METRICA

Enciclopedia Italiana (1934)

METRICA (gr. μετρική [τέχνη]; da μέτρον "misura")

Giorgio LEVI DELLA VIDA
Ambrogio BALLINI
Giorgio PASQUALI
Salvatore BATTAGLIA
Nicola FESTA
Andreas HEUSLER
Roman JAKOBSON

È il complesso dei metri, cioè delle misure ritmiche che costituiscono la struttura dei versi; in senso più largamente storico, la metrica concerne lo studio delle forme attraverso cui si stabilisce e si evolve la tecnica della poesia.

Sommario - Metriche orientali: Semitica (p. 102); Iranica (p. 103); Indiana (p. 103). - Metrica classica: Greca (p. 104); Romana (p. 105). - Metrica medievale e romanza (p. 106). - Metrica francese (p. 108). - Metrica italiana (p. 109). - Metrica germanica (p. 111). - Metrica slava (p. 112).

Metriche orientali.

Metrica semitica. - Le varie letterature poetiche in lingue semitiche (babilonese-assira, ebraica, aramaica, araba, etiopica) nonché presentare una metrica comune, non posseggono nemmeno, tranne l'araba e parzialmente l'aramaica, alcuna trattazione sistematica delle leggi della forma poetica; sicché quelle leggi, risultando unicamente da ricostruzioni congetturali della moderna filologia, non hanno alcun carattere di certezza. Poiché d'altra parte si constatano in quelle letterature un linguaggio e uno stile specificamente poetici e poiché sia la tradizione, per quelle appartenenti a popoli estinti, sia l'uso contemporaneo, per quelle ancor vive, mostrano l'accompagnarsi del canto e della musica alla recitazione poetica, non può esservi dubbio intorno all'esistenza di certe norme che i poeti dovevano seguire nei loro componimenti.

La più antica delle letterature semitiche, quella in lingua accadica (babilonese-assira), nei suoi svariati generi di poesia, epica e lirica (v. babilonia: Letteratura), lascia scorgere un certo andamento ritmico, nonché la suddivisione delle parti d'una singola composizione (nella poesia lirica) in membri di lunghezza approssimativamente eguale (strofe). Ma in questi periodi ritmici non è dato riscontrare nessuna legge stabile né quantitativa né sillabica, né tanto meno accentuativa, data la scarsa conoscenza che si ha finora dell'accento accadico.

La poesia ebraica presenta una struttura che ha molta analogia con quella accadica, e neanche in essa è palese l'esistenza d'una metrica avente leggi stabili. A ritrovarne l'esistenza si sono affaticati gli studiosi con particolare interesse (naturale per l'importanza storica, religiosa, artistica della poesia biblica), ma i risultati finora conseguiti sono tutt'altro che sicuri. Anche nella poesia dell'Antico Testamento si riconoscono frequentemente certi periodi ritmici (talora anche distinti da un ritornello) e possono individuarsi strofe di 4 cola o versi, più raramente di 3. Tuttavia assai di rado, o forse non mai, è riuscito di dividere esattamente un qualsiasi componimento poetico della Bibbia in strofe assolutamente regolari; il che certo dipende in parte dallo stato di corruttela in cui il testo biblico è tramandato; ma deve peraltro far sospettare che la divisione strofica non fosse così rigorosa come, p. es., nella lirica greca. Un criterio, invece, quasi assolutamente sicuro è fornito per la divisione in cola dalla "legge del parallelismo dei membri", scoperta verso la fine del sec. XVIII, secondo la quale caratteristica dello stile poetico ebraico (in larga misura ciò si riscontra anche in quello accadico e negli scarsi avanzi di quello aramaico) è il procedere della frase secondo una serie di doppî versi dei quali il secondo ricalca l'andamento del primo, sia ripetendone la dicitura mediante espressioni sinonimiche, sia standole a contrasto con un numero eguale di termini e con disposizione simmetrica delle parti della proposizione. Si veda p. es. l'inizio del primo salmo:

Nella strofa a 3 cola il terzo conchiude, isolato, il parallelismo espresso nei primi due (Salmi, XXIV, 7):

La scoperta del parallelismo dei membri nella poesia ebraica è stata quanto mai feconda per l'intelligenza di essa, dimostrando l'esistenza d'una vera e propria composizione poetica colà dove l'antica esegesi non scorgeva che un innalzamento stilistico del linguaggio prosastico (p. es. nei libri profetici e sapienziali) e contribuendo efficacemente a rivelare, dove esso manca o è alterato, lacune e corruzioni del testo. Sennonché, isolato il singolo colon, è apparsa la difficoltà di ridurne entro leggi metriche regolari le infinite varietà ch'esso presenta. Gl'innumerevoli e disparati tentativi di costruire una metrica ebraica, fatti da un secolo a questa parte, non hanno condotto ad alcun risultato sicuro; sia che essi si siano volti alla ricerca d'una metrica quantitativa (inverosimile in sé stessa per la scarsa importanza che la quantità vocalica ha conservata nello sviluppo linguistico dell'ebraico), sia che abbiano posto a base del sistema l'accento (che inoltre ha subito molteplici spostamenti nel corso della storia della lingua ebraica). Uno dei sistemì che ebbero maggior fortuna, quello del Sievers, consistente nel postulare alcuni tipi di versi a due, tre, quattro arsi o battute, seguite da un numero presso che costante di sillabe indifferenti e scambiantisi frequentemente nel corso dello stesso brano, si rivela fallace per le conseguenze estreme a cui il suo stesso autore lo ha condotto, giungendo a scandire metricamente alcuni testi storici e legislativi, il cui carattere prosastico è indiscutibile. Altri tentativi sono da respingersi, a tacer d'altro, perché si fondano su emendazioni testuali del tutto arbitrarie. Se il fallimento delle numerose "metriche ebraiche" ha indotto taluni a disperare della soluzione del problema, è da osservarsi che, se forse l'ebraico non ha mai posseduto una metrica nel significato rigoroso della parola, esso sembra aver conosciuto una serie di periodi ritmici con un certo numero (per lo più 3 o 4) di arsi determinate da sillabe accentuate o almeno lunghe, seguito da un numero non costante, ma variabile a piacere, di sillabe pronunciate più o meno rapidamente in modo da essere contenute nello stesso spazio musicale; l'armonia del ritmo doveva essere ottenuta, piuttosto che mediante il numero delle sillabe, mediante la modulazione della voce in corrispondenza con l'accompagnamento musicale.

Una struttura peculiare della poesia ebraica (qīnāh) è stata riconosciuta verso la fine del secolo scorso dal Budde: essa consiste nell'alternanza d'un colon lungo con uno corto: p. es. II Re [Samuele] I, 19 (elegia di David su Saul e Gionata: il testo riprodotto è quello masoretico, e non è escluso che quello originale fosse un po' diverso):

Neanche questo tipo semplicissimo di strofa (il cui effetto generale non doveva essere troppo dissimile dalla strofa saffica greca) presenta un numero costante di sillabe.

Qualche cosa d'analogo alla libertà sillabica della poesia ebraica si riscontra nella poesia etiopica (e il parallelo è stato opportunamente rilevato, per i canti tigrè da lui pubblicati, da E. Littmann, in Zeitschr. f. Semitistik, II, 1924, 272), la quale, pur essendo di età recentissima, riflette una tradizione vetusta: anche in essa si hanno versi di lunghezza variabile, a due o tre arsi fortemente marcate, mentre le sillabe intermedie, anche se lunghe e accentuate, vengono conguagliate nella recitazione modulata: p. es. (Riv. d. Studi Orient., I, 1907, 213):

Nella poesia tigrè si ha anche traccia della rima.

La metrica aramaica sembra essere stata in origine analoga a quella ebraica. Tali almeno appaiono alcuni documenti nei quali si è recentemente riconosciuto un andamento ritmico, p. es. nell'iscrizione sepolcrale oggi a Carpentras, di provenienza egiziana (Corpus. Inscr. Semit., II, 141):

tali anche alcuni frammenti siriaci di Bardesane. Ben presto tuttavia a questa metrica primitiva se ne sostituì un'altra, fondata su un numero rigorosamente fisso di sillabe, da 4 a 7, spesso in distici, divenuta poi normale negl'inni e nelle omelie metriche di cui è ricca la letteratura siriaca. Se, oltre al numero delle sillabe, la metrica siriaca abbia anche altre leggi, d'accento o di quantità, è questione che la tradizione indigena ignora e che l'indagine moderna ha lungamente discussa, senza giungere a risultati certi. Come incerto rimane tuttora se la somiglianza con la metrica accentuativa e sillabica dell'innografia bizantina sia dovuta a semplice analogia o non piuttosto a derivazione dalla metrica siriaca (o viceversa, come alcuni vogliono, prestando fede all'asserzione della tradizione siriaca, che Bardesane o suo figlio Armonio abbiano introdotto in Siria, all'inizio del sec. III d. C., i "metri greci").

Di contro all'imprecisione che regna nel campo della metrica delle letterature semitiche fin qui ricordate, l'araba presenta un sistema compiutamente elaborato e ricchissimo di metri varî e complessi, che si fondano sulla quantità sillabica e sono costituiti da piedi analoghi a quelli della metrica greco-latina, e in cui sono anche ammesse sostituzioni di lunga a breve o a due brevi in determinate sedi. Il verso più semplice e primitivo (ragiaz) consiste in una tripodia giambica (⌣̅-⌣- ∣ ⌣̅-⌣- ∣ ⌣̅-⌣-, in cui il diiambo può assumere anche la forma -⌣⌣- e raramente ⌣⌣⌣-); gli altri, più complessi, si presentano sempre accoppiati in distici, e sono di 15 tipi diversi (con varianti entro uno stesso tipo), secondo il sistema tradizionale, del quale è ritenuto inventore il filologo Khalīl ibn Aḥmad, morto circa il 790 d. C. Quale sia il carattere ritmico e musicale originario dei metri arabi è tuttora discusso, come è incerto se essi possano tutti dedursi, come credono alcuni, dallo schema del ragiaz. Certo è che essi appaiono già rigidamente fissati fin dal periodo più antico per il quale si posseggono documenti (sec. VI a. C.); è peraltro verosimile che, accanto alle forme complesse proprie della poesia d'arte (qaṣīdah), altre più semplici, che troviamo adoperate nella poesia popolare più tarda e che si riaccostano al tipo del ragiaz, siano state in uso anche in tempi antichi, e che ne costituiscano la continuazione gli schemi odierni della poesia popolare. D'altra parte alcuni dei metri classici, sia pure con alterazioni abbastanza notevoli e con una certa irregolarità nello schema, sopravvivono nella qaṣīdah beduina contemporanea.

La poesia araba presenta, di fronte a quella delle altre lingue semitiche, un'altra particolarità: l'uso costante della rima (solo quella etiopica la possiede, ma con minore regolarità, e se ne hanno esempî, ma tardi, in quella siriaca), la quale anzi, nella poesia d'arte, persiste unica attraverso l'intero componimento, ed è regolata da leggi alquanto complicate. Una maggior libertà si ha, anche rispetto alla rima, nella poesia popolare medievale e moderna.

L'influsso che la letteratura araba ha esercitato sia quella siriaca ed ebraica del medioevo ha introdotto anche in queste il sistema della metrica araba (che peraltro ha sempre conservato un carattere alquanto artificioso): più scarsamente nella siriaca, con estensione molto maggiore nell'ebraica, specie in quella di Spagna; in metri arabi hanno scritto i più celebri poeti di quel periodo (v. ebrei: Letteratura postbiblica, XIII, 359).

Anche la poesia neopersiana (e per suo influsso quella turca osmanli sino al sec. XIX e quella hindustānī) si servì dei metri arabi, raggruppati in forme strofiche, alcune delle quali a essa peculiari (v. ghazal; mathnawī; rubāī, ecc.), e ignote invece alla poesia araba classica.

Metrica iranica. - Le condizioni in cui sono giunti sino a noi i testi dell'Avestā lasciano molta incertezza per una netta distinzione delle parti metriche da quelle prosastiche, che spesso appaiono le une nelle altre intercalate e confuse. Nelle parti d'indubbia composizione metrica, come le Gāthā, e gli Yasht, scorgiamo una metrica assai vicina a quella vedica. Le Gāthā sono anzi state distinte in gruppi in base al metro in cui sono composte: abbiamo così strofe di tre versi di 16 o 15 sillabe, strofe di 5 versi di 11 sillabe, strofe di 4 versi di 11 o 12 sillabe, ecc. Nelle parti metriche del Yasna prevale un verso di otto sillabe.

Ancor maggiore incertezza regna sulla metrica medio-persiana, data l'estrema scarsezza e alterazione della tradizione dei testi letterarî pervenutici. Peraltro recenti studî tendono a ritrovare negli stessi racconti epico-romanzeschi pehlevici (p. es. Ayātkār-i Zarērān) una struttura metrica e strofica, di cui è però ancora prematuro determinare le leggi. La poesia neopersiana segue interamente il sistema prosodico quantitativo e parzialmente gli schemi metrici della poesia araba.

Metrica indiana. - Presso gl'Indiani sono grandissimi il numero e le varietà delle forme metriche, le quali, se già nella pratica superarono, per tali caratteristiche, quelle d'ogni altra letteratura, nella teoria dei metrologi indiani raggiunsero possibilità determinabili soltanto con cifre iperboliche.

Le più antiche forme metriche, particolarmente quelle degl'inni del Ṛgveda, si possono considerare quasi soltanto di genere sillabico, ossia contenute pressoché esclusivamente in un determinato numero di sillabe, carattere questo peculiare all'arte poetica indo-iranica, mentre in tutta la metrica posteriore si sviluppò quel principio della quantità ch'era stato da prima circoscritto soltanto ad una porzione del verso. Così si formarono schemi metrici fissati nella quantità e, insieme, nel numero delle sillabe, e altri fondati soltanto sulla quantità.

Assai difficile, se non impossibile, è determinare le varie età nelle quali i varî generi ebbero rispettivamente origine e definitivo sviluppo, giacché, se è vero, ad esempio, che i metri di natura puramente quantitativa appaiono in opere di origine antichissima - ad es. in scritti canonici del jainismo e del buddhismo - non è men vero che la trasformazione definitiva dei metri vedici in certe forme postvediche risulta compiuta già in tempo notevolmente antico, poiché ricorrono nel Rāmāyaṇa e nelle parti del Mahābhārata di maggiore età.

I metri postvedici, sebbene si connettano in parte ai metri vedici, sono stati distinti da questi dai metrologi indiani e designati col termine laukika "profani", per quanto usati pur essi anche in poesia religiosa vera e propria. I metri vedici sono rappresentati da versi (pāda) di otto, undici, dodici sillabe, più raramente di cinque od anche di quattro sillabe. In tutti il ritmo preponderante nei più antichi documenti è il giambico. Gli ottonarî sono raggruppati in strofe (ṛc) di tre (nella più antica poesia ṛgvedica), di quattro e di cinque versi, strofe rispettivamente chiamate gāyatrī, anuṣôubh e paṅkti; gli endecasillabi, i dodecasillabi, i quinarî pure in strofe di quattro (risp. triṣôubh, jagatī, dvipadā virāj). Si hanno pure strofe miste di ottonarî e di dodecasillabi, di dodecasillabi e di quadrisillabi (i quali ultimi non costituiscono mai da soli una strofa), più specialmente di endecasillabi e di dodecasillabi e finalmente di ottonarî con endecasillabi e con dodecasillabi.

I metri profani (laukika) sono stati raccolti dai metrologi indiani nelle seguenti classi:

1. Mātrāchandas: cioè quei metri (chandas), il cui numero delle more (mātrā) è determinato. Limitatamente a certe restrizioni può una mora fondersi con la seguente. Dalle varie possibili fusioni delle singole more sorgono i tipi diversi di metri.

2. Gaṇacchandas: i metri, il cui elemento costitutivo è il gaṇa, il piede, cioè, risultante di quattro more. Il numero dei gaṇa è in questi metri stabilito e dal variare di esso o della diversa specie dei gaṇa stessi (secondo, cioè, il diverso aggruppamento delle quattro more) in particolari sedi, varia il tipo del metro.

3. Akṣaracchandas o vṛtta: i metri che hanno il numero e la quantità metrica delle sillabe (akṣara) componenti il verso (vṛtta) determinati. Questi metri si distinguono alla lor volta in tre categorie: viṣamavṛtta, ardhasamavṛtta, samavṛtta, secondo che la strofa consti di versi (vṛtta) tutti diseguali metricamente fra loro o eguali due a due o tutti eguali.

Alcuni trattati distinguono i metri in due grandi classi: jäti o metri di base solo quantitativa (mātrāchandas e gaṇacchandas), e akṣaracchandas, di essenza quantitativa e numerica.

Diretto continuatore della vedica anuṣṭubh è il vaktra o śloka, il celebre metro epico della classe dei viṣamavṛtta, consistente in una strofa di quattro ottonarî, nei cui pāda dispari alle sillabe 5-8 ricorre come normale (pathyā) la misura ⌣--⌣⌣̲, mentre nelle sillabe 5-8 dei pāda pari (cioè all'uscita delle due semistrofe: ardhaśloka) è riaffermato senza eccezione l'antico ritmo giambico (⌣-⌣⌣̲). Nelle sillabe 1-4 dei pāda dispari e pari sono rispettivamente possibili 12 e 10 forme metriche. È facile comprendere come dalle combinazioni di tante varietà (alle forme normali si devono aggiungere quelle con altri schemi metrici, pur determinati, nelle sillabe 5-8 di a, c: vipulā) possa risultare un numero pressoché sterminato di forme di śloka.

Alla classe dei samavṛtta appartengono due metri rispettivamente di 11 e 12 sillabe (indravajrā-upendravajrā, indravaṃśā-vaṃśasthā), direttamente derivati dalla triṣṭubh e dalla jagatī vediche, e molti altri originati da uso dell'intero pāda triṣṭubh-jagatī assai modificato, o di parte di esso. Notevolissimo è il numero (assai superiore al centinaio) delle forme metriche postvediche pur praticamente usate.

I primi cenni di teoria metrica indiana si hanno nel Śāṅkhāyana-Śrautasūtra, nel Nidānasūtra, nel Ṛk-Prātiśākhaya e nelle Anukramaîī di Kāṭyayana al Ṛgveda e al Yajurveda. Un vero e proprio trattato di metrica, fondamentale, si ha nel Chandaḥsūtra "Le regole della metrica" di Piṅgala (II a. C.), nel quale sono particolarmente descritti i metri laukika (160); da esso derivano chiaramente il cap. XIV e XV del Nāṭyśāstra e i capitoli 328-334 dell'Agnipurāṇa, che trattano ugualmente di metrica. Altri trattati si hanno col titolo Śrutabodha "L'apprendimento del sapere", attribuito, ma senza ragione, a Kālidāsa, il Suvṛttatilaka "L'ornamento dei bei metri" di Kṣemendra (sec. XI), il Vṛttaratnākara "L'oceano dei metri" (anteriore al sec. XV), la Chandomañjarī "Il mazzo di metri" di Gangādāsa, il Chandonuśāsana "L'insegnamento dei metri" di Hemacandra (see. XI-XII), il Vānībhūṣana "L'ornamento dei suoni" di Dāmodara, descrizioni di metri s'hanno pure nella Br̥hatsaṃhitā di Varāhamihira.

Bibl.: Th. Colebrooke, Misc. Essays, II, p. 63 segg.; A. Weber, Über die Metrik der Inder, in Indische Studien, VIII (1863); F. Belloni-Filippi, La metrica degli Indi, I: La poesia religiosa, in Studi di fil. indo-iranica, VIII (1912), pp. 1-47; A. Ballini, La metrica degli Indi, II: La poesia profana (laukika), ibid., pp. 1-168; H. Jacobi, Über die Entwicklung der indischen Metrik in nachvedischer Zeit, in Zeitschr. d. deutschen morgenl. Gesellsch., XXXVIII (1884), pp. 590-619 (cfr. pure XL, pp. 336-342); R. G. Bhandarkar, in Proceed. and Transactions of the first Orient. Congr., I, Poona 1919, p. clvi segg.

Metrica classica.

Metrica greca. - La metrica greca si fonda essenzialmente sulla regolata alternanza di sillabe lunghe e brevi, ciascuna delle prime di durata doppia di ciascuna delle seconde. I moderni e particolarmente gl'Italiani, perché delle quantità come durata nella loro lingua e nei dialetti dell'Italia centrale che le hanno servito di fondamento non si conservano se non tracce deboli e scarse, seppure sicure (di più ne hanno altri dialetti, sempre tuttavia solo in sillabe accentate), non possono illudersi di sentire immediatamente il verso antico. La scuola della maggior parte delle nazioni civili, e da qualche anno anche l'italiana, cerca di rimediare come meglio può a questo difetto, accentuando espiratoriamente, dinamicamente, la lunga (o le lunghe) fissa di ciascun piede o, dove questa sia sciolta, la prima delle due brevi che la sostituiscono. È contestabile in qual misura questa pronuncia (utile, anzi necessaria perché ridona al metro antico un ritmo di cui esso sarebbe del tutto privo per i nostri orecchi moderni) corrisponda a quella originaria.

Per l'esistenza di un ictus nel verso greco si possono portare parecchi argomenti: così l'uso di certi metri in canti di marcia e di lavoro; così l'alternanza e anzi la responsione di forme che differiscono fra loro per una breve in più o in meno: essa ha analogie precise nella ritmica germanica fondata sull'accento d'intensità (del resto anche in ritmica popolare italiana), e dall'accento d'intensità pare inseparabile. Meno probante è forse lo speciale privilegio che nell'esametro gode la prima lunga del piede e che manca alla seconda (là dove il dattilo è ridotto a spondeo), di poter essere costituita da sillabe brevi per natura, qualora la parola altrimenti non rientrasse assolutamente nel ritmo; qui a rigore si può ricorrere a un'altra spiegazione: la prima lunga era all'orecchio dei ritmici citati da Dionigi di Alicarnasso (De verb. 71, 8 Us.-Rad.) più breve della seconda, non era una lunga perfetta. A ogni modo l'ictus, se ci fu, fu debole: se fosse stato forte, avrebbe vinto sulla quantità e lasciato traccia nella pratica e nella teoria (sebbene di questa non molto ci sia rimasto).

In queste condizioni, poiché noi non sentiamo direttamente il verso antico, poiché il poco conservato dell'antica teoria non ci dà se non classificazione meccanica o speculazione inutile (v. efestione; eliodoro), poiché delle melodie che accompagnano la lirica pochissime ci sono rimaste, la dottrina della metrica greca non può essere se non descrittiva ed empirica e deve servire in primo luogo all'interpretazione e alla critica del testo. Tuttavia non è lecito disconoscere che la metrica greca negli ultimi trent'anni, da quando cioè si è liberata da una speculazione musicale fondata su basi che non potevano non essere ristrette, ha fatto grandi passi. Per i metri recitativi essa era già giunta a stabilire regole altrettanto sicure quanto sottili nella prima parte del sec. XIX; nella seconda metà del medesimo e in questi ultimi anni ha progredito molto lo studio delle forme di Pindaro e di Bacchilide e particolarmente dei cantica della tragedia (quelli d'Aristofane sono molto più semplici, tranne dove egli imita o parodia Euripide). Le difficoltà erano e sono qui gravissime: mentre i greci già in un periodo antichissimo vanno a capo dopo ogni esametro, trimetro, tetrametro, la lirica era scritta tutta di seguito, finché Aristofane di Bisanzio (v.) non la divise; ma non per versi bensì per membri, κῶλα, unità empiriche, che possono anche finire in mezzo alla parola. Ma già nel primo periodo dell'età alessandrina, nonché al tempo di Aristofane di Bisanzio, la tradizione delle complicate forme strofiche era perduta. Esse potevano essere rese intelligibili solo dalla musica, e proprio l'accompagnamento musicale pare non fosse di solito tramandato. È verosimile che uno studioso alessandrino non si trovasse rispetto a un cantico di Sofocle in condizioni molto diverse dalla nostra. La filologia moderna, liberatasi dalla colometria, ha tentato, ed è in gran parte riuscita, a restituire i versi, contraddistinti dalla pausa, dallo iato, dalla sillaba ancipite. Per l'analisi dei singoli versi è partita dalla considerazione che non solo responsione ma anche prossimità devono in ritmica indicare normalmente identità o parentela. Membri ritmici che sogliono stare insieme devono anche essere imparentati: massima fondamentale anche per l'analisi ritmica è: "Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei".

Dando nomi a singoli membri, la filologia è conscia di andar oltre le intenzioni dei poeti: questi in età preellenistica avranno composto a orecchio, sebbene Aristofane e i frammenti del ritmico Damone ci mostrino che già dalla fine del sec. V esisteva in embrione una terminologia metrica.

Qui ci limiteremo a caratterizzare brevemente alcune età e alcuni autori principalissimi, per quel che si riferisce ai versi lirici (per i metri recitativi v. elegia; epopea).

Che i Greci abbiano ereditato metri dal periodo indoeuropeo, non è né provato né probabile; influssi della popolazione indigena assoggettata, "egei", o "micenei", in sé probabili, si sottraggono del tutto all'indagine. Il periodo della polimetria si estende da Archiloco alla fine del sec. V. Archiloco compone solo strofe di due versi, ma ha già una grande ricchezza di combinazioni. Già in lui si manifesta una dualità che è poi proseguita per tutta la lirica greca: da una parte metri decomponibili in piedi, dattili, trochei, giambi; dall'altra brevi versi non decomponibili, evidentemente attinti a tradizione popolare, primitivi, per es., enoplio e itifallico. La strofa è sempre asinarteta, vale a dire cola di genere diverso sono distinti da fine di parola, iato, sillaba ancipite. I due lesbî, Saffo e Alceo, seguono nel comporre un principio del tutto diverso da quello che ha generalmente prevalso nella lirica greca: tranne in versi che, come i dattilici e gli "ionici", sono presi a prestito dalla lirica ionica, il numero delle sillabe è fisso, ignote quindi catalessi e sincope, ignota anche la soluzione d'una lunga in due brevi; invece la quantità delle prime due sillabe d'ogni verso è libera (di questa libertà evidentemente originaria c'è qualche traccia anche nell'esametro omerico, che è esso stesso d'origine eolica). Qui i versi brevi prevalgono sui membri analizzabili; strofe distiche o tristiche. Tutta questa lirica, sia archilochea, sia lesbia, è monodica, non corale. Strofe molto più complesse presenta il partenio di Alcmane; i singoli membri sono per lo più quelli di Archiloco (inoltre, tuttavia, numerosi ionici), e archilocheo è il principio della composizione (asinarteti); eolica è soltanto certa libertà quantitativa nella prima sillaba d'ogni verso; ma è conservato il principio ionico della sostituibilità d'una lunga a due brevi e viceversa. Solo l'estensione della strofa preannuncia la metrica simonidea e pindarica. Più semplici e più legate al modello archilocheo sono le strofe d'Anacreonte; non mancano tuttavia elementi nuovi, per es. il ferecrateo. Di grande importanza è l'introduzione dell'anaclasi nel ritmo ionico. Sono predilette combinazioni di elementi dattilici con trochei e giambi che già preludono ai dattili epitriti.

In Simonide troviamo già la triade pindarico-bacchilidea, vale a dire la strofa non si ripete più indefinitamente, ma a ogni coppia (strofe + antistrofe) segue una composizione diversa (epodo: schema dunque, a a b; a a b e così di seguito). Il numero degli elementi e delle combinazioni ritmiche è notevolissimo. Pindaro prosegue questa maniera e la sviluppa maggiormente; se in molti degli epinici prevalgono i dattilo-epitriti, cioè dattilo-trochei e dattilo-giambi, caratteristico è da un canto che tali versi non sono più asinarteti, cioè che il ritmo differente comincia spesso in mezzo alla parola, dall'altro che al principio di ciascun colon può stare una sillaba in più (v. anacrusi). Altri epinici sono composti di elementi di nature diversissime. È probabile che questa libertà e complicatezza sia determinata da sviluppo parallelo della musica e della danza. Più semplice è Bacchilide.

I cori del dramma attico si servono più largamente di tutti questi elementi che trattano con maggior libertà che non facesse la lirica ionica, seguendo probabilmente una tradizione popolare originaria, e ne aggiungono di nuovi; gli anapesti (provenienti dai Dori) e il docmio (che in Pindaro ha tuttavia per lo meno stadî preliminari). Qui la strofica si perfeziona ancor più: il complesso di strofe + antistrofe (l'epodo è qui facoltativo) non è ripetuto, ma ogni coppia di strofe ha il suo metro (dunque: a a (b); c c (d) e così via). Larghissimo l'uso, sin da principio, di metri catalettici e sincopati. La varietà, almeno nella tragedia, diviene sempre maggiore. È impossibile formulare qui in poche righe la caratteristica dell'arte metrica di ciascun tragico, sebbene attraverso l'immensa ricchezza si scorga in ciascuno di essi una certa unità di stile. Maggiore che negli altri due essa è in Eschilo: egli progredisce dai cantica formati di numerose coppie di strofette delle Supplici a quelli dell'Orestea, dove, quanto minori di numero sono le coppie, altrettanto più estesa è ciascuna di esse. La predilezione da un lato per ritmi dattilici, attinti a tradizione sacrale, dall'altro per giambi e trochei sincopati è evidente. Molto maggiore è la varietà in Sofocle (preferenza chiarissima per gliconei), in cui tuttavia si nota, con l'andare del tempo, un sempre maggiore avvicinarsi all'arte del suo emulo Euripide. In questo stesso si possono distinguere diversi stili; l'Euripide tardo mostra predilezione per metri giambico-coriambici (cosiddetti dimetri coriambici), nei quali il ritmo normale appare più schietto verso la fine del verso, mentre il principio ammette sostituzioni liberissime: sono, questi, ritmi con ogni probabilità attinti al popolo. Sono invece rari (fa eccezione la Medea di Euripide) i dattilo-epitriti.

La musica andò nel sec. V sempre più complicandosi, sinché il coro composto di cittadini dilettanti non poté più soddisfare le esigenze del pubblico. Questo mutamento ha lasciato chiare tracce anche nella metrica del dramma. Nelle tragedie più tarde di Euripide e di Sofocle le parti liriche più estese e più complicate sono affidate non più al coro, ma agli attori (evidentemente cantanti specializzati). Questi "canti della scena" (ᾠδαὶ ἀπὸ σκηνῆς) sono non più strofici (perché non più accompagnati da evoluzioni di danza) ma astrofici. Astrofico è il nomo di Timoteo, l'unico esempio d'una "poesia esclusivamente per musica", il quale ci mostra bene donde derivi tale trasformazione nelle parti liriche del dramma attico.

La commedia aristofanea è, di solito, ben più semplice: facili ritmi anapestici, giambici, trocaici, peonici (il peone, spesso in forma cretica) sono caratteristici della commedia.

Alla fine del sec. V scompare sia la strofica, sia, in genere, la polimetria; i dattilo-epitriti dei posteriori, che sono o si dànno composti per il culto, hanno un evidente carattere di secondarietà, d'imitazione: eccezione fa, tutt'al più, Cercida con i suoi meliambi, che combinano artificiosamente membri ricavati dall'esametro e dal trimetro. Spentasi la tradizione musicale, la poesia più alta diviene quasi esclusivamente recitativa, e contemporaneamente stichica. Del secolo IV poco possiamo dire, perché in esso la poesia fu sostituita quasi completamente dalla prosa d'arte. Ma gli Alessandrini adoprano κατὰ στίχον, cioè in successione continua, versi, sia attinti all'antica lirica lesbica e ottenuti mediante analisi dei cantica della tragedia, sia anche talvolta inventati da essi medesimi. Questi non numerosi metri essi trattano con singolare severità e raffinatezza, introducendovi cesure fisse e limitando estremamente ogni libertà. Da un certo punto in poi, diciamo dal sec. II, si rinunzia quasi completamente a versi lirici, si compone quasi esclusivamente in esametri, in distici, in trimetri. Ma anche l'esametro è legato da regole ogni giorno più rigorose. L'ode saffica di Melinno a Roma è un'eccezione, la quale tuttavia ci mostra come Catullo e particolarmente Orazio possono aver ricevuto dalla lirica greca contemporanea l'impulso al rinnovamento delle forme eoliche. A uno strato inferiore della letteratura, a una specie di produzione per caffè-concerto appartiene il "Lamento della fanciulla abbandonata", un carme astrofico, composto almeno in parte di docmî; esso è tanto sincero e bello poeticamente, quanto importante ritmicamente, perché Plauto può per i suoi cantica avere attinto in parte a letteratura simile.

Nel periodo ellenistico l'accento greco divenne di (prevalentemente) musicale (prevalentemente) espiratorio. Questo mutamento dové portare gradatamente alla comparsa della quantità. Ma si continuò per secoli a comporre versi secondo il principio quantitativo che nessuno sentiva più immediatamente. E anzi la forza della tradizione nella letteratura greca era tanta che l'influsso dell'accento si scorge forse per la prima volta solo nel trimetro di Babrio (v.). La metrica bizantina, dove non cerca di riprodurre l'antica, percepita con l'occhio e non con l'orecchio, si fonda su altri principî (v. bizantina civiltà: Letteratura, VII, p. 152).

Metrica romana. - I Romani, prima dell'introduzione dei ritmi greci, hanno poetato in un metro indigeno, il saturnio. È ormai accertato che il saturnio era essenzialmente quantitativo, composto di due membri minori, con arsi fisse e tesi libere, dunque un verso analogo a formazioni popolari greche come il paremiaco e l'enoplio e particolarmente ai cosiddetti dimetri coriambici (v. sopra: Metrica greca). Ma già il più antico poeta d'arte di cui abbiamo notizia, Livio Andronico, che pure traduce in saturnî l'Odissea, imita i due versi principali dialogici del dramma greco, il trimetro giambico e il tetrametro trocaico. Ma questa recezione è insieme una geniale creazione: il senario latino ubbidisce a tutt'altre regole che il trimetro dei tragici e anche dei comici: il versus quadratus è tutt'altro che il tetrametro. La distinzione tra sedi pari e dispari scompare; scompare ogni riguardo alla legge di Porson (v. giambo, XVI, p. 954); piedi trisillabi, e persino quadrisillabi (proceleusmatico) sono ammessi in ogni sede del verso, tranne l'ultima. Con tutto ciò non si può dire che i metri dialogici dell'antico dramma romano siano meno legati dei corrispondenti della tragedia; le leggi che regolano il senario sono severissime tutte e specialmente quelle che riguardano l'ultima parte di esso. Pare sicuro (nonostante che di nuovo siano stati sollevati dubbî in tempo recentissimo) che alcune regole dipendano da una voluta relazione tra l'ictus del verso e l'accento delle parole (il che rende certo, altrimenti che per il verso greco, un ictus espiratorio, e dà pure certezza che l'accento di parola era non solo musicale ma già, in qualche misura, espiratorio, dinamico). Per il verso quadrato è quasi certo che esso era già passato per il tramite della letteratura popolare italiotica (Taranto? Campania?) nella letteratura popolare latina. E per ambedue i versi dialogici è probabile che Livio Andronico subisse l'influsso di quella prosa sacrale che era non già peculiare dei Latini ma comune a tutti gl'Italici. Quest'influsso si scorge chiaro nell'allitterazione, frequentissima ancora in Plauto.

L'esametro greco è imitato dai Romani più tardi, per opera di Ennio: qui la trasformazione è molto meno radicale. Lo stesso si dica del distico, parimenti introdotto nella letteratura romana da Ennio.

Il periodo arcaico della letteratura latina è anche quello della più ricca polimetria. La commedia di Plauto traspone una parte dei suoi esemplari in versi lirici (v. commedia: La commedia romana). I cantica sono di composizione assai varia: anapesti (il metro che esige e ammette le maggiori libertà prosodiche), trochei, ionici, coriambi, gliconei, fors'anche docmî. Uno sviluppo ben maggiore che nella tragedia greca ricevono i cola reiziana, usati da Plauto in congiunzione costante con dimetri giambici (versus reizianus) anche in lunghe serie stichiche. Ma specialmente sorprende chi venga a Plauto dallo studio del dramma greco, il preponderare dei cretici e dei bacchei. La maggior parte di tali cantica è astrofica come i canti ἀπὸ σκηνῆς della più tarda tragedia greca (v. sopra) a cui essi si avvicinano anche in quanto sono quasi esclusivamente monodici; solo una piccola parte appare strofica da ricerche recenti. La forma strofica sarà stata determinata da danze (o meglio da leggieri movimenti di danza) che l'attore compieva nel recitare, o da responsione (musicale in caso di dialogo).

Donde avrà Plauto attinto almeno la maggior parte di queste forme? In passato si pensava a influsso della polimetria ellenistica, quale sopravviveva in generi drammatici popolari o quasi, nel cosiddetto "caffè-concerto"; e questo nessuno nega del tutto. Ma attualmente s'inclina a ritenere che Plauto per lo più attinga i suoi metri lirici ai cantici dei tragici romani predecessori e contemporanei. Questi avranno alla loro volta attinto a Euripide e avranno svolto ulteriormente l'arte d'Euripide. Anche quest'ipotesi, probabile, non toglie di mezzo, tuttavia, ogni difficoltà. Il prevalere di cretici e bacchei è ad ogni modo geniale pensiero degli artisti romani, i quali scelgono il ritmo più adeguato alle condizioni quantitative della loro lingua.

La polimetria è già fortemente ridotta in Terenzio: negli ultimi tempi repubblicani solo Varrone nelle satire ha una certa ricchezza di forme. La polimetria plautina è a quel tempo già morta: Orazio non ha più orecchio per l'arte metrica di Plauto. L'intelligenza di essa era a lui ostacolata dalla rapida mutazione prosodica della lingua latina in quel periodo: Plauto mantiene ancora (almeno in certi punti del verso) lunghe finali originarie; sopprime l's finale ad libitum, dopo vocale breve dinnanzi a parola che comincia con consonante (se anche tra vocali, è dubbio), sincopa l'e finale di alcune congiunzioni e pronomi. È controverso ancora tra moderni in che generi di verso e in che sede egli possa avere usato come pirrichica una serie giambica di sillabe accentate sulla prima o che precede immediatamente l'accento: è sicuro che conviene distinguere anche tra singole parole. Di tutto questo l'età augustea non poteva avere idea.

Un secondo periodo della metrica romana comincia con i neoterici verso il 100 a. C. Mentre in quest'età l'esametro si raffina, dandosi leggi ignote al modello greco, i poeti lirici, da Levio e Mazio in poi, si studiano, contrariamente alla tendenza dell'età precedente, di riprodurre il più esattamente possibile alcuni metri greci, quelli che nell'età ellenistica erano ancora adoprati stichicamente; nello stesso tempo al senario si sostituisce il trimetro greco, che Catullo riesce in due brevi poesie, capolavoro di virtuosità, a costruire esclusivamente di giambi puri. Ma il numero dei metri lirici imitati è esiguo: la riproduzione dei galliambi (callimachei?) per opera di Catullo nell'Attis è singolare eccezione. Successo duraturo, come ci mostra il libretto di Catullo, hanno soltanto lo scazonte e l'endecasillabo falecio (ripresi poi da Marziale). La strofica di Catullo è singolarmente semplice: oltre la saffica (che Melinno ci attesta continuata anche nel periodo ellenistico) poche strofe gliconee (una volta è adoprato stichicamente l'asclepiadeo maggiore).

Maggior ricchezza mostra la lirica oraziana, non tanto negli Epodi quanto nelle Odi. Qui il poeta riprende buona parte dei metri adoprati dai Lesbî. Ma egli li costruisce con molto minore libertà, con molto maggiore severità, anzi rigidità. Proseguendo per la strada già additata dagli alessandrini e da Catullo, egli introduce in tali forme, originariamente destinate al canto, la cesura propria del verso recitativo: recitative esse erano già divenute nel periodo ellenistico. È soppressa la libertà eolica del principio del verso: il primo piede deve essere sempre spondeo, come spondeo è il piede innanzi alla cesura nell'endecasillabo saffico e in quello alcaico.

Da Orazio in poi, per un lungo periodo, scompare anche questa limitata ricchezza di forme: qualche resto polimetrico nei carmi inseriti nel romanzo di Petronio, forse per influsso varroniano. I cantica di Seneca, dove non sono anapestici, combinano variamente versi oraziani. Solo il plebeo Fedro rinnova, invece del trimetro, il vecchio senario romano. In ciò egli previene gli arcaisti dell'età adrianea (dei quali del resto ben poco ci rimane).

La polimetria rinasce artificialmente verso la fine dell'età antica: esempî ne forniscono, tra gli altri, Ausonio e Prudenzio. Ma per questi posteriori è probabile quello che per Orazio è certamente falso: che essi attingano i loro schemi a manuali metrici; che prendano sul serio e applichino praticamente forme che i metrici avevano costruite per comodo d'analisi. Proprio in quei secoli, divenuto l'accento sempre più esclusivamente espiratorio, il senso vivo della quantità si ottundeva. Non alludiamo già alle tenui tracce che singole evoluzioni linguistiche, quali l'abbreviazione graduale dell'o finale, lasciano anche nella miglior poesia del tempo imperiale, ma a qualcosa di molto più profondo: un poeta cristiano forse del sec. III d. C., Commodiano, osserva la quantità solo nelle due ultime sedi dei suoi esametri.

Bibl.: Metrica greca. - Il manuale di W. Christ, Metrik der Griechen und Römer (2ª ed., Lipsia 1879; poco più che una riduzione italiana è Fr. Zambaldi, Metrica greca e latina, Torino 1882) era fin da principio insufficiente, ed è ora totalmente antiquato. La grande opera di Rossbach e R. Westphal, Metrik der Griechen und Römer (2ª ed., Lipsia 1867-68) è troppo concatenata con speculazioni su musica e troppo costruttiva per poter essere veramente utile. Il libro più ricco per la quantità delle osservazioni empiriche e delle analisi è quello di U. v. Wilamowitz, Griechische Verskunst, Berlino 1921. Sui termini ritmici orienta bene O. Schröder, Nomenclator metricus, Heidelberg 1929, in ordine lessicale, necessario per principianti. Le Vorarbeiten zur griechischen Versgeschichte, Lipsia 1908, e il Grundriss der griechischen Versgeschichte, Heidelberg 1930, del medesimo autore sono troppo legata postulati arbitrarî; più utili la sua analisi dei cantica dei tragici e di Aristofane (Lipsia, dal 1907 in poi, seconde edizioni assai recenti) e il suo testo di Pindaro (ibid., 2ª ed., 1914). Elabora benissimo i concetti generali e tratta completamente i versi recitativi in un numero minimo di pagine P. Maas, Griechische Metrik, nell'Einleitung in die Altertumswissenschaft, di Gercke e Norden (2ª ed., Lipsia 1929). Un tentativo italiano di nuova teoria metrica: N. Festa, Ricerche metriche, Palermo 1926. - A favore dell'ictus nel verso greco: P. Von der Mühl, Rhythmus im antiken Vers, Aarau 1918; contro, dopo Fr. Nietzsche, Philologica, II, 1912, pp. 281, 335, specialmente R. Wagner, Philologus, LXXVII (1921), pp. 300 segg.; LXXIX (1923), p. 210. Sulla responsione: P. Maas, Responsionsfreiheiten, in appendice al Sokrates, 1913 e 1921.

Metrica romana. - Nulla ha più nociuto allo studio della metrica latina che l'essere considerata esclusivamente quale un ramo di quella greca; in manuali che trattano di metrica greca e romana (v. sopra la bibl. della Metrica greca) essa è trattata in modo insufficiente. Ora un breve riassunto storico di Fr. Vollmer, Römische Metrik, nell'Einleitung in die Altertumswissenschaft di Gercke e Norden, I, Lipsia 1923, mostra spiriti storici, ma è ancora insufficiente. Dall'ottima raccolta di materiali di L. Müller, De re metrica poetarum latinorum praeter Plautum et Terentium, 2ª ed., Pietroburgo 1895, è esclusa proprio la metrica arcaica, la più interessante. Per questa R. Klotz (Grundzüge altrömischer Metrik, Lipsia 1890), era già antiquato quando uscì; W. Lindsay (Early latin verse, Oxford 1922), è confuso. Un'introduzione alla metrica e prosodia plautina è un bisogno urgente. - Sul saturnio: F. Leo, Der saturnische Vers, in Abhandlungen der Göttinger Gesellschaft, 1905; sulla prosa sacrale italica: C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa, Berlino 1906. Sulla recezione popolare del tetrametro trocaico prima di Livio Andronico: E. Fraenkel, in Hermes, LXII (1927), p. 357 segg. - Sull'ictus nel verso dialogico dei comici e le sue relazioni con l'accento: E. Fraenkel, Iktus und Accent im lateinischen Sprechvers, Berlino 1928; G. Pasquali, in Riv. di fil., LVIII (1930), p. 157 segg.; in senso contrario: H. Drexler, Plautinische Akzentstudien, Breslavia 1932 (voll. 2). Sull'origine dei cantica: F. Leo, Die plautinischen Cantica und die hellenistische Lyrik, in Abhandl. der Göttinger Gesellschaft, 1897 (il titolo mostra la tendenza). La dottrina seguita nel testo è di E. Fraenkel, Plautinisches im Plautus, Berlino 1922, p. 321 segg. Sulle difficoltà ha richiamato l'attenzione O. Immisch, Zur Frage der plautinischen Cantica, in Heidelberg. Sitz-Ber., 1923. La responsione è stata dimostrata, più largamente che dai precedenti, da F. Crusius, Die Responsion in den plautinischen Cantica, in Philologus, Suppl., 21, 1929 (non tutto è puro). - Sulla prosodia plautina, fondamentale ancora: C. F. W. Müller, Plautinische Prosodie (Berlino 1869); id., Nachträge (Berlino 1871). Sulla lex iambica specialmente importanti i lavori di G. Jachmann, particolarmente Studia prosodiaca, Marburgo 1912 e in Glotta, VII (1916), p. 29 segg. - Che Orazio non compone i suoi versi a norma d'un manuale, ma prosegue una tendenza già ellenistica ha mostrato R. Heinze, Die lyrischen Verse des Horaz, in Sächs. Ber., LXX (1918).

Metrica medievale e romanza.

La metrica di tipo classico è sopravvissuta per tutto il Medioevo assieme alla tradizione della lingua letteraria; anzi ritornava con l'umanesimo, ripristinata per vie esclusivamente dotte e libresche, quando già era obliata e definitivamente sostituita dalla nuova versificazione romanza. Ma a parte questa tarda e studiosa riesumazione, il sentimento dell'antica metrica s'era ormai smarrito assieme al senso quantitativo delle lingue classiche. Cogliere il momento, o meglio i varî momenti (ché il processo fu lento e graduale), in cui si venne a sostituire un nuovo tipo linguistico a quello tradizionale, e individuare i modi, i paesi, gli ambienti attraverso cui si effettuarono i trapassi e le differenziazioni, varrebbe anche a ritrovare e intendere le fonti e le prime esigenze della metrica medievale e romanza e perciò della metrica moderna. Quella che si manifesta come una radicale rivoluzione, operatasi nella tecnica metrica è, in definitiva, effetto della stessa trasformazione verificatasi in seno alla struttura linguistica. I primi indizî di questo mutamento si possono rintracciare fino dal periodo imperiale, durante i secoli III e IV, quando lentamente l'accento melodico della parola, il quale si rivelava per una lieve sfumatura piuttosto di tensione che di vera e propria intensità, si veniva a trasformare nella parlata degli strati popolari e meno letterarî in accento fortemente espiratorio, fino a prevalere e a soppiantare del tutto l'elemento musicale: il che voleva dire l'abbandono del senso quantitativo su cui fino allora s'era fondato il vocalismo classico, che, invece, veniva ad assumere un nuovo sistema, basato esclusivamente su una distinzione di timbri (le vocali lunghe e brevi della lingua classica si tramutavano nel linguaggio popolare in vocali chiuse e aperte). Una volta avviata questa evoluzione - che, sebbene attestata verso la fine dell'impero, rimane però oscura nelle sue fasi e nelle sue cause -, si possono dire sorti i principî della nuova ritmica.

Scartata definitivamente l'ipotesi d'una poesia sillabica e accentuativa preesistente alla metrica classica e della quale sarebbe rimasta una testimonianza arcaica nel verso saturnio, mentre l'uso si sarebbe continuato per vie popolari e latenti attraverso i secoli, fino a risalire alla superficie letteraria nel periodo della decadenza (tesi erronea; v. sopra: Metrica romana), appare sempre più congrua e più storica la spiegazione che si fonda sul processo evolutivo della metrica classica in ritmica bassolatina, corrispondente al mutamento generale della lingua. Tuttavia l'altra teoria dell'origine semitica (di cui si è fatto autorevole sostenitore W. Meyer aus Speyer), secondo la quale la nuova ritmica non sorgerebbe spontaneamente dal suolo latino, ma sarebbe promossa dall'innografia cristiana d'importazione ebraica diffusasi per il tramite siriaco-bizantino, offre degli addentellati storici più concreti e sembrerebbe trovare una valida riprova nell'uso della salmodia, del canto antifonico, dell'innologia, praticato nei monasteri e nelle chiese orientali sull'esempio del rito ebraico, dove appunto pare che la recitazione melodica si fondasse principalmente sugli accenti delle parole (tesi, questa, assai problematica e sorretta da pure congetture filologiche), e trasmessosi in seguito nell'Occidente, dove avrebbe introdotto assieme all'elemento musicale le consuetudini ritmiche e sillabiche. Ma si tratta, in ogni caso, di fatti indipendenti, forse anche simultanei, la cui coincidenza avrà potuto rafforzare e generalizzare il fenomeno: al tempo della prima innografia con Ilario di Poitiers in Gallia e S. Ambrogio in Milano (sec. IV), esisteva già nel suolo latino il senso accentuativo della lingua e presso il popolo si praticava ormai largamente il verso con trattamento ritmico, se non proprio sillabico; probabilmente il canto liturgico ne accelerò la trasformazione nel campo più propriamente letterario, ne rese comune l'uso nelle varie provincie occidentali e spesso ne trasse, da questa produzione popolare e profana, quei motivi e movimenti d'ispirazione più consoni al senso religioso. È del resto sintomatico il fatto che fra tutti gl'inni attribuiti dal Medioevo a S. Ambrogio, in quei pochissimi che sono sicuramente autentici, si osserva ancora la metrica classica, mentre gli altri di fattura posteriore (secoli V e VI) sono trattati ora con le norme metriche, ora secondo il nuovo principio ritmico. Viceversa risulta che fin dal sec. III le clausole prosastiche dei documenti ufficiali cominciano a sostituire al cursus metrico il ritmo accentuativo: fatto, questo, assai importante, non solo per il suo valore indiziario, ma anche per i suoi sviluppi ulteriori, poiché in seguito la nascente prosa romanza terrà presente il ritmo prosastico degli scrittori medievali, come largamente è stato riscontrato nella prosa italiana del periodo preumanistico, confermando ancora una volta la forte azione dell'eredità latina nel corso della cultura medievale-romanza. Con il dileguo progressivo del senso quantitativo, avveniva perfino che qualche poeta, come Commodiano (d'epoca incerta, ma non prima del sec. III né dopo il V), volendo comporre esametri classici senza sentire più la quantità vocalica, faceva avvertire sotto la vana ricerca dei moduli metrici il ritmo volgare. Sono sintomi: ma è già deliberatamente ritmico e assonanzato il Salmo abbecedario (intorno al 393) di S. Agostino, che scriveva quando ormai era sicura e diffusa la coscienza della nuova versificazione.

Infatti fino dal sec. IV i trattatisti di metrica contrappongono al metro letterario il rhythmus volgare, popolare, indotto, il cui nome specificava il carattere essenzialmente accentuativo della nuova poesia e che rimase a indicare per tutto il Medioevo questo particolare genere di versificazione rispetto a quello della metrica prosodica. Diomede (Ars grammatica) e specialmente Mario Vittorino (Ars Palaemonis), entrambi della seconda metà del sec. IV, lo definiscono come "verborum modulata compositio non metrica ratione, sed numerosa scansione ad iudicium aurium examinata, ut puta veluti sunt cantica poetarum vulgarium", e l'ultimo insiste sul fatto che, mentre il metro è sempre ritmato e misurato, il ritmo viceversa è ritmato ma giammai misurato. Più tardi Beda (De metrica arte), che riferiva fedelmente il passo citato, specificava anche la natura sillabica del ritmo (sostituendo numerosa scansione con numero syllabarum) e notava il fatto importantissimo che il rhythmus mentre appare di fattura "rustica" presso i poeti volgari, è invece nobilitato dagli scrittori dotti secondo i "metri giambici" e "trocaici" dei classici, "come avviene - aggiunge lo stesso Beda - in quel bellissimo inno: O rex aeterne domine, e in molti altri inni ambrosiani". Così è chiaramente indicato il trapasso e la sovrapposizione del nuovo principio accentuativo sugli schemi classici, dei quali, una volta dileguatosi il senso vivo della quantità vocalica, non rimase che quel certo numero o cadenza di arsi e tesi, quale risulta dalla semplice lettura, alle quali bastava far coincidere rispettivamente le sillabe accentate e quelle atone, specie nelle parole che chiudevano il verso, per ottenere la nuova ritmica. In tal modo finirono col prevalere alcuni tipi di versi e di piedi finali, a cui più facilmente poteva adattarsi l'indole accentuativa della parola più giovane e popolare, venendosi a continuare e diffondere in particolar modo gli schemi giambici, trocaici, asclepiadei, ecc. Si stabiliva così, dopo i secoli V e VI, un tipo di poesia che per la novità della tecnica e del contenuto costituisce uno dei prodotti più originali del nostro Medioevo: attraverso l'innografia e connessa al canto liturgico, la ritmica entra nelle scuole ecclesiastiche, fa parte dell'insegnamento ufficiale, si costituisce una sua particolare precettistica; in servizio della musica sacra, che nei primi secoli fu puramente orale, si arricchisce di nuovi tipi ritmici, come le prose o "sequenze" sorte per fornire il testo alle note dell'alleluia; nei centri della cultura monastica si stabilisce una vera e propria tradizione: le scuole clericali, da Metz a Reims, da Nevers a Chartres, e soprattutto quella di S. Marziale di Limoges e l'altra gloriosa e antica di S. Gallo, dànno teorici e compositori, che, sempre in funzione della musica e del canto religioso, perfezionano l'uso della ritmica (celebre su tutti, per l'impulso dato al ritmo sequenziale, Notkero Balbulo del sec. X, a S. Gallo). Entriamo in un periodo che si estende per più secoli, in cui la tradizione letteraria agisce e a sua volta assimila i nuovi apporti volgari: lo stesso umanesimo carolingio, che intese restaurare la conoscenza del latino classico, finì col favorire le forme della cultura volgare, poiché nel distacco più deciso creatosi fra la lingua letteraria e quella popolare, si sentì la necessità di predicare perfino nel volgare romano o tedesco, effettuandosi e accelerandosi lo scambio fra i due tipi di cultura, e promovendosi anche l'imitazione e la traduzione dalla lingua ecclesiastica in quella volgare, con il ricalco della verseggiatura dei canti sacri (di questa natura va considerato il ritmo di Eulalia, composto nel francese d'oil, a metà del sec. X). A noi interessa la ritmica di contenuto più laico, che, anche se scritta da gente di chiesa e fiorita in ambienti clericali, riflette con maggiore risolutezza gli atteggiamenti e le immagini d'una cultura più profana, più vicina al tipo romanzo. In questo senso la maggiore e più originale fioritura della ritmica latina è raggiunta nei secoli X-XII, in quel vasto movimento spirituale e umanistico operatosi soprattutto, in Francia per vie sempre ecclesiastiche, ma con echi e interessi più larghi e più varî, contemporaneamente e in strette e molteplici interferenze con la nascente letteratura volgare: si tratta di quella produzione che va sotto il nome generico e improprio di poesia goliardica (v. goliardi), svoltasi specialmente nei centri di maggiore intensità culturale (San Gallo, Lilla, Reims, Orléans, Chartres, Parigi), apparentemente d'ispirazione anonima, e, viceversa, opera, in massima parte, di spiriti colti, addestrati nella lingua letteraria e nei metri classici, esperti di musica e di ritmi, come Abelardo, Ilario, Adamo di S. Vittore, Gualtiero di Map, Gualtiero di Châtillon, Ildeberto di Lavardin, e, d'ordine più giullaresco, Ugo primate d'Orléans, l'Archipoeta, ecc. In questa poesia sono portati a maturità estrema gli elementi che stavano a base di quegli antichi rhythmi: l'accento ritmico, lo schema sillabico, l'assonanza e la rima, la formazione strofica. Nei Carmina Burana, ad es., predominano i tipi di ritmi e di versi più rapidi, con una ricca, frequente e incalzante accentuazione; vi compaiono i versi lunghi e brevi, con prevalenza di questi ultimi (tetrametri trocaici e tetrametri giambici acatalettici; dimetri trocaici e dimetri giambici acatalettici; asclepiadei, ecc.); si fa uso e anche abuso del giuoco della rima, della rima sdrucciola, della rima ricca, della rima al mezzo; si costruiscono strofe lunghe e brevi, con una sola rima e con varietà di rime, con versi uguali e con versi misti: complessivamente una poesia nervosa, precipitosa, con predominio degli elementi tonici, la quale (per quanto ci sfugga in che misura agisse su di essa lo schema melodico, al quale era sempre strettamente connessa) ha un movimento fortemente cadenzato quasi a ritmo di marcia. Essa rappresenta la parte più viva, nuova e attuale della cultura poetica medievale in lingua latina: al di sotto della parola tradizionale vi traspare il linguaggio popolare, con i suoi particolari motivi pratici e spirituali, con il senso della gioia e dell'amore, della primavera e della vita, della fede e della ribellione.

Rispetto a questa ritmica, che si serve ancora del latino, la più antica versificazione romanza presenta non poche affinità (storicamente confortate, peraltro, dalla viva e continua azione culturale esercitata dalla Chiesa), che tuttavia sono meno profonde e, riguardo al problema delle origini, meno decisive di quanto si presuma. Non sono mancati i tentativi intesi ad assimilare ai ritmi medievali i versi romanzi, per molti dei quali risulta agevole stabilire un rapporto di derivazione, specie per i versi brevi (ottonarî, per es.), che continuano un verso originariamente lungo sdoppiato dalla cesura; e ancora una volta si può risalire ai tipi latini di tetrametri trocaici e giambici, giustificando qualche difformità con la diversa natura del volgare (la necessaria riduzione, nel francese, per es., di tutte le uscite al tipo piano e tronco). Così i primi poemetti nel volgare d'oil che provengono dagli ambienti clericali (Eulalia, Saint-Léger, La Passion) riecheggiano approssimativamente i ritmi bassolatini, specie se in questi ultimi si voglia ammettere (la questione è tuttora controversa) la lettura della parola latina secondo l'accento francese, per cui tutte le sdrucciole porterebbero un altro accento sull'ultima. Ma anche ammesso, in via generale, questo scambio, quando si considerano alcune zone tipiche della cultura più propriamente popolare e giullaresca, si avvertono forme e schemi risolutamente differenti, che presuppongono una particolare elaborazione, indipendente dai ritmi latini. Accade, cioè, che mentre dalla metrica classica si può giungere a questi ultimi per via evolutiva, per la versificazione romanza si sente invece un iato assai profondo, che non è possibile colmare con il solo tramite della ritmica medievale. Rispetto a questa, il verso epico francese e quello spagnolo, per es., risultano decisamente autonomi e rivelano una tecnica che pare affondare le sue radici in un terreno più originario e genuino; mentre nella ritmica dei secoli X-XII è assoluta la regolarità del numero sillabico, della rima, dell'accento ritmico, nella Chanson de Roland e nel Poema de Mio Cid il verso non è affatto isosillabico, la sua unica clausola è la pura assonanza, l'elemento tonico è assai ridotto, la strofa non possiede che una struttura elementare e uniforme. A questo proposito il verso spagnolo sembra attestare uno stadio più conservativo, se non propriamente più arcaico, poiché fluttua, in particolar modo nel Cid e nel frammento del Roncesvalles, da 11 a 18 sillabe, con evidente anarchia, sulla quale esercitano un'azione moderatrice l'assonanza e la cesura a metà del verso o poco prima (i tipi di emistichî variano senza regola: 7 + 7, 6 + 7, 7 + 8, 6 + 8, 8 + 8, di fronte alla regolarità del decasillabo francese: 4 + 6 o 5 + 7, e a volte il tipo a maiore). Si deve ammettere che il carattere isosillabico rappresenti una fase evolutiva del verso romanzo, il quale nella sua origine fu soltanto ritmico, come è largamente documentato nella lunga tradizione del decasillabo e dell'alessandrino in Francia, e specialmente dal verso epico in Spagna, che sembra riflettere e continuare una versificazione primitiva, che probabilmente dovette essere comune a tutto il dominio romanzo agli albori della poesia. È verosimile, cioè, che i tipi originarî e fondamentali della versificazione romanza si siano svolti dai vecchi ritmi popolari, da quei "cantica vulgarium poetarum" che sono attestati dai trattatisti dei secoli IV e V, e di cui i ritmi bassolatini rappresentano un dotto, regolare e sempre più differenziato adattamento, venendosi a creare una duplice tradizione sviluppatasi per vie parallele, senza che sia possibile delimitare sempre i loro rapporti.

Le più recenti e importanti indagini dei medievalisti, sia nel campo della filologia, sia in quello della musica, sono rivolte a rintracciare e ricostruire i frammenti e gli archetipi elementari di questa poesia di natura squisitamente popolare, che si generava e si trasmetteva inseparabilmente dalla musica e dal canto. Per comprendere, infatti, la natura e la storia dei nuovi metri non si può prescindere dal ritmo del canto, nel quale le sillabe assumono una "durata" e un'"energia" che non bisogna confondere con la loro quantità e con il loro accento tonico: così il decasillabo francese (apparso però nel Boeci provenzale, del sec. X-XI, già con un suo tipo di "lassa") e, in seguito, l'alessandrino non si possono classificare soltanto dal loro numero sillabico, ma occorre tener conto dell'elemento ritmico del canto (rispettivamente vanno da 10 a 12 sillabe, e qualche volta a 13, se non a 14, e da 12 a 14 e perfino a 15, secondo il valore della "pausa" alla fine degli emistichî, che è di natura musicale); e così l'ottonario spagnolo dei romances popolari, fin quasi al sec. XVI, offre sempre la fluttuazione d'una sillaba (in più o in meno) consentita dallo schema musicale. Tuttavia nel territorio d'oil predominò la poesia di tipo narrativo, che, in breve, da cantata divenne soltanto recitata (del resto la frase musicale delle Chansons de geste è semplice e quasi salmodiata, senza alcuna varietà), determinando tipi di versi più regolari: l'alessandrino, che è posteriore al decasillabo, rappresenta rispetto a questo una fase più normativa; e il distico ottonario, che è l'altro grande verso narrativo della Francia d'oil, in origine trattato come una sola unità, oltre che metrica anche logica e grammaticale (Saint Léger, La Passion), comincia a scindersi nella poesia ulteriore nei singoli versi; e se prima ha un accento di quarta, in modo che tutto il distico risulta di quattro dipodie eguali, con Chrétien de Troyes, che è poeta di poesia recitata, lo schema degli accenti è ridotto e poggia soltanto sulla rima. Viceversa nel grande sviluppo melodico a cui giunge la lirica trovatorica (in Provenza prima e di lì per tutto l'Occidente), i tipi di versi si arricchiscono di varie misure sillabiche, si rafforzano di accenti tonici, si dispongono in diverse combinazioni strofiche; ma vi predomina, in corrispondenza all'unità musicale che è sempre di valore ternario, il ritmo di tipo trocaico, giambico, dattilico, con o senza anacrusi. Tuttavia anche in questa poesia melodica, nel progressivo trapasso della letteratura a forme sempre più libresche e soltanto lette, anche il verso e la strofe finiscono con l'acquistare un loro schema metrico sentito al di fuori dell'elemento musicale (così è considerato dai trattatisti contemporanei), tanto che la melodia, a misura che si avvicina al Petrarca, non è indispensabile: è un mero ornamento, per il quale il poeta si vale dell'opera di un compositore specialista, come faceva Dante con Casella. Non soltanto agiscono sulla versificazione romanza gli elementi della musica e del canto, ma operano a differenziarla le singole desinenze linguistiche dei varî paesi, la particolare indole della materia poetica che si trasmette con proprî schemi, l'uso individuale che sempre rinnova la tradizione. Se, per es., il decasillabo epico d'oil, quello lirico occitanico e l'endecasillabo italiano si possono restituire a un medesimo tipo originario, la loro particolare costituzione risulta oltremodo differenziata: il decasillabo della Chanson de Roland, con il suo monotono andamento di tesi e antitesi, più da cantilena che da vero e proprio canto, non poteva adattarsi allo spirito melodico raffinato e vario dei trovatori, né poteva corrispondere alla natura della lingua italiana, più piana e più riposata, e tanto meno al contenuto spirituale di opere come, per es., la Divina Commedia, dove il pensiero rompe da un verso all'altro lo schema ritmico e non rispetta i limiti dell'unità metrica. Avviene che dove fortemente s'imprime il genio artistico, la versificazione obbedisce a un ritmo tutto interiore e individuale, allontanandosi sempre più decisamente dalla tecnica originaria, che continua soltanto a sopravvivere per trasmissione orale negli strati più incolti e popolari.

Bibl.: Per la ritmica medievale rimangono fondamentali le ricerche di W. Meyer aus Speyer, riunite sotto il titolo: Gesammelte Abhandlungen zur mittellateinischen Rythmik, Berlino 1905, voll. 2 (la tesi principale sull'origine semitica risale al 1883: Der Ursprung der Formen der mittelalterlichen rythmischen Dichtung); è tuttora chiara e acuta l'esposizione di U. Ronca, Metrica e ritmica latina nel Medioevo, I, Roma 1890. Per i testi e le singole indagini, si veda la bibliogr. alla voce goliardi. Per la metrica romanza, a parte le analisi di dettaglio, rivestono singolare importanza gli studî di F. D'Ovidio, raccolti in Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910 (specie Sull'origine dei versi italiani, 1898) e nel IX delle sue Opere complete (Versificazione romanza, Napoli 1932, specie La più antica versificazione francese, 1920, ove sono citati e discussi gli studî anteriori). Inoltre: A. Jeanroy, Les origines de la poésie lyrique en France au moyen âge, Parigi 1889; 3ª ed., 1925; ma per le origini e per la poesia popolare sono di particolare interesse gli studî di P. Verrier, Le vers français, specie il I (La formation du poème) e il II (Les mètres), Parigi 1931-32. Per la poesia spagnola si vedano i numerosi lavori di M. Milá y Fontanals, A. Bello, F. Hanssen, R. Menéndez Pidal, R. Foulché-Delbosc), ecc., tutti citati nell'opera di P. Henríquez Ureña, La versificación irregular en la poesía castellana, Madrid 1920; inoltre: R. Menéndez Pidal, La forma épica en España y en Francia, in Revista de filol. esp., XX (1933), pp. 345-352. Per la musica, oltre ai lavori speciali di F. Ludwig, P. Aubry, I. Beck, F. Gennrich ecc., si vedano le opere generali di T. Gérold, La musique au moyen âge, Parigi 1932 e H. Prunières, La musique du moyen âge et de la Renaissance, Parigi 1934. Per la Penisola Iberica interessa il vol. introduttivo di H. Anglès al Códex musical de Las Huelgas, Barcellona 1931 (cfr. T. Gérold, in Romania, LIX, 1933, pp. 296-304).

Metrica francese.

La poesia di genesi e cultura più squisitamente francese - durante il Medioevo - è in prevalenza di carattere narrativo, con due tipi fondamentali di versificazione: il decasillabo epico (sostituito poco per volta dall'alessandrino, che si manifesta come un vero e proprio ricalco del primo) e l'ottonario. Mentre quest'ultimo, diventato il metro del romanzo di contenuto cortese e arturiano, si trasmette con relativa uniformità, senza presentare notevoli fasi evolutive (è fornito subito di rima; ha un andamento prevalentemente trocaico; non ha alcuna cesura interna; tende via via a liberarsi dall'originaria unità del distico); l'alessandrino offre invece uno sviluppo ritmico graduale, che segna il trapasso dal verso cantato a quello recitato e libresco, dal tipo popolare a quello più propriamente letterario, con lunga e fortunata tradizione: a partire dal tardo sec. XII fino agl'inizî del sec. XV è il metro usato in cinquanta chansons de geste. Il suo svolgimento è tipico: l'assonanza cede il posto alla rima; la cesura che divide il verso in due emistichî eguali (6 + 6, e considerando l'atona, 7-i 7), si fa sempre più debole (fin dal sec. XIII non mancano esempî di versi in cui la pausa non è più consentita dallo schema sintattico) e la sillaba postonica seguente (cioè a cesura cosiddetta "femminina") è mantenuta fino al sec. XV soltanto in ossequio al tipo arcaico, finché la pausa alla fine del primo emistichio è considerata con puro valore d'accento tonico. Quando questa povertà ritmica, che con due soli accenti forti rendeva un verso così lungo a immagine prosastica (e così era sentito dal Ronsard), fu riscattata, lungo i secoli XV e XVI, con il senso sempre più distinto degli accenti secondarî (sicché, oltre ai due fissi sulla 6ª e 12ª, ne venne a giocare un altro mobile per ciascuno degli emistichî), l'alessandrino acquistò quella ricchezza di movimenti che doveva renderlo il verso classico della poesia francese, strumento impareggiabile dell'arte del Seicento. All'uniformità di questa versificazione di tipo narrativo-recitativo (contenuto epico, didattico, espositivo, drammatico, componimenti di lunga estensione: poemi, satire, épîtres), si contrappone la varietà metrica e strofica della poesia più propriamente lirica, anche essa di derivazione popolare e di elaborazione dotta, legata a un commento melodico più complesso ed esposta a una molteplicità di variazioni individuali, che pesano fortemente sullo schema metrico. Costituitasi con Ronsard e con la Pléiade la versificazione classica, fattasi sempre più rigida e uniforme con l'inoltrarsi del Seicento, a essa portava nuova vitalità la grande arte polimetrica di La Fontaine e dava un senso metrico più libero la tecnica di un Molière. L'evoluzione linguistica, il sopravvivere di sillabe con puro valore arcaico e tipografico, la cesura, l'enjambement, l'elisione, l'iato - tutti fatti profondamente e sottilmente avvertiti dalla sensibilità lirica dei Francesi - moltiplicano e affinano i problemi della versificazione: in Francia quasi ogni poeta è pure un teorico del verso, costretto anche, oltre che dalla tradizione, dalle difficoltà che deve affrontare di volta in volta, rinnovantisi da una generazione all'altra. Ma per trovare una diversa e più sostanziale evoluzione del verso francese, bisogna scendere al Romanticismo.

I romantici, conformemente alle tendenze generali della loro estetica, hanno preteso di rifare la versificazione classica, insufficiente a esprimere l'esuberanza emotiva del loro temperamento; contro la tecnica del Seicento essi disdegnano la piattezza delle rime, l'uniformità dei metri, la rigidità dei quadri strofici: l'elegia, l'egloga, la satira, l'epistola, il poema didattico che risalivano alla Pléiade sono abbandonati per un'illimitata varietà di forme strofiche, diversamente combinate, isometriche o eterometriche, tanto da esaurire, se non sempre con eguale successo, tutte le possibilità strutturali. Complessivamente il romanticismo francese amò le forme ampie, complicate, opulente, in cui gli effetti melodici si potessero intrecciare in un giuoco duttile e prezioso. Vi è già implicita la versificazione parnassiana. Ma la grande riforma della tecnica fu operata attraverso l'alessandrino: a quello di tipo classico, con cesura e con quattro accenti (tetrametro), i romantici sostituirono l'alessandrino senza cesura e con tre accenti (trimetro), che, sebbene continuasse nel nome e nel numero delle sillabe il precedente, sprigionava una tecnica completamente rinnovata, rapidissima, ricca di risorse e di effetti: M. Grammont, un critico intelligente, vi ha dedicato un'opera magistrale. Il Parnasse, successore del Romanticismo, vive della sua eredità: cristallizza le forme chiuse, fa una selezione dei metri classici, porta alla più scultorea perfezione i ritmi della tradizione; ma nella rarità formale il metro classico e romantico si consuma e s'inaridisce.

Alla regolarità della versificazione parnassiana, il movimento simbolista oppose una libertà metrica - anch'essa d'inconscia derivazione romantica - che nell'affrancamento dalle forme rigorose del passato intendeva tradurre la sottile emotività del nuovo contenuto estetico. Nei maestri le innovazioni operarono in seno alle immagini ritmiche della tradizione, e la rivolta non dimenticò né fece violenza alle esigenze linguistiche e accentuative del francese: "io - diceva Verlaine - ho allargato la disciplina del verso, ma non l'ho soppressa"). Viceversa nella scuola, che per spirito consequenziario confinava nell'arbitrio, si vagheggiò un tipo metrico di estrema anarchia, il cosiddetto "verso libero", che, per eccessiva mobilità, finì col perdere ogni forma strutturale, assimilandosi alla prosa amorfa e invertebrata. Ma ogni qualvolta il poeta simbolista ha tentato un organismo metrico, anche se personalissimo, inconsciamente ha richiamato i tipi tradizionali: nei maggiori è palese il desiderio dell'alessandrino (Moréas, p. es.), anche quando tipograficamente appare disarticolato in versi brevi o versi misti. Di fronte alla versificazione classica, romantica e parnassiana a forme fisse (verso isosillabico, unità strofica, forme chiuse, ecc.), il simbolismo propugnò una metrica fondata soltanto sull'elemento ritmico col superamento di ogni norma prestabilita; ma attraverso la disposizione delle unità ritmiche, per quanto queste si generassero da accordi puramente individuali, fu reintegrata, negli spiriti più disposti al senso metrico, una particolare disciplina: "il verso non può essere mai assolutamente libero, per il fatto stesso che si distingue dalla prosa soluta oratio", affermava Vielé-Griffin, teorico oltre che poeta del simbolismo. In definitiva, il verso simbolista, a parte le deviazioni senza eco di alcuni idolatri del verso libero, rese più duttile il verso classico, ma non riuscì ad attuare una riforma profonda e duratura, come era avvenuto, p. es., a Ronsard, a La Fontaine, a Molière; pare invece che portasse alle estreme conseguenze alcuni principî prettamente romantici, senza tuttavia raggiungere l'influenza decisiva del verso di Victor Hugo. Nei simbolisti più ragionevoli la misura sillabica ha ottenuto una gradazione più ricca di sfumature, la disposizione ritmica ha trovato risorse più sottili, la rima e l'assonanza, attraverso un uso discreto, sono diventate più efficaci e più sensibili; alcuni, come Verlaine, hanno introdotto i versi dispari (9, 11, 13 sillabe) e inaugurato un ritmo generale "claudicante", in modo che nessuna unità metrica fosse immediatamente seguita da un tipo identico, ma fosse ripresa a distanza, creando una speciale armonia di contrasti e di ritorni (per esempio: 3-2-5-3; 4-3-4, ecc.): "c'è del fascino - diceva Mallarmé - nel ritrovare sotto forme inattese i metri già noti". Tutte le risorse metriche e sonore della lingua francese furono tormentate con raffinata e a volte acrobatica sensibilità: il cosiddetto "rejet", l'"enjambement", la cesura, l'iato, la dieresi, la speciale dosatura del colore vocalico e consonantico (i cosiddetti "armonisti" ch'ebbero perfino un pedante codificatore in René Ghil); ma negli epigoni questa dislocazione del verso tradizionale ha corso innumerevoli e pericolose avventure, determinando una crisi della metrica che denunziava una crisi del contenuto più propriamente spirituale della poesia.

Bibl.: Per la bibl. generale si veda: H. P. Thieme, Essai sur l'histoire du vers français, Parigi 1916; id., Bibliogr. de la littér. française, III, Parigi 1933, pp. 51-71. Fra la ricca letteratura critica intorno al verso francese, merita un posto a parte il vol. di M. Grammont, Le vers français, 2ª ed., Parigi 1913, e, dello stesso, Petit traité de versification française, 8ª ed., Parigi 1932. Inoltre: G. Lote, La poétique classique du XVIIIe siècle, in Revue de cours et conf., XXXI (1929); id., Le vers du romantisme, ibid., XXXII (1930). Si vedano inoltre le opere generali sul classicismo, il romanticismo, il parnassianesimo, il simbolismo, ecc.

Metrica italiana.

Non è certamente impresa facile, allo stato attuale degli studî, delineare una storia della metrica italiana, poiché all'insufficienza delle ricerche particolari s'aggiunge il carattere puramente descrittivo a cui s'ispira la maggior parte di esse. Fatta eccezione per la poesia dei primi secoli, per la quale il filologo - in virtù della sua preparazione di medievalista e di comparatista - ha potuto investire o additare alcuni dei problemi più importanti della tecnica poetica, soprattutto per quanto riguarda l'origine dei versi, della struttura strofica, delle forme chiuse, risulta in generale che la critica ha trascurato lo studio della metrica da un punto di vista adeguatamente storico, limitandosi soltanto a istituire astratti paradigmi d'indole normativa. Non si può dire che si sia fatto un congruo progresso nel metodo di ricerca rispetto al primo grande tentativo del De vulgari eloquentia dantesco, che per la prima volta nel dominio romanzo riportava l'evoluzione metrica entro al concreto dominio della storia letteraria. Ma alcune delle ragioni che hanno favorito questo ritardo della critica intorno alla tecnica del verso e possono giustificare, almeno in parte, il difetto d'interesse verso siffatti problemi, vanno ricercate nella particolare tradizione della metrica italiana, che conserva, almeno apparentemente, una continuità uniforme nei suoi tipi principali. L'endecasillabo, p. es., che è il verso originario e classico della poesia italiana, ha una storia più omogenea e una portata più estesa di qualsiasi verso romanzo, anche dell'alessandrino francese e dell'ottonario spagnolo. Esso, infatti, non offre, almeno rispetto al quadro ritmico, nessuna sostanziale differenza fra un'epoca letteraria e l'altra e la sua evoluzione ed estensione riguarda, se mai, lo schema strofico in cui si viene a disporre. A determinare questa più rigorosa osservanza del tipo metrico hanno operato le particolari condizioni conservative della lingua letteraria e la maggiore continuità della tradizione poetica, poiché in Italia l'una e l'altra, pur avendo un ricco e operoso svolgimento, non hanno tuttavia subito radicali trasformazioni né mai hanno bruscamente interrotto i legami con il più vicino passato. Mentre il periodo umanistico sembra creare in Francia, e non in Francia soltanto, un profondo distacco dalla cultura, dalla lingua e dalla versificazione dell'epoca medievale, in Italia esso si delinea come maturazione del Trecento, cosicché i tipi ritmici e le forme metriche di cui si riveste il primo fiore della lirica siculo-toscana si continuano con un più squisito perfezionamento nella poesia del Petrarca e si stilizzano più rigidamente con il petrarchismo del Cinquecento; lo stesso Romanticismo, d'altra parte, non portò in Italia, dove l'educazione e il temperamento classici erano profondamente radicati, quella rivoluzione della tecnica poetica e perciò dello strumento metrico che invece si effettuava altrove, anche in paesi di cultura romanza. L'endecasillabo e il sonetto, per esempio, che rappresentano rispettivamente l'unità ritmica e la forma chiusa più schiettamente italiane, non conoscono infedeltà né oblii, da Guittone d'Arezzo al Carducci e all'ultimo D'Annunzio. Nel Duecento, che possiamo considerare come il periodo genetico della versificazione italiana, essa si viene costituendo entro un tipo culturale assai maturo e ricco di esperienze, che aveva già elaborato i proprî schemi e possedeva modelli già conchiusi nelle letterature vicine, la trovatorica-provenzale soprattutto, così che ignorò quasi del tutto quella lenta, oscura e laboriosa epoca di poesia popolare-giullaresca che in altri paesi (Francia e Castiglia) aveva veramente creato la metrica romanza dall'incerta eredità dei "ritmi" bassolatini. L'endecasillabo e il settenario, la canzone, il sonetto, il serventese e la terza rima appartengono a una tradizione che ha ormai superato lo stadio preparatorio; per quanto in Italia si rivelino in parte di nuova formazione e in parte di rinnovato adattamento, essi si presentano subito con una struttura isosillabica e con un quadro ritmico e strofico pienamente regolare e normativo. L'endecasillabo di Dante e più risolutamente quello del Petrarca (che normalizza l'accento sulla sesta a preferenza degli altri, isola la rima, tende a conferire al verso singolo un'unità compiuta in corrispondenza alla frase logica) fissano sostanzialmente gli elementi costitutivi della versificazione italiana in rapporto al genio della lingua.

Cosicché è naturale che il verso umanistico non si differenzî gran che dal tipo precedente; succede o prevale, tutt'al più, una forma strofica su un'altra; se la terzina dantesca che pareva perpetuarsi come strumento di poesia narrativa (non se ne sottrasse lo stesso Petrarca che sembrava riluttante alla poesia della Divina Commedia), cade in disuso assieme al contenuto ideale ch'essa traduceva screditata dagli sterili epigoni, tanto che c'è, in pieno Quattrocento, chi la volge a soggetti parodistici e caricaturali (e sopravvive unicamente come metro satirico, né la Basvilliana e la Mascheroniana del Monti possono infonderle nuova vita; se mai ebbe una sporadica ripresa come metro elegiaco col Foscolo, col Leopardi, col Carducci), tuttavia l'endecasillabo continua a mantenersi, anche nel Quattrocento, come verso-base della lirica, e anzi, assieme all'ottava rima, sale ai fastigi della più alta espressione del Rinascimento. Qui è più palese il processo ascensionale dall'ambiente popolare alla poesia d'arte, dai cantari al poema del Pulci, del Boiardo, dell'Ariosto. Anzi il Quattrocento, specie quello toscano e più propriamente fiorentino, rappresenta, rispetto al Trecento, una più larga assimilazione dei metri popolari con un tipo di cultura più agile e più permeabile: è il secolo in cui spesseggiano la ballata, la lauda, il canto carnascialesco, la frottola, il madrigale, lo strambotto, il rispetto, ecc. E tuttavia l'endecasillabo rimane lo schema fondamentale del ritmo italiano; trapassa a una forma culturale diversa, ma il quadro interno resta quasi immutato: ed è sintomatico il fatto che durante le numerose e aspre polemiche linguistiche del Cinquecento che traducevano la crisi della lingua letteraria, non sia mai sorta una vera e propria questione metrica. Anzi nell'età del Bembo si ha una maggiore stilizzazione del verso petrarchesco, che finisce col determinare - e non soltanto nel campo della pura lirica - una volontà di rinnovamento in seno alla versificazione.

Ma i tentativi di riforma promossi dal Trissino, dall'Alamanni, da Bernardo Tasso, da Claudio Tolomei (sono del 1539 le sue Regole della nuova poesia toscana), se rinsanguarono la lirica di nuove forme strofiche sulla falsa traccia dell'antico (ode pindarica, ode oraziana, e più tardi la canzone libera, ecc.; già l'Ariosto nelle sue commedie aveva tentato di rendere il trimetro giambico dei comici latini con l'uscita sdrucciola dell'endecasillabo), rappresentano comunque un fallimento e documentano ancora una volta il carattere insostituibile dei metri tradizionali. Rimase acquisita l'introduzione dell'endecasillabo sciolto, che, sebbene presentato in opere di scarso valore estetico (per la prima volta dal Trissino nell'Italia liberata dai Goti e nella Sofonisba: né può considerarsi un precedente storico il verso del dugentesco Mare amoroso), era destinato a rinnovare la vitalità del grande verso italiano, divenendo strumento agile e duttile nel riprodurre il verso eroico dell'antichità o il metro narrativo di altre letterature, nel rendere l'andatura prosastica e descrittiva del poema didascalico o l'agitata animazione della tragedia, fino a dare il tono alla nuova poesia moderna, ad opera del Parini, dell'Alfieri, del Foscolo, del Leopardi, del Carducci, ecc.

Ma, intanto, nella lirica del Seicento e di più nell'Arcadia, il verso sembra disarticolarsi per il prevalere di movimenti più strettamente musicali e canori, che operano in seno alla versificazione una vera e propria dislocazione ritmica. Col Marino e i marinisti si trasmette ancora l'endecasillabo, soprattutto nella forma del sonetto e dell'ottava, ché, nonostante la pretesa originalità del secolo, dietro alla proclamata novità del concettismo, si palesa un tardo e degenere petrarchismo, che porta con sé i consueti schemi metrici. Ma tanto il verso, quanto la forma strofica - anche se l'uno si distende su undici sillabe e l'altra ha l'ampiezza del sonetto, della terzina e perfino dell'ottava - tendono a frangersi in brevi ritmi, piuttosto da canzonetta; sono prossimi nella loro sostanza poetica ai metri più corti, specie al settenario, che in quest'epoca si fa sempre più invadente e predominante, con un andamento cantabile. Di questo procedimento che spezza la struttura del verso in brevi emistichî di ritmo eguale, facile e orecchiabile, divenne maestra l'Arcadia: la canzonetta, l'anacreontica, l'odicina, le costruzioni polimetriche a tempo di ballabile, la canzone libera affine al recitativo del dramma pastorale, trovarono il loro estremo sviluppo nel Sei e Settecento pastorali e melodrammatici.

Il rinnovamento poetico della seconda metà del Settecento doveva effettuarsi attraverso l'endecasillabo, col ripristino del suo ritmo ampio, composto, profondamente plastico, libero perfino dal limite della rima; e in endecasillabi sono le opere più significative: le tragedie dell'Alfieri, il Giorno del Parini, i Sepolcri del Foscolo, tanta parte della libera poesia del Leopardi, la cui metrica è forse - al pari della sua arte - la più nuova e originale. Con lui la versificazione si fa più strettamente individuale e più squisitamente "moderna", e i grandi poeti che gli succedettero - Carducci, Pascoli, D'Annunzio - si sono creati a volta a volta una loro tecnica metrica, non sempre riducibile a schemi più o meno tradizionali.

Certo il Carducci ebbe il merito grande d'interessare più largamente alle questioni metriche, anche se la sua versificazione "barbara" (v. appresso) non riuscì nel suo complesso a far dimenticare i metri della tradizione, che finirono sempre col prevalere; ma senza di lui e senza la sensibilità per il puro ritmo da lui suscitata, forse il Pascoli non avrebbe potuto creare con piena e raffinata coscienza quella sua metrica personalissima, veramente innovatrice, né sarebbero state possibili le modernissime aspirazioni a spiritualizzare la parola in varietà di valori fonici, cioè di ritmi e di metri. Rispetto al Pascoli, il D'Annunzio costituisce anzi una remora, adagiandosi nelle vecchie forme della lirica, con un gusto tra l'archeologico e il preziosista. In questo periodo, del resto, anche in corrispondenza al movimento simbolista della Francia, la poesia entrava nella sua più acuta crisi, ché, abbandonata la disciplina del verso tradizionale, non riusciva a sostituire nuovi tipi, che non fossero già consumati o non portassero la nostalgia del verso classico. Il prevalere della letteratura in prosa, la disarticolazione delle forme metriche nella ricerca del "verso libero", il disinteresse teorico della critica idealistica verso la poesia "tipografica", hanno disintegrato le forme e i valori della pura versificazione.

Bibl.: F. D'Ovidio, Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910; id., Versificazione romanza, Napoli 1932. Ormai invecchiati i lavori di F. Zambaldi, Il ritmo dei versi italiani, Torino 1874, e di G. Fraccaroli, D'una teoria razionale di metrica italiana, Torino 1887. Buono ancora come manuale scolastico descrittivo il vol. di P. E. Guarnerio, Manuale di versificazione italiana, Milano 1893; astratto e meccanico il saggio di A. Levi, Della versificazione italiana, in Archivum Romanicum, XIV (1930), pp. 449-526. Forse le osservazioni migliori vanno ricercate in margine alla critica d'arte, per cui si rimanda alla bibl. dei singoli poeti. Cfr. inoltre, qui appresso, la bibl. relativa alla metrica barbara.

Metrica barbara. - "Barbara" fu detta dal Carducci la sua poesia in versi e strofe imitanti la metrica classica. Della denominazione indicò egli stesso il motivo, non diverso, in fondo, da quello che suggerì il motto (Plaut., Trin., 19) Philemo scripsit, Plautus vortit barbare. Ennio e Plauto anch'essi vollero introdurre presso i Romani i metri greci, adattandoli all'indole del latino, e ingegnandosi di ripulire e ammorbidire adeguatamente la lingua. La perfezione dell'esametro si raggiunge poi da Virgilio; quella dei versi comici era già fermata in Terenzio. Per i metri lirici, ispiratori quasi esclusivi e guida gli Alessandrini: per il distico elegiaco, per i giambi e per i faleci di Catullo, per altre più o meno riuscite esperienze metriche dei νεώτεροι. Ma facile princeps in questa linea di svolgimento è Orazio: non contento della strofe saffica già usata da Catullo, diede a essa un'impronta personale, e più altri metri lirici prese dalla metrica greca e modellò romanamente, offrendo ai posteri modelli da valere per secoli, e capaci di adattarsi a lingue diverse, latine e non latine. Anche per il Carducci fu Orazio il principale modello; e i primi lettori delle Odi barbare, se persone colte, vi sentirono un'eco assai chiara della poesia d'Orazio. Sennonché, nel Carducci, il poeta e il critico si trovarono continuamente insieme: e nella storia della poesia barbara egli ha parte non solo come poeta, ma anche come accorto indagatore di tentativi simili al suo.

Già fin dal sec. XIV uomini più o meno oscuri avevano tentato appunto di riprodurre i metri classici in lingua italiana. Il volume del Carducci contenente quei saggi apparve (1881) mentre ferveva la disputa intorno alle Odi barbare, non limitata a questioni metriche, ma su questo punto principalmente imperniata. Con la sua opera di poeta e di erudito, il Carducci assume nella letteratura moderna italiana un posto paragonabile a quello che nella letteratura alessandrina ebbe Callimaco, al quale, oltre l'attività poetica ed erudita, lo avvicina anche l'ardore delle polemiche a cui diede origine e a cui direttamente o indirettamente prese parte. Al pari di Callimaco, non mancò il Carducci di colpire i suoi critici ed emuli con frecciate e allusioni contenute in alcuni dei suoi componimenti poetici (basti citare, per tutti, l'Intermezzo); e, del resto, le prime Odi barbare portavano in fronte una sfida all'"usata poesia". Ma la discussione, quando si trattò di rispondere ai critici, non fu sostenuta direttamente da lui, bensì da Giuseppe Chiarini, che fu, o parve, ispirato dal Carducci stesso e fornì la base a ogni ulteriore trattazione della materia. Per quanto riguarda la metrica, l'effetto immediato della difesa scritta dal Chiarini fu un certo fervore dei letterati italiani per lo studio della metrica classica, la cui conoscenza si considerò indispensabile per poter aprire bocca pro e contro la versificazione delle Odi barbare. La filologia classica s'intromise, invitata o provocata, e cercò di portare luce per bocca di alcuni suoi rappresentanti, tra i quali basterà ricordare E. Stampini e G. Fraccaroli, e il precetto ne sutor ultra crepidam fu spesso dimenticato dall'una e dall'altra parte. Una trattazione scientifica richiedeva un'adeguata padronanza delle letterature classiche e delle moderne. Questa condizione parve avverarsi egregiamente in Francesco d'Ovidio, che trattò il problema già sui primi anni del nuovo secolo, quando erano sbollite le polemiche, dalle quali egli poté prescindere quasi del tutto. In quello stesso torno di tempo, o poco prima, studiò a fondo la questione colui che meglio d'ogni altro poteva parlarne, come conoscitore dei classici, come scolaro del Carducci e come poeta, G. Pascoli; ma, per una strana vicenda editoriale, il suo studio rimase nell'ombra, da cui l'ha tratto Maria Pascoli solo dopo un quarto di secolo, quando ormai la questione non interessava più, non perché risoluta in modo soddisfacente, ma perché invecchiata e priva delle sue passate attrattive. Nel frattempo erano caduti in dimenticanza anche i manuali teorico-pratici che ancora sul tramonto dell'Ottocento si erano composti a uso delle scuole e dei poeti, come quello di A. Solerti e quello di V. da Camino. Più vivi sono rimasti, e si leggono volentieri anche oggi, i contributi eruditi di Guido Mazzoni, che, insieme col Chiarini, fu dei più attivi sia nell'adottare, con rara facilità e con frequente successo, i metri carducciani nelle composizioni poetiche, specialmente nelle traduzioni, sia nel ricercare e indagare precursori italiani della metrica barbara.

Per estensione di significato, furono dal Carducci compresi sotto il titolo "poesia barbara" tutti i componimenti in versi non rimati, e quindi gli antichi saggi di endecasillabi sciolti, e i prologhi in versi sdruccioli usati dall'Ariosto nella Cassaria e nel Negromante. A stretto rigore, però, il vero antecedente della poesia barbara è da cercare negli esametri e nella saffica presentati da L. B. Alberti e da L. Dati al certame coronario (v.) nel 1441, e soprattutto nella "nuova poesia toscana" propugnata da Claudio Tolomei e seguita da un attivo gruppo di seguaci, costituenti un'apposita accademia. La maggiore importanza fu data alla riproduzione dell'esametro e del distico elegiaco, cioè proprio a quello che più tardi fu il punto nero della metrica del Carducci e intorno al quale più si agitarono le discussioni e oscillò a lungo la teoria e la prassi del maestro e degl'imitatori.

Considerando ora le cose nel loro complesso, bisogna dire che la soluzione del Tolomei era certamente la più logica, e il Carducci fece bene ad accostarsi in massima parte a quella da principio, e non fu bene consigliato ad allontanarsene in seguito. A torto fu detto dal Chiarini e da altri che i poeti della scuola del Tolomei non sentissero nei versi latini gli accenti ritmici, ma solo la quantità, e che nei loro versi italiani trascurassero gli accenti normali delle parole. Basti ricordare che in un luogo delle Regole si ricorre all'autorità di Dante (non ci ha rimante con oncia e sconcia) per giustificare l'uso delle parole monosillabe e bisillabe come enclitiche, cioè la possibilità di far prevalere, nel verso, l'accento ritmico sull'accento consueto, cosa che, avvertita o no, avviene, come il Pascoli ha dimostrato, anche nella versificazione non "barbara" (per es., in "S'ode a destra..." l'accento normale di ode è inesistente per il verso, sotto pena di alterarne del tutto il ritmo). Oltre a ciò, il Tolomei tentava di fissare delle norme, fondate sull'analogia, e soprattutto sopra un delicato senso dell'armonia, per sentire anche nelle parole italiane la quantità. Per questo, non solo il Chiarini e varî ripetitori della sua teoria, ma già Bernardino Baldi sul cadere del sec. XVI e sul principio del sec. XVII, condannarono senz'altro come assurdo tutto il metodo del Tolomei. Solo il Pascoli, che in genere, va in fondo più degli altri, procurò anche qui di mettere le cose a posto. Le "regole" del Tolomei riguardano soltanto l'uso delle parole nel verso e, a conti fatti, tendono a segnare dei limiti alla libertà che il poeta ha sempre avuto di modificare per le esigenze del ritmo la pronunzia delle parole. Più che dalle "regole", la "nuova poesia toscana" era guidata dai modelli classici, a cui poteva attenersi senza limitazione; laddove la poesia carducciana poté riprodurre, tra i versi antichi, soltanto quelli che apparentemente offrivano schemi metrici analoghi a quelli della poesia tradizionale italiana. Più oltre si andò in questa limitazione quando si volle stabilire il canone che gli esametri debbono avere tutti lo stesso numero di sillabe (come dire la poesia "barbara" deve attenersi alle leggi della non barbara: e allora, perché farla?); a che, per altro, già sulla metà del '500 giunse Francesco Patrizio, fissando, con sottili ragioni musicali, un esametro italiano di tredici sillabe e, circa mezzo secolo dopo, Bernardino Baldi cantando Il diluvio universale in versi di diciotto sillabe (accoppiamento perpetuo di un settenario con un endecasillabo).

Naturalmente anche alla scuola del Tolomei riuscì più facile imitare i metri antichi a numero fisso di sillabe; ma essa procedette anche lì con una scrupolosità ignota al Carducci, e non confuse, per esempio, il falecio col saffico o col trimetro giambico catalettico.

Quando il Chiarini rispondeva ai critici delle Odi barbare, contrapponeva volentieri il successo di queste all'insuccesso della "nuova poesia toscana". Il tempo si è curato di dimostrare che se le Odi barbare furono molto ammirate e molto discusse, nella critica e nell'ammirazione il metro fu più che altro un pretesto. E il Carducci stesso, tornando alle forme dell'usata poesia, ci obbliga a considerare il periodo delle Odi barbare come una semplice parentesi nella sua feconda vita di poeta. Né dopo il Tolomei, né dopo il Carducci la metrica classica è riuscita ad affermarsi in modo durevole nella letteratura italiana. Del resto, le ricerche del Mazzoni hanno dimostrato che l'indirizzo del Tolomei, pur osteggiato e deriso già dai contemporanei, non cadde mai interamente in oblio, e fu ripreso di tanto in tanto, e coltivato più o meno fino al Cesarotti e al Tommaseo. Nel Settecento il Fantoni tentò la conciliazione dei metri classici con la rima, e fece distici in cui l'esametro era semplicemente sostituito da un endecasillabo volgare. Ma in quel tempo stesso, senza abbandonare la via tracciata dal Tolomei, vi fu chi compose distici giudicati anche oggi come i migliori che in Italia siano stati fatti prima del Carducci, e fu Giuseppe Astori bergamasco; accanto al quale son da ricordare il coetaneo e compatriota G. Rota e L. Mascheroni.

Senza modello e senza imitatori, come facenti parte ciascuno per sé, possono considerarsi i cinquecentisti Luigi Alamanni, che nella Flora introdusse "... de' versi e de' numeri nuovi né più in questa lingua posti in opera, simili a quelli già di Plauto e di Terenzio" e Alessandro Pazzi de' Medici, inventore di un "dodecasillabo" da usarsi nella tragedia, con l'intento di riprodurre il trimetro giambico dei Greci.

Per la composizione dell'esametro, l'influsso della scuola del Tolomei si può vedere ancora al principio dell'Ottocento in Francesco Grassi. L'episodio di Orfeo nella Georgica (IV, 490-527) è presentato da A. Izzo in tre versioni metriche: quella del Grassi, quella del Chistoni (1911) e quella dell'Izzo stesso (1932). Il semplice confronto di queste versioni insegna, che le ricerche dei metrici post-carducciani hanno portato addirittura a un capovolgimento del metodo del Carducci. Questi aveva dichiarato di attenersi al suono dei versi latini secondo gli accenti grammaticali: i traduttori moderni procurano di fare versi in cui gli accenti grammaticali si fanno coincidere con gli accenti ritmici. Il senso di mutamento d'indirizzo si ebbe già quando fervevano le discussioni intorno alle Odi barbare, e parve opportuno distinguere la metrica "barbara" (da chiamarsi piuttosto, a giudizio del Falconi e del Pascoli, "carducciana") da quella che alcuni chiamavano "classica" senz'altro, e il Pascoli "neoclassica".

Bibl.: Versi et regole de la uova poesia toscana, Roma 1532, riprodotto quasi interamente nel volume del Carducci, Poesia Barbara dei secoli XV e XVI, Bologna 1881. Le "regole" anche nel libro di V. Da Camino qui appresso citato; G. Chiarini, I critici italiani e la metrica delle Odi Barbare, prefazione alla seconda edizione delle Odi barbare, Bologna 1878; E. Stampini, Le odi barbare di G. Carducci e la metrica latina, 2ª ed., Torino 1881; G. Fraccaroli, Saggio sopra la genesi della metrica classica, Firenze 1881; id., D'una teoria razionale di metrica italiana, Torino 1887; F. D'Ovidio, La versificazione delle odi barbare, in Miscellanea di studi critici in onore di A. Graf, Bergamo 1903, poi nel vol. Versificazione italiana e arte poetica medievale, Milano 1910 (riprodotto anche nel vol. IX delle Opere, Napoli 1932); G. Pascoli, A Giuseppe Chiarini, nel vol. Antico sempre nuovo, Bologna 1925; A. Solerti, Manuale di metrica classica italiana ad accento ritmico, Torino 1886; V. Da Camino, La metrica comparata latina-italiana, Paravia 1891; G. Chiarini e G. Mazzoni, Esperimenti metrici, Bologna 1882; G. Mazzoni, Spigolature metriche, in In biblioteca, 2ª ed., Bologna 1886; F. Grassi, Grammaire comparative des deux langues française et italienne, Torino 1806; A. Izzo, L'esametro neoclassico italiano, in Rendiconti dei Lincei, Cl. di scienze morali, VIII, vi, 1932. - Preziose notizie sulla metrica carducciana e sui tentativi e le polemiche a cui diede origine si trovano nell'articolo di C. Calcaterra, Salvadori e Carducci, in Aevum, VII (1933), pp. 189-216.

Metrica germanica.

La versificazione delle lingue germaniche ebbe ai suoi inizî una riconoscibile individualità; ma solo nella sua prima fase rimase non turbata da modelli stranieri. Era costituita dal verso "germanico antico" o "allitterante", tramandato da un vasto patrimonio poetico inglese, tedesco, norvegese-islandese a partire dal secolo VIII o dal IX. Questa versificazione indigena fu in seguito, prima o poi, abbandonata da tutti i popoli germanici - anche dalla lontana Islanda, la quale pur tenne fermo all'allitterazione - per accogliere le forme della poesia romanza e, in seguito, anche della classica. Importanza minore ebbero modelli celtici, finnici, indiani, ecc. Il patrimonio formale tedesco, olandese, anglosassone, nordico fa parte, ormai da secoli, della grande comunità europea, pur mostrando, entro di essa, numerose peculiarità, e, anche, lineamenti comuni che allontanano questo gruppo nel suo insieme dagli altri gruppi linguistici. È lecito così ancor oggi parlare d'una metrica germanica comune, in vista soprattutto della forma linguistica (prosodia), ma anche dei generi.

Lo stile allitterante, della versificazione germanica pura (lasciando da parte le caratteristiche norvegesi-islandesi, parzialmente dovute a impulsi irlandesi-latini) era determinato dai tratti seguenti: 1. In assenza d'una costruzione strofica, esisteva un unico metro: il verso breve costituito da due tempi lunghi, di solito accoppiato a formare il verso lungo. 2. Il riempimento di questo schema cambiava in modo straordinariamente libero da verso a verso: il numero delle sillabe del verso breve potendo andare da 4 a 10 e anche oltre; l'anacrusi (Auftakt) potendo comprendere a piacere da 0 a 5 sillabe, una battuta lunga da 1 a 6. Da questo risultava: 3. che i valori temporali avevano la straordinaria apertura da 1/8 a 4/4. La linea ritmica era molto mossa, frastagliata fino a dissolvere la forma: proprio l'opposto della levigatezza giambico-trocaica. Le curve continuamente cangianti sottolineavano, allargavano i ritmi naturali della frase. 4. Il tono enfatico veniva aumentato dall'allitterazione (Stabreim), la quale non serviva solo a congiungere, ma a porre in rilievo, a marcare, le sillabe in caduta di periodo e perciò più significative. 5. La scelta delle parole era rigorosamente pesata, arsi e accento grammaticale dovendo coincidere. Più limitatamente era tenuta in conto la durata sillabica (vale a dire la sistematica distinzione delle sillabe su cui cadeva l'accento principale in brevi e lunghe). Il verso era accentuante, pur mostrandovisi in qualche modo la quantità.

Di queste caratteristiche, la 2 (3) e la 5, vale a dire le tesi libere e il trattamento linguistico fondato sulla pesatura, contrassegnano ancor oggi la versificazione germanica. Circa la 2 (3), si tratta di una questione di grado: forme seriori non oscillano più come il verso allitterante fra estremi così lontani di numero e di tempo delle sillabe. E anche la pesatura (5) è divenuta alquanto meno severa: il contrasto fra battuta e accento grammaticale divenne spesso un tormento per il poeta, soprattutto nell'uso dei metri più estranei. Talvolta anzi si commise l'errore di rinunciare addirittura a pesare: i Meistersänger tedeschi dei secoli XV-XVI sono segnati da questa macchia. Tuttavia, in linea generale, si può dire che quando furono adottati metri forestieri, essi lo furono con la riserva (per lo più inconsapevole) che fine dell'imitazione poteva essere unicamente la curva ritmica. I Germani sostituirono necessariamente al trattamento linguistico degli altri popoli - alla misura degli antichi, al limitato pesare dei Neolatini - la pesatura loro propria estendentesi a tutto il verso.

L'iniziale povertà di forme fu superata dalla poesia dei popoli germanici sia mediante docili derivazioni sia mediante modificazioni creatrici. Passi verso la costruzione di strofe si osservano in Norvegia e in Islanda anche nell'epoca allitterante; ma una lussureggiante ricchezza strofica produsse per primo in una lingua germanica il Minnesang tedesco, formato sulla lirica latina dei vaganti e sulla trovadorica, che esso superò perfino in ricchezza. Nel tardo Medioevo emerse per costruzioni dalle forme compiaciute e largamente complesse la poesia inglese anche epica e drammatica. La moderna poesia d'arte è in generale tornata a costruzioni più brevi, di scarsa ambizione formale. Creazioni plastiche così attraenti come i metri alcaici e saffici, il sonetto, la stanza, il ghazal (ghasel) non sono ai Germani riuscite.

Per lungo tempo furono adottati quasi esclusivamente metri giambico-trocaici, e in questi i Germani hanno imparato a usare la rima. Fu un Francone renano, Otfrid, a romperla per primo, intorno all'860, con l'allitterazione. Modello: il verso dell'innica latina tarda, il dimetro giambico. Trochei ecclesiastici attecchirono presso gli scaldi islandesi.

A partire dal secolo XII comincia l'influenza delle forme che vengono di Francia; fra le trovatoriche, quella caratterizzata da una battuta trisillaba, il dattilo lirico. In Scandinavia giunsero i metri di danza francesi, da cui discesero le strofe delle Folkeviser, i veri successori, nel settentrione scandinavo, del verso allitterante. Nella letteratura inglese ricompare di nuovo nel sec. XIV, accanto ai versi rimati di provenienza francese, il verso allitterante indigeno. Il verso principalmente usato dal Chaucer fu il decasillabo francese; presso i cugini germanici questo verso a cinque arsi sarebbe allora tutt'al più penetrato in strofe della poesia d'arte: dominò altrimenti presso di loro sovrano il verso, così bene acclimato, a quattro battute, discendente non rigido del dimetro innico. L'età barocca è dominata presso i Germani del continente dall'alessandrino francese. Per prima, l'Inghilterra prese dall'Italia, intonno al 1540, l'endecasillabo sciolto, cui doveva spettare così grande avvenire. Olanda e Germania adottarono dall'Italia versi madrigaleschi atti al canto. Le strofe di endecasillabi dalle ricche rime (stanza, sonetto), variamente tentate a cominciare dal sec. XVI, vennero in grandissimo onore presso i romantici. In questa stessa età romantica, anche la Spagna fornì il suo ottonario trocaico.

Questi ritmi alternanti (sillabici) si usò nel Medioevo imitare con una certa libertà, al di fuori della cerchia della lirica d'arte: il sentimento metrico ereditario fece sì che si desse ai membri un numero variante di sillabe, un ritmo più o meno a zig-zag. Knittelvers, Balladenvers, common metre rappresentano questo verso di quattro battute con tesi libere il quale si mantenne nell'uso popolaresco e tornò in onore nella poesia d'arte dopo il Settecento. Sono i versi "in cui si contano solo le arsi, non le sillabe" (come dicevano i maestri di scuola - ma anche il Coleridge: ciò che varrebbe anche per l'esametro). Questo verso rappresenta nel moderno patrimonio formale l'elemento più prettamente germanico ché versi allitteranti di schietta foggia antica sono finora riusciti a ben pochi.

Ma dopo l'umanesimo (in Inghilterra anzi, più precisamente, a cominciare dal Gower) il verso della poesia libresca, della poesia d'arte, mirò a rendere in modo rigorosamente alternante le forme giambico-trocaiche, e insieme a dare alle parole un peso conforme all'indole della lingua. Un simile procedimento fu celebrato come una nuova specie di correttezza formale. L'olandese Heinsius, il danese Arreboe, lo slesiano Opitz, lo svedese Lagerlöf apparvero quali paladini del vero (già giambico) metro sillabico. L'età barocca (fino al 1750) significa per la poesia libresca dei popoli germanici il predominio d'un regolare e facile alternarsi di arsi e tesi. Fa eccezione il Blankvers shakespeare-miltoniano (il quale solo dopo il limite cronologico accennato divenne una forma fondamentale anche fuori d'Inghilterra), che, rampollo del decasillabo-endecasillabo romanzo, rappresenta, con le sue arditezze in fatto di trattamento delle tesi, una reazione alla levigatezza neolatina. Pure, nella poesia libresca, atta o no al canto, i "giambi puri" rimasero dappertutto uno dei gruppi maggiori. I Germani si sono con l'andare del tempo completamente assuefatti all'armonia fondata sul numero delle sillabe, a uno stile di versificazione ch'è pur così distante dal loro primitivo. Dal Settecento in poi traduttori in lingue germaniche hanno riprodotto quasi completamente le forme metriche dei Greci e dei Romani, pur così varie nelle forme dei tempi. In opere poetiche originali furono l'esametro-pentametro e i metri delle odi di Orazio quelle che acquistarono maggiore importanza. Nell'uso di esametri congeniali all'indole della lingua, fu precorritrice, intorno al 1600, l'Inghilterra; a mezzo secolo di distanza le tenne dietro la Svezia (Stiernhielm). II massimo fiore si ebbe dopo il barocco, in Germania dopo il 1748, con il Klopstock, il quale innalzò anche la forma dell'ode al disopra del livello dei tentativi scolastici. Poeti di tutti i paesi germanici hanno fornito la prova che nelle loro lingue i metri antichi possono divenire veramente vitali (l'esametro è penetrato perfino nei dialetti), naturalmente attraverso un processo di conguagliamento e di semplificazione; e questo senza dire della naturale sostituzione del peso alla misura. Gli antichi generi di tempi furono adattati alle nuove condizioni: nell'esametro il grave incesso 4/4 fu sostituito dalla più leggiera battuta di valzer, ai versi odici fu dato un genere comune, 2/4 o 3/8; solo lo ionico trovò nella battuta 3/2 del verso popolaresco dell'Austria (Ländlervers) un appoggio formalmente connaturale. Credendo in buona fede di rendere gli artificiosi piedi degli antichi, il bacchio, i peonî, ecc., i poeti germanici usarono tempi da uno a quattro sillabe, comuni a ogni verso popolare. Del modello classico rimase (o poteva rimanere) lo schema generale, pur sempre riconoscibile. L'illusione di potere e dover distinguere lo spondeo (--) dal trocheo (-⌣) ha condotto poeti di "stretta osservanza" a far versi legnosi, contrastanti col genio della lingua. Pure, questo traviamento non toglie che sia vero il fatto che l'esametro e i metri eolici, ribelli ai poeti neolatini, s'adattano bene al materiale linguistico germanico, con tanto minore attrito quanto più ci s'affida all'orecchio anziché a un frusto schema.

Un altro gruppo, costituito dai cosiddetti "ritmi liberi", caratterizza ancora il moderno patrimonio delle forme metriche delle lingue germaniche: un gruppo che si distingue notevolmente dai vers libres senza rima dei Francesi, e che coi suoi forti contrasti di tempi può rasentare le tendenze espressive del germanico antico. Ciò che lo rende più libero è la mancanza d'un numero fisso di battute e dell'ornamento della rima. Nel Goethe questa specie di versi assunse facilmente una rotondità atta al canto; ai moderni sforzi realistici essa è bene accetta guida verso la dissoluzione delle forme. La prima specie di verso con cui l'America colpì il vecchio mondo furono le forme ametriche di Walt Whitman.

Dalla fine del secolo XIX anche i popoli germanici hanno poco ambito alla ricchezza formale. Se esaminiamo tutto ciò che le passate epoche di fioritura poetica hanno arrecato, l'impressione dominante che ne riceviamo è che questi numerosi e molteplici metri sono anche, intrinsecamente, molto discosti fra loro: che i contrasti specifici sono qui più profondi che nella versificazione di altre famiglie linguistiche. Dal patrimonio ereditato e derivato sono venuti su quattro o cinque stili metrici eterogenei.

Bibl.: Grundriss der germanischen Philologie, a cura di H. Paul, 2ª ed., II, parte 2ª, Metrik (I: E. Sievers, F. Kauffmann, H. Gering, Altgermanische Metrik; II: H. Paul, Deutsche Metrik; III: K. Luick e J. Schipper, Englische Metrik), Strasburgo 1905; A. Heusler, Deutsche Versgeschichte, voll. 3, Berlino 1925-29; F. Saran, Deutsche Verslehre, Monaco 1907; J. Minor, Neuhochdeutsche Metrik, Strasburgo 1902; F. Kossmann, Nederlandsch Versrythme, L'Aia 1922; A. Verwey, Rhythmus und Metrum, Halle 1934; J. Schipper, Englische Metrik, voll. 3, Bonn 1881-88; E. Smith, The principles of English Metre, Oxford 1923; E. Hamer, The Metres of English poetry, Londra 1930; E. von der Recke, Principerne for den danske Verskunst, voll. 2, Copenaghen 1881; N. Beckman, Grunddrage av den svenska verslären, Stoccolma 1918; B. Risberg, Den svenska versens teori, voll. 2, Stoccolma 1932-34; I. Handagard, Norsk verslaera, Oslo 1932.

Metrica slava.

Il più antico verso letterario slavo è il verso sillabico non rimato delle preghiere e delle laudi del paleoslavo: un verso che si rifà al verso contemporaneo greco e latino, ha la sua fioritura nel sec. X, e quindi gradualmente dilegua presso gli Slavi meridionali nei secoli immediatamente successivi. L'analisi comparativa del verso popolare degli Slavi permette di ricostruire nei suoi elementi essenziali il verso slavo comune di tradizione orale. Al fine di questa ricostruzione, la maggiore importanza l'hanno le tracce dell'antico verso orale russo conservatesi in monumenti e nelle adozioni metriche dei Finni orientali; hanno poi grande importanza - per l'arcaicità della costruzione prosodica del serbo-croato - le testimonianze della poesia popolare serbo-croata. I risultati di questa comparazione s'accostano ai dati che possediamo intorno al verso indoeuropeo.

Del verso slavo comune esistevano indubbiamente due tipi fondamentali: i metri fissi e il verso libero. Nei metri fissi, usati specialmente nella canzone, i versi (o, nei versi lunghi, anche le loro sezioni) avevano un numero fisso di sillabe; e i loro esiti erano caratterizzati da una pausa sintattica, non di rado anche da una clausola quantitativa. Il verso libero, parlato o recitato, aveva invece un numero vario di sillabe, e in esso importanza massima assumeva il parallelismo sintattico dei versi o, almeno, dei loro esiti. Nella poesia popolare degli Slavi vivono ancora varietà diverse di questo verso libero; ed esse furono anche assunte nella letteratura, quali forme liminari fra il verso e la prosa (si pensi, p. es., alle poesie epiche "ametriche" cèche del sec. XIV, a molte poesie russe dei secoli XVII-XVIII, ecc.). I principî essenziali di un tale verso stanno anche alla base del verso libero delle letterature slave moderne. Innegabilmente, l'impulso venne, in singoli casi, dal di fuori, dall'Occidente, ma le forme straniere furono adattate alle premesse prosodiche locali, alla tradizione indigena antichissima. Le forme recitative del verso libero poggiano di solito o sul parallelismo grammaticale dei versi o sul parallelismo degli esiti: la marcata intonazione finale e la rima grammaticale. Nelle forme puramente parlate del verso libero, la rima ha un puro valore fonico, mentre il parallelismo grammaticale viene sostituito da un numero fisso di unità sintattiche (membri della frase) costitutive del verso. Varie sono le riforme di transizione dal verso libero al verso fisso.

Costitutivi del verso libero sono esclusivamente elementi sintattici, mentre gli elementi prosodici della parola non esercitano alcuna funzione metrica. Il verso fisso ricorre anch'esso assai di frequente a elementi sintattici, ma è essenzialmente costituito dagli elementi prosodici della parola, in primo luogo dalla sillaba: i metri fissi sono sillabici. Lo studio comparativo dei metri fissi slavi deve perciò muovere dalla considerazione della diversa natura dell'accento nelle lingue slave. I caratteri fondamentali di una simile partizione possono essere riassunti così: in cèco e in serbo-croato la quantità delle vocali è indipendente dall'accento, e in serbo-croato le lunghezze melodiche ascendenti e discendenti si contrappongono, facendo così risaltare nettamente le differenze quantitative; in cèco l'accento è legato alla sillaba iniziale, in polacco alla penultima, e quindi irrilevante in ambedue queste lingue dal punto di vista della costituzione della parola; in serbo-croato l'accento è legato o a differenze melodiche o a limiti verbali; nello slavo orientale e nel bulgaro è libero, ha cioè importanza. Dove poi è ancora da notare che esso è più debole, e che minori sono le sue funzioni grammaticali, nel bulgaro e nell'ucraino che nel grande-russo.

In polacco, in cui né l'accento della parola né la quantità hanno molta importanza, il numero delle sillabe e la distribuzione dei limiti verbali sono i soli elementi necessariamente costitutivi del metro. I metri fissi recitativi polacchi esigono un minor numero di cesure che non i metri musicali, il cui esempio più tipico è fornito dal cosiddetto verso "polimembro" dei canti popolari polacchi; al polo opposto sta il verso letterario polacco antico. Quanto più la tendenza melodica del verso è forte, tanto più prevale la tendenza a stabilizzare i luoghi dei limiti verbali nell'interno del verso. La storia del verso polacco è la storia di complicate e mutevoli azioni e reazioni reciproche delle due forme stilistiche. Accogliendo influenze straniere, prevalentemente slave orientali, poeti polacchi moderni hanno tentato ripetutamente di basare il verso sull'alternanza regolare degli accenti. In cèco, data l'opposizione di sillabe lunghe e brevi, l'astratta sillaba in quanto tale si presta poco a essere usata quale unità metrica e perciò, contrariamente a quel che è avvenuto nel polacco, il verso lungo sillabico non ha avuto nell'antica poesia cèca svolgimento alcuno. Nel canto popolare si può notare chiaramente la tendenza ad articolare, mediante limiti verbali, il verso in piedi (la cesura mediana nel verso lungo è solo un'espressione particolarmente saliente di questa tendenza), e uno dei limiti di ciascuna unità verbale coincide di solito col limite di un piede. Queste tendenze trovano un'espressione nettissima nel verso lirico cèco antico; meno, in quello epico. Alla fine del sec. XVIII vien posta l'esigenza che specialmente l'inizio di una parola polisillaba coincida col limite di un piede: un'esigenza divenuta poi norma dominante del verso cèco moderno, sebbene il rigore ne venga spesso attenuato, soprattutto in quanto venga ripresa la tradizione popolare e la letteraria antica. Il classicismo dell'inizio dell'Ottocento, come già a suo tempo l'Umanesimo, fece dei conati di costruire il verso cèco sulla quantità. Conati falliti, ma non inutili, se spinsero scrittori, romantici specialmente, a trovare un compromesso fra la quantitȧ e gli elementi essenziali tradizionali del verso cèco. Il verso della poesia popolare serbo-croata s'avvicina nei suoi fondamenti a quello della poesia popolare cèca, distinguendosene però in questo: a) che l'accento della parola ha in esso una funzione ritmica autonoma, senza però partecipare dello schema metrico costante; b) che la quantità, in alcuni metri, si afferma sostanzialmente in fine di verso (si pensi, p. es., alla clausola quantitativa del decasillabo epico). Strettamente collegato al verso popolare è, per la sua costruzione, anche il verso dei poeti dalmati dei secoli XV-XVII e della poesia serbo-croata moderna, eccettuati tentativi di singoli poeti dell'Otto e del Novecento di costruire il verso - seguendo modelli russi e tedeschi - sulla regolare alternanza degli accenti, e altri tentativi isolati di versificazione quantitativa.

L'accento russo ha una funzione lessicale e una sintattica insieme, mentre le sillabe atone riguardano solo la struttura verbale e non hanno nulla a che fare con la struttura sintattica. Perciò il verso costituito da piedi bisillabi, dominante nella poesia russa della seconda metà del Settecento e della prima dell'Ottocento, fondato sulla costante alternanza delle sillabe atone, si oppone direttamente al verso libero fondato sulla sintassi. Mentre il riempimento dei tempi deboli mediante sillabe atone è per questo metro una costante, il riempimento delle arsi mediante sillabe toniche vi è semplicemente una tendenza ritmica. Ma nel verso - dominante nella seconda metà del sec. XIX - costituito da piedi trisillabi, anche questa tendenza si muta in una costante metrica. Un tale metro soffre di un eccesso di costanti, e all'inizio del nostro secolo viene progressivamente sostituito da un verso in cui il numero delle sillabe atone fra due arsi non è già più una costante, ma semplicemente una tendenza ritmica. Finalmente, nella poesia recentissima anche questa tendenza sparisce; il numero delle sillabe atone si fa libero; costante fondamentale del verso diviene il numero degli accenti. Una ricca serie di fasi di transizione dal verso libero al verso fisso offre il canto popolare russo: quanto più esso s'avvicina al recitativo, tanto più il metro s'accosta al verso fatto per la dizione. Così, p. es., nelle byline tipicamente recitative solo la fine del verso è stabilizzata sillabicamente, mentre nelle altre sue parti il numero delle sillabe atone è estremamente oscillante; all'opposto: il verso dei couplets popolari (častuška), strettamente legati all'accompagnamento strumentale, s'accosta al verso letterario costituito da piedi bisillabi, con la differenza che qui il piede normalmente bisillabo può, in certe condizioni, venir contratto in una sillaba sola. Nel canto popolare ucraino e bulgaro i versi sono sillabici; quelli lunghi divisi da una cesura in due emistichî, ognuno dei quali è caratterizzato da un numero costante di unità sintattiche e da una corrispondente tendenza a una divisione fissa dei limiti verbali anche nell'interno dell'emistichio. Questa caratteristica delle parti del verso, che nel canto popolare ucraino diviene quasi una costante metrica, si afferma, come una semplice tendenza ritmica smorzata, nella varietà cosiddetta puramente sillabica del verso letterario ucraino: una varietà che, sorta sotto l'influenza polacca, fiorì nei secoli XVII-XVIII, provocò il sorgere a breve vita nella poesia russa, al principio del Settecento, di una forma analoga, e si riscontra ancora nella poesia ucraina occidentale. Nella letteratura ucraina e nella bulgara del sec. XIX, il verso orientato verso le forme popolari gareggia col verso costituito da piedi bisillabi o trisillabi, costruito sul tipo dei modelli russi e che tende ora a prevalere.

Nella poesia popolare degli Slavi occidentali è obbligatoria la rima, che ha invece importanza infinitamente minore per i Russi e gli Slavi balcanici, fra i quali essa è riserbata a forme speciali o costituisce un caso particolare del parallelismo metrico: in taluni casi, p. es. nei canti epici slavi meridionali, essa anzi non è addirittura ammessa. Il verso dotto, quale lo troviamo (astrazion fatta dal verso non rimato dello slavo ecclesiastico) nelle fasi più antiche delle letterature slave, è sempre rimato; solo più tardi compare il verso senza rima, e viene in gara col rimato, appoggiandosi ai modelli dell'antichità classica, della poesia occidentale moderna e della poesia popolare russa e slava meridionale. Nelle lingue con libera accentuazione dinamica (slavo orientale, bulgaro) l'isofonia deve cominciare, secondo la regola della rima, colla sillaba tonica. Nelle altre lingue slave all'accento in rima spetta una parte molto meno importante; l'ampiezza della rima è in esse indipendente dal luogo in cui cade l'accento, e in molti casi (p. es. nella poesia cèca antica, popolare; di solito anche presso i poeti serbo-croati, ecc.), la rima non si preoccupa minimamente dell'accento.

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