prefazione sul suo modo di scrivere per il cinema: «La sceneggiatura è una fase intermedia, necessaria ma transitoria […] Sbaglia chi sostiene che la sceneggiatura ha un valore letterario. Si potrà obiettare che le mie non l’hanno, altre potrebbero averlo. Può darsi. Ma allora sono romanzi veri e propri, autonomi» (M. Antonioni, prefazione a Id., Sei film, cit., pp. XVII-XVIII).

Cinema come sguardo sulla realtà

Nel 1965, per il debutto cinematografico della principessa Soraya, girò la ‘prefazione’ del film I tre volti, dal taglio asciutto e veloce, sia come tecnica di ripresa sia come montaggio. Nel 1966, dopo avere firmato un contratto per tre film con Carlo Ponti e la Metro Goldwin Mayer, girò nella swinging London, la capitale culturale degli anni Sessanta, Blow up, film nel quale si fa aperto ed esplicito lo spostamento del discorso sul problema del rapporto fra immagine e realtà. Nel film riesce a portare sia nello stile sia nella trama le sue riflessioni sull’immagine e sul cinema come strumento di conoscenza. Protagonista è un fotografo di successo (David Hemmings), che vive a Londra e scopre un delitto ingrandendo fotografie apparentemente innocue. Ma le tracce che ha trovato si perdono subito in un mare di dettagli e digressioni che continuamente lo portano fuori strada: le indossatrici che lui tratta come bambole di lusso, i giochi sessuali con ragazze disponibili a tutto pur di essere immortalate in una copertina glamour, la musica-garage delle nuove comunità giovanili, i droga-party nei palazzi eleganti. Il suo percorso è tutta una serie di deviazioni che lo distraggono e confondono anche lo spettatore. Convinto di afferrare la realtà con le sue macchine fotografiche, il protagonista perde tutte le sicurezze. I palazzi di Londra interamente ridipinti con colori duri, rosso, nero, per dare un effetto fiammeggiante alla città (anticipazione artigianale e costosissima della futura color correction); il misterioso parco deserto, battuto dal vento, in cui scopre l’omicidio; il cosiddetto coito fotografico con la modella più in vista di Londra, Verouschka; la sequenza dell’ingrandimento fotografico (blow-up, appunto) in cui, sulle fotografie appese alle pareti dello studio spira il soffio del vento, e molte altre grandi o piccole trasgressioni del linguaggio classico, sono diventate patrimonio indimenticabile di innumerevoli spettatori, fotografi pittori, registi. Perduto nel ventaglio d’immagini che è il mondo, il fotografo, il cui intento iniziale era quello di realizzare un libro sulla vita ‘reale’ della povera gente (e per tale ragione si era nascosto in un dormitorio pubblico, fra i barboni di Londra), alla fine accetta di raccogliere una palla inesistente in una finta partita. L’inizio del film, con il gruppo dei mimi rivoluzionari e chiassosi, e la scena conclusiva, con gli stessi mimi che fingono di giocare a tennis, e anche tutte le altre avventure del fotografo, hanno suscitato interpretazioni senza fine: Antonioni ci porta qui fino alla soglia misteriosa che divide, oppure unisce, il reale e la rappresentazione, quella che chiamava il «mistero dell’immagine». Scriveva il regista: «Sottoponendo la pellicola impressionata a un determinato processo detto di 'latensificazione', si riescono a mettere in evidenza elementi dell'immagine che il normale processo di sviluppo non basta a rivelare [...] noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è un'altra più fedele alla realtà, e sotto quest'altra un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragion d'essere» (M. Antonioni, prefazione a Id., Sei film, cit., p. XIV). Blow up segnò il successo internazionale di Antonioni, anche dal punto di vista commerciale.

È nel film successivo, Zabriskie Point (1970), che torna a manifestarsi l’Antonioni esploratore della contemporaneità. La sua curiosità lo portò negli Stati Uniti, nei campus californiani della rivolta studentesca, e in una località della Death Valley che dà il nome al film, dove si svolge una delle sequenze centrali. Sua collaboratrice al soggetto e alla sceneggiatura fu Clare Peploe che Antonioni aveva conosciuto durante la preparazione di Blow up e alla quale si era legato sentimentalmente.

Il giovane Mark (Mark Frechette), fuggito dalle contestazioni studentesche rubando un aereo, e la timida Daria (Daria Halprin), che cerca di sfuggire alle equivoche attenzioni di un 'amico' industriale, s’incontrano e si amano nella Valle della morte che prende vita sotto il loro abbraccio, in un raro esempio di montaggio verticale, con le immagini montate sulla musica dei Grateful Dead (un videoclip ante litteram), e si popola di creature viventi, hippies o divinità nascoste nella terra (interpretati dagli attori del Living Theatre). Mark, ricercato, viene assassinato dalla polizia al suo ritorno, e Daria sogna che la grande villa del suo 'amico' imprenditore esploda con tutti i suoi orpelli consumistici. In una scena divenuta oggetto di culto, tutto salta in aria: terrazzi e piscine nel deserto, poltrone, mobili, vetrate panoramiche, giardini, piante finte; e poi armadi pieni di vestiti, frigoriferi colmi di cibi, televisori, lavatrici, elettrodomestici, apparecchi di ogni tipo, tutti i feticci della società del benessere volano in un blu astratto, kleiniano (nel senso di Yves Klein), sospesi sulla musica rarefatta dei Pink Floyd, ripresi con macchine high speed a 2500, 3000 fotogrammi al secondo. Ma non è che un sogno e Daria deve ripartire, sola nel tramonto.

Accolto dalla critica e dal pubblico americano come un film contro l'America, fin dalle sue prime uscite venne malcompreso e boicottato per poi ricevere, invece, consensi sempre maggiori negli anni a venire che riconobbero in quest’opera di grande poesia una delle metafore più lucide sugli Stati Uniti.

Nel 1972 Antonioni fu incaricato dalla RAI, su indicazione delle autorità della Cina Popolare che lo scelsero all'interno di una rosa di registi occidentali, di girare un documentario su quel grande, misterioso Paese, forse attirati dall'equivoco che Zabriskie Point fosse un film contro l’America, mentre era invece una critica del mondo industriale. Da un viaggio di cinque settimane e dal materiale girato in circa ventidue giorni fra Pechino, un distretto di montagna, un luogo della vallata dello Yang-Tze-Kiang, Suchow, Nanchino e Shanghai, nacque Chung Kuo. Cina, un film di quattro ore mandato in onda in tre puntate dalla RAI, che lo produsse, al quale collaborò per il testo il giornalista Andrea Barbato. I cinesi si pentirono presto della scelta fatta quando videro che il maestro non intendeva cercare le grandi opere industriali, ma le piccole cose quotidiane: i volti dei bambini, delle giovani donne, dei lavoratori, le speranze, i sacrifici, la fatica, il riposo.

Alla prima uscita (1972) il film incontrò un buon successo e all'anteprima nel palazzo RAI di viale Mazzini di Roma ottenne anche l'approvazione dei rappresentanti della Cina Popolare.

Chung Kuo. Cina sarebbe stato invece attaccato violentemente come opera reazionaria dal quotidiano Renmin ribao (Quotidiano del Popolo) il 30 gennaio 1974 in un editoriale dal titolo Intenzione spregevole e manovra abietta (cfr. F. Rampini, Il secolo cinese, 2005, pp. 120-121) e dal governo cinese che ne proibì la proiezione, coinvolto indirettamente nella lotta interna alla classe dirigente cinese tra la cosiddetta Banda dei quattro e l'apertura all'Occidente di Zhou Enlai. Fu soltanto nel 2004 che l’Istituto italiano di cultura e l’Accademia del cinema di Beijng consentirono ai cinesi di vedere per la prima volta il film, assieme alla retrospettiva completa delle opere di Antonioni.

L'accoglienza riservata negli Stati Uniti a Zabriskie Point aveva amareggiato Antonioni e aveva nuovamente condizionato il potere contrattuale del regista. Così, quando nel 1972 Antonioni ritornò dalla Cina, Carlo Ponti, che gli aveva garantito la realizzazione di Tecnicamente dolce – soggetto proposto nel 1966 assieme a Blow up – gli comunicò che non aveva più intenzione di produrre il film.

Antonioni allora impegnò tutto se stesso, con convinzione, in un ennesimo progetto cui finì per appassionarsi, e che voleva realizzare in elettronica, La spirale (o Il colore della gelosia), senza però riuscirci. Così, quando, dopo mesi di attesa logorante, Ponti gli propose il soggetto di The passenger, scritto da Mark Peploe, Antonioni accettò, sia pure con qualche perplessità legata alle condizioni produttive.

Ne nacque Professione: reporter (1975), un grande film che si è inserito d'autorità nella storia del cinema, famoso anche per la sequenza finale di sette minuti girata con una macchina da presa montata su una serie di giroscopi d'invenzione canadese e agganciata a una gru alta oltre trenta metri: sequenza che richiese undici giorni di preparazione e realizzazione.

Anche qui Antonioni coniuga la ricerca sperimentale più avanzata con la critica dei media e la riflessione sulla perdita d’identità dell’uomo contemporaneo. Il reporter David Locke (Jack Nicholson), deluso dal suo lavoro, consapevole che la realtà da lui filmata e studiata con la cinepresa (i ribelli, la cultura dell’Africa) gli sfugge e gli sfuggirà sempre, cerca di nascere a una nuova vita scambiando la sua identità con quella di un morto, un contrabbandiere di armi che lavorava per i ribelli. Andrà anche lui verso la morte, accompagnato da una giovane donna (Maria Schneider) che lo seguirà in questo percorso, estranea e luminosa come una divinità antica. La sua morte avviene in una piccola stanza di un albergo spagnolo. Il reporter viene abbandonato fuori campo dalla cinepresa che esce all’aperto, attraversando letteralmente un’inferriata, mentre sentiamo e non vediamo la pistola dei killer pagati da un dittatore per ucciderlo.

L'itinerario parallelo di Antonioni – autore di film non realizzati – proseguì con il rifiuto di due proposte che sentiva estranee: la trasposizione di Addio alle armi di Ernest Hemingway e de Il comunista di Guido Morselli.

Intanto, discutendo e viaggiando con Tonino Guerra, a metà degli anni Settanta cominciò a concretizzarsi il suo progetto di realizzare L'aquilone, da una favola dello stesso Guerra che piaceva moltissimo a Italo Calvino (M. Antonioni, T. Guerra, L’aquilone, 1982). Storia di un aquilone che vola sempre più in alto e non si ferma mai, trascinato da una misteriosa corrente fino a distanziarsi migliaia di chilometri dalla Terra. Uno splendido racconto, al confine con la fantascienza, ricco di poesia e che a quel tempo sembrò trovare la sua ambientazione ideale in Uzbekistan, dove anche il divario tra mondo arcaico e mondo tecnologico, necessario alla storia, appariva più evidente. Ma a causa dei costi eccessivi e delle innumerevoli difficoltà produttive e tecniche, anche questo progetto non si concretizzò.

In quegli anni intanto Antonioni continuava a scrivere e a pubblicare sul Corriere della sera una serie di racconti nati da spunti per film non realizzati, da nuclei narrativi rimasti aperti, nei quali immagini ed emozioni vengono espresse con grande intensità.

Tra questi è Questo corpo di fango, dal quale nacque, nella seconda metà degli anni Settanta, la sceneggiatura Patire o morire: Antonioni nello scrivere il racconto si era ispirato ai classici del misticismo, in particolare Teresa d'Avila (da una cui espressione è tratto il titolo), e aveva trascorso qualche settimana tra le mura di quindici conventi di clausura, respirando «la stessa aria che tiene in vita quelle donne che hanno rinunciato alla vita» (M. Antonioni, Quel bowling sul Tevere, Torino 1983, p. 35).

Le riprese sembravano imminenti e invece vennero a mancare i finanziamenti americani indispensabili a garantire il film sul mercato internazionale (Questo corpo di fango sarebbe diventato poi, nel 1995, uno dei quattro episodi di Al di là delle nuvole).

Alla ricerca di nuove tecnologie e di nuovi colori

Dovevano passare ancora cinque anni prima che Antonioni potesse dirigere il primo film girato con telecamere a colori e trasferito successivamente su pellicola: Il mistero di Oberwald (1980), un dramma a fosche tinte scritto da Jean Cocteau nel 1946 per Jean Marais ed Edvige Feuillière. Lo scelse proprio perché la storia «che va avanti per conto suo» non gli interessava e gli lasciava quindi la possibilità di concentrarsi sui nuovi strumenti offerti dal mezzo elettronico per gli esperimenti sul colore. Usò un mezzo tecnico, il 'correttore dei colori', che gli consentiva di aggiungere o togliere dall'immagine qualsiasi colore a seconda della situazione psicologica, dipingendo in pratica il fotogramma. Fu il primo esperimento di cinema elettronico, alla base di molti futuri sviluppi.

Proprio nel 1980 la città di Bologna conferì al regista l’Archiginnasio d’oro con la celebre prolusone di Roland Barthes: «Caro Antonioni, la tua opera, al di là del cinema, coinvolge tutti gli artisti del mondo contemporaneo: tu lavori per rendere sottile il senso di ciò che l’uomo dice, racconta, vede o sente, e tale sottigliezza del senso, questa convinzione che il senso non si ferma grossolanamente alla cosa detta, ma si spinge sempre più lontano, ammaliato dal fuori-senso, è quella, credo, di tutti gli artisti, il cui oggetto non è questa o quella tecnica, ma quello strano fenomeno che è la vibrazione. L’oggetto rappresentato vibra, a scapito del dogma».

Il 1982, invece, è l'anno di Identificazione di una donna, un film dove lo stile è la sostanza della storia, e il montaggio, che per la prima volta Antonioni firma da solo, è nervoso e spregiudicato come la storia stessa.

Il regista Niccolò Farra (Tomas Milian), solo e spaesato, incontra due donne, prima un’aristocratica con cui ha un rapporto erotico meraviglioso, ma frustrante, perché lei lo usa e lo abbandona, e poi un'attrice di teatro sperimentale, che lo ama, ma lo lascia perché deve ritornare alla sua vita e al suo lavoro. Alla fine, solo com’era all’inizio, prende atto che la donna, come il mondo e come il Sole, è irraggiungibile per chi vuole osservare la vita. Questa volta Antonioni ci consegna un film della massima semplicità: nessuna ricerca sperimentale, nessun esercizio di bravura, dopo tanti virtuosismi che avevano stupito il mondo. Luce e colore, spazio vuoto e tempo che passa, pensieri che vengono e vanno, donne affascinanti che sfiorano il protagonista e spariscono come tutto il resto, come la nebbia che avvolge il protagonista in una scena centrale del film e l’acqua della laguna deserta nel prefinale.

Dopo un altro progetto non andato in porto (Frate Francesco) il regista era in attesa di poter finalmente realizzare un film al quale stava già pensando da anni e a cui teneva moltissimo, La ciurma, scritto da tempo e inventato a più riprese con Mark Peploe.

È il mistero di una scomparsa a tormentarlo e ad affascinarlo. La storia è ispirata a una notizia di cronaca, da lui raccontata in un articolo pubblicato sul Corriere della sera: Quattro uomini in mare.

Tre uomini approdano in un porto australiano dopo essere stati alla deriva per sei giorni su un panfilo di proprietà di un ricco uomo d'affari. L'uomo, minacciandoli con una spranga di ferro, li rinchiude nella stiva. Quando riescono a liberarsi e a risalire sul ponte scoprono che l'uomo è scomparso.

Il progetto era una sfida produttiva per il suo costo elevato, per il complesso piano di produzione, per i rischi che implicava, primo tra tutti quello personale che Antonioni, coerente con il suo innato e viscerale spirito di competizione, intendeva correre: girare dal vero e non in studio una parte fondamentale del film, la tempesta, con il mare a forza sei, nella quale si nasconde la chiave della storia.

La sceneggiatura piacque a tutti i produttori cui lo propose, primi tra tutti gli americani, ma il progetto non si concretizzò.

Antonioni nel frattempo scriveva e dipingeva. Convinto che scrivere e dipingere fossero attività non estranee al cinema, anzi «un approfondimento dello sguardo», continuava a scrivere racconti per il Corriere della sera e nel 1983 raccolse per Einaudi i migliori nel volume Quel bowling sul Tevere.

Antonioni dipingeva da sempre anche se non si definì mai un pittore e agli inizi degli anni Ottanta nacquero, quasi per caso, le Montagne incantate: dipinti molto piccoli, lavorati con tecniche miste (il più grande ha il formato di una cartolina), che Antonioni trasformava, attraverso una tecnica di blow-up (ingrandimento) fotografico, riproducendoli talvolta, a seconda dell'esito, in uno o più esemplari che nel processo di stampa venivano anche ad assumere toni e valori cromatici sempre differenti. I quadri (con altri, dipinti negli anni precedenti) furono esposti per la prima volta in una grande Mostra al Museo Correr di Venezia, allestita durante la Biennale Cinema del 1983.

In quello stesso anno girò uno spot pubblicitario per la Renault (Renault 9) e, su proposta degli ideatori del programma Fuori orario di RaiTre, realizzò il documentario Ritorno a Lisca Bianca, una rivisitazione a colori, a ventitré anni di distanza, dei luoghi de L'avventura. Nel 1984 realizzò un videoclip, Fotoromanza, per la canzone omonima di Gianna Nannini.

Dopo sette anni di rinvii, illusioni e disillusioni per La ciurma, Antonioni scrisse con Rudy Wurlitzer la sceneggiatura da un altro suo racconto Due telegrammi, ma nel 1985, proprio a pochi giorni dalla firma del contratto per la realizzazione del film, lo sorprese un ictus cerebrale che gli tolse l'uso della parola.

Da questo momento, nonostante la forzata inattività, Antonioni, grazie alla spinta vitale e alla collaborazione di Enrica Fico, sua compagna da oltre dieci anni (si sarebbero poi sposati il 30 ottobre 1986), trasformatesi in lavoro comune, trovò la forza di essere comunque attivo.

Nel 1989, decise di montare il materiale documentario che aveva girato lui stesso con mezzi di fortuna nel 1977 in India, su una festa religiosa che si celebra in quel Paese ogni dodici anni: ne nacque Kumbha Mela che venne presentato lo stesso anno al Festival di Cannes, nella prima tappa del Progetto Antonioni, promosso dal ministero del Turismo e dello Spettacolo e da Cinecittà International e curato da Carlo di Carlo. Dal 1988 al 1993 nell'ambito del Progetto venne effettuata la riedizione di tutta la sua opera, dal primo cortometraggio all'ultimo film, in versione sottotitolata in francese e inglese presentata, alla presenza del Maestro, in ventidue appuntamenti internazionali, la pubblicazione dei cinque volumi sulla sua opera, una mostra fotografica. Le ultime tappe furono nel 1992 il grande convegno organizzato al Museo del Louvre presieduto da Alain Robbe-Grillet, a New Yok al Lincoln Center, e nel 1993 a Ferrara, con il conferimento ad Antonioni della laurea honoris causa in lettere.

Nel 1990 il regista realizzò Roma per la serie 12 autori, 12 città, prodotto dal ministero del Turismo e dello Spettacolo in occasione dei Campionati del mondo di calcio; nel 1992 Noto Mandorli Vulcano Stromboli Carnevale per l’Expo di Siviglia; nel 1997 Sicilia, uno spot per la Regione Sicilia, e nel 2004, in occasione del restauro del Mosè del Buonarroti, Lo sguardo di Michelangelo, quindici minuti di cinema assoluto, presentato in anteprima, con una straordinaria ovazione di pubblico, al Festival di Cannes 2004.

La forza della ragione e della volontà, la stima e l’ammirazione tributatagli in ogni parte del mondo durante vent’anni non facili e l'inaspettata assegnazione dell'Oscar 1995 alla carriera furono sicuramente determinanti per la realizzazione in quell'anno di Al di là delle nuvole, tratto da quattro dei suoi racconti grazie al generoso slancio di Wim Wenders, evento della Mostra di Venezia del 1995. A cui fece seguito, dieci anni dopo, nel 2005, Il filo pericoloso delle cose che assieme a The hand di Wong Kar Wai e a Equilibrium di Steven Soderbergh costituisce una delle tre parti del film Eros.

Nel corso degli ultimi anni, nel suo silenzio, riprese a dipingere e realizzò incessantemente, con ogni tipo di tecnica, quasi quattrocento nuove opere pittoriche esposte a Roma al Tempio di Adriano in occasione della mostra Il silenzio a colori, poco prima della sua scomparsa, avvenuta a Roma il 30 luglio 2007.

Scritti

Fare un film è per me vivere, in Cinema nuovo, marzo-aprile 1959, n. 138; La malattia dei sentimenti, in Bianco e Nero, febbraio -marzo 1961 (ora in Fare un film è per me vivere, a cura di C. di Carlo - G. Tinazzi, Venezia 1994); La nuit de Michelangelo Antonioni, sujet original, trad. de l'italien par M. Causse, présente par M. Butor, Paris 1961 (con E. Flaiano e T. Guerra); prefazione a Sei film, Torino 1964; Chung Kuo.Cina, a cura di L. Cuccu, collaborazione al testo di A. Barbato, Torino 1974; Antonioni visto da Antonioni. Intervista televisiva di Lino Miccichè, RAIDUE, 12 febbraio 1978; Il mistero di Oberwald, a cura di G. Massironi, Torino 1981; L'aquilone, con otto tavole a colori di N. Ignatov, a cura di R. Roversi, Rimini 1982 (con T. Guerra; rieditato in ed. speciale f.c. dall'Amministrazione comunale di Ferrara in occasione del conferimento della cittadinanza onorararia della città di Ferrara ad A. con il titolo L'aquilone, una favola per il terzo millennio, illustrata da Vadim Medzibouskij, Bussero 1996); Identificazione di una donna, Torino 1983; Quel bowling sul Tevere, Torino 1983; Professione reporter, éd. F. Vanoye (avec la collaboration de G. Lucantonio), Paris 1993; Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, a cura di C. di Carlo - G. Tinazzi, Venezia 1994; I film nel cassetto, a cura di C. di Carlo - G. Tinazzi, Venezia 1995 (raccoglie gli scritti di Antonioni per i film non realizzati allo stato di racconti, soggetti, sceneggiature; la sceneggiatura di Tecnicamente dolce è invece pubblicata nel volume omonimo a cura di A. Tassone, Torino 1976, con prefazione del regista); Professione reporter, a cura di C. di Carlo, Roma 1996; Comincio a capire, Catania 1999; Sul cinema, a cura di C. di Carlo - G. Tinazzi, Venezia 2004; Scandali segreti, a cura di F. Vitella, Venezia 2012 (con E. Bartolini).

Bibliografia

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A. lo sguardo estatico, Roma 2008; F. Vitella, M. A. L’Avventura, Torino 2010, Antonioni. Centenary essays, ed. L. Rascaroli - J.D. Rhodes, London 2011; R. Calabretto, Antonioni e la musica, Venezia 2012; J. Moure-T. Roche, M. A. Anthropologue de formes urbaines, Riveneuve 2014; D. Paini, Antonioni (catal. della mostra Paris, 9 aprile - 19 luglio 2015), Paris 2015.

Si vedano inoltre i seguenti video e documentari: G. Mingozzi, M. A., storia di un autore (1966); A.S. Labarthe, La dernière sequence de Profession reporter (1974); Antonioni visto da Antonioni, a cura di L. Miccichè (1978); M. A. Lo sguardo che cambiò il cinema, a cura di C. di Carlo, S. Lai (2001); C. di Carlo, Antonioni su Antonioni (2008).

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